Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche
ASPETTI DELLA SANITÀ
NELLE PREALPI VENETE
Convegno Nazionale 26 maggio 2012
Biblioteca Civica di Vittorio Veneto
con il Patrocinio di
Città di Vittorio Veneto – Assessorato alla Cultura
ISBN 978-88-8466-282-8
® Dario De Bastiani Editore, Vittorio Veneto, 2012
in copertina:
Ex-voto per avvenuta guarigione “da grave infermità” (a. 1780)
Corbanese di Tarzo - Santuario della Madonna di Loreto
(foto di Bruno Michelon)
PRESENTAZIONE
Cade quest’anno il 30mo Anniversario di vita del Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche di Vittorio Veneto e il nostro pensiero va a quanti
ci hanno preceduto ed hanno fatto parte dell’Associazione.
Ci è sembrato giusto e doveroso dedicare il Convegno, svoltosi il
26 maggio, a due dei soci fondatori del nostro Circolo, deceduti da poco:
Dario de Bastiani ed Ennio Tranchini.
Ad essi va il nostro ricordo commosso ed affettuoso.
Il Convegno “Aspetti della Sanità nelle Prealpi Venete” ha riscosso uno straordinario successo e, dato il tempo limitato, non è stato
possibile accogliere ulteriori relatori che avrebbero voluto parteciparvi.
La mattinata si è aperta con l’erudita introduzione dell’assessore
alla Cultura di Vittorio Veneto, dott. Michele De Bertolis.
La prima relazione del socio Massimo Gusso, ci ha parlato di
una misteriosa epidemia scoppiata a Ceneda nel 554 d.C. La sua esposizione ci ha portati all’epoca in cui barbari e bizantini si contendevano il
dominio dell’Italia, e percorrevano con i loro eserciti la nostra penisola.
Tale relazione, importante sia dal punto di vista sanitario che storico, ha
presentato anche notevoli spunti toponomastici.
Il secondo intervento, dei soci Giovanni e Silvia Tomasi, ha riguardato i professionisti della medicina presenti in loco, dal secolo XIII al secolo XVIII, un ampio excursus con note biografiche di questi personaggi.
La dott.ssa Vignaga ha parlato dei medici e chirurghi presenti a
Belluno, alla fine del Quattrocento e all’inizio del secolo successivo, e del
loro coinvolgimento nelle vicende politiche del periodo.
Esauriente e documentatissima la relazione della prof.ssa Luisa
Botteon sul Lazzaretto di Conegliano, nella quale l’autrice ha descritto la
nascita e lo sviluppo dell’ospizio coneglianese, i suoi utilizzi e la cessazione della sua opera sanitaria e caritatevole, illustrando il tutto con una
serie di immagini quanto mai significative.
La dott.ssa Curti ha ampiamente ricordato la presenza delle Confraternite nelle zone di Mel, Trichiana e Lentiai e l’evolversi del loro
coinvolgimento tra devozione e opera di soccorso.
La relazione artistica del socio Giorgio Mies ha presentato, con
la proiezione di suggestive immagini, l’arte messa al servizio del sacro,
con gli ex-voto e le pitture di devozione.
Nel pomeriggio gli interventi sono proseguiti con la relazione del
dott. Alessandro Fadelli che ha ricordato alcune figure di medici illustri
nel Settecento a Sacile e Polcenigo.
Una spaventosa epidemia bovina colpì nel 1761 le zone delle
Prealpi Venete ed il Friuli. La moria del bestiame portò all’estinzione di
7
gran parte delle specie autoctone sul territorio. L'argomento è stato illustrato con dovizia di documenti dal socio Giorgio Zoccoletto.
Carla Pizzol ha delineato la situazione presente nei comuni di
Ceneda e Serravalle rispetto alla vaccinazione antivaiolosa e quale fu l’atteggiamento della popolazione e delle autorità al riguardo.
Droghe, veleni e farmaci nell’Ottocento vittoriese, sono stati illustrati da Loredana Imperio, nonché le varie disposizioni prese dall’Imperial Regio Governo Austriaco in merito alla salute pubblica.
Massimo Della Giustina e Irene Spada hanno parlato dell’avvento del colera a Vittorio Veneto nell’Ottocento con le misure adottate per
arginare tale calamità.
Il socio Livio Caberlotto ha spiegato con grande chiarezza le
cause dell’insorgere della pellagra, la sua natura di “malattia sociale” e le
misure che contribuirono a descriverla e a debellarla.
A conclusione del Convegno Lorenzo Cadeddu ha illustrato l’epidemia della “influenza spagnola” che funestò l’Europa alla fine della
Prima Guerra Mondiale.
A causa dell’alto numero di relatori non è stato possibile dar
voce alle sette comunicazioni presentate, dalla Peste a Ceneda alla curiosa
descrizione di un’autopsia effettuata a Conegliano nel Settecento, all'analisi dei cosiddetti Libri dei Morti parrocchiali, alle levatrici di Tarzo e ad
altro ancora, come si può vedere scorrendo questi Atti. Gli argomenti del
Convegno hanno abbracciato un arco temporale piuttosto vasto, dal VI secolo d.C. agli anni '20 del Novecento, offrendo una panoramica delle malattie, del mondo della Sanità e dei suoi operatori oltre modo vario, talvolta con spunti inediti e particolari.
Ci auguriamo che quanti leggeranno questi Atti trovino utili, interessanti ed importanti i contributi che abbiamo volentieri offerto al pubblico colto e curioso che ci segue.
Si ringraziano le socie Orietta De Lorenzo, Laura Prella e Luisa
De Mori e i soci Giovanni Tomasi, Massimo Gusso e Italo Quadrio per
l’organizzazione e la gestione del Convegno. Un sentito grazie alla direttrice della Biblioteca di Vittorio Veneto, dott.ssa Orietta Pizzol, e alla responsabile dell’Archivio Storico, sig.ra Paola Da Grava, per la loro gentilezza e disponibilità.
Ancora un grazie al dott. Michele De Bertolis, assessore alla
Cultura, per il suo intervento in apertura di convegno, e al dott. Toni Miatto, assessore al Turismo, per la sua presenza.
Il Presidente del Circolo
Loredana Imperio
8
Saluto al Convegno dell'Assessore alla Cultura, Biblioteche
e Musei di Vittorio Veneto
Michele DE BERTOLIS
Passasse di nuovo, oggi, le Alpi, per venire di qua, in cerca del
clima mite e salubre, curativo per il suo “mal di petto”, certo Michel de
Montaigne, l'iniziatore del Grand Tour, il fondatore del mito della bella
Italia (quel diavoletto che riempie di folle piazza San Marco, i giardini di
Boboli, i Musei Vaticani) troverebbe scarso conforto dal paesaggio.
Ma, constatando l'ottimo livello di salute, confermerebbe l'effetto taumaturgico di aria e clima, di varia e corretta alimentazione e di
fruizione diffusa della bellezza.
Anche lui, al massimo, potrebbe incorrere in quelle lievi turbe
vagodistoniche che, come è noto, affliggono viaggiatori sensibili (e tra
essi, splendide, pallide, esangui nordiche fanciulle...), da Stendhal in poi,
descritte e catalogate nosograficamente, epidemiche; sicuramente non endemiche per un popolo che, spesso, alle cose belle è talmente assuefatto,
da non prendersene cura al punto, in non rari casi, di arrivare finanche all'indifferenza di fronte allo sconcio di esse.
Non farebbe giustizia, il Signore di Montaigne, quindi, ad una
lotta per la salute, secolare, indefessa, ininterrotta; condotta da figure di
Sanitari, per lo più oscure e dimenticate, attraverso epoche di flagelli autentici, quali la pellagra, il colera, la peste, le virosi epidemiche come la
spagnola, che ha portato la nostra gente (e non è davvero poco!) ad una
CONQUISTA: la sopravvivenza.
E mi pare che questo Convegno (che svetta ponderoso e poderoso, per ambizione trattatistica) proprio a ciò, in definitiva, si ispiri: a
quel PRIMUM VIVERE, DEINDE PHILOSOPHARI che, partendo dalla raccolta
delle erbe officinali, dall'uso dei cauteri, delle sanguisughe, del calomelano e dell'ipecacuana (magnifici i ricettari di Ildegarda di Bingen...), dalla
pratica amputativa a ridosso dei campi di battaglia; e passando a volo di
falco attraverso Morgagni padovano (fondatore della Medicina scientifica), attraverso Harvey (inglese ma padovano), fisiologo, e via via attraverso Scarpa (anatomico nato a Motta di Livenza) e molti Altri (noti e
sconosciuti), arriva alle soglie di un presente di “magnifiche sorti e pro9
gressive” come nella leopardiana ginestra, fatto di Risonanze Magnetiche
più dettagliate di un tavolo di dissezione, di telechirurgia senza l'uso delle
mani (ma confidiamo, non senza l'uso del cervello di un umano operatore!)
e di quanto altro oggi disponibile.
Con ulteriori sfide ed ingaggi, certo, contro malattie nuove, non
ancora relegabili, come fu per la difterite o la poliomielite, nei trattati di
Storia della Medicina: dal Lazzaretto, dagli Spedali di carità, in un balzo,
alle camere di ricovero singole, con bagno autonomo, aria condizionata e
TV satellitare.
Trionfalisticamente, ma superficialmente, tutto ciò potrebbe essere considerato e disegnato come PROGRESSO.
Non lo è , in gran parte, in quanto è immutata, attraverso questi
secoli, anche se migliorata certo, la condizione umana; quella della sofferenza, della morte. Dodici - come gli Apostoli - Relatori, molto illustri,
coordinati e guidati dalla sempre attivissima Loredana Imperio, andranno
a dissezionare, come nel famoso quadro “La Lezione di Anatomia del dottor Tulp”, di Rembrandt, datato 1632, ammirabile al Mauritshuis de L'Aia, salienti fasi di questo lungo percorso, focalizzandolo, in grandangolo,
su una prospettiva territoriale prealpina e quindi, per necessità, astraendolo, estrapolandolo dal faticoso e mondiale percorso della Medicina.
Ciò fa grande onore alla nostra Città, che li ospita oggi, e spero
li ospiterà ancora. E non venga giudicata, dai superficiali, riduttiva, o in
qualche modo strapaesana questa impostazione: al contrario, si consideri
attentamente che ricevere o dare salute è all'evidenza cosa diversissima, in
relazione alle condizioni d'ambiente, fisico-geografico-culturali, come
ben sa l'Attore sanitario (a proposito: è chi cura o chi è curato?) in pace o
in guerra, in Africa o in Europa, d'inverno o d'estate, e così via.
Un esempio storico, data la platea di Storici: al guado di Governolo, sul Mincio, Giovanni de' Medici (1478-1534), il nipote di Clemente VII, mentre alla testa delle sue “bande nere” si oppone ai lanzichenecchi di Georg Von Frundsberg, è attinto ad una gamba da un proiettile
scagliato da un falconetto. Soccorso, viene trasportato su un carretto a
Mantova, alla Corte dei Gonzaga.
Lì si discute per quattro giorni se amputargli l'arto.
Nel frattempo muore di shock settico. Fu infatti Parè, chirurgo
di Enrico II, in altro luogo, a sperimentare (e successivamente a diffondere) la tecnica della legatura dei vasi, pochissimi anni dopo. È probabile
quindi che l'obitus si sarebbe avuto anche dopo tempestiva amputazione,
eseguita com' era con coltello, sega e cauterio rovente.
Bene, centinaia di migliaia di simili traumatizzati, negli ospedali da campo del I e II conflitto, se la cavarono invece e tornarono a casa
10
con gruccia o arto artificiale, come ci testimonia E. Hemingway, nel suo
splendido Farewell to Arms.
Tutto questo per una mutata condizione culturale e, soprattutto,
per un processo progressivo di COSCIENZA ORGANIZZATIVA SANITARIA.
Per questo, la profonda riflessione di oggi è infinitamente di più che una
disamina di piccoli dati, più o meno curiosi, magari velati di nostalgia per
il "buon tempo andato", per le "sue cure naturali".
La Medicina, infatti, non è esercizio esclusivo dei Sanitari: è
pratica di tutti, è dovere di tutti, a cominciare dalle buone regole di vita,
note come Igiene.
La Medicina è, innanzitutto, politica, in quanto è dottrina da
applicare, indistintamente, a tutto il genere umano, come pure al mondo
animale e vegetale, all'acqua, alla terra, ai fiumi, all'aria.
Essa permea il lavoro, la famiglia, la sessualità dell'uomo, l'educazione e lo sviluppo dei bambini, persino i passatempi ed i divertimenti; deve accompagnare, con discrezione fino alla soglia del ben morire.
Quanto valeva la vita di un bambino - in queste nostre Prealpi cent'anni fa? Quanto mangiava, come veniva curato, pulito, istruito, riscaldato? Qual era la sua probabilità di raggiungere una vita piena?
A queste e ad altre domande daranno risposte gli studiosi oggi
qui riuniti, che ancora voglio ringraziare a nome del Sindaco e di tutta
l'Amministrazione.
Quanto dura e sconsolata fu stata la giornata di un Medico
Condotto, di una levatrice, di un infermiere, tra le plaghe abbandonate di
queste nostre splendide Prealpi, nell'isolamento innevato dei mesi invernali, nelle condizioni di igiene più miserrime e attraverso epocali pestilenze, guerre, carestie? Cento, duecento, trecento anni fa? E, insieme, quanto
grande fu il senso di queste oscure esistenze?
È solo un percorso di memoria, come quello che intraprendete
oggi che può riportare giustizia, equità al pensiero, sottolineatura alla figura dell'Eroe civilissimo, ancorché umile e perlopiù anonimo.
Andare indietro nel tempo è la premessa per guardare con fiducia al presente ed al futuro.
E sono queste le parole che dice lo sceicco Auda al Colonnello
Lawrence, sotto una tenda, sperduta nell'infinità notturna del deserto arabico: “Il Mondo diventa più grande mano a mano che torniamo indietro”(*).
(*) The world is greater as we go back (Th. E. Lawrence, The Seven Pillars of Wisdom (1926), cap. LXI; tr. it. I Sette Pilastri della Saggezza, Milano 1983, p. 412).
11
INDICE
Prefazione
Loredana Imperio.............................................................p.
Presidente del Circolo Vittoriese
di Ricerche Storiche
Saluto al Convegno
Michele De Bertolis.........................................................p.
Assessore alla Cultura, Biblioteche
e Musei di Vittorio Veneto
7
9
RELAZIONI presentate al Convegno
Il morbo cenedese: indagine sulla misteriosa malattia
scoppiata nella città di Ceneda nel 554 d.C. a seguito
di un'incursione alamannica (Agazia, Historiae II, 3, 3-8)
Massimo Gusso................................................................p.
17
Professionisti della sanità nelle Prealpi orientali
nei secoli XIII-XVII
Giovanni e Silvia Tomasi.................................................p.
137
Medici e chirurghi a Belluno dal 1487 al 1517
Dina Vignaga...................................................................p.
181
Il Lazzaretto di Conegliano
Luisa Botteon...................................................................p.
221
13
14
Confraternite, malattie e morte. La situazione
nei territori di Mel, Trichiana e Lentiai
Miriam Curti....................................................................p.
289
Arte dai luoghi della Speranza e della Grazia
Giorgio Mies....................................................................p.
299
Medici a Sacile e Polcenigo nel Settecento
Alessandro Fadelli...........................................................p.
319
L'epidemia bovina del 1761
Giorgio Zoccoletto...........................................................p.
351
I primordi della vaccinazione antivaiolosa a
Ceneda e Serravalle
Carla Pizzol.....................................................................p.
399
Farmacopea, Droghe e Veleni nell'Ottocento
Vittoriese
Loredana Imperio............................................................p.
429
Ceneda e Serravalle: la prima minaccia del
Cholera morbus
Massimo Della Giustina e Irene Spada...........................p.
457
Pellagra: aspetti generali e specificità del territorio
di Ceneda e Serravalle
Livio Caberlotto...............................................................p.
503
L'epidemia della Spagnola
Lorenzo Cadeddu.............................................................p.
545
COMUNICAZIONI agli Atti del Convegno
Peste, Sanità e Morte nella Terraferma Veneta.
Quando il «Gran Contagio» serpeggiò per Ceneda
e Serravalle (1630-1631)
Oscar De Zorzi.................................................................p.
551
Condotte mediche a Conegliano
dal 1608 al 1750
Luisa Botteon...................................................................p.
603
1753 Officio di Sanità di Conegliano: apertura
di due cadaveri nella Villa di Cittadella
Luisa Botteon...................................................................p.
607
Volò al Cielo. Sulle cause di morte e sui bambini
dati in affido a San Vendemiano (sec. XVII-XIX)
Antonio Perin...................................................................p.
615
Dai Libri dei Morti della Parrocchia di San Tomaso
di Colle
Maurizio Lucheschi..........................................................p.
643
Amor di Patria, amore per la Scienza: il medico
Giuseppe Baldissera (1837-1884) tra Cordignano
e Udine
Stefania Miotto................................................................p.
653
Ostetriche, Medici, Farmacisti. Aspetti della Sanità
a Tarzo tra XVII e XIX secolo
Bruno Michelon...............................................................p.
659
15
Il morbo cenedese: indagine sulla misteriosa malattia scoppiata nella
città di Ceneda nel 554 d.C. a seguito di un'incursione alamannica
(Agazia, Historiae II, 3, 3-8)
Relazione presentata al Convegno da
Massimo GUSSO
Introduzione
I fatti di seguito esaminati e discussi si sono svolti a cavallo della
metà del VI secolo, e in particolare nella città di Ceneda nell'autunno dell'anno 554 d.C. L'area, a quel tempo, era ancora controllata militarmente
dai franchi mentre, conclusa formalmente la guerra tra goti e bizantini, in
diverse parti d'Italia si disputava un aspro dopoguerra.
Mancava una quindicina d'anni all'arrivo dei longobardi e qualche anno ancora per soddisfare l'ansia da periodizzazione, e poter parlare,
per quel che vale, di inizio del Medioevo.
Una colonna di temibili guerrieri, prevalentemente alamanni,
aveva percorso l'Italia, saccheggiandola senza risparmio: messa in fuga
dalle truppe imperiali, dovette infine cercar disordinato rifugio a Ceneda,
ove soccombette però a un grave morbo che ne fece strage. La notizia ci
viene riferita – trenta righe del bel greco di un'edizione moderna – da un
poeta bizantino, uno dei più noti autori di epigrammi dell'Anthologia Palatina, Ἀγαθίας, Agazia, temporaneamente prestatosi alla storia1.
Questa sintetica ricostruzione dei fatti ci consente di scorgere,
anche per lo sperduto angolo pedemontano cenedese, alcuni dei crudi risultati della “globalizzazione giustinianea”, come potremmo definirla:
paci difficili da fare, e che non pongono fine a guerre apparentemente interminabili2; promesse di esportazione della civiltà opposte a una barbarie
1
Agazia era originario della città di Myrina (Μύρινα δὲ πατρίς, cioè “a Myrina ho
avuto i miei natali” scrive lui stesso), situata a circa 37 km a sud ovest di Pergamo, sulla
costa eolica: le sue povere rovine, nei pressi dell'attuale cittadina turca di Aliağa, sorgono
ancora, per usare le parole agaziane, ἀμφὶ τὰς ἐκβολὰς τοῦ Πυθικοῦ ποταμοῦ (“ad
ambo i lati dello sbocco al mare del fiume Pitico”, ora, in turco, Güzelhisar Çayı); attualmente l'esplorazione archeologica del sito è limitata a parte della necropoli e a pochi tratti delle mura della cittadella.
2 La più celebre e paradigmatica è la cosiddetta “pace eterna” stipulata nel 532 d.C.
da Giustiniano col re Khusraw I (=Cosroe I) a nome del nemico orientale di sempre, i
persiani: quella pace lasciò all'imperatore bizantino mano libera in occidente ma venne
rotta dai persiani già nel 540 (vd. G. Ostrogorsky, Geschichte des Byzantinischen Staates,
17
frutto spesso di pregiudizi; credi religiosi branditi come bandiere e come
spade; storia e politica usate come propaganda.
In questi anni, i parametri utili a comprendere un'epoca complessa e contraddittoria come la tarda antichità, sono ormai tutti in discussione, se pensiamo che soltanto qualche mese prima, nell'aprile del 553 d.C.,
una coppia di coniugi ostrogoti, a Ravenna, si lamentava, in uno scritto
privato che ci è stato conservato, dei tempi barbarici in cui toccava loro
vivere (era appena finita la fase ufficiale della sanguinosa guerra goticobizantina)3, e l'anno successivo ai fatti che mi appresto a raccontare, nel
555 d.C., in un suo modesto provvedimento legislativo, una moratoria dei
debiti, Giustiniano accennava all’ultima scorreria patita dall'Italia (nuper
factam incursionem Francorum), e richiamava lui pure la decursio barbarici temporis4.
Quando dei sudditi goti e l'imperatore bizantino, concordi (ciascuno pensando tuttavia alle responsabilità dell'altra parte), riconoscono
di vivere in tempi barbarici, dobbiamo chiederci chi fosse portatore autorizzato delle insegne della civiltà, chi fossero di conseguenza i barbari, chi
si sentisse tale, e chi lo fosse realmente, al di là della semplicistica appartenenza etnica5. Basterebbe soffermarsi sulla composizione delle truppe
imperiali, inviate da Giustiniano in Italia, e le scopriremmo formate da
vere e proprie bande di unni ed eruli, comandati da ufficiali persiani, o armeni, o ancora unni: quella che ci si squaderna davanti è una realtà che ha
bisogno di essere pazientemente decodificata.
A Narsete, l'abile eunuco, originario della Persarmenia (Adiabene), messo da Giustiniano al comando delle truppe bizantine in Italia,
München 1963, tr. it., Storia dell'Impero Bizantino, Torino 1968, p. 61).
3 Tempore hoc barbarici (sic) si legge in un documento papiraceo ravennate (aprile
553), con il quale una benestante donna gota, Ranilo, faceva dono dei suoi beni alla Chiesa
e metteva se stessa, e il marito Felithanc, sotto la protezione ecclesiastica (cfr. A. Carile,
La società venetica dalla guerra gotica fra Isonzo e Ravenna all’avvento dei Longobardi, in A. Carile-G. Fedalto, Le origini di Venezia, Bologna 1978, pp. 138-139, e n. 46);
vd. Nicoletta Francovich Onesti, I nomi degli Ostrogoti, Firenze, 2007, risp. pp. 79 e 47.
4 In Corpus Iuris Civilis (rec. R. Schoell-G. Kroll), Berolini 1959, Vol. III, Novellae,
p. 803 (Nov. App. VIII); vd. E. Stein, Histoire du Bas-Empire. De la disparition de
l’Empire d’Occidente à la mort de Justinien (476-565), publ. par J.-R. Palanque, ParisBruxelles-Amsterdam 1949, II, pp. 616-617; J.B. Bury, History of the Later Roman Empire from the Death of Theodosius I to the Death of Justinian, (London 1923=) New York
1958, II, p. 282, n. 1; PLRE III-B, s.v. Narses 1, p. 923 e s.v. Pamphronius, p. 962 (The
constitution was issued in 555 or shortly afterwards).
5 Vd. J. Szövérffi, À la source de l’humanisme chrétien médiéval: Romanus et
Barbarus chez Vénance Fortunat, «Aevum» 1971, pp. 77-86; G.B. Ladner, On Roman
Attitudes towards Barbarians in Late Antiquity, «Viator» 7, 1976, pp. 1-25.
18
Agazia farà rivolgere un discorso ai suoi uomini vittoriosi, con espliciti riferimenti all'orgoglio patrio (leggi: degli antenati romani!): al di là dell'espediente letterario, ad ascoltare il comandate dei “romani” (come i bizantini definivano loro stessi) avremmo visto i soliti contingenti unni, isauri,
eruli e warni6: e non è un caso che, in parallelo, sobbollisse pure il crogiolo ove si forgiavano in forma grezza gli elementi del ciclo epico germanico più importante, noto e significativo, quello nibelungico7.
E tuttavia fu un periodo a suo modo fecondo, come sempre accade nelle crisi di globalizzazione; ma sempre di acutissima crisi parliamo:
alla conoscenza delle lingue, al forzoso consolidamento del diritto, all'espansione della cultura8, corrispondono movimenti di popoli e di genti
d'ogni sorta, guerre spietate, invasioni, fanatismi religiosi, trasmissione di
malattie mortali, in coda a un cataclisma ambientale e climatico – pure
globale – originato probabilmente dall'eruzione di un lontanissimo vulcano.
Ogni evento lasciava il suo segno in contesti sociali e demografici sempre più deboli e indifesi. Scopriamo che non esisteva alcuna sicurezza, neppure quella banalmente assicurata dalla distanza fisica dagli eventi, quando gli effetti delle guerre, ma soprattutto del clima, raggiungevano
ogni dove attraverso carestie, malattie ed epidemie: insomma, tutto molto
antico ma anche, lasciatemelo dire, minacciosamente attuale.
La notizia contenuta nel titolo di questo lavoro, conservataci da
Agazia, ci offre tra l'altro la prima menzione non di maniera della città di
Ceneda. Nel silenzio di altre fonti9 bisogna infatti aspettare un bizantino
per vedere finalmente citata Ceneda.
È bene sapere tuttavia che il morbo (il contagio? l'epidemia?) che
viene localizzata in quella piccola città – fatto in apparenza del tutto marginale – è stato, e si trova ancor oggi, al centro di un dibattito storicoscientifico assai più ampio e articolato di quanto si sarebbe portati a sospettare, come si vedrà dai riferimenti che costellano questo lavoro10.
6
Vd. Th. Hodgkin, Italy and Her Invaders, Oxford 19162 (vol. V), p. 46; vd. anche
J.L. Teall, The Barbarians in Justinian's Armies, «Speculum» 40, 2, 1965, pp. 294-322.
7 Oltre agli echi sospetti e morbosi (considerati soprattutto luogo e data di pubblicazione) evocati da L. Schmidt, Die Letzten Ostgoten, «Abhandlungen der Preußischen
Akademie der Wissenschaften» 10, Berlin 1943, p. 1, rinvio a L. Mittner, Storia della
Letteratura Tedesca, Torino 1978, I, 1, pp. 46-52 e 297-301 (vd. più avanti, nota 191).
8 Nella letteratura e nell'arte la vecchia cultura sotto spoglie cristiane ebbe una nuova fioritura, a cui doveva seguire ben presto un lungo periodo di decadenza culturale
(come scriveva G. Ostrogorsky, Storia dell'Impero Bizantino, p. 68).
9 In effetti il Corpus Inscriptionum Latinarum, ed. Th. Mommsen, Berolini 1877, V,
p. 1067 annotava in proposito come: Ceneta apud antiquiores auctores... non memoretur.
10 Si veda, da ultimo, l'importante convegno internazionale: Plagues in Nomadic
Contexts - Historical Impact, Medical Responses and Cultural Adaptations in Ancient to
19
A me interessa portare un nuovo contributo, che aiuti a contestualizzare a fondo la vicenda e a cercare di capire, col concorso di tanti
studiosi, quale morbo abbia colpito gli invasori nelle circostanze date.
Studiando la struttura dell'episodio narrato si potrà cercare di
comprendere inoltre come si scriveva di storia in quel tempo, che è pur
sempre comunque l'ultimo scorcio della classicità, pieno di ironia, fantasia, accortezza e nonchalance, ma anche di ansia rispetto al futuro che traspare al di là della freschezza narrativa e dell'eleganza del fraseggio. Quel
modello di narrazione resta però sempre lontanissimo dalla nostra idea di
storia documentale e documentata, ed è quindi di accettazione e decodificazione non semplici né immediati11.
E tuttavia Agazia ci fa già toccare con mano un cambio d'epoca:
lui è un uomo dell'oriente, è già un bizantino12, anche se è nato e ha trascorso l'adolescenza mentre Giustiniano cercava di riunificare sotto di sé
tutto l'Impero romano. Ma la Reconquista giustinianea non ha dato che
frutti effimeri e riempito il bacino del Mediterraneo di cadaveri e macerie.
Agazia ci aiuta a capire che la società bizantina degli anni immediatamente successivi alla morte di Giustiniano ha saputo metabolizzare
anche i fallimenti militari (ed economici) del grande imperatore, trasformandoli in propaganda politica, in “narrazione”, ma anche in una cultura
nuova che starà alla base della costruzione “solo orientale” dell'impero bizantino13. Questo storico possiede infatti una freschezza e una leggerezza
Medieval Eurasia, Leipzig 7-10 ottobre 2010, i cui atti saranno pubblicati dall'editore
olandese Brill, e che conta una relazione (affidata al prof. H.-K. Leven dell'Università tedesca di Erlangen) incentrata proprio sui fatti di Ceneda del 554 d.C.: Die Tollwut der
Barbaren: über wehre und falsche Ursachen von Seuchen bei byzantinischen Geschichtsschreibern (che si potrebbe tradurre con “la Rabbia dei barbari: sulle vere e false cause
delle epidemie secondo gli storici bizantini”), purtroppo disponibile ora solo in abstract.
11 Un gran numero di situazioni ricorrenti, quali battaglie, assedi, discorsi, descrizioni di personaggi e altre ancora, verranno manipolate anche a costo di più o meno lievi forzature per essere espresse in base a paradigmi mutuati dalle opere classiche; e in
vista di un tale obiettivo lo storiografo bizantino è ben disposto, e il pubblico con lui, a
tollerare il sacrificio anche pesante di dettagli del reale (M. Rampi, La storiografia agaziana e il “favoloso”, «Quaderni Medievali» 37, 1994, pp. 39-40).
12 Non sappiamo se Agazia incontrò o sentì parlare di Cassiodoro, l'uomo politico e
grande intellettuale occidentale patrocinatore dell'integrazione culturale e politica tra romani e goti. Tale incontro non sarebbe stato tecnicamente impossibile, a parere di Averil
Cameron, Agathias, Oxford (1970=) 2003, pp. 118-120, negli anni successivi al 550,
quando Cassiodoro dimorò a Costantinopoli. Resta la suggestione della sola possibilità:
attraverso due personaggi come Cassiodoro e Agazia, si può infatti leggere la transizione
tra Tardoantico e Bizantino.
13 Mi limito qui a rinviare coloro che fossero interessati ad approfondire ad A. Carile,
Consenso e dissenso fra propaganda e fronda nelle fonti narrative dell'età giustinianea,
20
di tocco che meriterebbe di essere meglio conosciuta; appare più libero di
pensare; l'atmosfera attorno a lui si è fatta meno oppressiva; può contemplare il nuovo contesto e immaginare nuovi scenari senza l'ansia di un
Procopio, che era stato costretto a dissimulare il suo aspro dissenso, e senza bisogno di affettare italianità o latinità di maniera come fece un altro
“dissidente” – sia pure di maniera – come Giovanni Lido14.
Ma torniamo a questo lavoro, che ho detto essere soprattutto di
costruzione (e ricostruzione) di un contesto in cui leggere la vicenda del
titolo: sarà necessario essere pazienti, e disponibili a seguire la ricerca,
condotta senza risparmio, affrontando cronisti e storici antichi, moderni e
contemporanei, oltre a presentare gli indispensabili testi antichi originali,
e persino a scomodare qualche mito greco, ignoto ai più.
Ho cercato di far parlare in prima persona testi e fonti, e ciò può
costare magari, al lettore, qualche piccolo disagio, obbligandolo a seguire
diversi piani di lettura, ma la prima pagina sul cenedese che la storia ci
consegna socchiudendo per un attimo la porta su quel piccolo angolo di
mondo, e incentrandola sulle condizioni della salute dell'area in un frangente tanto drammatico, apparirà – come si è senz'altro intuito – impietosa e, allo stesso tempo, ricca di spunti e stimoli letterari, storici, scientifici
ed epidemiologici, tanto da costituire un'ottima occasione per osservare
senza pregiudizi, e da un punto di vista particolare, un'epoca di travaglio e
di transizione che non dovette essere facile per coloro che ebbero in sorte
di viverla in prima persona.
Per questo lavoro è stata utilizzata l'edizione più recente e migliore: Agathiae Myrinaei, Historiarum libri quinque, rec. R. Keydel, Berolini 1967 (tr. ingl.:
Agathias, The Histories, cur. J.D. Frendo, Berlin-New York 1975); ma si è tenuto
conto anche della coeva: Agathiae Myrinaei, Historiarum libri quinque, rec. S. Costanza (1967), pubblicata tuttavia dalla Università di Messina nel 1969, oltre che
della storica: Agathiae Myrinaei, Historiarum libri quinque cum annotationibus
in G.G. Archi (cur.), L'Imperatore Giustiniano. Storia e Mito, Milano 1978, pp. 37-93,
spec. pp. 81-85. Non è questa la sede per affrontare tali complesse questioni: vi accenno
soltanto per evidenziare il difficile crinale in cui Agazia si trovò a scrivere la sua Storia.
14 Su Procopio e Giovanni Lido, e su certo rancore polemico antigiustinianeo, rinvio
a due lavori di A. Kaldellis, Identifying Dissident Circles in Sixth-Century Byzantium:
the Friendship of Prokopios and Ioannes Lydos, «Florilegium» 21, 2004, pp. 1-17 e The
Date and Structure of Prokopios' Secret History and his Projected Work on Church History, «Greek, Roman, and Byzantine Studies» 49, 2009, pp. 586-616. Il riferimento alla
autoproclamata “italianità” di Giovanni Lido (ἡμῖν, τοῦ ἐξ Ἰταλίας φημί, “per noi, intendo noi d'Italia”) si legge nel De ostentis, 2. ed. C. Wachsmuth, Lipsia 1897; la traduzione, di Erika Maderna, è nell'edizione italiana: Giovanni Lido, Sui Segni Celesti, a cura
di Ilaria Domenici, Milano 2007, p. 49.
21
Bon. Vulcani, B.G. Niebuhrius C. F. graeca recensuit, accedunt Agathiae Epigrammata, Bonnae 182815. Per l'opera poetica si è seguito prevalentemente il libro di G.
Viansino (cur.), Agazia Scolastico, Epigrammi, Milano 1967.
Cap. 1 - Il contesto storico della vicenda
In un breve volgere d'anni tutta Italia, compresa la Venetia, fu attraversata, dalla devastante guerra tra gli ostrogoti, che la governavano
dalla fine del V secolo, e i bizantini di Giustiniano, decisi a riconquistarla.
Ai fini dell'indagine oggetto di questo lavoro, si tratta di un periodo che può essere anticipato all'anno 536, da quando, cioè, l'allora sovrano goto Vitige cedette la Provenza ai franchi scoprendo pericolosamente i confini occidentali del suo regno16, fino al 554, dopo la fine del
conflitto con gli imperiali, nel corso dell'ennesima incursione franco-alamannica. Infatti, prima, durante e in coincidenza con gli ultimi fuochi della guerra, l'Italia settentrionale sarà interessata da scorrerie dirette, “ispirate” o tollerate dai re franchi17. Ma non è questa la sede per riferire nel
dettaglio i termini della comparsa dei franchi nello scacchiere veneto, nell’intreccio della guerra gotico-bizantina e, nello specifico, del loro insediamento (sia pur effimero) nella stessa area cenedese18.
Intanto prendiamo atto che sia Procopio che Agazia ci testimoniano in particolare il ruolo importante che ebbe il Trevigiano nella prima metà del VI secolo, quando da un lato Treviso diventa quartier generale di Totila, dall'altro Ceneta (Ceneda) assume il ruolo di fulcro dell'invasione franco-alamanna19; tutta l'area veneta uscirà prostrata da un ven15 Ricordo che questa edizione, che costituì la prima pietra del Corpus Scriptorum
Historiae Byzantinae bonnense, è disponibile integralmente in Internet, accedendo al sito
http://www.archive.org/details/corpusscriptorum01niebuoft. Dell'utilizzo di altre edizioni
e traduzioni agaziane sarà dato avviso di volta in volta.
16 Vd. Procopio, Bell. Goth. I, 13; tr. it., Torino 1977, pp. 385-388. Nel successivo capitolo 4 si vedrà che la data del 536 d.C. segnerà anche il deciso mutamento delle condizioni climatiche in Europa e nel bacino del Mediterraneo centro-orientale.
17 Abbiamo la testimonianza di Cassiodoro di incursioni nel 536, Var. XII, 7 e XII, 28
in MGH, AA, XII, Cassiodori Senatoris, Variae, rec. Th. Mommsen, Berolini 1894, pp.
365 e 384. Che le incursioni toccassero anche il Veneto, già nel 536-537, lo afferma Lellia Cracco Ruggini, nel suo studio Economia e Società nell’Italia Annonaria. Rapporti
fra agricoltura e commercio dal IV al VI secolo d.C., Milano 1961, p. 474. Per le incursioni del 539 e 548, ibid., pp. 475-477.
18 Si può consultare un mio lavoro, documentato e con nutrita bibliografia di riferimento: Franchi Austrasiani nella Venetia del VI secolo d.C.. Un contributo allo studio
dei più antichi riferimenti al castrum di Ceneda, in Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche 1982-2002, Vittorio Veneto 2003, pp. 9-110.
19 G. Rosada, Primi dati per un inquadramento storico del sito della Rocca asolana,
«Quaderni di Archeologia del Veneto» 4, 1988, p. 54. Totila comandante della piazzafor-
22
tennio terribile; il territorio pesantemente stressato da saccheggi, riduzione delle scorte, distruzioni dei raccolti e perdita del bestiame; la popolazione stremata da violenze, promiscuità e, di conseguenza, dall'abbassamento dei livelli minimi di salubrità generale (dall'inquinamento delle acque a carenze igienico-sanitarie dovute alla fame, al drastico abbassamento di quantità e qualità degli alimenti). In tali circostanze – considerato un
contesto generale, climatico e ambientale, che vedremo meglio più avanti
– era inevitabile il diffondersi di malattie, in particolare nelle aree interessate da improvvise concentrazioni umane a causa dei saccheggi e dell'incontrollato insediamento di contingenti militari sbandati e di civili in fuga.
Resta forse il rammarico che la narrazione di Procopio si fermi al
552, ma non ci si possono scegliere gli storici20: per i suoi lettori Procopio
ha sempre avuto un fascino particolare, soprattutto rispetto ad Agazia, ma
quest'ultimo, a leggerlo con attenzione, non è affatto a pale imitator of
Procopius and the poet of Byzantine decline, anzi, proprio la Storia agaziana provides a peculiarly interesting case of the fusion of opposites
characteristic of a transitional period21. E poi, della diffusione della grave patologia, sviluppatasi a Ceneda, durante l'appena citata incursione
franco-alamannica, dà conto, come si è detto, soltanto Agazia.
Nel 553, nonostante la corte franca di Austrasia non appoggiasse
ufficialmente le residue rivendicazioni dei goti, il re Teodebaldo pensò
forse di approfittare della caotica situazione italiana e di non ostacolare il
progetto di due “avventurieri”, Leutari e Butilino (o Buccelino), di effettuare una scorreria nella penisola22. Si trattava di due fratelli di etnia alate di Treviso: Procop. Bell. Goth. III 2, 7: οὗτος ὁ Τουτίλας Γότθων μὲν τηνικαῦτα
τῶν ἐν Ταρβησίῳ ἄρχων ἐτύγχανεν (tr. it., p. 540); Th. Hodgkin, Italy and Her Invaders, Oxford 18962, IV, p. 388 (at the moment of his uncle's murder he [Totila] was in
command of the garrison at Treviso); Assunta Nagl, s.v. Totila, RE VI A.2 (1937), c.
1829; S. Gasparri, Dall’età longobarda al secolo X, in D. Rando-G.M. Varanini (curr.),
Storia di Treviso II, Il Medioevo, Venezia 1991, p. 5.
20 Bisogna dire tuttavia che l'unico riferimento – in tutta l'opera di Procopio – agli
alamanni, così importanti in questo lavoro, è un modesto inciso in Bell. Goth., I, 12 (tr. it.
p. 381), che riporto testualmente: Σουάβοι τε ὑπὲρ Θορίγγων καὶ Ἀλαμανοὶ, ἰσχυρὰ
ἔθνη (“oltre i turingi, gli svevi e gli alamanni, gente molto bellicosa”).
21 Averil Cameron, Agathias, Oxford (1970=) 2003, p. vii. Non è in discussione il valore documentario delle opere procopiane ma non si può trascurare la scarsa obiettività
nella valutazione del regime giustinianeo che pregiudica spesso i suoi giudizi (vd. G.
Ostrogorsky, Storia dell'Impero Bizantino, p. 24); inoltre, ciò qui distingue Agathias de
Procope est son penchant pour le rationalisme philosophique. Il reconnaît la force de la
raison humaine et il l'estime hautement, come scriveva Zinaida V. Udal'cova, Le monde
vu par les historiens byzantins du IVe au VIIe siècle, «Byzantinoslavica», 33, 2, 1972, pp.
193-213 (p. 204).
22 Vd. PLRE III-B, s.v. Theodebaldus 1, p. 1228.
23
mannica i quali disponevano di ascendente ed influenza sui franchi23.
Essi allestirono une vaste expédition24, ammantata forse di qualche propagandistica velleità di revanche filogotica e, nella primavera del
553, il grosso delle truppe di invasione, al seguito dei due fratelli, attraversò le Alpi, entrò in Italia – anzi, die Operationsbasis bildete zunächst
das fränkische Norditalien25 – e quindi si diresse rapidamente verso il fiume Po26.
L'autorité exercée par Butilin et Leutharis pour le compte de la
monarchie franque, s'étendait probablement aussi sur les conquêtes
23
Agath. I, 6, 2, p. 17: Λεύθαρις δὲ καὶ Βουτιλῖνος, εἰ καὶ τὸν βασιλέα σφῶν
ἥκιστα ἤρεσκεν, ἀλλ' αὐτοὶ νεδέχοντο τὴν ξυμμαχίαν (tr. ingl., p. 14: Leutharis and
Butilinus, however, accepted the alliance on their own initiative even though it held no
attraction for their king); è chiaro, in Agazia (I, 6, 6, pp. 17-18; tr. ingl., p. 15), come gli
alamanni dipendessero dal re dei franchi (definito il loro re!) e di conseguenza come le
loro scelte militari derivassero, de facto, da un mandato reale. Sui due capi alamanni vd.
Hartmann, s.v. Butilinus, RE III.1 (1897), cc. 1085-1086; W. Ensslin, s.v. Leuthari, RE
XII.2 (1924), cc. 2313-2315; vd. G. Löhlein, Die Alpen- und Italienpolitik der Merowinger im VI. Jahrhundert, Erlangen 1932, pp. 9-10 e 46-48; O. Feger, «Zur Geschichte
des alemannischen Herzogtums» in W. Müller (herausg.), Zur Geschichte der Alemannen, Darmstadt, 1975, pp. 157 ss.; PLRE III-A, s.v. Butilinus, pp. 253-254; III-B, s.v.
Leutharis I, pp.789-790; D. Geuenich, Geschichte der Alemannen, Stuttgart-Berlin-Köln,
1997, pp. 93 ss., 113 e 158. “Leutharis” vuol forse significare qualcosa come “il popolo
in armi”. “Butilino” potrebbe essere un nome di origine franca; in greco suona:
Βουτιλῖνος, Agazia; Βουσελίνος, Evagrio (Hist. Eccl., IV, in PG, vol. LXXXVI, 2, c.
2741); Βουτελῖνος nel più tardo De Thematibus, lib. II, p. 60, in Constantinus [VII] Porphyrogenitus, De Thematibus et De Administrando Imperio, rec. I. Bekkerius, Bonnae
1840; suona invece nelle varianti Butilinus/Buccellinus/Buccellenus nelle fonti latine (vd.
spec. K.P. Hilchenbach, Das Viertes Buch der Historien von Gregor von Tours, Teil II,
Bern 2009, p. 266); effettivamente è più arduo trovare un significato a questo nome, a
meno che non sia affine al gotico “Butilani”, che varrebbe a un dipresso il latino Remedius. Si discute se i due fratelli fossero duces alamanni per discendenza o avessero guadagnato la loro posizione dopo aver servito come comandanti sotto i franchi; per questo
vd. D. Geuenich, Die Alamannen unter fränkische Herrschaft, in Die Alamannen. Ausstellungskatalog Stuttgart, Zürich, Augsburg, Stuttgart 1997, pp. 204-208, spec. p. 204,
n. 2 e M. Schmauder, The Relationship between Frankish Gens and Regnum: a Proposal
Based on the Archaeological Evidence, in H.-W. Goetz, J. Jarnut, W. Pohl (edd.), Regna and
Gentes: the Relationship between Late Antique and Early Medieval Peoples and Kingdoms in the Transformation pf the Roman World, Leiden 2003, pp. 271-306, spec. p. 294.
24 Così la definisce E. Stein, Bas-Empire, II, p. 605; vd. Agath. I, 6, 2, p. 17; tr. ingl.,
p. 14; R. Holtzmann, Die Italienpolitik der Merowinger und des Königs Pippin, in Das
Reich. Idee und Gestalt. Festschrift für Johannes Haller, Stuttgart 1940, rist. Darmstadt
1962, pp. 11-12; L. Schmidt, Die Letzten Ostgoten, p. 6; Averil Cameron, Agathias on
the Early Merovingians, «Annali della Scuola Normale Superiore» 37, 1968, pp. 125126; V. Bierbrauer, Zur ostgotischen Geschichte in Italien, «Studi Medievali» XIV, 1973,
pp. 1-37, ove si legge (p. 29) una sorta di riconoscimento dell'autonomia dei due: gegen
den Willen ihres Königs leisteten jedoch diel alamannischen Herzöge Butilin und
24
vénitiennes de Théodebert car Butilin avait déjà commandé en Italie du
vivant de ce roi27: Butilino aveva infatti esperienza del teatro di guerra italico avendo partecipato alla spedizione organizzata dal re franco Teodeberto, padre di Teodebaldo, nel 53928.
Narsete stava allora dirigendo le operazioni di assedio della città
di Cuma (dove si trovava asserragliato Aligerno, fratello dell'ultimo re degli ostrogoti, Teia, morto nel 552), ma c'erano sacche di resistenza gotica
anche nell’Italia centrale: nell’autunno del 553, Lucca, per fare un esempio, resisteva ancora, rincuorata proprio dalle notizie sull’intervento degli
alamanni sentito come un possibile rovesciamento del fronte29.
Quanto forte si presentava questa spedizione? Agazia fornisce
Leuthari den Ostgoten Hilfe; Vd. anche W. Treadgold, A History of the Byzantine State
and Society, Stanford (California), 1997, p. 211.
25 G. Löhlein, Die Alpen- und Italienpolitik, p. 47.
26 Vd. Agath. I, 11, 2, p. 23; tr. ingl., p. 18. Pare che per qualche tempo dopo la fine
della guerra i goti “a settentrione del Po” avessero costituito una sorta di confederazione
autonoma che tentò anche di darsi una propria politica estera ed ottenere l'appoggio dei
franchi in vista di una possibile ripresa delle ostilità contro i bizantini (vd. Agath. I, 5, 2ss., pp. 15-17; tr. ingl., pp. 13-14).
27 E. Stein, Bas-Empire, II, p. 605.
28 Vd. ad es. Auctarium Marcellini, a. 539.4, ed. B. Croke, Sydney 1995, pp. 48 e
132-133 (Theudibertus Francorum rex cum magno exercitu adveniens Liguriam totamque depraedat Aemiliam); Marii Avent. Chr. a. 539 (Marii Aventicensis, Chronica, ed.
Th. Mommsen, MGH AA, XI =Chronica minora II, Berlin 1894, repr. München 1981, p.
236); Libri Pontificales pars prior, LXIII. Iohannes III, p. 157 (in MGH, Gestorum Pontificum Romanorum, ed. Th. Mommsen, Berolini 1898); Vita Iohannis Abbatis Reomaensis. Auctore Iona, in MGH, Script. Langobard. III, ed. B. Krusch, p. 513 (cfr. B. Krusch,
Zwei Heiligenleben des Jonas von Susa, in «Mitteilungen des Institut für Österreichische
Geschichtsfor-schung» 14, 1893, pp. 421-422); Fredegario, Chron. III, 44 (Chronicarum
quae dicuntur Fredegarii Scholastici, Libri IV, ed. B. Krusch, in MGH – Script. Rer. Meroving., Hannoverae 1888, t. II, p. 106): Buccelenus dux iusso Teudeberti Siciliam occupat, totamque Italiam dominans. Vd. G. Löhlein, Die Alpen- und Italienpolitik, pp. 4748, nota 152 e PLRE III-B, s.v. Theodebertus 1, p. 1229.
29 Vd. Agath. I, 12, in., p. 24; tr. ingl., p. 19; cronologia in Th. Hodgkin, Italy and
Her Invaders, V, pp. 21 ss., E. Stein, Bas-Empire, II, pp. 606-607: Cl. Pizzi, L'assedio
dei Bizantini a Lucca del 552 d.C., in «ΠΕΠΡΑΓΜΕΝΩΝ ΤΟΥ Θ´ ΔΙΕΘΝΟΥΣ ΒΥΖΑΝΤΙΝΟΛΟΓΙΟΚΟΥ ΣΥΝΕΔΡΙΟΥ ΘΕΣΣΑΛΟΝΙΚΗΣ» ΤΟΜΟΣ Β´, ΑΘΗΝΑΙ, 1956, pp. 570-578
e Averil Cameron, Agathias, p. 143. Uno studio dedicato alla geografia agaziana, interessante e piuttosto recente, è quello di Α.Ι. Χατζηχρηστος, Γεωγραφικές Πληροφορίες
Στο Ιστορικό Έργο του Αγαθία [=A.I. Chatzēchrēstos, Notizie geografiche nell’opera
storica di Agazia], Diss., Tessalonica 2009 (per quanto concerne Lucca, p. 59). Vd. comunque la buona sintesi di G. Ravegnani, I Bizantini in Italia, Bologna 2004, pp. 58 ss.
25
una notizia, apparentemente dettagliata, scrivendo: οἱ μὲν δὴ βρενθυό-
μενοι τῇ τοιαύτῃ δόξῃ καὶ ἀγέρωχον ποιούμενοι τὴν παράταξιν ἔκ τε
Ἀλαμανῶν καὶ Φράγγων στράτευμα ἐς πέντε καὶ ἑβδομήκοντα
χιλιάδας ἀλκίμων ἀνδρῶν ἀγείραντες παρεσκευάζοντο τὰ πολέμια,
ὡς αὐτίκα μάλα ἐς τὴν Ἰταλίαν καὶ δὴ ἐμβαλοῦντες [mostrando grande
iattanza a causa di tale opinione (i.e. su Narsete considerato un molle eunuco, incapace di combattere) e riguardando in modo arrogante al (futuro) confronto militare, stavano radunando, tra alamanni e franchi, settantacinque migliaia di uomini valorosi, mentre preparavano la loro spedizione con l'intenzione di invadere al più presto l'Italia]30.
Sappiamo che dalla storiografia bizantina – in genere – non ci si
può attendere un'aderenza più che di maniera alla realtà fattuale, tuttavia, i
settantacinquemila, il numero di combattenti proposto da Agazia, appare
un dato comunque molto alto31: è la chiffre manifestement incroyable di
cui parlava già Ernst Stein32. Resta in ogni caso assai difficile azzardare
un numero alternativo: per offrire un elemento di raffronto utile, consideriamo che l'intero gruppo etnico degli ostrogoti, al momento del loro ingresso e insediamento in Italia, è stato stimato in circa centomila unità, di
cui però i combattenti sarebbero stati al massimo ventimila33.
I numeri proposti dagli storici antichi rappresentano spesso un
problema: le cifre fornite da quello che passa come un buon osservatore –
e testimone oculare – Procopio, ancora sulla consistenza delle forze ostrogote in Italia, durante l'interminabile guerra con i bizantini, vanno da un
minimo di 150.000 a un massimo di 200.000: prese per buone per molto
tempo, vengono ormai rifiutate come irrealistiche34, con una significativa
controstima in riduzione che si attesta sui 27.000 combattenti ipotizzati
30Agath.
I, 7, 9, p. 19; tr. ingl., p. 16; sugli sprezzanti insulti indirizzati a Narsete vd.
Th. Hodgkin, Italy and her Invaders, V, p. 16.
31 La cifra pare tuttavia essere stata accolta senza particolari rilievi od osservazioni da
storici autorevoli quali F. Gregorovius, Geschichte der Stadt Rom im Mittelalter (1859),
tr. it. Storia di Roma nel Medioevo, Roma, 1972, I, p. 276 (che scrive tuttavia “settantamila”); H. von Schubert, Die Unterwerfung der Alemannen unter die Franken, Diss. Strassburg1884, p. 105 (che scrive invece – chissà perché? – 72.000); J.B. Bury, History, II, p.
275; Assunta Nagl, s.v. Theodebald 1, RE V. A.2 (1934), c. 1715; Lellia Cracco Ruggini,
Economia e Società, p. 477; G. Löhlein, Die Alpen- und Italienpolitik, p. 47 e altri ancora.
32 Bas-Empire, p. 606.
33 Rinvio, in particolare, a V. Bierbrauer, Zur ostgotischen Geschichte, p. 10; a T.S.
Burns, Calculating Ostgothic Population, «Acta Antiqua» 26, 1978, pp. 457-463 e a Nicoletta Francovich Onesti, I nomi degli Ostrogoti, p. 7 (forse gli Ostrogoti erano giunti in
circa 50-60.000 nel 488, numero poi aumentato fino a un possibile massimo di 100.000
in tutta Italia).
34 Vd. ancora V. Bierbrauer, Zur ostgotischen Geschichte, pp. 10-11 (rif. a Procopio,
Bell. Goth. I, 16, 11): numero definito tendenziös und mit Sicherheit übertrieben.
26
per l'intero esercito di Totila35, all'incirca pari alla consistenza delle truppe
bizantine sotto Belisario aumentate, poi, sotto il comando di Narsete, fino
a un massimo di 30.00036.
Agazia ci informa anche che Butilino, nell'affrontare Narsete per
lo scontro finale, nonostante le perdite subite nei precedenti scontri e a
causa di una epidemia (forse di dissenteria), avrebbe avuto ai suoi ordini
ancora 30.000 uomini, contro 18.000 bizantini concentrati nell'area del
Volturno, ove si sarebbe combattuta la battaglia37.
Il nostro storico, altrove nella narrazione, sembrerebbe attenuare
l'impatto dei suoi stessi numeri; comunque deve essere messa una tara sugli ordini di grandezza che compaiono nelle sue pagine. Come è stato notato, talora, Agathias' numbers cause some puzzlement38, mentre talaltra –
su ordini di grandezza maggiori – sembra invece più preciso appena i suoi
dati diventano, in qualche modo, verificabili39.
35 Vd. K. Hannestad, Les forces militaires d'après la guerre gothique de Procope,
«Classica et Medievalia» 21, 1960, pp. 136-183.
36 Vd. A. Pertusi, Ordinamenti militari in Occidente nell'Alto Medioevo, in XV Settimana di Studio del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, Spoleto 1968, pp. 636644; altri numeri sugli effettivi bizantini in J.L. Teall, The Barbarians in Justinian's Armies, pp. 300-304.
37Agath. II, 4, 10 p. 45; tr. ingl., p. 36; su queste cifre le perplessità di M. Ites, Zur
Bewertung des Agathias, «Byzantinische Zeitschrift» 26, 1926, p. 282 (Ites è sistematicamente troppo severo con Agazia) e di E. Stein, Bas-Empire, p. 608, part. nota 3. Non
commenta invece le cifre agaziane Th. Hodgkin, Italy and her Invaders, V, p. 38. Al cap.
3 sarà sviluppata un'ipotesi sui numeri dell'incursione dei due fratelli alamanni. Sugli effettivi di Narsete alla battaglia del Volturno, vd. ancora J.L. Teall, The Barbarians in Justinian's Armies, p. 312; anche della dissenteria che avrebbe colpito gli uomini di Butilino si discuterà più oltre.
38 Averil Cameron, Agathias, p. 45. Il caso di specie, citato dall'autrice, Agath. III 8,
2, p. 93; tr. ingl. p. 75; non riguarda lo scenario bellico italiano, ma dà l'idea di una certa
approssimazione del nostro storico.
39 È là dove scrive: δέον γὰρ ἐς πέντε καὶ τεσσαράκοντα καὶ ἑξακοσίας χιλιάδας
μαχίμων ἀνδρῶν τὴν ὅλην ἀγείρεσθαι δύναμιν, μόλις ἐν τῷ τότε ἐς πεντήκοντα καὶ
ἑκατὸν περιειστήκει (V, 13, 7, p. 180; tr. ingl., p. 148). Agazia, che come al solito non
fornisce la fonte delle sue informazioni, intende comunque dire che al tempo dell'unità
dell'Impero romano (“ai vecchi tempi”) le forze combattenti complessive ammontavano a
645.000 uomini, mentre al tempo di Giustiniano – verso la cui gestione delle forze armate sono indirizzate parecchie critiche (vd. ad es. B. Rubin, Das Zeitalter Justinians, I,
Berlin 1960, p. 228 e Averil Cameron, Agathias, p. 125) – erano ridotte a 150.000. Se un
contemporaneo, Giovanni Lido (de mensibus, I, 27), propone un generico totale di
425.000, i 645.000 ricordati da Agazia, cioè il numero delle forze complessive di un tempo sarebbe teoricamente verificabile sommando le cifre raccolte nel lavoro di riscontro e
controllo sui dati della Notitia Dignitatum curato da A.H.M. Jones, The Later Roman
Empire 284-602. A Social, Economic, and Administrative Survey [Oxford 1964], Baltimore 1986, pp. 679-686 (note, pp. 1279-1281) e pp. 1417-1450; tr. it. Il Tardo Impero
27
Agazia, a un certo punto, fa pronunciare da Narsete un discorso
alle truppe, per celebrare la vittoria su Butilino e magnificare il completo
annientamento dell'incursione franco-alamannica. È un discorso a tratti
severo, volto a ridimensionare vanità e presunzione dei soldati imperiali:
vd. Agath. II, 12, in., p. 55; tr. ingl., p. 44: τοὺς μὲν ἀθρόον καὶ οὐ πάλαι
συμβὰν εὐτυχίας τινὸς μετασχόντὰς οὐκ ἀπεικὸς οἶμαι πρὸς
ἀπειροκαλίαν ἐκκλῖναι καὶ τῷ ἀσυνήθει καταπεπλῆχθαι, μάλιστα ἡνίκα
τῷ ἀπροσδοκήτῳ καὶ τὸ παρ' ἀξίαν προσῇ [l'esperienza d'un improv-
viso successo senza precedenti determina, per la sua stessa assoluta eccezionalità, confusione tra chi la vive e comporta la perdita del senso delle
proporzioni, e questo soprattutto se l'elemento della sorpresa è accompagnato da un elemento d'immeritato esito favorevole]; ma si veda anche II,
12, 7, p. 56; tr. ingl., p. 45: οἱ γὰρ Φράγγοι πολυάνθρωπόν τι γένος καὶ
μέγιστον καὶ λίαν ὀρθῶς τὰ πολέμια ἠσκημένον, ἀπόμοιρα δέ τις
αὐτῶν οἱ νενικημένοι βραχεῖα καὶ ὅση μὴ δέος αὐτοῖς ἐμβαλεῖν,
μᾶλλον μὲν οὖν καὶ πρὸς ὀργὴν ἀναστῆσαι [i franchi sono una nazione
popolosa e grandissima e assai portata a fare la guerra e la parte che è
stata vinta è tanto piccola da non far loro paura e, al tempo stesso, abbastanza grande da causare la loro ira rabbiosa]40.
Portando i numeri sul terreno événementielle, ricordo che, ancora
un secolo prima, nel febbraio 457 d.C., un'incursione di centum noviens
(novecento) Alamanni, nell'Italia settentrionale, creò grande paura e fu respinta non senza difficoltà.
Se, a parere di Edward Gibbon, la vantata vittoria su novecento
Romano (284-602 d.C.), Milano 1973-1981, pp. 921-925 (note pp. 1142-1144); pp. 15381577, spec. Tav. XV; vd. J.L. Teall, The Barbarians in Justinian's Armies, p. 320; S.
Mazzarino stimava invece in 500.000 uomini i soldati del basso impero (L'impero Romano, Roma-Bari 1973, p. 687); cfr. i più recenti lavori di Averil Cameron, The Mediterranean World in Late Antiquity. AD 395-600, (London 1993=) London-New York 2000,
spec. pp. 52-56, con forte scetticismo sulle indicazioni agaziane; W. Treadgold, Byzantium and Its Army. 284-1081, Stanford 1995, pp. 49-53 e Y. Le Bohec, L'Armée romaine
sous le Bas-Empire, Paris 2006, tr. it. Armi e guerrieri di Roma antica. Da Diocleziano
alla caduta dell'Impero, Roma 2008, pp. 95-96 (critico su Agazia e anche sugli stessi dati
della Notitia Dignitatum).
40 Le parole di Narsete andrebbero interpretate nel senso che l'exagération du chiffre
donné pour l'armée de Butilin, est indirectement reconnue par Agathias lui-même (secondo E. Stein, Bas-Empire, p. 608, nota 3; vd. Averil Cameron, Agathias, p. 48). Simili a
quelle di Narsete le parole in Ammiano Marcellino, riferite agli alamanni del IV sec. d.C.
(XXVIII, 5, 9: immanis enim natio iam inde ab incunabulis primis varietate casuum
imminuta, ita saepius adulescit, ut fuisse longis saeculis aestimetur intacta; “infatti quella popolazione selvaggia [gli alamanni], sebbene sia stata indebolita, per così dire, sin
dalla culla da numerosi disastri, ricupera così spesso il suo vigore da ritenere che sia rimasta intatta per lunghi secoli”).
28
barbari dimostrava l'estrema debolezza delle difese imperiali non si spiega
perché Sidonio Apollinare, che ci dà la notizia, avrebbe dovuto fare il numero degli aggressori se si fosse trattato di un dato di per sé ridicolo, vergognoso per i difensori, o comunque incongruo41. C'è il sospetto fondato
che quello di novecento fosse un numero discreto, e sufficiente a destare
preoccupazione, se solo si pensa che l'organico di una legio, qualche anno
prima di questi fatti (secondo la Notitia Dignitatum, aggiornata al 425),
difficilmente poteva toccare le mille unità, come una vexillatio, mentre un
corpo di auxilia avrebbe contato cinque o seicento uomini42.
È opportuno ricordare altresì che piccolissime unità erano sufficienti a reggere la difesa di specifiche postazioni fortificate: si pensi ai sexaginta milites destinati Augustanis clausuris in epoca teodericiana43.
Siamo pertanto al punto di partenza – per la scorreria franco-alamannica del 553-554 – con cifre che possiamo ritenere oscillanti tra i settantacinquemila della tradizione agaziana, e valori di poche migliaia. Si
trattava di numeri che potevano comunque impensierire Narsete, il quale –
lo sappiamo da Agazia44 – era stato colto di sorpresa e non aveva nemmeno ricevuto notizie precise riguardo l'incursione.
Il comandante delle truppe bizantine in Italia, impegnato in assedi (siamo informati, da Agazia in particolare, di quelli contro Cuma e
Lucca45) e altre operazioni nell'Italia centrale e meridionale, non disponeva di unità mobili di pronto impiego, né di riserve: probabilmente aveva
fatto conto di poter liquidare quel che rimaneva delle forze gotiche senza
41 Di Gibbon si veda The History of the Decline and Fall of the Roman Empire,
[1781-1788], reprint London 1995, vol. II, chap. xxxvi, p. 371, tr. it. Storia della decadenza e caduta dell’Impero Romano, Torino 1967, p. 1291, nota 1. Il riferimento a Sidonio Apollinare è a Carm. V, 373-380; vd. M. Gusso, Alle origini dei Grigioni: fatti d'arme combattuti sui Campi Canini, presso Bellinzona, nei secoli IV-VI d.C., «Prometheus»
22, 1992, pp. 60-86 (pp. 76-83).
42 Vd. A.H.M. Jones, The Later Roman Empire, pp. 679-683; 1208-1281; tr. it. Il Tardo Impero Romano, II-III, risp. pp. 922-923; 1143; 924 e 1143-1145.
43 Vd. Cassiodoro, Variae II, 5, p. 49 (aa. 507-511); e R. Heuberger, Rätien im
Altertum und Frühmittelalter, Innsbruck, 1932, rist. Aalen 1971, I., p. 133; E. Mollo, Le
Chiuse: realtà e rappresentazioni mentali del confine alpino nel Medioevo, «Bollettino
Storico e Bibliografico Subalpino» 86, 1986, pp. 339-341, e nota 17.
44 I, 8, in., p. 19; tr. ingl., p. 16.
45 Agath. I, 12, pp. 24-25; tr. ingl., pp. 19-20; I, 16-18, pp. 30-34; tr. ingl., pp. 24-27;
vd. Averil Cameron, Agathias, pp. 43 e 143 (per la cronologia); Cl. Pizzi, L'assedio dei
Bizantini a Lucca, pp. 570-578.
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essere distratto da attacchi di altra provenienza. Cercò allora di puntare
sulla qualità, più che su una quantità che latitava, e convocò quattro alti
ufficiali di grande esperienza: Giovanni, Valeriano, Artabane46 (ἐκέλευσεν
ἅμα Ἰωάννῃ... καὶ πρός γε Βαλεριανῷ καὶ Ἀρταβάνῃ), oltre all'erulo Fulcari (Φούλκαρις)47, e li spedì verso nord, con le forze che era riuscito a
mettere assieme, nel tentativo di impedire al contingente franco-alamannico di varcare gli Appennini o, in ogni caso, di disturbare la loro marcia48.
Ma l'attacco franco-alamannico si rivelò da subito tutt'altro che
improvvisato e si fece insidioso quando vi si unirono parecchi goti sbandati, dalla Liguria e dalla Aemilia49. Da Parma (autunno del 553), dopo la
vittoria riportata dagli invasori guidati da Butilino sugli eruli di Fulcari, il
quale perì in battaglia assieme a gran parte dei suoi50, la scorreria toccò
l’Etruria, mentre i bizantini si ritiravano precipitosamente in direzione di
Ravenna, attestandosi a Faenza (Faventia, Φαβεντία)51.
La ritirata degli imperiali da Parma impensierì Narsete52, il cui
disegno strategico era stato compromesso, in quanto quella città rappresentava il caposaldo della rete dei collegamenti tra la pianura padana centrale e la Toscana nord-occidentale53: da Lucca, dove continuava l'assedio,
Narsete inviò a spron battuto sul fronte in difficoltà un suo familiare,
46 Agath. I, 11, 3, p. 23; tr. ingl., p. 18; vd. Th. Hodgkin, Italy and Her Invaders, V,
pp. 20-21 e E. Stein, Bas-Empire, II, p. 606.
47 Agath. I, 11, 3, p. 23; tr. ingl., p. 18: Fulcari è il prototipo del guerriero coraggioso
e temerario. Su di lui, e sugli eruli, Agazia si mostra assai più obiettivo di Procopio (vd.
ad es. Bell. Goth., II, 14, 36). Cfr. anche B. Rubin, Das Zeitalter Justinians, I, p. 437,
nota 519; Averil Cameron, Agathias, p. 43 e PLRE III-A, s.v. Fulcaris, pp. 496-497.
48 Vd. PLRE III-A, s.v. Artabanes 2, pp. 129-130. Vd. G. Ravegnani, I Bizantini in
Italia, pp. 59-60.
49 Vd. Agath. I, 15, 7 p. 29; tr. ingl., p. 23. Sul concetto, sull'estensione e sulle vicende della “Liguria” in quest'epoca vd. Sandra Origone, Liguria bizantina: 538-643,
Byzantinisches Archiv, Band 19 – ΠΟΛΥΠΛΕΥΡΟΣ ΝΟΥΣ – Miscellanea für Peter Schreiner
zu seinem 60. Geburtstag, herausgegeben von Cordula Scholz und G. Makris, MünchenLeipzig 2000, pp. 272-289,
50 Agath. I, 14-15, pp. 27-30; tr. ingl., pp. 21-24; vd. M. Ites, Zur Bewertung des
Agathias, p. 281; E. Stein, Histoire du Bas-Empire, II, p. 606; Cl. Pizzi, L'assedio dei
Bizantini a Lucca, pp. 574-575; PLRE III-A, s.v. Artabanes 2, p. 130. L'episodio di Fulcari dovette solleticare l'estro creativo di Agazia che si spinse ad utilizzare una aggettivazione omerica su cui si sofferma F. Conca, Note sull'impiego del linguaggio poetico nelle
Storie di Agazia, in Hestiasis. Studi offerti a S. Calderone, Messina 1986 [ma 1989], pp.
127-136 (pp. 130-131).
51 Agath. I, 15, 8-10 p. 29; tr. ingl., p. 23; vd. Cl. Pizzi, L'assedio dei Bizantini a
Lucca, p. 575; PLRE III-B, s.v. Narses 1, p. 920 e Α.Ι. Χατζηχρηστος, Γεωγραφικές
Πληροφορίες, p. 67.
52 Agath. I, 17, in., p. 31; tr. ingl., p. 25.
30
Στέφανος
(=Stéphanos), per ordinare ai suoi ufficiali, giudicati codardi,
di riprendere le posizioni che occupavano in precedenza54.
La missione di Stefano si caratterizzò anche per il recupero, a
Ravenna, delle indispensabili risorse finanziarie, e consentì una riorganizzazione dello schieramento bizantino55.
Certo ormai non sarebbe stato più possibile respingere, o anche
solo fermare, l'incursione, anzi il rischio per Narsete era di finire tra due
fuochi, in quanto da Parma si poteva agevolmente raggiungere proprio
Lucca56: si diede forse avvio a una strategia di temporeggiamento, a un lavoro di disturbo e soprattutto a un controllo costante dei franco-alamanni,
in attesa di capire dove sferrare contro di loro il contrattacco più efficace.
Narsete inviò a Cesena Aligerno, che nel frattempo si era arre57
so , perché parlasse ai capi dell'incursione; gli interessava provar a smontare il potenziale politico che Butilino e Leutari potevano esercitare sui
goti sconfitti attirandoli nell'orbita franca, ma anche il tentativo di Aligerno andò a vuoto: la calata dei franco-alamanni proseguì58. Narsete stesso
si trasferì a Ravenna, e poi a Rimini, da dove diresse, contro una modesta
avanguardia degli invasori, uno scontro fortunato per i bizantini59.
All'altezza di Roma, che evitarono di toccare60, questi si divisero
in due colonne, ciascuna capitanata da uno dei fratelli; si trattò d'un errore, che ridusse la massa critica della spedizione e ne indebolì la capacità
operativa61. Butilino guidò i suoi lungo Campania, Lucania e Bruzzio, giù
fino allo stretto di Messina; Leutari saccheggiò da par suo Puglia e Calabria ionica62: i due contingenti (composto forse prevalentemente da fran53 Vd. P. Dall'Aglio, Problemi storico-topografici in Agazia, «Padusa. Bollettino del
Centro Polesano di Studi Storici, Archeologici ed Etnologici» 23, 1/4, 1987, pp. 57-65
(pp. 59-60).
54 Vd. Agath. I, 17, 3, p. 32; tr. ingl., p. 25; Cl. Pizzi, L'assedio dei Bizantini a Lucca,
pp. 575-576 e PLRE III-B, s.vv. Narses, p. 920 e Stephanus 12, p. 1186.
55 I rifornimenti destinati alle truppe imperiali, coordinati dal prefetto del pretorio per
l'Itala, Antioco, avevano infatti lasciato parecchio a desiderare; vd. Th. Hodgkin, Italy
and Her Invaders, V, pp. 26 e 32 nota 1, e E. Stein, Bas-Empire, II, p. 606, nota 2.
56 Vd. P. Dall'Aglio, Problemi storico-topografici, p. 60, nota 21.
57 Agath. I, 20, 9, p. 36; tr. ingl., p. 29: τὸν δὲ Ἀλίγερνον εἰς Κισσίναν τὴν πόλιν
ἀπέπεμπεν.
58 Agath. I, 20, 10-11, pp. 36-37; tr. ingl., p. 29.
59 Agath. I, 21-22, pp. 37-39; tr. ingl., pp. 29-31.
60 Agath. II, 1, 3, p. 40; tr. ingl., p. 32. Sullo scarto dell'incursione all'altezza di Roma
si sofferma P. Dall'Aglio, Problemi storico-topografici, p. 63, nota 48.
61 Vd. ancora Agath. II, 1, 3 p. 40; tr. ingl., p. 32. Vd. L. Schmidt, Die Letzten
Ostgoten, p. 6: in zwei Abteilungen streiften die Alamannen bis zur Südküste Italiens.
62 Vd. E. Stein, Bas-Empire, p. 607.
31
chi quello di Butilino, da alamanni quello di Leutari63), man a mano che
procedevano, risultavano sempre più appesantiti dal bottino, con la conseguenza di compromettere la loro operatività tattica: Leutari, che probabilmente guidava il gruppo meno numeroso64, decise a un certo punto di ritornare indietro, risalendo la penisola, mentre l’ambizioso fratello, pur avvertito da messaggeri65, decideva di continuare la sua razzia sempre con
l'intento di rivendicare per sé il governo dei goti e dell'Italia66.
Le intenzioni di Leutari, invece, non appaiono del tutto limpide:
probabilmente, una volta messo al sicuro il bottino, intendeva ritornare a
dar man forte al fratello. Ce lo suggerisce Agazia una prima volta67, e ce
lo ricorda anche in seguito, quando scrive: καὶ τὰ μὲν ἀμφὶ τῷ ἀδελφῷ
ἐν Βενετίᾳ ξυμβαίνοντα οὔπω ἐπέπυστο, ἐθαύμαζε δὲ ὅτι δὴ αὐτῷ
κατὰ τὸ ξυγκείμενον τὸ στράτευμα οὐκ ἐπεπόμφει· καὶ ὑπετόπαζεν,
ὡς οὐκ ἂν ἐς τοσοῦτον ἐμέλλησεν, εἰ μή τι αὐτοῖς ξυνηνέχθη δεινὸν καὶ
ἀντίξουν [cioè, successivamente ai fatti di cui ci occupiamo,“(Butilino)
non aveva ricevuto alcuna informazione su ciò che era accaduto a suo
fratello nella Venetia, ma era sorpreso che non gli avesse inviato le sue
truppe com'erano rimasti d'accordo. Suppose che non avrebbe tardato (a
farlo) se qualche cosa di grave non l'avesse trattenuto”]68.
Leutari comunque portò la sua colonna attraverso l’insidioso itinerario costiero adriatico, senza considerare con la dovuta prudenza che,
lungo quella via, controllabile dai bizantini anche dal mare, avrebbe corso
il rischio di combattere contro truppe motivate, desiderose di riscattarsi di
fronte al proprio comandante in capo.
E infatti, dopo essersi accampato all'incirca ad una dozzina di
chilometri a sud est di Pesaro, nei pressi di Fano (Φᾶνος, Fanum Fortunae), la sua avanguardia (3000 uomini, secondo Agazia: forse, come al
solito, un numero troppo alto) – che aveva cercato di proseguire sulla via
costiera verso nord – si scontrò con un contingente bizantino stanziato a
63
O. Feger, «Zur Geschichte», p. 158 descrive i due fratelli alla guida eines aus
Franken und Alamannen gemischten Heeres.
64 Vd. E. Stein, Bas-Empire, II, p. 607 e G. Ravegnani, I Bizantini in Italia, p. 60.
65 Che Leutari avesse avvertito Butilino delle sue intenzioni lo apprendiamo da Agath. II, 2, in., p. 41; tr. ingl., p. 33.
66 PLRE III-A, s.v. Butilinus, p. 254, così rilegge la vicenda: As spring changed to
summer Leutharis wrote to propose that they [entrambi] return home with their booty;
Butilinus refused and chose to remain, according to Agathias because he had promised
to aid the Goths against the Romans and they were encouraging him to believe that he
would be offered the crown.
67 II, 2, 3, p. 42; tr. ingl., p. 33.
68 Agath. II, 4, 9, p. 45; tr. ingl., p. 36. Vd. Th. Hodgkin, Italy and Her Invaders, V,
pp. 34 e 39. Cfr. PLRE III-A, s.v. Butilinus, p. 254.
32
Pesaro (Πίσαυρος, Pisaurum) guidato dal già citato Artabane e da Uldach, a capo di un contingente unno aggregato agli imperiali che controllavano la via Flaminia. In tale combattimento, su un tratto della costiera a
precipizio sul mare, gli alamanni subirono pesanti perdite, mentre panico
e confusione si diffusero tra di loro69.
Leutari perdette in un sol colpo il bottino che cercava di mettere
in salvo in territorio sotto controllo franco, costituito soprattutto da prigionieri, i quali riuscirono a fuggire in massa approfittando del panico dei
loro guardiani70. Temendo di essere incalzato dappresso dagli imperiali71,
il contingente alamanno, inoltratosi nell'interno della Aemilia, abbandonò
la via Flaminia, lasciando a destra il mare Adriatico e la via costiera72,
quindi, raggiunto e attraversato disordinatamente il Po, entrò nella Venetia in cerca di rifugio73.
A parte qualche incertezza geografica74, Agazia recupera per noi
69
Vd. Agath. II, 2, 5-8 pp. 42-43; tr. ingl., p. 34; cfr. Th. Hodgkin, Italy and Her Invaders, V, pp. 34-35; J.B. Bury, History, II, p. 278; E. Stein, Bas-Empire, p. 607; A. Lippold, s.v. Narses 13a, RE Supplbd. XIII, 1970, c. 883; P. Dall'Aglio, Problemi storico-topografici, pp. 60-61 (la località dello scontro potrebbe identificarsi con l'area a nord del
Fosso Seriore; vd. ivi p. 65, tav. 2); F.V. Lombardi, Lo scontro franco bizantino fra Pesaro e Fano nel 554 d.Ch. (Agathia II, 2-3), «Studia Oliveriana» n.s. 12, 1992, pp. 55-66.
Vd. anche Α.Ι. Χατζηχρηστος, Γεωγραφικές Πληροφορίες, pp. 60-61.
70 I particolari topografici sulla zona dei combattimenti rilevabili dal racconto agaziano, sono minutamente descritti anche in F.V. Lombardi, Lo scontro franco bizantino,
pp. 58-60 (sulla fuga dei prigionieri, ibid., p. 61). Che i popoli germanici fossero assai interessati alla cattura di prigionieri è testimoniato da un passo di Tacito (Annales II, 18)
che narra di quando, vinti i Cherusci nel 16 d.C. da Germanico, repertis inter spolia eorum catenis quas in Romanos ut non dubio eventu portaverant (“furono trovate tra le loro
spoglie le catene portate per legare i romani, non mettendo neppure in dubbio che li
avrebbero vinti”).
71 In realtà, secondo Agath. II, 3, in., p. 43; tr. ingl., p. 34; Artabane e Uldach non approfittarono della confusione in cui era caduto il nemico.
72 Vd. P. Dall'Aglio, Problemi storico-topografici, p. 61.
73 Vd. Agath. II, 3, 3 p. 43; tr. ingl., p. 34. Came into Venetia, which was now a recognized part of the Frankish kingdom, scriveva Th. Hodgkin, Italy and her Invaders, V,
p. 35; cfr. G. Löhlein, Die Alpen- und Italienpolitik, p. 47; E. Stein, Bas-Empire, p. 607;
N. Faldon, Le origini del cristianesimo nel territorio, in N. Faldon (cur.), Storia Religiosa del Veneto. 3. Diocesi di Vittorio Veneto, Padova 1993, p. 38.
74 Vd. Agath. II, 3, 2 p. 43; tr. ingl., p. 34; con l'attraversamento in sequenza di Emilia
e Alpi Cozie (!), prima di arrivare al Po. A proposito del presunto passaggio attraverso ala
provincia delle “Alpi Cozie”, scrive Th. Hodgkin che, se così fosse stato, Leutari surely
throws their line of march too much to the west (Italy and her Invaders, V, p. 35, nota 1).
Peraltro, sulle approssimazioni di Agazia, vd. J.B. Bury, History, II, p. 278, nota 3 e il fin
troppo severo M. Ites, Zur Bewertung des Agathias, pp. 283-284. Un interessante riesame
critico è stato tentato da P. Dall'Aglio, Problemi storico-topografici, pp. 57-65 anche sulla dibattuta questione delle Alpi Cozie (ivi, pp. 61-62), a proposito delle quali si possono
33
la notizia – piuttosto significativa – di un attraversamento del Po tutt'altro
che agevole, per i reduci dalla scorreria; gli uomini di Leutari, infatti, μόλις
τὸν Πάδον ἐπεραιοῦντο, “a stento varcarono il Po”, intendendosi l'avverbio μόλις (pron. mólis), con l'italiano “in disordine”, letteralmente: “con
gravi difficoltà”75: l'esatto contrario, quindi, di chi sostiene che avrebbero
invece comodamente attraversato il ponte della via Annia sul fiume76.
Non possiamo sapere se Leutari e i suoi avessero preso la via
Popillia, la costiera tra Rimini, Adria ed Altino: tenderei ad escluderlo
perché si sarebbero avvicinati troppo a Ravenna e al suo dispositivo militare: potrebbero aver seguito la direttrice che dal territorio riminese portava ad Urbino e all'alta valle del Metauro (la strada percorsa da Asdrubale
nel corso della seconda guerra punica)77, ovvero aver aggirato Ravenna
per utilizzare più a nord un breve tratto della via Annia e puntare (da Altino? sulla via Claudia Augusta?) in direzione Tarvisium. poi di Opitergium, e per raggiungere infine Ceneta nella direttrice verso l'attuale Pianzano, lasciando a lato Castello Roganzuolo78.
Si può supporre che il passaggio del fiume Po abbia richiesto del
tempo: una certa “permanenza” in una zona potenzialmente infestata dalla
vedere Α.Ι. Χατζηχρηστος, Γεωγραφικές Πληροφορίες, p. 62 e il Thesaurus Agathiae
Myrinaei. Historia et Epigrammata, curantibus B. Coulie, B. Kindt et Cental, Turnholt
2006, p. xxi.
75 Aegre Padum traiecerunt dice la trad. latina dell'edizione Niebhur (p. 69).
76 Come C.G. Mor, Verona Medievale. Dalla caduta dell’Impero al Comune, in
AA.VV., Verona e il suo territorio, Verona 1964, p. 18, n. 1 che accredita una soluzione
geografica e cronologica diversa, secondo la quale: Leutari, venendo dalla via Adriatica,
poté passare il Po sul ponte dell'Annia e dirigersi su Treviso e Ceneda, per una necessaria sosta, onde riordinare l'esercito approfittando del fatto di trovarsi in luogo amico,
presidiato da truppe franche... successivamente si spostò su Verona, accampandosi fra
questa città e il Lago di Garda; c'è da chiedersi tuttavia quali fonti antiche possano accreditare la ricostruzione appena letta a proposito del passaggio del fiume, e soprattutto a
proposito del successivo – supposto – spostamento dello scenario da Ceneda al Lago di
Garda (su cui ci soffermeremo nel successivo capitolo 2).
77 Vd. P. Dall'Aglio, Problemi storico-topografici, p. 62; c'è qualcosa che pare legare
Asdrubale a Leutari (un accenno verso la fine di questo lavoro, nota 450).
78 Non mi sento di prendere posizione sul percorso seguito dagli alamanni in fase di
ripiegamento. Rinvio pertanto, per la descrizione accurata degli itinerari, ma senza alcun
riferimento alla vicenda qui trattata, a L. Bosio, Itinerari e strade della Venetia romana,
Padova 1970, pp. 39-64 (via Popillia e via Annia), pp. 129-143, spec. pp. 137-139 (via
Claudia Augusta); Id., Le strade romane della Venetia e dell'Histria, Padova 1991, 59-82
(via Popillia e via Annia), pp. 133-148, spec. p. 139 (via Claudia Augusta). Può essere
letto con interesse anche G. Arnosti, “Per Cenetam gradiens”. Appunti sulle vie della romanizzazione con riferimento all'antico Cenedese, «Il Flaminio. Rivista di Studi della
Comunità Montana delle Prealpi Trevigiane» 9, 1996, pp. 59-106, spec. pp. 102-103 (“La
levada e la callalta”) sul percorso veloce Opitergium-Ceneta.
34
Malaria, tornerà utile più avanti a sostenere una delle ipotesi sulla natura
del “morbo” che avrebbe colpito gli alamanni.
Inoltratasi nella Venetia, la meta finale della colonna guidata dal
capo alamanno si rivelò Ceneta: egli andò infatti ad accamparsi, secondo
le parole di Agazia, ἐς Κένετα τὴν πόλιν, cioè ‘nella città di Ceneda’79,
sullo sbocco della Val Lapisina, e vi si stabilì con i suoi. La trascrizione
della frase, con la pronuncia del greco del tempo, darebbe probabilmente
qualcosa come: is Kéneta tìn pólin80.
Bisogna intenderci su un'espressione apparentemente così precisa (ma in realtà anche generica) come “accamparsi nella città di Ceneda”.
Dobbiamo supporre infatti che gli alamanni in fuga fossero comunque in numero sufficiente per prendere possesso di quella sorta di
“campo trincerato” costituito attorno a Ceneda, a monte della città “da
una rocca e da una mezza dozzina di imponenti torrioni e recinti fortificati”, e, nelle altre direzioni, da una serie di altre difese che sono state studiate ed illustrate, anche di recente81.
Immaginiamo una specie di rettangolo con i lati lunghi pari ad
una decina/quindicina di chilometri, estesi all'incirca tra gli attuali abitati
di Fregona e quello di Colle Umberto da una parte, e dall'altra tra lo Spalto di Frascon (nei pressi di Revine) e Formeniga, misurando i corrispondenti lati brevi una estensione di circa una dozzina di chilometri82.
È molto difficile assegnare ora delle misure lineari di percorrenza ad un'epoca, e ad un contesto territoriale, tanto antichi, e nulla vieta
che l'hinterland strategico ipotizzato attorno a Ceneda, potesse essere sta79Agath.
II, 3, 3 p. 43; tr. ingl., p. 34. Vd. Α.Ι. Χατζηχρηστος, Γεωγραφικές Πληρο-
φορίες, pp. 62-63.
80
Si tratta di una locuzione stereotipata (verso la/nella città), che nel caso della capitale dell'impero orientale, Costantinopoli, ha dato luogo persino alla sua attuale denominazione Istanbul, che è infatti l'adattamento in lingua turca di un originario greco-bizantino is tìn pólin, verso la/nella Città (per eccellenza); vd. a questo proposito E.A. Sophocles, Greek Lexicon of the Roman and Byzantine Periods (from B.C. 146 to A.D. 1100),
New York 1900, p. 902.
81 Vd. Atti del Convegno “Il Sistema difensivo di Ceneda”. Problemi di conoscenza,
recupero e valorizzazione, Vittorio Veneto 4 maggio 1991, ed. Vittorio Veneto 1993; il
precedente virgolettato si riferisce invece a S. De Nardi-G. Tomasi, L'Agro Centuriato
Cenedese. Studi e Ricerche, Vittorio Veneto 2010, pp. 82 ss. (a proposito di difese e fortificazioni dell'area cenedese – Tav. 14).
82 Lo “Spalto” è denominato assai variamente: Castegna [Castello] Minor o Castel
Frascon. L'altura su cui fu edificata la fortificazione è detta Monte Frascon; vd. A. Salvador-M. Vedana, Fortificazioni sulle strade dell'antico Cenedese dalla costa alle Alpi,
in Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche, Ceneda e il suo territorio nei secoli, Convegno Nazionale, Vittorio Veneto 22 maggio 2004, ed. Vittorio Veneto novembre 2004, pp.
117-135, spec. pp. 119 e 124-127.
35
to più o meno vasto di quello proposto.
Ritengo che la rocca di Ceneda fosse comunque già presidiata da
una stabile guarnigione franca, e che i nuovi arrivati (tra i quali non si può
escludere ci fossero anche goti sbandati) si accampassero nell'abitato o ai
suoi margini immediati, non lasciando tuttavia sguarniti i punti chiave
della sorta di “campo trincerato” sopra congetturato, in modo da mantenere attiva la sorveglianza sulle eventuali mosse dei bizantini. Dal tipo di
notizie, alle quali Agazia aveva potuto attingere, si può supporre che le
truppe imperiali fossero in scarso numero, dotate più che altro di mobilità;
esse non cercarono di mettere in atto azioni offensive o di disturbo, men
che meno operazioni ossidionali, e si limitarono pertanto, verosimilmente,
a tenere sotto costante controllo il disperato insediamento alamannico83.
È un periodo molto difficile: le notizie che lo riguardano sono
spesso confuse e contraddittorie; risulta impossibile verificare (in termini
assoluti o relativi) le stesse informazioni agaziane che davano ai goti la ripresa del controllo di varie località dell'Italia settentrionale, diversamente
da ciò che aveva scritto Procopio84. Ignoriamo però se gli imperiali avessero occupato qualche città o castellum (Opitergium, Oderzo?): possiamo
ipotizzare che a loro bastasse mantenere la disponibilità di quel che restava della rete stradale, forse in accordo con parte degli stessi goti, alla luce
delle intese che avevano sancito la fine delle ostilità tra 552 e 55385.
Tra i presidi goti di incerta collocazione, le guarnigioni dei franchi ancora al loro posto, i guerrieri sbandati e le schegge impazzite dell'incursione alamannica, non dovette essere facile, per i bizantini, neppure tenere l'area sotto semplice osservazione diretta86.
83
La maggior parte delle forze bizantine era allora concentrata a sud, attorno a Capua, sotto il diretto comando di Narsete. Gli imperiali si mossero solo nell'autunno del
554 contro Butilino per sconfiggerlo infine sul Volturno (E. Stein, Bas-Empire, p. 608:
en tout cas, ce n'est qu'en automne 554 qu'il entra en campagne).
84 Agath. I, 1, 6, p. 10: διαβάντες ἀμφὶ Βενετίαν καὶ τὰ τῇδε φρούρια καὶ πολίσματα, ᾗπερ καὶ ἐν τῷ πρὸ τοῦ, ἐσκεδάννυντο, “si dispersero nella Venetia tra le città e i
castelli dove avevano vissuto in precedenza” (tr. ingl., p. 9). Procopio sosteneva invece
che i goti avessero quasi tutti abbandonato l'Italia (Bell. Goth. IV, 35; tr. it., pp. 765-766).
85 ἐπειδὴ τὰς σπονδὰς θέμενοι, “dopo aver firmato gli accordi” (Agath. I, 1, 6, p.
10; tr. ingl., p. 9).
86 Per un'analisi del territorio su cui sorgeva l'antica Ceneta, sul suo ruolo di snodo
viario e territoriale vd. G. Tonon, Tra Cansiglio e Val Lapisina: funzionalità storica di
una terra di confine, Tesi di Laurea in Topografia dell'Italia Antica, Università di Padova,
2006, Relatore prof. G. Rosada (pp. 78).
36
Cap. 2 - La vicenda potrebbe non essersi svolta a Ceneda?
Altri storici antichi, oltre ad Agazia, parlano, pur senza affrontarla nei dettagli, della spedizione franco-alamannica e del suo cattivo esito, ed abbiamo appena visto come anche da storici moderni (supra, nota
76) sia stata messa in discussione la stessa localizzazione in Ceneda (e nel
Cenedese) dei fatti oggetto di questo studio.
La trasmissione della memoria degli eventi di cui ci occupiamo,
talora labile nelle fonti antiche, appare per lo meno discutibile in certe interpretazioni moderne, e non è sempre facile mettere ordine nei filoni del
ricordo come in quelli della ricostruzione.
Veniamo agli antichi. Trascuro del tutto Gregorio di Tours e il
suo continuatore, Fredegario: tanto il primo quanto il secondo si occupano
delle gesta di Butilino in Italia, fino alla disfatta e alla morte, senza però
mai ricordare Leutari, e questo ci deve far riflettere sul fatto che erano
state trasmesse notizie diverse su quegli eventi, e che esse si erano poi fissate in fonti autonome le une dalle altre87. Non troverete quindi un solo
cenno su Ceneda, e nemmeno – in senso proprio – sulla malattia, che qui
interessa indagare, neanche negli altri due storici che si sono invece occupati di Leutari, sia pure in modo tutt'altro che approfondito, e che pure apparirebbero a prima vista più promettenti degli altri: Mario di Avenches88
o Paolo Diacono89.
Mario di Avenches, nel passo appena ricordato, che sarebbe tuttavia ascrivibile al 548, parla di un Lanthacharius dux Francorum in bello
Romano transfossus obiit. Proviamo a farci qualche domanda: la notizia si
riferisce effettivamente ad una incursione diretta dai franchi nel 548?90 Il
87
Gregorii Turonensis, Hisoria Francorum, ed. M. Oldoni, Milano 1981, III, 32 (vol.
I, pp. 268-269) e IV, 9 (vol. I, pp. 298-299); Fredegario., Chron. III, 50, p. 106: Buccelenus in Aetalia aput Bellesarium et Narsidem patricius saepius fortiter demigans... infirmatus a profluvium ventris et exercitos suos e infirmitate adtritos. La notizia, come si
vede, è povera e confusa, oltre a presentare un inverosimile Butilino che uccide Belisario
(vd. anche ibid. II, 62, p. 88).
88 Chron. a. 548.2, p. 236.
89 Hist. Lang., II, 2 (ed. Lidia Capo, Milano 19953, pp. 78-79).
90 Come potrebbe evincersi da qualche altro spunto: a questo proposito, E. Stein sosteneva, per un periodo successivo alla morte di Teodeberto, che le jeune et faible
Thibaut [Teodebaldo], se borna à échanger avec Justinien des messages aigres-doux
mais non hostiles, après qu’un chef franc eut péri dans une action engagée contre des
troupes impériales, peut-être en Vénétie (Bas-Empire, p. 530, nota 1, ma – attenzione – la
data potrebbe essere posposta): il riferimento è alla lettera del re franco a Giustiniano attualmente raccolta nelle Epistolae Austrasicae, in MGH – Epistolae III. Merowingici et
Karolini Aevi, cur. W. Gundlach, pp. 131-132 (ep. 18). Vd. G. Löhlein, Die Alpen- und
Italienpolitik, pp. 35 e 38; cfr. però PLRE III-B, s.v. Lantacharius, p. 765.
37
comandante Lanthacharius di Mario e il Λεύθαρις di Agazia (=Leutharis,
Leutharius), sono la medesima persona? Il riferimento può essere quindi
cronologicamente mal collocato, ed essere invece relativo al 553-554?
Se si potesse rispondere affermativamente alla prima, la questione sarebbe chiusa; alla seconda domanda possono conseguire due alternative: Lanthacharius non è il Λεύθαρις di Agazia, e anche così la faccenda
sarebbe chiusa; mentre se invece si trattasse dello stesso personaggio91,
questi potrebbe aver guidato tanto la presunta incursione del 548, quanto
la successiva, così come accadde a Butilino nel 539.
Alla questione sulla confusione dei tempi si può rispondere affermativamente solo se mettiamo in discussione un altro paio di passi successivi di Mario: eo tempore [a. 555] Buccelenus dux Francorum in bello Romano cum omni exercitu suo interiit, e ancora eo anno [a. 556] exercitus
Francorum rei publicae Romanae exercitum vastavit atque effugatum devastavit cum illis et divitiis multis abductis92. Parrebbe, a prima vista, la
(confusa) esposizione della sconfitta di Butilino al Volturno ad opera di
Narsete e la conseguente fine della dominazione franca in Italia93, ma i conti non tornano e infatti è stato autorevolmente scritto: reca stupore che la
Cronica di Mario Aventic. disgiunga di sette anni i tempi di Bucelino da quelli di Leutari94 (548/555?), e inoltre il dominio dei franchi nell'Italia settentrionale cessa ben dopo il 556. Credo sia possibile che, in Mario, la notizia
dell'incursione franco-alamannica del 553-554 sia “sbriciolata”, e “sparsa”
nella sua Cronaca senza troppo criterio, né onomastico né cronologico.
Osserviamo allora, per esteso, la notizia che ci offre invece Paolo
Diacono: Francorum dux Leutharius [anche qui capo dei franchi, non degli alamanni!], Buccellini germanus, il quale dum multa praeda onustus
91
Vorrei rimarcare che Mommsen, in apparato al testo di Mario, Chron. a. 548, p.
236 segnala due varianti al nome del comandante: un Chlothacarius e – assai più interessante – un Chlotharius, che appaiono senz'altro indicative d'una specifica incertezza sulla
trasmissione corretta della notizia. È interessante notare anche che, in Agazia, il nominativo Λεύθαρις (con la iota finale breve), che pare di ascendenza germanica diretta, senza
”latinizzazione”, è usato sei volte (I, 6, 2, p. 17; 7, 8, p. 19; 11, 2, p. 23; II, 1, 5, p. 40; 2,
3, p. 42; 2,8, p. 43), la sua foma accusativa Λεύθαριν, una sola volta (II, 1, 11, p. 41); per
i restati riferimenti a Leutari, che sono tre, al dativo, Agazia usa però una forma diversa,
“latinizzata”, Λευθάριῳ, che presuporrebbe un nominativo Λευθάριος (= Leutharius).
Secondo il Thesaurus Agathiae Myrinaei, pp. xxiv-xxv, “les et formes Λεύθαριν... et Λεύθαρις... relèvent d'un paradigme flexionel différent et justifient l'enregistrement dans le D.
(iction-naire) A.(utomatique) G.(rec) de deux lemmes Λευθάριος et Λεύθαρις.”
92 Chr. aa. 555.4 e 556.4, p. 237.
93 Vd. anche Chr. a. 556.5, p. 237.
94 F. Gregorovius, Geschichte der Stadt Rom im Mittelalter [1859 ss.], tr. it. Storia di
Roma nel Medioevo, Roma 1900, p. 346, nota 1.
38
ad patriam cuperet reverti, inter Veronam et Tridentum iuxta lacum Benacum propria morte defunctus est “il comandante franco Leutari, fratello di
Butilino, mentre carico di preda cercava di tornarsene in patria morì di
una singolare malattia tra Verona e Trento nei pressi del lago di Garda” [la
traduzione è mia]. Lo storico longobardo non solo non cita Ceneda ma fa
morire altrove Leutari (chiamato però correttamente Leutharius): pare evidente la disponibilità di una fonte alternativa rispetto alla testimonianza
fornita da Agazia – come si è detto –, e non solo sulla località della morte
del capo alamanno, ma anche sulla causa della sua stessa dipartita. Di qui
un dibattito storiografico che dura (spesso de relato) da parecchio tempo.
È probabile che la confusione stia all'inizio: Gregorio di Tours e
Fredegario non citano infatti mai Leutari – e lo abbiamo già detto – ma
soltanto suo fratello Butilino; Mario di Avenches cita un tal Lantacharius
(forse Chlotharius), ma lo fa operare nel 548, data di una incursione condotta in Italia e nel Veneto, dai franchi95. Paolo Diacono invece parla correttamente del Leutari che conosciamo, ma lo fa morire dalle parti del Lago
di Garda, e la sua espressione propria morte è stata intesa alternativamente come suicidio ma anche come morte per malattia96. Si tratta di fonti
sviluppatesi in ambiente merovingio, che tesero ad escludere le notizie su
Leutari, considerato forse personaggio minore e “perdente”, quindi meno
degno di essere celebrato di Butilino, che poteva vantare, in effetti, diverse vittorie al suo attivo. Non esiste alcun legame tra queste notizie e quelle
– di prima mano – fornite ad Agazia e da questi trasposte nelle Storie.
Non si può ovviamente escludere che vi sia stata confusione in
alcune delle fonti franche tra l'invasione ordinata nel 548, e quella franco-alamannica del 553-554, anche a causa della superficiale omonimia
ricavabile tra il comandante della prima, Lanthacharius/Chlotharius, e il
Λεύθαρις/Leutharius, uno dei capi della seconda. Leggiamo cos'aveva scritto il Muratori per molto tempo assai più letto delle dirette fonti originali
(al pari di Edward Gibbon)97, e che prese forse fin troppo partito per Paolo
Diacono, senza motivare la sua scelta: finalmente Leutari, passato con
95 Vd. anche G. Löhlein, Die Alpen- und Italienpolitik, pp. 35, 38 e 44; e PLRE III-B,
s.v. Lanthacarius, p. 765, dove pur indicando che the circumstances are obscure but the
event perhaps occurred early in the Theodebald’s reign, si collocano i fatti possibly in or
near Venetia.
96 Vd. ad es. per il suicidio l'ed. Lidia Capo, pp. 78-79; per la morte per malattia
l'ed. A. Zanella (Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Milano 1991, p. 233 e nota 14).
97 Vd., per fare un solo esempio, G. Pepe, Il Medio Evo Barbarico d'Italia, Torino
1963, pp. 218-219, dove si tocca con mano lo scarso rispetto per l'originale di Agazia,
proposto affrettatamente nella traduzione latina cinquecentesca, di contro all'eccesso di
interesse per la più modesta valutazione muratoriana (vd. spec. ibid., p. 219, nota 1).
39
gran fatica il Pò, condusse la sua gente a Cenesa, allora posseduta da i
Franchi. Così la chiama Agatia. Io la crederei Ceneda, terra della Venezia, se Paolo Diacono nol dicesse ritirato fra Verona e Trento, vicino al
lago di Garda98.
Il fatto è che in realtà Agazia chiama quella località Kéneta, e
non Cénesa: era nel testo dell'edizione del Muratori che stava il problema,
e non era un problema di Agazia, era un problema di Muratori.
Se proviamo a immaginare che l'edizione agaziana tra le mani
del grande antiquario fosse, come tutto lascia intendere, quella di Bonaventura Vulcanius del 159499, ecco che vi troviamo effettivamente la lezione Κενεσὰ (pron. Kenesà, p. 34 del testo greco), da cui la Cenesa di
Muratori. Quella parola proveniva da un primo tentativo di correzione (o
reinterpretazione, o ricollocazione “geografica”): vi si sarebbe dovuto leggere infatti Κενεστά (pron. Kenestá), come riportato unicamente dal codice siglato L = cod. Leidensis ex leg. Vulcani 54 (vd. l’apparato dell'ed. Keydell p. 43, r. 22, con la descrizione del codice, ibid., p. XIII): già Vulcanius, nella traduzione latina – p. 31 delle Notae in calce alla sua stessa edizione del 1594 – scriveva infatti puntualmente: ad Cenestam urbem100. Era
98 Annali d’Italia ed altre Opere Varie di Lodovico Antonio Muratori, Milano 1838,
vol. II (Dall'anno 476 all'anno 997), p. 100. La collocazione nei pressi del Garda era stata accolta – con tutto il suo peso – anche da E. Gibbon, The History of the Decline and
Fall of the Roman Empire, [1781-1788], repr. London 1995, vol. II, chap. xliii, p. 760
(on the banks of the lake Benacus, between Trent and Verona), tr. it., p. 1644. Su questa
Cenesa, o Cenese vd. anche G.B. Da Persico, Descrizione di Verona e della sua Provincia, Parte I, Verona 1820, pp. 249-250 (che identificherebbe però la località con l'attuale
Isola della Scala); Cesano, “vico benacense dell'agro veronese”, lo definisce invece F.
Odorici, Storie Bresciane dai primi tempi sino all'età nostra, Brescia 1853, pp. 160-161.
Ma la questione “Isola della Scala” complica le cose: leggo infatti in un rapporto periodico delle «Notizie degli Scavi di Antichità», marzo 1881, p. 78, che, per accordare Agazia
con Paolo [Diacono], si pensò all'isola Cenense, nome che ricorre in antiche carte veronesi fino al secolo XIII. Tuttavia in tal modo non pare siasi sciolto l'enimma, poiché
come già erasi visto da parecchi..., l'Isola Cenense lungi dall'essere fra Trento e Verona
in riva al Garda, era molto più in basso, identificandosi coll'attuale Isola della Scala. La
questione è che forse, leggendo Paolo Diacono – continuano le «Notizie degli Scavi» –
neppure possiamo pensare a questi Franchi, intendendo cioè gli stessi di Agazia. Come
si vede un bel guazzabuglio.
99 Agathiae Historici & Poëtae eximij, De Imperio et Rebus Gestis Iustiniani Imperatoris Libri Quinque: Graecè nunquam antehac editi ex Bibliothecá & Interpretatione Bonaventuræ Vulcanii. Cum Notis eiusdem, Lugduni Batavorum ex Officina Plantiniana,
MDXCIIII.
100 Scriveva uno storico contemporaneo del Muratori, G.A. Orsi, che Leutari... passato finalmente il Po, fece riposar le sue truppe nel paese de' Veneti presso la città di Cenesta, forse di Ceneda, che era in potere de' Franchi (Della Istoria Ecclesiastica, t. XIX,
Roma 1758, p. 20).
40
ignoto, o negletto, a quel che pare, il più felice – e credibile – Κένετα
(pron. Kéneta) che si ritrova in cinque codici su sette (ancora ed. Keydell,
apparato, p. 43, r. 22; cfr. l’ed. agaziana di Costanza, p. 67, apparato, r. 2).
Purtroppo non erano maturi i tempi per un'edizione critica impostata su
corretti criteri filologici.
È probabile quindi che l’incertezza sulla geografia della morte di
Leutari, e sulla sua localizzazione a Ceneda, dipenda in buona parte, in
origine – banalmente! –, dalla “cattiva qualità” del testo agaziano utilizzato, se anche C.G. Mor, un paio di secoli dopo, sostiene, di Leutari: Agathia lo fa arrivare... nella città di Kenedà (sic), soggetta ai Franchi, salvo
precisare in nota: ho usato l’edizione di Venezia 1750101.
Che sia preferibile la localizzazione offertaci dallo storico longobardo, in luogo di quella dataci dal bizantino, – insisteva altrove C.G.
Mor102 – mi sembra soprattutto per la ragione che la via normale di passaggio verso la Gallia orientale era appunto quella della Val d'Adige,
mentre da Ceneda occorreva fare un lungo giro per arrivare, attraverso il
Bellunese e la Val Sugana, nel Trentino: tanto più che la località un po'
vagamente indicataci da Paolo “presso il lago Benaco” – ancora a esclusivo parere di Mor – si sarebbe potuta identificare con quella collinosa tra
Lazise, Peschiera e Ponton, dove generalmente nel Medio Evo si accampavano gli eserciti imperiali che dalla Germania scendevano in Italia103.
Quindi c'era una sorta di pregiudizio e anche chi aveva a disposizione i testi giusti, e le edizioni giuste, non ha esitato a sposare la notizia
101
Verona medievale, p. 18 (dove precisava in nota, come già ricordato: Leutari, venendo dalla via Adriatica, poté passare il Po sul ponte dell'Annia e dirigersi su Treviso e
Ceneda... successivamente si spostò su Verona, accampandosi fra questa città e il Lago
di Garda). Ma era l'ennesima svista: l'edizione di cui s'era servito era: Agathiae Scholastici… Venetiis. Ex typographia Bartholomaei Javarina M.DCC.XXIX, ricordata correttamente da un’allieva di Mor, G. Cannella, Ricerche su Ceneda nell’Alto Medio Evo (sec.
VI-X), tesi di laurea a.a. 1970-1971, Università di Padova, Facoltà di Lettere e Filosofia –
relatore prof. C.G. Mor, p. 3, che cita appunto l’edizione veneziana pubblicata nel 1729.
102 Verona medievale, p. 18.
103 Ancora Verona medievale, p. 18; vd. V. Cavazzocca Mazzanti, Dove fosse il S.
Daniele degli imperatori. 6° Contributo alla Storia di Lazise, «Nuovo Archivio Veneto»
36, 1918, pp. 181-187. Vd. peraltro, sempre su Lazise, ancora C.G. Mor, Bizantini e Langobardi sul limitare della Laguna, «Antichità Altoadriatiche» 17, 1980, p. 235, n. 8. Su
questa località è tornato più di recente anche F.V. Lombardi, Lo scontro franco bizantino,
p. 62, sempre sulla scorta di Paolo Diacono (ibid., nota 17): la via seguita fu quella del
solco dell'Adige, parallela al Lago di Garda, dove tra Verona e Trento, a “Cenesa”, Léutari morì. Non fornisce, l'autore, alcuna spiegazione per la ricomparsa in tempi recenti di
questa Cenesa, almeno per dare ragione all'incoerenza della propria traduzione italiana,
approntata per il brano di Agazia, e dove, poche pagine prima, aveva traslato correttamente “nella città di Ceneda” (ibid., p. 58).
41
di Paolo Diacono, ed ha avanzato importanti dubbi sulla Ceneda del racconto di Agazia, quasi ci fosse in atto una competizione, e toccasse prender partito: so Leutharis' Abzug nach Norden, sein Ende [“così è per la partenza di Leutari verso il nord sulla sua fine”]: hier sind gewiss Lücken der
Kenntnisse des Autors anzunehmen [“qui sono riscontrabili chiare lacune
della conoscenza dell'autore”]. Auch Ceneta ist mir zweifelhaft, die Stadt
liegt nördlich von Venedig vom Wege nach Norden ab [“anche Ceneta mi
appare sospetta, la città, a settentrione da Venezia, è distante dalla direttrice verso il nord”]104.
Sembra che si sia consolidato anche tra gli storici contemporanei una sorta di pregiudizio geografico contro Agazia e che, per far quadrare a forza il contrasto tra la notizia agaziana e quella – assai più modesta – di Paolo Diacono, si senta il bisogno di precisare, senza timore di
forzare la geografia (e il ridicolo), ad es., che Ceneta (Vittorio Veneto),
named by Agathias, is someway from Lake Garda105 ovvero che Ceneta,
das zwischen Verona und Trient nicht weit vom Gardasee lag106.
Affermare che Ceneda sia vicina al lago di Garda, o stia “tra Verona e Trento”, pare invero un po’ approssimativo, ma tali spunti geografici sono profusi nel tentativo di dare credito aprioristicamente a Paolo Diacono, il quale tuttavia, come si è detto, non nomina affatto Ceneda nel suo
racconto su Leutari107.
104
Come sostiene, in particolare, H. von Schubert, Die Unterwerfung der Alemannen, p. 101 (e 1). Sembra, in alcuni storici, che la sorte degli alamanni prevedesse necessariamente un loro ritorno in patria. Riporto la brevissima sintesi che G. Pepe dedica alla
vicenda qui narrata: si ricordano, conservati Dio sa con quanta esattezza, parecchi nomi
di duchi alamanni come quei Buccellino e Leutari che tra il 553 e il 554 scesero in Italia
e sconfitti dai Bizantini e trucidati dagli Unni (Agatia osa paragonare questa vittoria a
quelle dell'antica Ellade) ripassarono le Alpi, come presi da una pazzia collettiva: ma
non è storia che possa interessare (Il Medioevo Barbarico in Europa, Milano (1949=)
1967, p. 257). A parte il cenno rivolto agli unni, che contiene forse un riferimento frettoloso allo scontro di Fano, mi pare che la frase si giudichi da sé: Agazia non sa quel che
dice (“osa paragonare”!) e quel che dice comunque non interessa; mi pare che questo atteggiamento renda al meglio un certo climax storiografico.
105 PLRE III-B, s.v. Leutharis, p. 790.
106 W. Enßlin, s.v. Leuthari, RE XII. 2, 1924, c. 2315.
107 D'altra parte anche Scipione Maffei (Verona Illustrata, Parte I, Verona 1732, p.
462), dopo aver scritto (testuale): Leutari morì a Ceneda nella Venezia, sente l'urgenza di
precisare: Paolo Diacono però dice più credibilmente che morì tra Verona e Trento: con
un salto logico poco chiaro, e per nulla motivato. Così pure C. Troya (Storia d'Italia del
Medio-Evo, vol. II, parte III, Napoli 1850, p. 1640), dopo aver spiegato piuttosto accuratamente – senza dubbio sulla scorta di Agazia – la vicenda della fuga di Leutari e di aver
collocato la sua morte a Ceneda, nella Venezia, chiude sorprendentemente scrivendo:
ciò avvenne sul lago di Garda, fra Trento e Verona.
42
Per Lellia Cracco Ruggini, Leutari muore di pestilenza fra Verona e Treviso108; più prudentemente generico si mostra A. Lippold: der
[Leutari] dann nach Venetien gelangte, wo er jedoch mit seinen Scharen
an der Pest zugrunde ging109, mentre i fatti si sarebbero potuti svolgere alternativamente tra Verona e Trento, o, secondo Agazia, a Ceneta, nel Veneto orientale, come scrive salomonicamente M. Pavan110.
Sembra opportuno abbandonare questa sterile querelle e, ristabilito – sul piano filologico – il testo agaziano nelle sue edizioni più recenti,
guardare a tale fonte primaria senza mediazioni, preferenze o ipocrisie111.
A mio avviso, infatti, non emergono dubbi seri (né fattuali, né filologici) che depongano diversamente dalla localizzazione in Ceneda, e
nel cenedese, degli eventi narrati dallo storico bizantino, il quale non sarebbe stato in grado neppure di inventarsi tale localizzazione, se non altro
in ragione della modestia della località, senza aver avuto il supporto di informazioni specifiche, sufficientemente precise e dettagliate.
108
109
110
Economia e Società, p. 447.
S.v. Narses 13a, c. 883.
Venanzio Fortunato tra Venetia, Danubio e Gallia Merovingica, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Valdobbiadene, 17
maggio/Treviso 18-19 maggio 1990, Treviso 1993, p. 14.
111 Non pare essere stato notato che, in uno dei codici agaziani, anziché ἐς Κένετα
τὴν πόλιν, fosse riportato, più genericamente ἐς βένεταν (=Vénetan) τὴν πόλιν, qualcosa come verso una città veneta. Si tratta del Vaticanus graecus 152, ed. Keydell, app., p.
43, ad r. 22 (descrizione del codice ibid., Introduzione, p. XIV; cfr. anche l'ed. Costanza,
p. 67, app. r. 2). Nella tradizione manoscritta si rilevano frequentemente errori di tal fatta,
denominati “salti dal simile al simile”: un copista, qui, ignorando l'esistenza di Ceneda e
ipotizzando un errore testuale, ha probabilmente pensato di correggere l'errore che aveva
creduto d'aver trovato, ricorrendo a quanto lui stesso aveva appena trascritto: καταλαβόντες δὲ Βενετίαν (=Venetían) τὴν χώραν.
43
Cap. 3 - Agazia di Mirina fonte storica ed epidemiologica
Il testo agaziano è tratto dall'edizione: Agathiae Myrinaei, Historiarum libri quinque, rec. R. Keydel, pp. 43-44, libro II, 3, 3-8 (trad. italiana di Massimo Gusso)
3. καταλαβόντες δὲ Βενετίαν τὴν 3. Raggiungendo la regione Venetia, si
χώραν ἐς Κένετα τὴν πόλιν κατήκοον accamparono nella città di Ceneda, in
σφῶν ἐν τῷ τότε οὖσαν ηὐλίζοντο, quel tempo sotto il loro controllo. Nonoαὐτοῦ τε τό λοιπὸν ἐν τῷ ἀσφαλεῖ stante la sicurezza del luogo, divennero
διαιτώμενοι ἤσχαλλόν γε ὅμως καὶ furiosi, e cominciò a manifestarsi molto
ἐδυσφόρουν, καὶ πολύ τι ὑπῆρχε evidente il malcontento per la situazioδιαφανὲς τῆς γνώμες τὸ ἀνιώμενον. ne: la ragione stava nel fatto che era riαἴτιον δὲ ἦν, ὅτι δὴ αὐτοῖς ἐλάχιστα masta loro solo la parte più insignificanἐκ τῆς λείας ἐλείπετο καὶ ἐδόκει te del bottino, e che quindi si erano sotἄκαρπα καὶ ἀνόνητα διαπεπονηκέ- toposti invano a tante fatiche. 4. Ma queναι. 4. ἀλλ'οὐ μέχρι τοῦδε μόνον αὐ- sta non fu l'ultima delle loro disgrazie.
τοῖς τὰ τῶν δυστυχημάτων ἐχώρει. Poco tempo dopo, infatti, persero la vita
ὀλίγῳ γὰρ ὕστερον καὶ νόσος τις in massa per lo scoppio improvviso di
λοιμώδης ἔφθειρε τὰ πλήθη ἐξαπι- una malattia contagiosa. 5. E alcuni di
ναίως ἐπεισπεσοῦσα. 5. καὶ οἱ μὲν loro, indicando la cattiva qualità dell'aria
αὐτῶν μοχθηρὸν ἀποκαλοῦντες τὸν che li circondava, giudicavano essere
περικείμενον σφίσιν ἀέρα αἴτιον ἐκεῖ- stata essa la causa di quel morbo; altri
νον τοῦ πάθους γεγενῆσθαι ἡγοῦντο, invece, dopo aver combattuto per molto
οἱ δὲ πολέμους τε συχνοὺς καὶ ὁδοι- tempo e sopportato dure marce, imputaπορίας μακρὰς διανύσαντες ἀθρόον vano il male al cambiamento dello stile
ἐς τὸ ἁβροδίαιτον μετεβέβληντο, τὴν di vita e all'essere stati costretti a impiτῆς διαίτης παραλλαγὴν ᾐτιῶντο· τὴν grirsi. Tuttavia in verità non comprendeδέ γε ὡς ἀληθῶς ἁρχήν τε καὶ ἀνάγκην vano affatto che la vera causa e l'inelutτῆς ξυμφορᾶς οὐ μάλα διενοοῦντο. tabilità della sciagura era, come ritengo,
ἦν δὲ ἄρα οἶμαι ἡ ἀδικία καὶ τὸ la loro malvagità e l'esser state da loro
περιϋβρίσθαι πρὸς αὐτῶν τά τε θεῖα trattate oltraggiosamente e senza risparἀφειδῶς καὶ ἀνθρώπεια νόμιμα. 6. mio le leggi divine e quelle umane. 6. Lo
αὐτὸς δὴ οὖν ὁ στρατηγὸς καὶ μάλα stesso capo costituiva la prova evidente
ἔνδηλος ἦν, ὃτι δὴ αὐτὸν θεήλατοι perché lo colpirono castighi inviati da
μετῆλθον ποιναί. παραπλήξ τε γὰρ ἐ- dio. Infatti aveva preso a comportarsi
γεγόνει καὶ ἐλύττα περιφανῶς, καθά- manifestamente da forsennato e a smaπερ οἱ ἔκφρονες καὶ μεμηνότες, κλό- niare rabbioso, alla maniera dei dementi
νος τε αὐτὸν ἐπεῖχε μυρίος καὶ e dei furiosi. Lo prendevano incessanti
οἱμωγὰς ἀφίει βαρείας· καὶ νῦν μὲν attacchi convulsivi e lanciava di conti-
44
πρηνής, νῦν δὲ καὶ ἐπὶ θάτερα ἐν τῷ
ἐδάφει κατέπιπτεν, ἀφρῷ τε πολλῷ
τὸ στόμα περιερρεῖτο καὶ τὼ ὀφθαλμὼ βλοσυρώ γε ἤστην καὶ παρατετραμμένω. 7. ἐς τοῦτο δὲ ἄρα ὁ
δείλαιος ἀφῖκτο μανίας, ὥστε ἀμέλει
καὶ τῶν οἱκείων μελῶν ἀπογεύσασθαι ἐχόμενος γὰρ ὀδὰξ τῶν βραχιόνων καὶ διαστῶν τὰς σάρκας κατεβίβρωσκέ γε αὐτὰς ὥσπερ διαλιχώμενος τὸν ἰχῶρα. οὕτω δὲ ἑαυτοῦ ἐμπιπλάμενος καὶ κατὰ σμικρὸν ὑποφθινύθων οἰκτρότατα ἀπεβίω. 8. ἔθνησκον δὲ χύδην καὶ οἱ ἄλλοι, οὐδὲν ὅ τι
καὶ ἀνιέντος τοῦ κακοῦ, ἓως ἅπαντες
διεφθάρησαν. καὶ πυρετῷ μὲν οἱ πλεῖστοι πιεζόμενοι νηφαλέοι γε ὅμως
ἀπώλλυντο, ἐνίοις δὲ καὶ ἀποπληξία
ἐνέσκηπτεν ἰσχυρὰ καὶ ἑτέροις καρηβαρία, καὶ παραφροσύνη ἑτέροις·
ποικίλα μὲν γὰρ αὐτοῖς ἐπεφέρετο
πάθη, ἅπαντα δὲ εἰς ὄλεθρον ἀπεκρίνετο. Λευθαρίῳ μὲν οὖν καὶ τῷ ἑπομένῳ ὁμίλῳ ἐς τόδε τύχης τὰ ἐκοστατείας ἐτελεύτα.
nuo strepiti lamentosi; ora cadeva prostrato bocconi a terra, ora supino e gran
quantità di schiuma gli sgorgava attorno
alla bocca ed entrambi gli occhi apparivano decisamente gonfi e innaturalmente
deviati. 7. In un parossismo di folle furia, l'infelice cominciò addirittura a divorare le sue stesse membra mordendosi le
braccia, lacerando, divorando le carni e,
come un animale selvaggio, leccando il
sangue che ne usciva. E così, pascendosi
della sua stessa carne, un po' per volta si
consumò e perì della morte più penosa.
8. Gli altri pure morirono a caterve e il
morbo continuò a infuriare fin che tutti
giacquero senza vita. La maggior parte
di loro, benché tormentati dalla febbre,
rimasero lucidi fino alla fine. Alcuni furono colpiti da una sorta di paralisi, altri
caddero in deliquio, altri ancora morirono in delirio. Assai variegate le malattie
che li colpirono, ma tutte li condussero
alla morte. Questo pertanto fu la disastrosa sorte della spedizione di Leutari e
dei suoi uomini.
Questo testo costituisce una delle tante digressioni che Agazia ha
disseminato nelle Storie, per trarne considerazioni moralistiche o dare giudizi112. Esse vengono inserite subito dopo aver descritto i soggetti che lo
storico intende giudicare: for instance, the description of the plague
which destroys Leutharis and his men (II, 3.4-8) marks the change in the
fortune of the Franks. Previously in the narrative the Franks were doing
well, but after this digression those Franks non killed in the plague are
destroyed by Narses and his army113. Sulle parole che Agazia dedica all'episodio – come vedremo – ci sarà davvero molto da dire.
Cerchiamo intanto di immaginare Ceneta, sotto l'effimero dominio dei franchi: un piccolo centro dotato di una rocca (Paolo Diacono definirà infatti la località castrum114) e, tutt'intorno – come già ricordato –
112 Si pensi, per fare un esempio assai concreto sulle dimensioni del fenomeno, che
nel II libro, a fronte di una narrazione di 640 linee di testo, si contano digressioni per 693
linee; vd. Sarah Gador-Whyte, Digressions in the Histories of Agathias Scholasticus,
«Journal of the Australian Early Medieval Association» 3, 2007, p. 157 (Appendix Two).
113 Sarah Gador-Whyte, Digressions in the Histories of Agathias, p. 143.
114 Hist. Lang., II, 13 (ed. Lidia Capo, p. 90): cenitense castrum.
45
qualcosa di simile a un'ampia area trincerata (o trincerabile), protetta per
di più da ostacoli naturali, boschi e paludi, e che poteva quindi offrire
adeguate garanzie di sicurezza; il castrum cenedese e il suo hinterland
erano, insomma, un insediamento strategico115, e costituivano senz'altro
un'area interessante dal punto di vista della difesa militare.
Cominciamo a rileggere e commentare, paragrafo per paragrafo:
3. καταλαβόντες δὲ Βενετίαν τὴν 3. Raggiungendo la regione Venetia, si
χώραν ἐς Κένετα τὴν πόλιν κατήκοον accamparono nella città di Ceneda, in
σφῶν ἐν τῷ τότε οὖσαν ηὐλίζοντο, quel tempo sotto il loro controllo116.
αὐτοῦ τε τό λοιπὸν ἐν τῷ ἀσφαλεῖ Nonostante la sicurezza del luogo, diδιαιτώμενοι ἤσχαλλόν γε ὅμως καὶ vennero furiosi, e cominciò a manifeἐδυσφόρουν, καὶ πολύ τι ὑπῆρχε δια- starsi molto evidente il malcontento
φανὲς τῆς γνώμες τὸ ἀνιώμενον. per la situazione: la ragione stava nel
αἴτιον δὲ ἦν, ὅτι δὴ αὐτοῖς ἐλάχιστα fatto che era rimasta loro solo la parte
ἐκ τῆς λείας ἐλείπετο καὶ ἐδόκει più insignificante del bottino, e che
ἄκαρπα καὶ ἀνόνητα διαπεπονηκέναι. quindi si erano sottoposti invano a tante fatiche.
Ci si sarebbe aspettato un accusativo ἐς Κένεταν τὴν πόλιν;
quella Κένετα, testimoniata tuttavia in cinque codici su sette, fa pensare ad
un Ceneta, letto da Agazia (più facilmente, sentito dire) in latino, al nominativo, e semplicemente traslitterato come indeclinabile.
Il bel latino che si legge in calce all'edizione del Niebhur così
traduce il passo: Cum vero in ditionem Venetam venissent, ad Cenetam
urbem per id tempus ipsis subditam stationem habuerunt, ibi deinceps, in
tuto commoraturi117. L'edizione agaziana curata da Costanza ha addirittura
ritenuto di proporre l'accusativo Κένεταν118.
I fuggiaschi di Leutari, guerrieri che il panico e la rotta avevano
duramente provato, si ritrovarono quindi ammassati in un'area non particolarmente estesa che offriva ben poco: non è difficile immaginare il torbido clima di violenza e le intemperanze che la situazione contingente
115
116
Vd. G. Tonon, Tra Cansiglio e Val Lapisina, p. 19.
Agazia, come ho già rammentato (nota 23), non distingue, in questo frangente, tra
franchi e alamanni, i secondi sentiti come longa manus dei primi. Vd. anche J.B. Bury,
History, II, p. 278: at the Venetian town of Ceneta, where he took up his quarters to rest e
PLRE III-B, s.v. Leutharis, p. 790: crossing the Po into Venetia, he made camp at
Ceneta, a town in Frankish possession.
117 A p. 69: questa edizione si serve della traduzione del Vulcanius, ma quando è necessario non si fa scrupolo di correggerla: qui abbiamo appunto un ad Cenetam urbem, al
posto dell'originale cinquecentesco ad Cenestam urbem, già ricordato in precedenza.
118 A p. 67, apparato, con specifico richiamo alla traduzione latina rinascimentale di
Cristoforo Persona (vd. qui la prossima nota 129).
46
aveva drammaticamente introdotto nel piccolo territorio.
Nonostante il rifugio sicuro, il morale degli uomini di Leutari
precipitò in manifestazioni di cupa prostrazione119.
Se il loro esplicito disappunto li spinse a sregolatezze, dando
fondo alle (probabilmente ormai scarse) risorse alimentari della zona, gli
eccessi furono seguiti da estrema inerzia120: quanti erano gli ingombranti
“nuovi arrivati” a Ceneda?
Abbiamo già parlato in precedenza di numeri, senza poter fornire
una risposta certa: si può solo proporre un'ipotesi, ad es. di 15.000 guerrieri, per l'intero corpo di spedizione di Leutari e Butilino, anziché di
75.000 (si sarebbe comunque su una cifra importante); assegnarne poi
10.000 a Butilino e 5.000 a Leutari.
Alla fine Butilino avrebbe potuto ricevere un congruo rinforzo di
goti sbandati, tale da presentarsi allo scontro conclusivo con Narsete con
un effettivo non troppo distante dai 18.000 uomini accreditati ai bizantini.
Rimane solo da chiedersi quanti dei 5.000 di Leutari siano arrivati, al suo
seguito, ἐς Κένετα τὴν πόλιν, sopravvivendo a insidie, incidenti, scontri
con i bizantini, malattie e stravizi?
A mio avviso, non più di un migliaio, al massimo un paio di migliaia: questo è l'ordine di grandezza sul quale azzarderei una stima per
gli alamanni confluiti a Ceneda, anche per giustificare, da un lato, un loro
efficace presidio dell'area controllata, indicata in precedenza (ho già detto
come si possa ritenere che la guarnigione stanziale franca occupasse di
già il complesso della rocca cenedese propriamente detta) e, dall'altro, per
dare credito all'occhiuta osservazione che dovette essere esercitata da pattuglie di esploratori e spie bizantine, che non avrebbero avuto ragione di
stare particolarmente all'erta qualora l'organico avversario fosse stato al
di sotto di una soglia di pericolosità, soprattutto se non fosse stato tale da
consentirgli di poter tornare in combattimento secondo le intenzioni originarie di Leutari121.
119 J.B. Bury,
120 Aveva già
History, II, p. 278 descrive Leutari safe but dispirited.
scritto Tacito, agli albori dell'osservazione antropologica sui popoli germanici, che, quotiens bella non ineunt, non multum venatibus, plus per otium transigunt,
dediti somno ciboque, fortissimus quisque ac bellicosissimus nihil agens “quando non
vanno in guerra, trascorrono il tempo più nell'ozio che nella caccia, occupati a dormire e
a mangiare, mentre i più forti e i più bellicosi se ne stanno a far nulla” (Germania, 15, tr.
it. Bianca Ceva, Milano 1952, p. 66).
121 È Agath. I, 14, 4, p. 27; tr. ingl., p. 22; ad informarci sulla utilizzazione da parte
dei bizantini di “spie” (κατάσκοποι, pronunzia: katáskopoi) a supporto delle operazioni
militari, eredi forse degli exploratores e degli speculatores delle forze romane tardoimperiali (su cui vd. ad es. Ammiano Marcellino 31, 16, 2 e Vegezio, Epitoma Rei militaris,
III 6, 10 (tr. it., Milano 2003, p. 211).
47
In ogni caso si trattò di un numero tale da alterare in modo brusco e significativo il rapporto tra popolazione e capacità del territorio di
sostenerla, soprattutto dal punto di vista alimentare ed igienico.
Ma torniamo ad Agazia:
4. ἀλλ'οὐ μέχρι τοῦδε μόνον αὐτοῖς τὰ
τῶν δυστυχημάτων ἐχώρει. ὀλίγῳ
γὰρ ὕστερον καὶ νόσος τις λοιμώδης
ἔφθειρε τὰ πλήθη ἐξαπιναίως ἐπεισπεσοῦσα.
4. Ma questa [la delusione per la perdita del bottino] non fu l'ultima delle
loro disgrazie. Poco tempo dopo, infatti, persero la vita in gran numero
per lo scoppio improvviso di una malattia contagiosa.
Potrebbe forse essere stato l’improvviso aumento della popolazione nell'area cenedese a favorire lo scoppio della forma morbosa che qui
indaghiamo, con manifestazioni diverse e tutte senz'altro virulente.
La concentrazione degli alamanni in Ceneda, τὰ πλήθη (pron. tà
plḗthē), com'è definita da Agazia con una espressione indeterminata, ma
significativa (“la maggior parte di coloro che soccombettero al morbo”),
ne sarebbe stata presto provata: si trattava quasi certamente solo dei guerrieri superstiti di Leutari, rifugiatisi nell'area controllata dal castrum, e
non dei franchi che già lo presidiavano – la guarnigione stanziale, di cui si
è detto – né dei civili residenti o sfollati. È difficile – e inutile – cercare di
percentualizzare, in via di stima, i gruppi umani rapportandoli all'indistinto totale della parola πλήθη122: solo i nuovi arrivati si ammalarono.
Questi sono i termini con cui si apre il racconto più specificatamente dedicato alla diffusione ed alle conseguenze del morbo, che ho reso
con “malattia contagiosa”, ma che – come vedremo in seguito – si potrebbe rendere altrettanto bene con “epidemia”123 ma anche – lo vedremo –
con “infezioni individuali diffuse”.
Il presente lavoro ha appunto lo scopo di esaminare l'epidemiologia di tale affezione nel contesto cenedese, nella consapevolezza che esistono malattie che colpiscono una pluralità di persone e non per questo discendono necessariamente dal medesimo focolaio infettivo.
Credo di poter affermare che i due primi paragrafi (3 e 4) costituiscono il primo nucleo delle informazioni che Agazia aveva ricevuto dai
suoi informatori sulla vicenda cenedese (in buona sostanza: il tumultuoso
rifugio nella cittadina e il preannuncio della malattia che avrebbe imper122
Anche “concentrazione umana”: non era necessario che il numero fosse troppo
grande per usare quell'espressione, come mostrano R. Roncali-C. Zagaria, Lessico politico – πλήθος, «Quaderni di Storia» 12, 1980, pp. 213-221, spec. p. 220.
123 Come fa G. Ravegnani, I Bizantini in Italia, p. 60.
48
versato sul contingente, decimandolo).
Ciò che segue (ai paragrafi 5-8), pur essendo corredato da una
terminologia “tecnica” che richiama un tipo di informazione piuttosto specifica, è stato probabilmente ritoccato, rivisto e rielaborato da Agazia per
dare sostanza alla sua tendenza a moralizzare le vicende, e ad “abbellirle”
con strumenti letterari: Agathias is all too ready to adorn and elaborate;
when his sources are inadequate he does so all too the more124. Vorrei far
notare che inizialmente non si fa distinzione tra la malattia dei guerrieri e
quella del loro comandante: il morbo appare unico, nelle parole di Agazia
e quindi forse anche in quelle del suo informatore: solo più avanti apparirà, in qualche modo “sdoppiato”, come avremo modo di vedere.
Lo storico bizantino adopera, per definire il morbo, l'espressione
νόσος τις λοιμώδης (pronunzia: nósos tis loimṓdēs) che è stata spesso
(ed è ancora) affrettatamente intesa nel senso di “peste”, termine che per
noi non può che riferirsi ad una affezione dal significato clinico specifico.
Si tratta, in ogni caso, quasi delle stesse parole di cui Agazia si
serve, più avanti nel suo lavoro, per descrivere lo scoppio a Costantinopoli – lì sì effettivamente – di un'epidemia di peste bubbonica nel 558, quattordici anni dopo la vicenda cenedese, quando scriverà, con cognizione di
causa: ἡ λοιμώδης νόσος (pronunzia: hē loimṓdēs nósos).
Ho detto: quasi le stesse parole, perché mentre νόσος τις
λοιμώδης significa “una malattia contagiosa”125; ἡ λοιμώδης νόσος significa invece proprio “la malattia contagiosa (per eccellenza, in quei
tempi)”, cioè “la peste”. E sono le stesse parole che usò Tucidide – mille
anni prima! – quando, elencata una serie di segni naturali infausti, accenna per la prima volta a quella che passerà alla storia come “la peste di
Atene” del 430 a.C.: e nemmeno di peste si trattò, allora, ma Agazia non
lo poteva certo sapere. Questa però è un'altra storia, e penso che Agazia
forse non sia nemmeno stato consapevole di aver citato ad verbum il più
124 Averil Cameron, Agathias, p. 42; vd. Begoña Ortega Villaro, Some Characteristics of the Works of Agathias: Morality and Satire, «Acta Antiqua» 50, 2010, pp. 267-287
(sull'episodio di Leutari, p. 270). Concordo tuttavia, in linea di massima, con l'osservazione di A. Maiuri, il quale, parlando di Agazia, riteneva che certa sua preziosità e ricercatezza di linguaggio, e certa coloritura epica che gli venivano dalla sua educazione di
retore e di poeta, non inficino la concreta esattezza della sua diligente informazione di
storico (vd. L'assedio di Narsete a Cuma, 1949, in Id., Saggi di varia antichità, Venezia
1954, spec. p. 162).
125 Ho in mente i νόσοι τε λοιμώδεις, al plurale, che Giovanni Lido riportava quale
esito di un sisma e che chiaramente non vanno intese come pestilenze di massa, ma come
“gravi malattie contagiose” (De ostentis 56, tr. it., p. 114).
49
classico degli storici ellenici126, anche se, quando ricorda la descrizione
procopiana del 541-542, Agazia (praef., 28, p. 8; tr. ingl. p. 7) con riferimento a Procopio, Bell. Pers. 2, 22-23, tr. it. pp. 151-157, usa un'espressione più corrente, al genitivo: τοῦ μεγίστου λοιμοῦ (pronunzia: tũ meghístu loimũ)127.
Facciamoci aiutare a comprendere il senso delle parole agaziane
sul morbo di Ceneda, osservando alcuni traduttori all'opera sul passo che
parla dello scoppio della malattia128.
C. Persona, 1516 tr. latina: nam & paulo post pestilens morbus
de repente cum hos inuasisset multitudinem absumebat129; B. Vulcanius,
1594 tr. latina: Paulo enim post, pestilens quidam morbus repente incidens multitudinem absumit130; H. Grotius, 1655 tr. latina: Nam mox orta
lues pestifera multitudinem depascitur131; L. Cousin, 1671 tr. francese: Ils
furent attaquez d'une maladie contagieuse qui s'éleva tout a coup132; poi,
venendo all'epoca moderna: E. Cougny, 1886 tr. francese: Car, peu après,
une maladie pestilentielle s'abat-tant tout à coup sur eux, en déstruisit une
multitude133; B. von Hagen, 1940 tr. tedesca: Etwas später stürzte sich
126
Averil Cameron rileva infatti che il racconto di Agazia, in questo caso, è free of
Thucydidean imitation (Agathias, p. 62; vd. anche Ead., Herodotus and Thucydides in
Agathias, «Byzantinische Zeitschrift» 57, 1, 1964, p. 50 e p. 51, ove anzi si rileva che he
seems to have overlooked, or rejected, the chance of imitation).
127 Su Procopio Agathias' main model, a proposito della descrizione della peste, vd.
ancora Begoña Ortega Villaro, Some Characteristics, p. 272.
128 Non risulta una traduzione italiana delle Storie di Agazia, salvo che per qualche
brano del V libro in U. Albini-E.V. Maltese (curr.), Bisanzio nella sua Letteratura, Milano 1984, pp. 131-156, tr. it. di F. Conca (si tratta di V, 3-13 e 17-22).
129 Agathyus (sic) De Bello Gotthorum Et aliis Peregrinis Historiis Per Christophorum Persona Romanum Priorem Sanctae Balbinae e Graeco in Latinum traductus. Cum
solito Privilegio Pontificio, Impressum Romæ apud Iacobum Mazochium Romanæ Academiæ Bibliopo. Anno MDXVI. Leone X Pontifice Maximo anno eius tertio (p. 33).
130 Ho già detto che la citata traduzione latina pubblicata nell'edizione del Niebhur
(ibid., p. 69) risale all'ed. curata da Bonaventura Vulcanius, Lugduni Batavorum, 1594 i
cui estremi sono citati per esteso nella nota 99.
131 Historia Gotthorum, Vandalorum & Langobardorum, ab Hugone Grotio partim
versa, partim in ordinem digesta, Amstelodami, apud Ludovicum Elzevirium MDCLV
(p. 558).
132 Œuvres de Procope de Césarée. Seconde Partie, contenent l’Histoire Mélée,
L’Histoire Secréte et les Six Livres des Edifices avec l’Histoire de l’Empereur Justinian
écrite par Agathias in: Histoire de Constantinople Depuis le régne de l’Ancien Justin, jusqu’à la fin de l’Empire, traduite sur les Originaux Grecs par Mr. Cousin, Président en la
Cour des Monnoyes – Tome II., Paris, en la Boutique de Pierre Rocolet, chez Damien
Foucault, MDCLXXI (p. 537).
133 In ΓΑΛΛΙΚΩΝ ΣΥΓΓΡΑΦΕΙΣ ΕΛΛΗΝΙΚΟΙ. Extraits des Auteurs Grecs concernant la
Géographie et l'Histoire des Gaules, texte et trad. nouvelle par Edm. Cougny, Paris 1886,
50
plötzlich eine Seuche (seuchenartige Krankheit) auf die Menge und vernichtete sie134; M.V. Levčenko, 1953 tr. russa: Однако этим не закончились
их несчастья. Немного спустя вспыхнувшая болезнь – чума – истребила
множество [людей] (= poco dopo scoppiò una malattia – peste – e spazzò
via moltissimi uomini)135; J. D. Frendo, 1975 tr. inglese: Not long after,
they were decimated by a sudden outbreak of plague136; J. Rosenblum,
1981 tr. francese: un peu plus tard, une maladie épidémique fondit sur eux
et emporta un très grand nombre de gens137; P. Miraval, 2007 tr. francese:
Car, peu après la maladie de la peste, fondant subitement sur eux, en fit
périr un grand nombre138; Ortega Villaro, 2008 tr. spagnola: poco después
una repentina plaga cayó sobre ellos y mató a la mayoría139.
Osserviamo che già le più vecchie traduzioni latine, nella loro essenzialità, si guardano bene dal tradurre seccamente “peste”, e preferiscono pestilens quidam morbus (Vulcanius), che rende perfettamente la lettera il greco agaziano: una malattia contagiosa, o le varianti pestilens morbus e lues pestifera140. La prima traduzione francese parla di une maladie
contagieuse, confermando la medesima linea, così come la seconda e la
terza, quest'ultima: une maladie épidémique.
Anche la traduzione spagnola non parla di peste, quanto piuttosto
di malattia, di calamità (plaga). L'articolata traduzione tedesca propone
un doveroso inserto integrativo, in pratica suggerisce: poco tempo dopo
scoppiò improvvisa eine Seuche, una epidemia (meglio, una seuchenartit. V, p. 451.
134 In B. von Hagen, Lyssa. Eine medizingeschichtliche Interpretation, Jena 1940, p.
8. Vd. L. Schmidt, Die Letzten Ostgoten, pp. 6-7: nach Venetien... wo Seuchen fast die
ganze Mannschaft und den Führer dahinrafften.
135Агафий Миринейский. О царствовании Юстиниана. Пер., ст. и примеч. М.В.
Левченко. М.-Л.: Изд-во АН. 1953; edizione INTERNET: Текст воспроизведен по
изданию: Агафий Миринейский. О царствовании Юстиниана, Арктос, Вика-пресс,
1996, consultabile nel sito: http://myriobiblion.byzantion.ru/Just.htm. Una lode alla “profonda indagine” che accompagna la traduzione russa di Agazia curata da Levčenko in G.
Ostrogorsky, Storia dell'Impero Bizantino, p. 74.
136 Nel già citato Agathias, The Histories, cur. J.D. Frendo, p. 34.
137 Jacqueline Rosenblum, in J. Théodoridès, Quelle était la maladie décrite par
l'historien Agathias (VIe siècle A.D.)?, «Histoire des Sciences Médicales» 15, 1981, 153158 (p. 154); traduzione di quel solo brano, per il saggio citato.
138 È l'edizione delle Belles Lettres a cura di Pierre Maraval, Agathias, Histoires.
Guerres et Malheurs du temps sous Justinien, Paris 2007, p. 77.
139 Ed. Begoña Ortega Villaro (cur.), Agatías, Historias, Madrid 2008, p. 138.
140 Della traduzione groziana di Agazia (lues pestifera) si servì P. Pavirani, nella sua
Storia del Regno dei Goti in Italia, vol. II, Faenza 1817, p. 747 (la descrizione accurata
della fine di Leutari e dei suoi alle pp. 747-748).
51
ge Krankheit, una malattia contagiosa) tra la massa e la sterminò; poco sopra von Hagen aveva ribadito il concetto: eine furchtbare seuchenartige
Krankheit (νόσος λοιμώδης) brach aus141.
Paradossalmente proprio le traduzioni più recenti, quella inglese,
quella russa e la quarta francese presentano invece soluzioni più banali: in
sostanza scelgono una volutamente imprecisa denominazione di peste per
l'improvviso morbo cenedese (es. l'inglese: a sudden outbreak of plague,
concisione a scapito della precisione142), infatti vedremo che non si rinverrà alcun indizio che identifichi per certo quella malattia come peste, anche
se troppo spesso, nel passato ma anche nel vicino presente, s'è dato acriticamente credito ad una presunta peste cenedese e così la si è presentata143.
Agazia ci parla innanzi tutto di un morbo (νόσος τις) poi (§ 8)
sembra dire che variegate furono le malattie che colpirono gli alamanni,
tutte però con esito mortale: forse dovremmo intendere l'apparente contraddizione dicendo che diverse furono le modalità con le quali la malattia
colpì, tutte però mortali.
Lo storico ce ne parla a partire dalle opinioni che divisero gli
stessi invasori, costretti ad una sorta di cattività forzata nel ridotto cenedese; troveremo anche un evidente richiamo alla cosiddetta “teoria miasmatica” (per la quale la causa delle malattie stava nell'aria, ed era cioè l'aria,
buona o cattiva, a determinare la salute di uomini e animali), anche se il
nostro storico, è qui propenso a suggerire che la malattia si dovesse interpretare come la manifestazione ‘fisica’ di una punizione soprannaturale,
in ragione delle turpi violazioni delle leggi umane e divine perpetrate dai
141
B. von Hagen, Lyssa, p. 7. Vd. anche R. Herzog, Malaria und Tollwut. Zur
Deutung antiker Seuchenberichte, «Das Gymnasium» 53, 1942, pp. 140-147 (p. 141) e
D.Ch. Stathakopoulos, Die Terminologie der Pest in byzantinischen Quellen, «Jahrbuch
der österreichischen Byzantinistik» 48, 1998, pp. 1-7.
142 Non outbreak of a plague che sarebbe stato corretto come si legge, ad es. in B.S.
Bachrach, Merovingian Military Organization, Minneapolis 1972, p. 27 scriveva:
Leutharis's troops... camped at Ceneta where a plague broke out killing many of the invaders, including their commander. In questo caso l'indicazione “a plague” vale correttamente per “un'epidemia”, una “malattia contagiosa”. A proposito della traduzione agaziana di Frendo è stato scritto: il me semble que trop souvent on a affaire à une paraphrase
plutôt qu'à une traduction (A. Failler, recensione di Agathias, The Histories, cur. J.D.
Frendo, Berlin-New York 1975, in «Revue des Études Byzantines» 36, 1, 1978, p. 279).
143 Ho citato poco sopra una studiosa australiana che insiste appunto col termine plague (nel senso di “peste”) per il morbo che colpì gli alamanni; vd. Sarah Gador-Whyte,
Digressions in the Histories of Agathias, p. 143. Ma anche il vecchio lavoro di P. Rossi,
Storia d'Italia. Dalle invasioni barbariche ai Comuni, 476-1500, Roma 1960, pp. 47-48
reca, ad es., vennero colti dalla peste... e Leutari morì di peste a Ceneda.
52
barbari pagani durante la loro incursione144:
5. καὶ οἱ μὲν αὐτῶν μοχθηρὸν ἀποκαλοῦντες τὸν περικείμενον σφίσιν ἀέρα
αἴτιον ἐκεῖνον τοῦ πάθους γεγενῆσθαι
ἡγοῦντο, οἱ δὲ πολέμους τε συχνοὺς
καὶ ὁδοιπορίας μακρὰς διανύσαντες
ἀθρόον ἐς τὸ ἁβροδίαιτον μετεβέβληντο, τὴν τῆς διαίτης παραλλαγὴν ᾐτιῶντο· τὴν δέ γε ὡς ἀληθῶς ἁρχήν τε
καὶ ἀνάγκην τῆς ξυμφορᾶς οὐ μάλα
διενοοῦντο. ἦν δὲ ἄρα οἶμαι ἡ ἀδικία
καὶ τὸ περιϋβρίσθαι πρὸς αὐτῶν τά
τε θεῖα ἀφειδῶς καὶ ἀνθρώπεια
νόμιμα.
5. E alcuni di loro, indicando la cattiva
qualità dell'aria che li circondava, giudicavano essere stata essa la causa di quel
morbo145; altri invece, dopo aver combattuto per molto tempo e sopportato
dure marce, imputavano il male al
cambiamento dello stile di vita e all'essere stati costretti a impigrirsi. Tuttavia
in verità non comprendevano affatto
che la vera causa e l'ineluttabilità della
sciagura era, come ritengo, la loro malvagità e l'esser state da loro trattate oltraggiosamente e senza risparmio le
leggi divine e quelle umane.
Non possiamo non sentire, in questa sorta di “dibattito” apertosi
tra gli alamanni, la traccia delle informazioni arrivate alle spie bizantine.
Comunque, nel riportare il parere di chi tra gli alamanni riteneva
la malattia legata alle condizioni ambientali, in particolare dell'aria, Agazia scrive μοχθηρόν... ἀέρα αἴτιον ἐκεῖνον τοῦ πάθους, letteralmente
“l'insalubre... aria causa di quel morbo”146, ma ἀέρα, pron. aéra – nominativo ἀήρ, pron. aḗr – significa “aria greve”, ma anche foschia, nebbia,
contrapposti a αἰθήρ pron. aithḗr, “aria alta” (da cui deriva il nostro “etere”): il termine indica quindi un'aria di per sé corrotta, mefitica147. D'altronde, in latino, pestis, forse da un radicale affine a peior, sta per “malat144
Quae profecto erat iniustitia, et divina pariter humana iura ab ipsis proculcata, si
legge nella trad. latina dall'ed. di Niebhur (p. 69). Si tratta, a parere di Averil Cameron,
Agathias, p. 45, dell'inevitabile disaster that comes as a result of wickedness; in questo
senso l'ultimo passaggio di Agazia viene così tradotto (ibid., p. 54): the real reason [for
the plague (sic) which attacked Leutharis' army] was wickedness and their relentless
outrages against divine and human law.
145 Traduceva così R. Herzog (Malaria und Tollwut, p. 141): die einen von ihnen
klagten die sie umgebende Luft als schlecht an und meinten sie wäre die Ursache jenes
Leidens.
146 Ambientis aëris pravitatem incusabant, causam morbi, si legge ancora nella traduzione latina offerta dall'edizione Niebhur (p. 69). Traduce P. Maraval, les uns
déclaraient que l'air environnant é tait nuisible et pensaient que c'était lui la cause de la
maladie (in Agathias, Histoires, p. 77).
147 Rinvio a due espressioni che adopera Giovanni Lido, a proposito dell'aria mefitica, λοιμικὸν καὶ νοσῶδες ἐπὶ πᾶσι τὸ τοῦ ἀέρος κατάστημα e λοιμικὸς ἀήρ (De
ostentis 34 e 35, tr. it., p. 93).
53
tia contagiosa” ma anche, estensivamente, per “aria malsana” (=mal'aria,
malaria) e “clima insalubre”. Era noto, già in Ippocrate, l'interesse per
“l'influsso dell'ambiente” sulle condizioni di salute dell'uomo: forse in
questo caso Agazia aveva voluto indicare una combinazione di elementi, e
magari dietro quell'aria greve si deve leggere un contesto di “stasi di venti” e di alte concentrazioni di umidità148.
Non siamo certi di quale stagione stiamo parlando – la cronologia infatti è piuttosto vaga – ma si coglie un chiaro sviluppo temporale, di
molte settimane o di mesi, nella vicenda: la fuga, dopo il rovescio di Fano,
il non agevole passaggio del Po, quindi il ripiegamento attraverso l'Aemilia e la Venetia, fino a Ceneda, sono da collocarsi nell'estate del 554,
quando il rischio d'essere inseguiti dagli imperiali era potenzialmente ancora alto, poi però la permanenza forzata in condizioni promiscue e insalubri si protrasse fin verso l'autunno, quando infine scoppiò il contagio, o
una grave malattia149.
Ippocrate ricorda che in determinate condizioni di ventosità o di
umidità gli uomini possono essere colpiti da dissenteria, diarrea, e febbri
con brividi150, ma quel che sta a cuore ad Agazia è il riferimento alla violazione delle leggi divine diretto agli alamanni. Vorrei richiamare l'attenzione sul verbo usato da Agazia, περιϋβρίσθαι (pron. periÿbrísthai), “tratto indegnamente, oltraggio”, che contiene un termine fondamentale nel
lessico morale dei greci, ὕβρις (pron. hýbris), difficilmente traducibile,
che indica tracotanza, insolenza senza freni, disprezzo per uomini e dèi.
Insomma, Agazia, at the more basic level of historical causation
utilized the Herodotean ὕβρις–νέμεσις correlation and gave it a Christian significance151, usa cioè la correlazione erodotea violazione-vendetta al
148
149
Rinvio a Ippocrate, Opere (a cura di G. Lanata), Torino 1968, pp. 25-29.
Di autunno parla espressamente D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence in
the Late Roman and Early Byzantine Empire: a Systematic Survey of Subsistence Crises
and Epidemics, Birmingham Byzantine and Ottoman Monographs, 9, Ashgate, Farnham
2004, pp. 100 e 302.
150 Vd. Ippocrate, Opere, pp. 60-61; ibid., p. 65 per le esalazioni prodotte dalle acque
dannose, palustri e stagnanti e acquitrinose, che in estate sono inevitabilmente calde e
dense e maleodoranti, perché non defluiscono. Degna di nota, ma isolata, la credenza antica relativa ad una sorta di “contagio animale” (quasi microbico) proveniente dalle paludi, e inoculato attraverso le prime vie aeree; cito Varrone, De re rustica, I, 12, 2: erunt
loca palustria, et propter easdem causas, et quod crescunt animalia quaedam minuta,
quae non possunt oculi consequi, et per aera intus in corpus per os et nares perveniunt
atque efficiunt difficiles morbos. L'intuizione varroniana non venne ripresa da altri studiosi, essendo il “pensiero scientifico” dell'epoca (e per molti secoli a venire) legato alla
teoria dei “miasmi” (vd. M. La Placa, Virus e batteri, Bologna 2011, pp. 10 e 16).
151 Averil Cameron, Agathias, p. 108: in all probability he did not do so consciously.
54
più basso livello dell'individuazione storica causa-effetto, assegnandole
un significato cristiano. By making the ὕβρις concept a firmly moral one
he was able to use it to present a recognizably Christian picture of God
intervening on behalf of the good and punishing the wicked152, cioè, per
fare di ὕβρις un concetto morale, immagina un dio cristiano impegnato a
fianco dei buoni e intento a punire i malvagi per i loro peccati, magari affliggendoli con una grave malattia153.
Il disastro per Agazia era ascrivibile primariamente al peccato
degli alamanni, and the sin he has in mind is the plundering of churches
in Italy154, perché quei guerrieri, nel corso dell'incursione lungo la penisola, si sarebbero comportati (anche se è arduo crederlo) diversamente dai
franchi (cioè con maggiore malvagità e in spregio ai luoghi sacri)155:
7. τὸ δὲ Ἀλαμανικὸν ἅπαν (ἕτερα γὰρ ἐκείνοις ἐς τοῦτο δοκεῖ)
ἐδῄουν τοὺς νεὼς ἀφειδῶς καὶ ἀπηγλάϊζον156· πολλὰς μὲν γὰρ
κάλπεις ἱεράς, πολλὰ δὲ περιρραντήρια πάγχρυσα, συχνὰ δὲ κύπελλα
καὶ κανᾶ καὶ ὅσα ταῖς μυστικαῖς ἁγιστείαις ἀνεῖται, ταῦτα δὲ
ἀφαιρούμενοι ἅπαντα οἰκεῖα κτήματα ἐποιοῦντο [al contrario tutti gli
alamanni (infatti si distinguono da loro [i franchi]); saccheggiarono molte chiese lasciandole nel più completo abbandono, trafugarono i loro arredi preziosi. Rimossero e si appropriarono per uso profano di un gran
numero di acquasantiere, incensieri d'oro massiccio, calici, patene e ogni
altro oggetto utilizzato per la celebrazione dei sacri riti157].
152 Ancora Averil
Cameron, Agathias, p. 108.
Come è stato ben spiegato, although in the New Testament, Christ does not
present disease as necessary result of a sin, the Christian interpretation of disease established and stressed categorically exactly this relation (D.[Ch.] Stathakopoulos, Crime
and Punishment. The Plague in the Byzantine Empire, 541-749, in L. K. Little (ed.), Plague, p. 106).
154 Averil Cameron, Agathias, p. 54.
155 Agath. II, 1, 7-9, p. 41; tr. ingl., pp. 32-33; vd. Averil Cameron, Agathias, p. 54 (as
Agathias optimistically supposes, i franchi showed great respect for the churches in Italy).
156 Agazia fa sfoggio qui di un verbo, piuttosto raro e raffinato, ἀπαγλάϊζω, “spoglio dagli ornamenti”, che registra pochissime attestazioni, come tra l'altro ben spiega F.
Conca, Note sull'impiego del linguaggio poetico, p. 131.
157 Entre otros, la cruz, la patena, la lanza para fraccionar el pan, las cucharas para
distribuir el vino entre los fieles, abanicos para espantar a los insectos de la sagradas
especies, incensarios, etc. (come specifica Begoña Ortega Villaro, Agatías, Historias, p.
134, nota 160, ove è anche citato il volume di G. Winkler, Studies in Early Christian
Liturgy and its Context, Ashgate 1997). Vd. anche S. Costanza, Orientamenti cristiani,
pp. 98-99 e 107-108. Inevitabile la conclusione che, dopo la fine della guerra gotico-bizantina, le ricchezze in beni preziosi, oro ecc., fossero ormai detenute, in Italia, unicamente da chiese e monasteri, dove i saccheggiatori si erano evidentemente diretti a colpo
sicuro. La notizia data da Agazia, della sistematica rapina delle chiese italiane, anche con
153
55
8. τοῖς δὲ οὐδὲ τάδε ἀπέχρη, ἀλλὰ τάς τε ὀροφὰς τῶν ἱερῶν
ἀνακτόρων κατέβαλλον καὶ τὰς κρηπῖδας ἀνεκίνουν· λύθρῳ τε τὰ
τεμένη περιερρεῖτο καὶ τὰ λήϊα ἐμιαίνετο, πολλαχοῦ νεκρῶν ἀτάφων
περιερριμμένων.
9. ἀλλ' οὐκ ἐς μακρὰν αὐτοὺς τὰ ἐνθένδε μετῆλθε μηνίματα
[ma essi andarono anche oltre, scoperchiando chiese e santuari e svellendo gli altari dai loro basamenti. Insozzarono di sangue le cappelle e gli
altari e i campi vennero inquinati dall'infame contagio dei corpi insepolti
sparsi per ogni dove. Ma vennero velocemente ripagati, molto duramente]
(…) 11. τοιγάρτοι ποιναί γε αὐτοὺς μετίασιν ἀκριβεῖς καὶ
σφίσιν ἐς ἀνηκέστους ξυμφορὰς τὰ πράγματα τελευτῶσιν, εἰ καὶ ἐπὶ
βραχὺ εὐημερεῖν νομισθεῖεν. ὁποῖα καὶ τότε τοῖς ἀμφὶ Λεύθαρίν τε καὶ
Βουτιλῖνον βαρβάροις ξυνέβη [un'adeguata punizione e una inevitabile
rovina li aspettava, e qualunque apparente prosperità essi riuscissero a
godere sarebbe stata brevissima come mostrò la sorte di Leutari, Butilino
e dei barbari che li seguivano]158.
Agazia has a constant tendency to spoil a vivid scene by overelaboration; anche in questo caso il suo moralizing – all too often naïve –
gets in the way of the action159. La sorte di questi “barbari” era segnata a
causa del loro disprezzo per la vera religione e i suoi simboli: in precedenza, nel corso di una sorta di excursus etno-antropologico sugli alamanni, Agazia – che cita un lavoro dello storico romano Asinio Quadrato160 –
aveva sottolineato il loro inveterato, e deplorevole, paganesimo animista,
continuato anche dopo aver beneficiato della positiva acquisizione di alcuni dei costumi dei franchi161, e così lo descriveva: δένδρα τε γάρ τινα
ἱλάσκονται καὶ ῥεῖθρα ποταμῶν καὶ λόφους καὶ φάραγγας, καὶ
τούτοις, ὥσπερ ὅσια δρῶντες, ἵππους τε καὶ βόας καὶ ἄλλα ἄττα
μυρία καρατομοῦντες ἐπιθειάζουσιν [venerano certi alberi, le acque
i particolari minuti che reca (pensiamo all'oggettistica del bottino) pare di fonte sicura e
avremo occasione, tra breve, per ritornarci, con riferimento ad una prova archeologica recentemente individuata e studiata (vd. qui nota 184).
158 Agath. II, 1, 11, p. 41; tr. ingl., p. 33.
159 Averil Cameron, Agathias, p. 54.
160
Agath. I, 6, 3 p. 17; tr. ingl., p. 14; i pochissimi frammenti superstiti dei
Γερμανικά di questo storico del III sec. d.C. si leggono ad es. in H. Peter, Historicorum
Romanorum Fragmenta, Lipsiae 1883, pp. 351-353; vd. H. von Schubert, Die Unterwerfung der Alemannen, p. 116; G. Zecchini, Asinio Quadrato, storico di Filippo l'Arabo, in
Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt, Berlin-New York 1998, II, 34, 4, pp. 29993021. Secondo Averil Cameron (Agathias, p. 112) Agazia may have looked up Asinius
Quadratus on the name of the Alamanni, but for this detail only; vd. Ead., Agathias on
the Early Merovingians, pp. 126-127.
161 Agath. I, 7, 2, p. 18; tr. ingl., p. 15; vd. Averil Cameron, Agathias, p. 44-45.
56
dei fiumi, le colline e le valli di montagna e, in onore di questi sacrificano
cavalli, bovini e molti altri animali, decapitandoli, e immaginano, in tal
modo, di adempiere a un atto religioso]162.
Certo Agazia appare in affanno quando prova a dare dignità alla
sua faticosa distinzione antropologico-religiosa tra franchi e alamanni,
cercando di assegnare a questi ultimi ogni nequizia (a causa del loro paganesimo) e destinando invece ai primi un giudizio edulcorato, o comunque
meno negativo, in quanto seguaci della ortodossia cristiana163.
L'atteggiamento di Agazia164 risulta ambiguo ad esempio quando
cita il responso emesso ὑπὸ τῶν Ἀλαμανικῶν μάντεων, cioè “dagli indovini alamannici” al seguito dei guerrieri di Butilino, a proposito del giorno in cui sarebbe stato opportuno, per i franchi, accettare il combattimento contro Narsete. I franchi non credettero al responso e Narsete li sconfisse rovinosamente. Già l'idea che i conclamati cattolicissimi franchi disponessero di indovini alamannici al seguito non pare deporre in favore di
una loro così rigida ortodossia, al di là del fatto che nella circostanza non
avessero prestato fede ai loro auspici165.
C'è da dire che πλὴν ἀλλ' ὅμως εἴτε οὕτω ξυμβὰν εἴτε καὶ
162 Agath. I, 7, in., p. 18; tr. ingl., p. 15; una simile traduzione inglese del brano si
può leggere anche in Averil Cameron, Agathias on the Early Merovingians, p. 109 (commento, ibid., p. 129). Non è possibile evitare il richiamo a Tacito che, nella sua Germania (cap. IX), scriveva: “placano gli dei immolando loro animali permessi” (concessis
animalibus placant) e “consacrano alle divinità boschi e selve e dànno nome di dio all'essenza misteriosa che solo un senso religioso fa loro intuire” (lucos ac nemora consecrant
deorumque nominibus appellant secretum illud, quod sola reverentia vident), tr. it., p. 62;
cfr. Lucano Phars. III, 399 ss.; vd. ancora Tacito (Germania VII), che precisa altresì
come i germani effigiesque et signa quaedam detracta lucis in proelium ferunt, “portavano sul campo di battaglia, immagini e simulacri tolti ai boschi sacri” (tr. it., p. 61). Sulle
credenze religiose alamanniche vd. H. von Schubert, Die Unterwerfung der Alemannen,
p. 107 (una traduzione in tedesco di Agath. I, 6-7, in ibid., pp. 107-109); L. Schmidt, Die
Westgermanen, II, 1, München 1940, p. 66; S. Costanza, Orientamenti cristiani nella storiografia di Agazia, «Helikon» 2, 1962, pp. 94-95. Vd. anche Α.Ι. Χατζηχρηστος, Γεωγραφικές Πληροφορίες, pp. 160-161.
163 Vd. ad es. Agath. II, 1, 6; tr. ingl. p. 32; e Th. Hodgkin, Italy and Her Invaders, V,
pp. 33; S. Costanza, Orientamenti cristiani, pp. 93-94 e M. Rampi, La storiografia agaziana, spec. pp. 49-53. Sul passo vd. Averil Cameron, Agathias, Oxford 1970, pp. 51 e
54; tuttavia Ead., Agathias on the Early Merovingians, p. 137, scriveva: so Agathia's distinction between Franks ans Alamanni is, I believe, purely theoretical, not based on any
kind of information. Cfr. anche G. Gottlieb, Die Nachrichten des Agathias aus Myrina
über das Christentum der Franken und Alamannen, «Jahrbuch des Römischgermanischen Zentralmuseums Mainz» 16, 1969, pp. 149-158.
164 II, 6, 7-9, pp. 48-49; tr. ingl., p. 38.
165 Che gli alamanni si servissero di indovini, e dei loro auspici, era ben noto ai romani; vd. Ammiano Marcellino XIV, 10, 9 (per vicende belliche attorno al 354 d.C.).
57
ἴσως τῶν Ἀλαμανικῶν χρησμολόγων ὅτῳ δὴ οὖν τρόπῳ τὰ ἐσόμενα
ἐπιφρασαμένων, οὐ κενὸν τοῖς πολλοῖς οὐδὲ ἀτελεύτητον ἔδοξεν εἶναι
τὸ μάντευμα in ogni caso, si sia trattato di una coincidenza o gli indovini
alamannici erano stati in grado di prevedere in qualche modo cosa stava
per succedere, alla maggioranza sembrò che la predizione non fosse vana
né incompleta166. Sul fatto che il consiglio degli indovini fosse stato corretto, Agazia, che non credeva all'arte mantica, se la cava dicendo: credo
che sarebbe successo lo stesso anche se la battaglia si fosse svolta il giorno successivo, o qualsiasi altro giorno diverso da quello che fu167.
Che Agazia tenga questa ambigua posizione per una sua autonoma, diversa convinzione o per opportunità suggerita dal mutato clima politico-diplomatico, negli anni in cui scriveva168, non è facile dire, anche se
non va presa alla lettera l'attribuzione della sconfitta finale patita dal corpo di spedizione franco-alamanno, ai saccheggi delle chiese da parte dei
soli alamanni.
Tra l'altro le contraddizioni di Agazia sul tema sono molteplici:
si pensi a quando attribuisce ad una (divina?) necessità superiore
(ὑπερτέρα τις αὐτοὺς μετῆλθεν ἀνάγκη) la sconfitta di entrambe le etnie
che avevano invaso l'Italia, franchi e alamanni (Φράγγων τε καὶ Ἀλαμανῶν)169, e ancora a quando – assegnate gravi responsabilità agli alamanni
– afferma che essi tuttavia sarebbero stati da perdonare, e non da condannare, per il loro paganesimo dovuto ad inciviltà e arretratezza culturale170.
166
Agath. II, 6, 9, pp. 48-49; tr. ingl., p. 38.
Agath. II, 6, 8, p. 48; tr. ingl., p. 38 (vd. M. Rampi, La storiografia agaziana, pp.
51-53).
168 Ai tempi di Agazia i franchi infatti were viewed with favour by the Byzantines as
potential allies against the Lombards (Averil Cameron, Agathias, p. 50).
169 Agath. II, 9, 12, p. 53; tr. ingl., p. 42.
170 Agath. I 7, 3, p. 18; tr. ingl., p. 15; vd. Averil Cameron, Agathias, p. 54. Secondo
Vera von Falkenhausen, I Barbari in Italia nella storiografia bizantina, in Magistra Barbaritas, Milano (1984=) 1990, p. 310, Agazia “si salva dall'imbarazzo”, tra la visione civilizzata che propone dei franchi e la realtà dei fatti, semplicemente incolpando i soli alamanni dei peggiori saccheggi. In ogni caso è bene ricordare che l'idea del mondo che sorreggeva i bizantini prevedeva di avere dio al proprio fianco, e quindi di meritare comunque la vittoria: vd. Averil Cameron, Agathias, p. 127 e ancora Vera von Falkenhausen, I
Barbari in Italia, pp. 309 e 315. D'altra parte fonti ufficiali come il Liber Pontificalis
scomodano dio in persona, affermando: donavit ei [a Narsete] Deus victoriam: ed. L. Duchesne, Paris 1886, I, p. 229. Se fa dire a Narsete: συναγωνιεῖται δὲ καὶ τὸ κρεῖττον
ἡμῖν (“l'onnipotente lotta con noi”, I, 16, 9, p. 31; tr. ingl., p. 25), scopriamo poi, nella
tiepida ortodossia di Agazia, qualcosa di simile ad uno spirito “laico”, che ad esempio lo
fa sentire lontano dalla semplice idea che si possano perseguitare i “non credenti” (vd.
ancora Averil Cameron, Agathias, p. 94 e Zinaida V. Udal'cova, Le monde vu par les
historiens byzantins du IVe au VIIe siècle, pp. 204-205).
167
58
Peraltro che anche i cattolici franchi avessero la deplorevole abitudine di saccheggiare le chiese in prima persona, ma dovessero comprensibilmente tutelare il loro buon nome, quando questo veniva messo autorevolmente in discussione, risulta da una nota ufficiale della cancelleria
del re Teodebaldo, che qui sarebbe fuori luogo approfondire171.
Ma quest'argomento ci porterebbe lontano anche se consente di
comprendere quanto sia complesso discernere l'effettivo pensiero di Agazia, il quale, unfortunately ci rivela very little about his methods172 e, se
lascia capire con una certa orgogliosa naïveté che per le sezioni del suo
lavoro dedicate ai persiani, aveva ricevuto l'aiuto sostanziale da un interprete siriano (Σέργιος) che aveva letto e sintetizzato per lui gli Annali
Reali Sassanidi173, non fornisce alcun indizio concreto of the source of his
knowledge of the Franks, detailed though it is174. Egli doveva avere avuto
accesso a fonti orali, entrando in contatto con persone provenienti dall'Italia175, o – come è stato ipotizzato – a “documenti militari” in forma scritta,
dispacci o diari di qualcuno dell'entourage di Narsete. Lo sosteneva, in
particolare, H. von Schubert: “per l'ambientazione italiana”, scriveva,
haben wir gewisse Spuren. Sie führen in die unmittelbare Umgebung des
Narses: das Hauptquartier ist der Standpunkt der Quelle: je weiter das
Ereignisse der Person des Feldherrn, desto undeutlicher und allgemeiner,
je näher, desto ausführlicher und anschaulicher wird die Darstellung [abbiamo tracce sicure. Esse conducono agli ambienti più vicini a Narsete: il
punto di vista della fonte rispecchia quello del quartier generale: la narrazione, tanto più distante appare dalla persona del comandante sul campo,
tanto più si fa vaga e generica, quanto maggiore invece ne è la vicinanza,
più appare chiara e dettagliata]176.
171
Il riferimento è a MGH, Epistolae Austrasicae, 18, spec. p. 132, dove il re franco
contestava a Giustiniano di aver scritto (ut scribitis) che suo padre Teodeberto si fosse
reso responsabile di saccheggi di luoghi consacrati (loca sacrosanta distituit); vd. Averil
Cameron, Agathias on the Early Merovingians, pp. 124 e 137; Ead., Agathias, p. 54.
172 Averil Cameron, Agathias, p. 39.
173 Agath. II, 27, 1, pp. 75-76; tr. ingl., pp. 61-62; e IV, 30, p. 162; tr. ingl., pp. 133134; vd. H. von Schubert, Die Unterwerfung der Alemannen, pp. 101 e 103. Vd. anche,
in gen., Averil Cameron, Agathias on the Sassanians, «Dumbarton Oaks Papers» 23,
1969, pp. 78-176, e Ead., Agathias, pp. 39 e 41.
174 Averil Cameron, Agathias, p. 39.
175 Averil Cameron, Agathias, p. 39 parla espressamente di oral sources e fa l'esempio dell'episodio della battaglia di Casilino, ove venne sconfitto Butilino, per il quale
Agazia attributes to 'one of the natives' the information (Agath. II, 10, pp. 53-55; tr. ingl.
pp. 42-43).
176 Die Unterwerfung der Alemannen, pp. 100-101. Molto più scettica si mostra invece Averil Cameron, Agathias, p. 40: apart from the fact we do not know whether such of59
È più probabile ipotizzare che Agazia avesse avuto accesso a
fonti orali dirette (testimonianze), d'altra parte, lui stesso preferiva going
round and asking people than reading up some documentary source 177 e
probabilmente aveva trovato qualche testimone diretto della campagna
italiana, qualche ufficiale ben collocato nell'esercito, se non anche proprio
“un italiano”, a giudicare dall'accuratezza di molti dettagli della descrizione della guerra nella penisola178, e aveva potuto ascoltar da loro resoconti
che, pur a vent'anni dai fatti, rimontavano a specifici ricordi personali;
persino sugli alamanni il nostro storico mostra di avere avuto notizie specifiche e indipendenti179.
Quelle di Agazia ci appaiono quasi informazioni di intelligence,
come potremmo chiamarle oggi, più che fonti storiche, o documentarie in
senso tecnico: sono conoscenze settoriali, occasionali, di dettaglio, prive
di respiro generale o strategico, il che spiega le incertezze cronologiche180,
gli impicci di Agazia sulla geografia o l'orografia italiana 181, o il fatto che
lui appare better informed on some episodes than others182, e spiega il toficial records in fact existed, it seems to me doubtful in itself whether Agathias made any
such use of written sources. In ogni caso lo stesso Agazia ci informa, nel proemio alle
Storie, che sarebbe stato Eutichiano, primicerius notariorum, un altissimo funzionario
dell'amministrazione imperiale, ad esortarlo a scrivere di storia. Questi avrebbe potuto
fornirgli informazioni grazie alle sue possibilità di accesso agli archivi governativi; su
Eutichiano vd. PLRE III-A, p. 475.
177 Averil Cameron, Agathias, p. 40, che continua: if Agathias depended for most of
his narrative on oral sources, the History is revealed as an interesting combination of
two methods –the traditional contemporary and oral-based political historiography, as
practised by Procopius, and (in the many and long excursuses) an approach that was
systematic and at times documentary.
178 Vd. Averil Cameron, Agathias, p. 43 e Vera von Falkenhausen, I Barbari in Italia,
p. 309.
179 Vd. H. von Schubert, Die Unterwerfung der Alemannen, pp. 117-118 e Averil Cameron, Agathias, p. 43.
180 Averil Cameron, Agathias, p. 41; si tenga presente che generalmente Agazia data
a primavere e inverni, al modo di Tucidide (ibid., pp. 36 e 62).
181 Averil Cameron, Agathias, pp. 40-41 (his confusion between Alps and Apennines).
Però H. von Schubert, Die Unterwerfung der Alemannen, p. 99, nota 6, rilevava invece la
precisione della descrizione agaziana dell'itinerario italiano di franchi e alamanni, e ne ricavava l'idea di una conoscenza precisa e diretta dello scacchiere bellico, che poteva venire al nostro storico solo da un informatore che aveva preso parte alla campagna. Uno
studio tutto dedicato alla geografia agaziana, interessante e piuttosto recente, è quello già
citato più volte di Α.Ι. Χατζηχρηστος, Γεωγραφικές Πληροφορίες; alla geografia italiana di Agazia, Chatzēchrēstos dedica in particolare le pagine 56-70 con una analisi dettagliata, relativa anche agli errori del nostro storico.
182 Averil Cameron, Agathias, p. 40: Agathias was not in a position to criticize much
of this material.
60
tale silenzio sulle condizioni della popolazione civile (compresa quella
cenedese)183, che non costituiva oggetto di interesse militare anche perché
forse non venne affatto “contagiata” dal morbo che annientò gli alamanni,
restando semplice – attonita – spettatrice dei suoi drammatici effetti.
Appaiono di prima mano:
(a) il racconto circostanziato del sistematico saccheggio degli
edifici di culto italiani, che ha trovato di recente un preciso riscontro archeologico nel corso dello scavo (e dello studio) di alcune tombe alamanniche nella zona di Hüfingen, la Brigobannis della c.d. Tabula Peutingeriana, nella regione del Baden Württemberg, una ventina di chilometri dal
confine con la Svizzera, in direzione di Schaffausen184;
(b) la descrizione degli armamenti in dotazione al corpo di spedizione franco-alamanno, elencati con notevole precisione185,
183
Averil Cameron, Agathias, p. 44 ricorda appunto che Agathias tells us nothing
about social conditions in Italy during the latter part of the war. Però, nel descrivere un
momento della battaglia tra Narsete e Butilino, richiama il parere degli esperti (ὡς ἂν οἱ
τακτικοὶ ὀνομάσειν, “come lo chiamano i tattici”) e sembra omaggiare i suoi informatori militari; vd. Agath. II, 9, 2, p. 51; tr. ingl., p. 41.
184 Spesso le evidenze archeologiche vengono in soccorso della storia; in questo caso
rinvio all'interessantissimo lavoro di G. Fingerlin, Zwei Steinfassungen mit Cabochons
aus Frauengräben in Hüfingen. Archäologische Zeugnisse für die Plünderung von
Kirchen Italiens währende der Kriegszüge im 6. Jahrhundert, in S. Brather-D. GeuenichChr. Huth (herausgeg.), Historia Archaeologica. Festschrift für Heiko Steuer zum 70.
Geburtstag, Berlin 2009, pp. 325-338; oltre alla ripresa dello stesso G. Fingerlin, Zwei
Edelsteinfassungen aus Frauengräbern in Hüfingen - Beutegut alamannischer Krieger
auf einem Feldzug nach Italien, «Archäologische Nachrichten aus Baden» 80-81, 2010,
pp. 31-32. I rinvenimenti, all'interno di due tombe femminili di Hüfingen (le nn. 308 e
557) consentono di focalizzare l'attenzione su due “pietre montate” (dette tecnicamente
Cabochons), riutilizzate come ornamenti o amuleti che, per la loro fattura (ma anche per
gli evidenti segni di asportazione violenta dalla loro sede originaria), rinviano alle tipiche
decorazioni che si ritrovano sistematicamente im kirchlichen Bereich des Mittelmeerraumes, auf Kreuzen, Reliquiaren oder Buchdeckeln (Evangeliaren), cioè su Croci, Reliquiari o Evangeliari dell'area mediterranea (Zwei Steinfassungen, p. 334). Secondo l'autore dello studio, che espone una serie complessa di valutazioni, fast zwangsläufig führen
diese Überlegungen zu der bekannten Stelle in den Historiae des Agathias von Myrina,
in der unterschiedliche Verhaltender christlichen Franken und der (noch) heidnischen
Alamannen beim Heerzug des Leutharis und des Butilinus nach Italien in den Jahren
553-554 schildert (“queste considerazioni conducono pressoché inevitabilmente al noto
passo delle Historiae di Agazia di Mirina, nel quale egli descrive il differente comportamento dei franchi cristiani e degli (ancora) pagani alamanni, nel corso della incursione in
Italia di Leutari e Butilino negli anni 553-554”). Insomma, non è da escludere che quelle
pietre, oggetti di piccole dimensioni e di comoda trasportabilità, possano essere stati parte del bottino dei saccheggi narrati da Agazia (Zwei Steinfassungen, spec. pp. 336-338).
185 Si veda Agath. II, 5, 2-9, pp. 46-47; tr. ingl., pp. 36-37; si tratta, come appare evidente, di informazioni di prima mano. Rinvio a B.S. Bachrach, Procopius, Agathias and
61
(c) l'itinerario della colonna di Leutari verso Ceneda, le difficoltà
che ne punteggiarono il disordinato ripiegamento, e infine la fatale permanenza nell'area cenedese da parte di quel che restava del contingente.
Secondo le fonti di Agazia, Narsete – e così torniamo al nostro
racconto – era informato delle intenzioni di Leutari: mettere al sicuro bottino e prigionieri, e poi tornare a dare man forte al fratello. Ma il comandante bizantino aveva messo a frutto le poche risorse e la voglia di riscatto dei suoi ufficiali, i quali, approfittando dell'imperizia e della fretta di Leutari, avevano saputo eliminare un potenziale pericolo per il disegno strategico del loro comandante, volto a contenere il pericolo rappresentato dal
fratello Butilino e dai suoi nell'Italia meridionale. Il resto l'aveva fatto il
morbo cenedese.
La prova ce la fornisce ancora una volta Agazia, il quale racconta
come Narsete, impegnato nella battaglia sul Volturno, contro Butilino,
fosse a conoscenza di ciò che accadeva nella Venetia, a Leutari e agli alamanni: Ἐν τούτῳ δὲ τοῖς Ῥωμαίοις ἠγγέλλετο καὶ τὰ ἐν Βενετίᾳ ἐπὶ
Λευθαρίῳ τε καὶ τοῖς ἀμφ'αὐτὸν ἅπασι ξυνενεχθέντα [nel frattempo ai
romani (= “ai bizantini”) fu comunicato ciò che nella Venetia era accaduto a Leutari e a tutti quanti erano stati al suo seguito]186. Dietro questa informazione c'erano probabilmente i confidenti di Agazia.
Il nostro storico non era sicuramente mai stato in Italia e possiamo star certi che personalmente non avesse idea di dove precisamente si
trovassero la Venetia e la piccola città di Ceneta187, ma è proprio questo a
the Frankish Military, «Speculum” 45, 1970, pp. 435-441; vd. anche Averil Cameron,
Agathias on the Early Merovingians, pp. 130-133.
186 Agath. II, 11, in., p. 55; tr. ingl., p. 43.
187 Averil Cameron, Agathias, pp. 41 e 118 (anche la sua conoscenza del latino don
doveva esser particolarmente brillante, al di fuori delle ovvie necessità conseguenti alla
sua professione forense). Discutibile l'ipotesi, non suffragata, che farebbe di Agazia un
“funzionario bizantino”, testimone oculare, delle operazioni militari di Narsete in Italia,
“in età giovanile” (addirittura “al seguito di Artabane”): vd. U. Agnati, Per la storia della
Provincia di Pesaro e Urbino, Roma 1999, pp. 156 e 392-393, che sembra riprendere
F.V. Lombardi, Lo scontro franco bizantino, pp. 56; 59 e 61. In realtà Agazia, probabilmente nel 554 si trovava ad Alessandria d'Egitto, dove abbe modo di avvertire l'onda sismica del terremoto che colpì Berythus, nella Fenicia (Βηρυτός, hod. Beirut), in quanto,
parlando dell'invasione franco-alamanna in Italia (553-554 d.C.), e della morte del re
franco Teodebaldo (555 d.C.) scrive subito dopo che ὑπὸ δὲ τὸν χρόνον, cioè “nello
stesso torno di tempo” ci fu appunto il terremoto che distrusse Berythus (Agath. II, 14,
10-11, p. 59; tr. ingl. p. 47 e II, 15, in.-4, pp. 59-60; tr. ingl. pp. 47-48). Comunque l'ambigua espressione agaziana (“nello stesso torno di tempo”), non va presa alla lettera,
come pure fece il Muratori (Annali d'Italia, II, p. 101) e con lui altri: essa indica un arco
temporale più che una data. Il terremoto che distrusse l'antica Beirut può essere avvenuto
infatti tra 551 e 555: ciò non cambia tuttavia la considerazione sulla assenza di Agazia
62
rendere assai genuino il suo racconto su quanto accadde nella cittadina rimasta poi ancora sotto il controllo dei franchi almeno fino al 562/563, riavendo un po' di pace e potendo, forse, risollevarsi dalla tragedia vissuta e
subita188.
Quando Venanzio Fortunato ne scrive, attorno al 565, non fa
menzione dell'ultimo disastro occorso, nella idilliaca circospezione dei
suoi celebri versi: Per Cenitam gradiens et amicos Duplavenenses, | qua
natale solum est mihi sanguine, sede parentum189, fors'anche alla luce dei
rapporti che aveva intrecciato – o stava per intrecciare – con i franchi alla
vigila dell'invasione longobarda.
Le Storie agaziane furono composte senz'altro a partire dal 565,
successivamente alla morte di Giustiniano, una ventina d'anni, al massimo, dopo i fatti del 553-554190. Poterono forse essere aggiornate dopo il
571, data dell’arrivo di una importante ambasceria dei Franchi inviata a
Costantinopoli dal re Sigiberto191, che avrebbe potuto rappresentare un'ocdallo scenario italiano, e dall'Italia tout-court; vd. poi la prefazione all'edizione Niebhur,
pp. xiii-xiv (ritorno a Costantinopoli di Agazia nel 554); H. von Schubert, Die Unterwerfung der Alemannen, p. 93: in den Jahren, da der Ostgothenkrieg in Italien sich dem
Ende nahte, erhielt der heranwachsende Agathias sein Vorbildung in Alexandria, 554/5
kehrte er nach Byzanz zurück, um hier die Rechte zu studieren; E. Stein, Bas-Empire, II,
pp. 605 ss.; Averil Cameron, Agathias, pp. 138-139, e 31, ove si legge che Agazia had
undertaken to continue Procopius' Wars, having to write about military events which had
taken place for the most mart long before the time of writing and of which he had no personal experience); cfr. anche P. Maraval, Agathias, Histoires, pp. 95-96 e 283, nota 29 e
Begoña Ortega Villaro, Agatías, Historias, p. 161-163.
188 Vd. M. Gusso, Franchi Austrasiani, pp. 55-63. Ripresa del controllo d'Italia da
parte degli imperiali attorno al 566: vd. PLRE III-B, s.v. Narses 1, p. 924.
189 (“Attraversando Ceneda e i miei amici di Valdobbiadene, ti troverai nella terra
d’origine, mia, dei miei genitori”) come si vede un modestissimo accenno ai luoghi di cui
trattiamo, che è stato molto sopravvalutato. Vd. E. Stein, Bas-Empire, II, pp. 832-834,
excursus T; M. Gusso, Franchi Austrasiani, pp. 89-92, con rinvii, e Id., Silloge delle fonti su Ceneda nel tardo antico e nel primissimo medioevo (sec. VI-IX), in Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche, Ceneda e il suo territorio, pp. 83-101, spec. pp. 83-84.
190 Vd. R. Keydel, in Agathiae Myrinaei, Historiarum libri quinque, p. viii.; R.C.
McCail, On the Early Career of Agathias Scholasticus, «Revue des Études Byzantines»
28, 1970, p. 150. Agazia era diventato σχολαστικός, “scholastikós”, cioè avvocato, attorno al 555 (vd. ad es. Agath. III, 1, 4). La morte di Agazia è generalmente ipotizzata tra
il 579 e il 582 (vd. Menandro, fr. 1; Averil Cameron, Agathias, p. 10 e B. Baldwin, The
Date of the Cycle of Agathias, «Byzantinische Zeitschrift» 73, 2, 1980, p. 337).
191 Ho già parlato del crogiolo etnico, culturale, folclorico e narrativo rappresentato
da questi anni terribili vissuti in Europa, ed ho fatto cenno alla formazione, in questa
stessa epoca di alcuni nuclei del ciclo nibelungico (vd. la precedente nota 7). In terra
franca il nucleo del ciclo si trasformò fino a rispecchiare le feroci rivalità tra principi di
cui è ricca la storia merovingia. Non a caso l'appena citato sovrano franco Sigiberto (Sigibert), che regnò a Reims tra il 561 e il 575, era un burgundo che si recò in Spagna a
63
casione di informazioni ed apportare altri dettagli su franchi, alamanni e
magari sulla stessa infausta spedizione di Leutari e Butilino, da un punto
di vista alternativo192.
Agazia ebbe certamente accesso ad una fonte ascrivibile ai Franchi e if we need to name a source, the embassy of 571 seems a likely candidate, scrive Averil Cameron: per certi dettagli, infatti, Agazia appare addirittura più informato di Gregorio di Tours193.
Ma torniamo al racconto ormai focalizzato su Leutari:
6. αὐτὸς δὴ οὖν ὁ στρατηγὸς καὶ
μάλα ἔνδηλος ἦν, ὃτι δὴ αὐτὸν θεήλατοι μετῆλθον ποιναί. παραπλήξ τε
γὰρ ἐγεγόνει καὶ ἐλύττα περιφανῶς,
καθάπερ οἱ ἔκφρονες καὶ μεμηνότες,
κλόνος τε αὐτὸν ἐπεῖχε μυρίος καὶ
οἱμωγὰς ἀφίει βαρείας· καὶ νῦν μὲν
πρηνής, νῦν δὲ καὶ ἐπὶ θάτερα ἐν τῷ
ἐδάφει κατέπιπτεν, ἀφρῷ τε πολλῷ
τὸ στόμα περιερρεῖτο καὶ τὼ ὀφθαλμὼ βλοσυρώ γε ἤστην καὶ παρατετραμμένω.
6. Lo stesso capo [Leutari] costituiva
la prova evidente [dello spregio delle
leggi umane e divine] perché lo colpirono castighi inviati da dio. Infatti aveva preso a comportarsi manifestamente
da forsennato e a smaniare rabbioso,
alla maniera dei dementi e dei furiosi.
Lo prendevano incessanti attacchi convulsivi e lanciava di continuo strepiti
lamentosi; ora cadeva prostrato bocconi a terra, ora supino e gran quantità di
schiuma gli sgorgava attorno alla bocca
ed entrambi gli occhi apparivano decisamente gonfi e innaturalmente deviati.
Qui lo storico ha scelto espressamente di focalizzare la narrazione sulla notizia della malattia del capo, anche a costo di amplificare la
lettera delle sue fonti.
sposare la principessa visigotica Brunichild. Scoppiò una contesa tra Brunichild e la cognata Fredemund, già amante di Sigibert, il quale cadde vittima delle macchinazioni di
lei (vd. L. Mittner, Storia della Letteratura Tedesca, I, 1, pp. 297-298). L'uccisione del re
burgundo (divenuto nella leggenda Siegfried) “è sinistro preludio e quasi anticipazione di
quello sterminio di burgundi, che costituì l'argomento della seconda parte del Nibelungenlied” (ibid., p. 298). In realtà quasi tutta la costruzione, anche delle più antiche canzoni eddiche, mostra una “origine meridionale” e le lotte tra i guerrieri germanici e i “romani” (intesi come i “possessori dell'oro”) costituiscono lo sfondo integratore di tutta la costruzione della leggenda. Se ci pensiamo anche la vicenda di Leutari e Butilino è un'avventura germanica per conquistare tesori in terra “romana” che si trasforma alla fine in
un'epica tragedia.
192 Greg. Tur., Hist. Franc. IV, 40, I, p. 366; vd. H. von Schubert, Die Unterwerfung
der Alemannen, pp. 114-115; Th. Hodgkin, Italy and Her Invaders, V, p. 5, nota 2; G. Löhlein, Die Alpen- und Italienpolitik, pp. 53 e 62. Firminus era un alverniate di origine romana, di sicura classica, probabilmente a conoscenza del greco, vd. PLRE III-A, s.v.
Firminus, p. 485. La data dell’ambasceria is uncertain, perhaps c. 570-572 (come scrive
la PLRE III-B, s.v. Warinarius, p. 1401).
193 Agathias on the Early Merovingians, p. 134.
64
Ci troviamo l'eco della passione di Agazia per la cronaca, più che
per la storia, specie se ne poteva ricavare un riscontro moralistico194; se
per lui God will always punish the miscreants195, spesso tuttavia è moralismo di scuola, e si vede; attribuisce un omaggio, tutto sommato piuttosto
tiepido, al giudizio divino, peraltro descritto con un aggettivo (θεήλατος,
pron. theḗlatos) che ha poco di cristiano, risalendo alla grande tradizione
di tragici e storici greci196.
Quello di Agazia è un quadro più colorito che “scientifico” e
mira soprattutto a sottolineare paradigmaticamente la fine esemplare di
Leutari, capo dell'infausta spedizione, e a chiudere il racconto (e il conto)
della sua sconsiderata impresa197.
A parte alcuni particolari su cui torneremo, richiamerei l'attenzione soprattutto su uno dei verbi usati da Agazia, ἐλύττα, “smaniava rabbioso”, “era preso da furia, rabbia”, termine che viene da λύττα (=λύσσα,
pron. lýssa), la stessa parola usata, in greco antico, per indicare la malattia
chiamata “Rabbia”, e ancor oggi per la famiglia del relativo virus che porta il nome scientifico di Lyssavirus.
Non so se si possa davvero affermare, come è stato scritto, daß
Agathias auch die zeitliche Aufeinanderfolg der Symptome (“la successio194 Averil Cameron, Agathias, pp. 51-53. Nella pratica del mingling, della “commistione” dei generi, con an excess of classical learning and even with clearly poetic wording, Agazia dà talora il meglio (o il peggio, a seconda dei pareri) di sé. A parere di Begoña Ortega Villaro, ne sarebbero interessati whole episodes, as the death of Leutharis
(Some Characteristics, p. 270).
195 Averil Cameron, Agathias, p. 54.
196 Lo usa Euripide (nell'Oreste), ma anche Dionigi di Alicarnasso (Antichità Rom.,
IX, 42) ed Erodoto (Storie VII, 18, 3: καταλαμβάνει τις φθορὴ θεήλατος, ἐγὼ μὲν καὶ
αὐτὸς τρέπομαι καὶ τὴν γνώμην μετατίθεμαι). Il rapporto tra Agazia ed Erodoto, proprio a partire da quell'aggettivo, era stato notato con scrupolo, e con riferimento all'episodio cenedese, da G. Spyropoulos, nel suo Κατὰ τὶ μιμεῖται Ἀγαθίας Ἡροδοτον καὶ
Προκόπιον, Diss., Atene, 1892, spec. pp. 18-19.
197 Peraltro qualche storico moderno si è provato a maramaldeggiare – a orecchio –
sulle disgrazie di Leutari e compagni, come Cesare Cantù (Storia degli Italiani, Torino
1855, Tomo III, p. 42) che scrisse: più che la guerra, le malattie cagionate da intemperanza li logorarono, sicché da se medesimi si strappavano a morsi le carni: e la primavera che venne, Narsete poté sconfiggere e uccidere Bucellino con tutti i suoi presso Casilino, mentre quei di Leutari perivano sul Benaco, presi da pauroso furore, che fu attribuito all'oltraggio fatto alle cose sacre. Assai più attento all'originale agaziano il già citato C. Troya (Storia d'Italia nel Medio-Evo, vol. II, parte III, p. 1640): gli Alamanni... varcato il Po, giunsero a Ceneda nella Venezia. Ivi una peste micidiale in breve tempo consumolli, ciò che s'ebbe da' popoli per giusta pena de' Barbarici eccessi. Anch' e' Leutari
morivvi, e si dice in un parossismo di rabbia, per la quale, mettendo spaventevoli grida,
si lacerava le proprie carni co' denti.
65
ne temporale die sintomi”) genau so wie die ärztliche Literatur unsere
Tage schildert198, ma qui il nostro storico squaderna molta terminologia
medica: παραπλήξ (forsennato, colto da follia); l'appena citato ἐλύττα; gli
ἔκφρονες καὶ μεμηνότες (dementi, mentecatti); κλόνος (traducibile con
convulsione)199; le οἱμωγὰς... βαρείας (strepiti lamentosi); la ἀφρῷ τε
πολλῷ τὸ στόμα περιερρεῖτο (schiuma alla bocca); gli ὀφθαλμὼ βλοσυρώ... παρατετραμμένω (occhi storti e deviati, o forse anche più semplicemente “fuori dalle orbite”)200.
Deve essere ricordato che Agazia era stato testimone diretto degli
effetti della peste bubbonica di Costantinopoli, come riferisce più avanti
nella sua narrazione, in particolare nel quinto libro201, e che quindi era in
grado di rendere efficacemente una descrizione di fenomeni morbosi, ma
nel caso dei fatti di Ceneda – già da questo primo assaggio sulla tipologia degli attacchi convulsivi che toccarono a Leutari – comprendiamo
che non di peste si trattò, ma di qualche altra malattia, come si vedrà più
avanti. Inutile nascondere che le ultime ore del capo alamanno sono descritte in termini raccapriccianti, e che la sua morte è narrata con dettagli
assai più numerosi rispetto a quelli dedicati alla fine dei suoi guerrieri.
7. ἐς τοῦτο δὲ ἄρα ὁ δείλαιος ἀφῖκτο
μανίας, ὥστε ἀμέλει καὶ τῶν οἱκείων
μελῶν ἀπογεύσασθαι ἐχόμενος γὰρ
ὀδὰξ τῶν βραχιόνων καὶ διαστῶν
τὰς σάρκας κατεβίβρωσκέ γε αὐτὰς
ὥσπερ διαλιχώμενος τὸν ἰχῶρα. οὕτω δὲ ἑαυτοῦ ἐμπιπλάμενος καὶ κατὰ
σμικρὸν ὑποφθινύθων οἰκτρότατα
ἀπεβίω.
7. In un parossismo di folle furia, l'infelice [Leutari] cominciò addirittura a
divorare le sue stesse membra mordendosi le braccia, lacerando, divorando le carni e, come un animale selvaggio, leccando il sangue che ne usciva.
E così, pascendosi della sua stessa carne, un po' per volta si consumò e perì
della morte più penosa.
Questa descrizione orrorifica ha una certa efficacia letteraria: il
peccato è scontato nel modo più ripugnante e il disastro degli alamanni
198
B. von Hagen, Zum Problem der historischen Diagnose, «Die Naturwissenschaften» 34, 12, 1947, in realtà pubbl. 1948, pp. 353-357 (la frase citata è a p. 355 e la
sottolineatura nel testo corrisponde al corsivo dell'originale).
199 Attacchi convulsivi: cfr. la traduzione tedesca del passo, B. von Hagen, Lyssa, p.
8: in unaufhörlicher Krampf hielt ihn in seiner Gewalt (lett.: “un'incessante convulsione
si era impadronita di lui”). Il sost. κλόνος, da κέλομαι, “eccito, stimolo”, è affine a Æ
[pron. kéllo], “spingo, muovo”, e al latino celer.
200 Occhi deviati: vd. βλοσυρώ dal verbo βλύω, “crescere”, “gonfiarsi”; παρατετραμμένω, dal verbo παρατέφω, letteralmente “muto il corso”, “piego”, “storgo”; vd.
più oltre, cap. 5, Scheda (d), nr. 5.
201 Agath. V, 10, pp. 175-176; tr. ingl., pp. 145-146 (anno 558): qui più oltre (cap. 5) i
testi. Vd. anche S. Costanza, Orientamenti cristiani, p. 105.
66
consegue direttamente alla loro θεοῦ ἀθεραπευσία202.
Se ammettiamo che l'informatore (gli informatori) di Agazia gli
avesse(ro) riportato notizie circostanziate sulle caratteristiche della malattia, sulle modalità della morte degli alamanni e, in particolare, del loro
capo, Agazia – abbiamo già parlato della sua attitudine a letterarizzare la
realtà – non si tirò certo indietro nel rielaborare le notizie ricevute. Non
sappiamo se avesse avuto uno specifico modello anche se le ricerche di
diversi studiosi hanno prodotto più di un apprezzabile risultato.
Esistono infatti nella letteratura antica alcuni passi esemplari
che narrano di automutilazioni (e persino di autofagia). Tenuto conto dell'ambiente colto che Agazia frequentava, non si può aprioristicamente escludere qualcosa od optare per qualcos'altro; mi limito a citare, per fare solo
qualche esempio: Esiodo, che descrive il polpo (octopus vulgaris) che si
divora i “piedi” per non morire di fame203; il barocco Seneca del Hercules
Œtæus204, che credo tuttavia non fosse frequentato ai tempi di Agazia, a
202 Letteralmente: “noncuranza, disprezzo di dio”; si nota l'evidente derivazione, in
negativo, da θεραπεύω (pron. therapéuō), che significa appunto, “prendersi cura”, “curare”. Vd. Agath. II, 1, 9, p. 41; tr. ingl., p. 33 (e Averil Cameron, Agathias, pp. 91 e 94).
203 Opera et dies 524-526: ἤματι χειμερίῳ, ὅτ᾽ἀνόστεος ὃν πόδα τένδει | ἔν
τ᾽ἀπύρῳ οἴκῳ καὶ ἤθεσι λευγαλέοισιν· | οὐ γάρ οἱ ἠέλιος δείκνυ νομὸν ὁρμηθῆναι
[così, in inverno quando il polpo (lett. “il senza ossa”) mastica i suoi piedi nella tana triste dove vive senza focolare; infatti il sole non gli dà modo di nutrirsi...]; vd. Juanita C.
K. Elford, Ovid's Erysichthon (Metamorphoses 8.738-878), Thesis, McMaster University, Hamilton, Ontario, 2005, p. 92; una traduzione inglese del testo esiodeo si legge in
Hesiod. Theogony, Works and Days, Shield, Translation, Introduction and Notes by A.N.
Athanassakis, Baltimore (Maryland) 2004, p. 78. Esiste una leggenda simile a quella del
polpo riferita però allo scorpione. Ne dà conto, in una storiella pseudoscientifica e, assai
più, pseudoetimologia, Giovanni Lido, coevo di Agazia, nel tentativo di spiegare la parola latina nepa, che indica appunto lo scorpione in quella lingua. Ὃτι τὸν σκορπίον οἱ
Ῥωμαῖοι πατρίως νέπαν καλοῦσιν, οἱονεὶ ἄποδα κατὰ στέρησιν “giacché i romani
chiamano lo scorpione nella loro lingua “nepa” cioè “senza piedi”, per negazione [rinvenibile nel “ne-” iniziale del nome, e nel suffisso “-pa” avventurosamente riconnesso con
il “piede”]. Quindi lo scorpione, seguendo Lido, nel corso dell'inverno (un po' come il
polipo di Esiodo), si nutrirebbe sei suoi arti, salvo farsene ricrescere di nuovi in primavera toccando le foglie di una pianta detta, in latino, nepeta, tanto per continuar a rimestare
nella pseudoetimologia. Il passo si legge nel De magistratibus (I, 42, p. 43 dell'ed. curata
da R. Wuensch, Lipsiae 1903; vd. J. Caimi, Burocrazia e diritto nel De Magistratibus di
Giovanni Lido, Milano 1984, p. 143, nota 174).
204 Vd. il terribile passo di automutilazione di Herc. Œt., 824-827 (nelle edizioni moderne, siamo nell'atto III, scena II): Furore gravius istud atque ira malum est: | in me
iuvat saevire. vix pestem indicat | et saevit: artus ipse dilacerat suos | et membra vasta
carpit avellens manu [“più forti del furore e dell'ira son le pene ch'io soffro: io devo infierire contro me stesso. E appena rivela il suo male, che comincia a percuotersi: si lacera
da sé le sue membra e ne stacca enormi brandelli strappandoli con le sue stesse mani”,
trad. it. M. Scandola, in Lucio Anneo Seneca, Tutte le Tragedie, II, Milano 1959, p. 160].
67
Costantinopoli; o il Giustino, nella sua rielaborazione delle Historiae Philippicae di Pompeo Trogo, quando narra della impressionante follia di Milone, l'assassino della regina Laudamia (=Deidamia), figlia di Pirro il vecchio:
Milo quoque, Laodamiae percussor, in furorem versus nunc ferro, nunc
saxo, in summa dentibus laceratis visceribus duodecima die interiit205.
E c'è ovviamente il terzo libro delle Georgiche, dove è raccontata
in versi la c.d. peste del Norico, che però colpì prevalentemente gli animali: parlando della morte dei nobili cavalli (v. 514), Virgilio li descrive,
alla fine, presi dalla furia, mentre discissos nudis laniabant dentibus artus
[“con i denti scoperti dilaniavano le membra straziate”]206: si tratta di
un'espressione che, alla luce dell'episodio di Leutari, non può non colpire.
L'automutilazione dei cavalli compare nella descrizione degli esiti contagio di quella c.d. peste e il campionario virgiliano rivela impressionanti analogie anche con altre parti del testo agaziano: in effetti si potrebbero coordinare diversi “sintomi” patiti da Leutari con la sintomatologia veterinaria di Virgilio (ma non possiamo occuparcene qui, perché ci
porterebbe lontano).
Alcuni studiosi hanno enucleato quelle che indubbiamente appaiono le più singolari assonanze del passo autofagico scritto da Agazia –
ove Leutari dilania a morsi le sue stesse membra – in due versi ovidiani
dell'ottavo libro delle Metamorfosi (877-878): ipse suos artos lacero divellere morsu | coepit et infelix minuendo corpus alebat (“egli stesso cominciò a lacerarsi gli arti a morsi | e l'infelice si nutriva a prezzo del suo
corpo”), che descrivono a loro volta un mito antichissimo e decisamente
poco noto, quello di Erisittone (greco: Ἐρυσίχθων, latino: Erysichthon)207,
205 Iustin., Hist. Phil. XXVIII, III, 8 (sull'episodio vd. anche G. De Sanctis, Scritti
minori, Roma 1966, I, p. 386). Col termine viscera, scrive Servio, commentatore di Virgilio (ad Aen. I, 211), non tantum intestina dicimus, sed quicquid sub corio est, si doveva
intendere cioè quicquid inter ossa et cutem est (ad Aen. VI, 253), le carni quindi; vd. anche R. Herzog, Malaria und Tollwut, p. 143.
206 Georg. III, 444-567. Vd. J. Heurgon, L'épizootie du Norique et l'histoire, «Revue
des Études Latines» 1964, pp. 236-241; E.L. Harrison, The Noric Plague in Virgil's Third
Georgic, «Papers of Liverpool Latin Seminar» 2, 1979, pp. 1-67; E. Flintoff, The Noric
Cattle Plague, «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» 13,1, 1983, pp. 85-111; R. Roncalli Amici, Virgil, the Georgics. Veterinary Reflections, in A. Veggetti et al. (edd.), 35th International Congress of the World Association for the History of Veterinary Medicine, Grugliasco (Torino), Sept. 8-11, 2004, Proceedings, Brescia 2005, pp. 31-40, spec. pp. 38 ss.
207 Si vedano, con riferimento ad Agazia, R.C. McCail, Erysichthon, Sin and Autophagy, «Mnemosyne» 17, 1964, p. 162; più diffusamente A. Kaldellis, Things are not
what they are: Agathias Mythistoricus and the last Laugh of Classical Culture, «Classical Quarterly» 53, 1, 2003, pp. 295-300 e A. Alexakis, Two verses of Ovid liberally
translated by Agathias of Myrina (Metamorphoses 8.877-878 and Historiae 2.3.7), «Byzantinisce Zeitschrift» 101, 2, 2009, pp. 609-616.
68
eroe tessalo ricordato da poeti come Callimaco (nell'Inno a Demetra) o
Licofrone, nell'Alessandra208. In ogni caso è Ovidio a lasciarci la narrazione più articolata, compiuta, e drammatica, del mito209, di cui si servì secoli
dopo con stringata abilità persino Dante, nel Purgatorio210. Si tratta della
storia dell'arrogante figlio del re Triopa, che non temeva l'ira degli dèi:
dopo aver violato un bosco sacro a Demetra, in particolare una venerabile
quercia211, Erisittone fu condannato dalla dea ad una fame devastatrice che
lo costrinse a una misera vita e lo condusse alla fine a divorare se stesso212.
Agathias has simply adapted the myth of Erysichthon a ruthless
208
Su Callimaco di Cirene (310-240 a.C.), Inno a Demetra, 31-115 (v. 33: Ἐρυσίχθονος), vd. in gen. K.J. Mc Kay, Erysichthon: a Callimachean Comedy, Leiden, 1962.
Callimaco non fa morire Erisittone come Ovidio, ma lo lascia disperato (e affamato! vv.
66 ss.) a mendicare per le strade; vd. N. Hopkinson, Callimachus, Hymn to Demeter,
Cambridge (1984=) 2004, pp. 18-30; Juanita C.K. Elford, Ovid's Erysichthon, pp. 55-56
e anche A. Alexakis, Two verses of Ovid, pp. 611. Di Licofrone, vissuto attorno al 270
a.C., rimane l'ampio frammento di un poema in trimetri giambici, Alessandra (=Cassandra). Il mito di Erisittone (chiamato, secondo una variante, Aethon) vi è ricordato nei versi 1391 ss. senza enfasi particolare, salvo il cenno alla condanna all'inedia da parte di Demetra. Non risultano influenze di Licofrone su Ovidio e tanto meno su Agazia, in quanto,
la descrizione che quest'ultimo dedica all'antro della Sibilla (I, 10, 2-3, pp. 21-22; tr.
ingl., p. 17) difficilmente potrebbe essere fatto rimontare a Licofrone (Alex. 1270-1280).
209 La narrazione completa si trova nelle sue Metamorfosi, VIII, 738-878; Ovidio accenna ad Erisittone anche nel poemetto Ibis (vv. 425-426).
210 XXIII, 25-27: Non credo che così a buccia strema | Erisittone fosse fatto secco, |
per digiunar, quando più n'ebbe tema. Dante, parlando degli spiriti golosi, condannati a
scontare fame e sete insaziabili, richiama quel mito dicendo di non credere che Erisittone
fosse ridotto nello stato di magrezza in cui vedeva gli spiriti, neppure quando il digiuno
non gli fece più paura (quando più n'ebbe tema), cioè quando cominciò ad addentare le
proprie membra. Dante sintetizza il cuore del racconto ovidiano, consapevole di stravolgerne alcuni elementi (non è Erisittone in Ovidio, infatti, ad essere magro) pur di arrivare
alla sintesi cercata. L'immagine di orribile magrezza attribuita all'autofago è stata mutuata e rielaborata attingendo forse al personaggio della Fame creato da Ovidio per lo stesso
mito. Qualche studioso ritiene che Erisittone sia stato per Dante addirittura il modello per
la figura del conte Ugolino (Inf. XXXII-XXXIII), vd. per questo specif. R.A. Shoaf,
Ugolino and Erysichthon, in M.U. Sowell (ed.), Dante and Ovid. Essays in Intertextuality, Binghamton (N.Y.), 1991, pp. 51-64.
211 Lucano, senza citare esplicitamente Erisittone, attribuisce la di lui empietà a Cesare, il quale fece abbattere una quercia, e un bosco sacro a Demetra, nel corso dell'assedio
di Marsiglia (Phars. III, 426-445); vd. anche O.C. Philips, Lucan's Grove, «Classical Philology» 63, 4, 1968, pp. 296-300.
212 Solo in Ovidio abbiamo questa estrema soluzione: vd. Juanita C.K. Elford, Ovid's
Erysichthon, p. 89 (tracce anche nel folclore dell'isola di Cos, con soluzioni narrative simili a quelle proposte da Ovidio; vd. qui la nota 221). Sul mito e sulle sue elaborazioni
poetiche mi limito a rinviare a Jackie Murray, The Metamorphoses of Erysichthon: Callimachus, Apollonius, and Ovid, saggio pubblicato in Callimachus II (edd. by M.A. Her69
man who cut down a tree in a grove of Demeter. As punishment, he was
afflicted with insatiable hunger, which led him to eat him self in exactly
the same way as Leutharis. Few versions of this myth have survived, but
the similarity in undeniable213. È difficile infatti non cogliere la somiglianza tra le parole di Agazia e i versi di Ovidio: con esse siamo messi elegantemente davanti a una rielaborazione poetica, non certo a una realtà fattuale,
e men che meno davanti alla sintomatologia o alla diagnosi di un morbo214.
Indagare sulla genesi della citazione ci aiuta a capire come lavorava Agazia, e poco importa sapere se si sia trattato d'una citazione che lo
storico, a sua volta poeta, aveva tratto da Ovidio, ispirandovisi (con minore probabilità traducendolo); se era frutto di una fonte diversa; oppure di
rielaborazione di materiale letterario proprio, come quello che si trova in
un epigramma dello stesso Agazia, nel quale il mito di Erisittone era rivisto in termini satirici. Di seguito il piccolo testo pieno d'ironia215:
Οὔ τις ἀλοιητῆραϛ ἰδεῖν τέτληκεν ὀδόντας
ὑμετέρουϛ͵ ἵνα σοῖς ἐν μεγάροις πελάσῃ·
εἰ γὰρ ἀεὶ βούβρωστιν ἔχεις Ἐρυσίχθονος αὐτοῦ͵
ναὶ τάχα δαρδάψεις καὶ φίλον ὃν καλέεις.
ἀλλ' οὑ σεῖο μέλαθρά με δέξεται· οὑ γὰρ ἔγωγε
βήσομαι ὑμετέρῃ γαστρὶ φυλαξόμενος.
εἰ δὲ ποτ' ἐς τεὸν οἶκον ἐλεύσομαι͵ οὑ μέγ' ἂνυσσεν
Λαρτιάδης Σκύλλης χάσμασιν ἀντιάσας·
Nessuno sopporta la vista dei tuoi
denti molari, tanto da avvicinarsi a
casa sua; ché, se hai sempre la
fame vorace d’Erisittone stesso, sì,
finirai per mangiare anche l’amico
che inviti. Ma la tua dimora non
m’accoglierà: io non entrerò per
farmi ospitare dal tuo ventre. E se
der, R.F. Regtuit, G.C. Wakker), Groningen 2002, pp. 207-241 e ancora a Juanita C.K.
Elford, Ovid's Erysichthon, pp. 66-90. Ovidio, che esibisce con il mito di Erisittone la
propria originalità, conosceva certamente la diversa interpretazione che ne aveva dato
Callimaco: vd. K. Galinski, Ovid's Metamorphoses: an Introduction to the Basic Aspects,
Berkeley and Los Angeles, 1975, pp. 5 e 8; ancora Juanita C. K. Elford, Ovid's Erysichthon, pp. 82-85 e 91-92. Sulle fonti di Ovidio, a proposito del mito, si vedano A.S. Hollis, Ovid Metamorphoses Book VIII, Oxford-New York 1970, pp. 128-132 e F. Bömer, P.
Ovidius Naso - Metamorphosen. Buch VIII-IX, Heidelberg 1977, pp. 232-238.
213 A. Kaldellis, Things are not what they are, p. 297.
214 Tuttavia, in Ovidio, l'insaziabile fame di Erisittone (pestifera lacerare Fame, v.
784) è indicata come un grave stato patologico (gravi... morbo, v. 876), e quella fame
morbosa lo costringe a divorare se stesso, trasformando le sue carni nello strumento della
pena che lo conduce a vendicare la sua ὕβρις attraverso il suo stesso annichilamento fisico.
215 Non è questo l'unico epigramma agaziano con al centro la figura dell'insaziabile
ghiottone dalle abitudini alimentari discutibili, rilevate in salsa ironica (vd. Anth. Pal.,
IX, 642, 643 e 644 = G. Viansino, Agazia, pp. 90-92, e Begoña Ortega Villaro, Some
Characteristics, pp. 279-283). Si trova nell'Anthologia Palatina, XI, 379 = G. Viansino,
Agazia, pp. 156-159, e anche in appendice alla citata edizione agaziana di Niebhur (p.
387, epigramma n. 92); vd. anche K.J. Mc Kay, Erysichthon, spec. pp. 49 e 124. La traduzione italiana di M. Marzi, sopra riportata, contenuta nel lavoro di G. Agosti, Conoscere è imitare? Poesia tardoantica e letteratura latina, «European Summer School of Classic» X, 2011, § c.2 (Ovidio nelle Storie di Agazia?) si può trovare in Internet: www2.units.it/eussc/pdf11/Agosti.handout.pdf.
70
ἀλλ' ἔσομαι πολύτλαϛ τις ἐγὼ πλέον͵ εἰ σὲ περήσω͵
Κύκλωποϛ κρυεροῦ μηδὴν ἐλαφρότερον
mai verrò a casa tua, non tanta
prodezza compì il Laerziade
affrontando le gole di Scilla, ma
più di lui sarò “l’eroe paziente”,
se m’appresserò a te, del Ciclope
agghiacciante per nulla più mite.
In ogni caso, a parte la curiosità di leggere qualcosa dell'Agazia
poeta216, che in questo caso fa prevalere l'intento satirico, quando non
umoristico, è bene ricordare come, nelle sue Storie prevalga decisamente
l'intento moralistico, nell'episodio di Leutari in maniera particolare, con
tutto l'armamentario orrorifico. Certo può anche ben darsi che none of this
really happened217, ma dietro alla complessa, angosciosa e laboriosa rappresentazione dell'agonia di Leutari credo ci fosse stata qualche informazione “effettiva” sulla quale poi l'artista lavorò più dello storico.
Ha scritto uno studioso che the symptoms we read in Agathias'
account belong, in all probability, to an imaginary disease [“i sintomi che
leggiamo nel racconto di Agazia appartengono, con ogni probabilità, ad
una malattia immaginaria”] e Agazia, nell'occasione, si sarebbe fatto, da
storico, mitistorico218. La “citazione” ovidiana ci deve mettere sull'avviso
e farci riflettere sulle modalità narrative adottate da Agazia, il quale ovviamente – nel caso di Leutari – non ha voluto probabilmente descrivere sintomi reali, ma ha scelto piuttosto di “giocare” con i suoi lettori219: ha messo la sintomatologia fantastica del mito al servizio di una prosa elegante220, ovvero si è servito di un registro popolare, sopravvissuto nel folclore
216
L'epigramma agaziano di dieci versi contiene, come si è visto, rinvii a due personaggi dell'Odissea dalla scoperta venatura antropofagica, Scilla e il ciclope Polifemo (a
proposito del Klimax des Kannibalismus che si respira nel mito di Erisittone e nelle sue
molte sfaccettature, vd. Detlev Fehling, Erysichthon oder das Märchen von der
mündlichen Überlieferung, «Rheinisches Museum» n.s. 115, 1972, p. 195). Riferimenti a
Scilla in Anth. Pal., XI, 270 e 271, accostabili a Giovanni Lido, De magistratibus, III, 46,
che cita pure il Ciclope (III, 59); vd. J. Caimi, Burocrazia e diritto, pp. 216 e 246.
217 A. Kaldellis, Things are not what they are, p. 297.
218 A. Alexakis, Two verses of Ovid, p. 611. Vd. anche A. Kaldellis, Things are not
what they are, p. 297.
219 Che Agazia abbia potuto trarre ispirazione anche in altri passi ovidiani e dallo
stesso Libro VIII delle Metamorfosi è pressoché certo, vd. spec. A. Kaldellis, Things are
not what they are, pp. 298-299 che indica prestiti da quel libro, ad es. nella storia della
caccia ai bufali ove Agazia ambienta la morte del re franco Teudeberto (vd. spec. Agath.
I, 4, 5-6, pp. 14-15, tr. ingl, pp. 12-13).
220 Vd. A. Alexakis, Two verses of Ovid, p. 613 (e n. 25), che rimarca ad es. l'invenzione agaziana di ὑποφθινύθων, una manipolazione dal verbo originario φθινύθω,
“consumare”, fino a ricavarne un hapax ad hoc per rendere il concetto espresso da Ovidio con il gerundio latino minuendo; per questo lemme verbal... inconnue par ailleurs et
absente des dictionnaires, vd. il Thesaurus Agathiae Myrinaei, p. xxvii.
71
dell'isola di Cos, verso la quale Agazia nutrì un sentimento speciale.221
Al di là delle differenze, lessicali e tecniche, tra il passo di Agazia e i versi di Ovidio non sembra porsi in dubbio la dipendenza – di ispirazione, se non letterale – del primo dal secondo, e inoltre la storia raccontata da Ovidio si caratterizza tipicamente per una speciale enfasi moralistica222, tanto quanto quella di Agazia che forse proprio per questa ragione ha colto l'occasione di usare uno spunto letterario per corroborare il
proprio afflato moralizzatore.
Se è vero che we can even determine the exact point of transition
between history and myth in Agathias, for there is a discontinuity between
Leutharis' circumstances and his death. Erysichthon devoured himself out
of hunger, whereas Leutharis, less plausibly, did so when his army was afflicted with the plague. Agathias could presumably non go so far as to
change the plague to a famine223 [“noi possiamo determinare l'esatto punto di passaggio tra storia e mito in Agazia, in quanto esiste discontinuità
tra la situazione di Leutari e la sua morte. Erisittone divorò se stesso per
fame, mentre Leutari, meno plausibilmente, lo fece quando le sue truppe
vennero colpite dalla pestilenza. Agazia potrebbe forse aver deciso di trasformare la fame in pestilenza”], e torniamo a un gioco di parole, familiare nel mondo greco, tra λοιμός (pron.: loimós), contagio, pestilenza, e
λιμός (pron.: limós), fame, carestia.
221 Il mito di Erisittone è sopravvissuto, in area greca, per circa 2400 anni, in particolare nell'isola di Cos [Κῶς], nel Dodecanneso, attraverso una solida tradizione orale, trasformandosi in una favola che ha conservato intatti tutti i suoi elementi costitutivi. Si
trattava di una storia coinvolgente, non elitaria, anzi molto più popolare di quello che
possiamo pensare noi oggi, come ha efficacemente mostrato il già citato Detlev Fehling
(Erysichthon oder das Märchen, pp. 173-196), che ha studiato il complesso percorso di
un materiale narrativo che ha conservato in sé, ancora ben individuabili, i tratti che Callimaco e Ovidio seppero infondergli. Perciò l'idea che Agazia avesse voluto esibire un
tema erudito e non invece richiamarsi ad un soggetto popolare potrebbe essere un pregiudizio moderno; sulla favola di Dimitrula vd. R.M. Dawkins, Forty-Five Stories from the
Dodekanese, Cambridge 1950; Id., Modern Greek Folktales, Oxford 1953; E. J. Kennedy, Erysichthon on Cos, «Mnemosyne» 16, 1963, p. 57; N. Robertson, The Ritual Background of the Erysichthon Story, «The American Journal of Philology» 105, 4, 1984, pp.
369-408 e Juanita C. K. Elford, Ovid's Erysichthon, pp. 5-6. Vd. poi, per i rapporti tra
Agazia e l'isola di Cosa, Agath. II, 16, in.; tr. ingl. p. 49; a proposito del terremoto e del
maremoto che distrussero gran parte dell'isola nel 551 (o nel 558) e Averil Cameron,
Agathias, pp. 1 e 139. Il poeta-storico aveva visitato le rovine dell'isola, dopo il sisma, e
aveva forse potuto apprendervi le leggende locali; non dimentichiamo il suo fraterno
amico, il poeta Damocharis, nativo di Cos (vd. PLRE III-A, s.v. Damocharis, p. 387).
222 Vd. K. Galinski, Ovid's Metamorphoses, p. 53 e A. Alexakis, Two verses of Ovid,
pp. 615-616.
223 A. Kaldellis, Things are not what they are, p. 297.
72
È almeno da sottolineare che le manifestazioni di follia autodistruttiva (autofagica!) attribuite al povero Leutari, e che saranno più avanti rivisitate, non sono associate da Agazia a possessioni diaboliche: in
questo senso il nostro storico – magari con più di un occhio di riguardo a
qualche mito raffinato! – non si mostra affatto prono alle nuove concezioni “mediche”, oscurantiste diremmo oggi, di natura esorcistico-demonologica, che si stavano affermando in quegli anni nel mondo bizantino, in
concorrenza con la altrimenti solida cultura terapeutica tradizionale224.
In ogni caso, se non teniamo conto nel mondo animale, che tuttavia potrebbe aver ispirato lo stesso Ovidio, attraverso Esiodo225, sono effettivamente attestati, in letteratura, alcuni reali casi di autofagia umana,
soprattutto dovuti alla fame226: nel racconto agaziano non vi è cenno specifico a penurie o a difficoltà alimentari, ma non è difficile – né azzardato
– supporle in considerazione del già richiamato, improvviso, aumento della popolazione, dovuto all'arrivo degli alamanni.
Già nel caso dell'incursione franca del 539, mal congegnata al
pari di quella del 553-554, Procopio aveva descritto come modalità caratteristica dell'insediamento degli incursori, il consumo sregolato delle risorse dell'area, fino a rimanere vittime delle proprie stesse razzie, e dell'esaurimento delle provviste227. Non escluderei in via di principio che qualche caso di cannibalismo sia stato testimoniato ad Agazia, dandogli agio
di rielaborare la notizia. E arriviamo alla fine degli uomini di Leutari:
8. ἔθνησκον δὲ χύδην καὶ οἱ
ἄλλοι, οὐδὲν ὅ τι καὶ ἀνιέντος τοῦ
κακοῦ, ἓως ἅπαντες διεφθάρησαν.
καὶ πυρετῷ μὲν οἱ πλεῖστοι πιεζόμενοι νηφαλέοι γε ὅμως ἀπώλλυντο,
8. Gli altri pure morirono a caterve e il
morbo continuò a infuriare fin che tutti
giacquero senza vita. La maggior parte
di loro, benché tormentati dalla febbre,
rimasero lucidi fino alla fine. Alcuni
224
Vd. ad es. A. Vakaloudi, Illness, curative methods and supernatural forces in the
early Byzantine Empire (4tth-7th C. A.D.), «Byzantion» LXXIII, 2003, pp. 172-200; R.
Sallares, Ecology, Evolution, p. 234.
225 Vd. Juanita C.K. Elford, Ovid's Erysichthon, pp. 91-92 a proposito di Esiodo, Op.
524-526 già citato in precedenza, vd. comunque T.F. Higham, Nature Note: Autophagy in
Octopods. Hesiod Vindicated, «The Classical Review» New Series, 7, 1, 1957, pp. 16-17.
226 Vd. J. Delumeau, La peur en Occidente (XIVe-XVIIIe siècles), Paris 1978, p. 164,
citato da P. Camporesi, Il pane selvaggio, Bologna 1983, p. 39 (periodo della Guerra dei
Trent'anni: Piccardia): ce que nous n'oserions dire si nous ne l'avions vu et qui fait
horreur, ils se mangent les bras et les mains et meurent dans le désespoir. Vd. anche B. e
W.L. Parry-Jones, Self-mutilation in four historical cases of bulimia, «The British Journal of Psychiatry» 163, 1993, pp. 394-402; A.R. Favazza, Bodies under Siege: Self-mutilation, Non Suicidal Self-injury, and Body Modification in Culture and Psychiatry, Baltimore (1987, 1999=) 2011 (in part. p. 43, con riferimento al mito di Erisittone).
227 Procop. Bell. Goth. II, 25 (tr. it. p. 511).
73
ἐνίοις δὲ καὶ ἀποπληξία ἐνέσκηπτεν
ἰσχυρὰ καὶ ἑτέροις καρηβαρία, καὶ
παραφροσύνη ἑτέροις· ποικίλα μὲν
γὰρ αὐτοῖς ἐπεφέρετο πάθη, ἅπαντα
δὲ εἰς ὄλεθρον ἀπεκρίνετο. Λευθαρίῳ
μὲν οὖν καὶ τῷ ἑπομένῳ ὁμίλῳ ἐς
τόδε τύχης τὰ ἐκοστατείας ἐτελεύτα.
furono colpiti da una sorta di paralisi,
altri caddero in deliquio, altri ancora
morirono in delirio. Assai variegate le
malattie che li colpirono, ma tutte li
condussero alla morte. Questo pertanto
fu la disastrosa sorte della spedizione
di Leutari e dei suoi uomini.
Di ἀποπληξία, come anche di παραπλησία (ricordo ad es. il
παραπλήξ del precedente § 6), oltre che della febbre, Agazia parlerà anche – e lo vedremo – nel parlare dei sintomi della peste bubbonica del
558, a Costantinopoli (vd. V, 10, 3, p. 176; tr. ingl. p. 145). Agazia mostra
di sapere descrivere i sintomi più comuni alle gravi malattie nelle quali si
dovette imbattere, come cittadino e come storico.
Leggendo il χύδην agaziano – che pure si ritroverà nella descrizione della peste – sovvengono due avverbi lucreziani, di altrettale macabra promiscuità, usati per descrivere la quantità di morti nella peste; catervatim e acatervatim228; Tucidide aveva preferito: ὥσπερ τὰ πρόβατα
ἔθνῃσκον “morivano come le pecore” (II, 51).
Si è dubitato però dello sterminio totale degli alamanni. Ernst
Stein aveva scritto, con avveduta prudenza: Leutharis et un grand nombre,
sinon la plupart, de ses troupes succombèrent à une épidémie229.
“Il morbo effettivamente assunse una varietà di forme, ed effettivamente ciascuna si risolse con la morte”, come racconta Agazia, offrendoci una, forse casuale, reminiscenza tucididea: ἅπαντα δὲ εἰς ὄλεθρον
ἀπεκρίνετο230. Quel sostantivo, ὄλεθρος, è una parola particolare, non riservata a descrivere una morte qualunque: era termine tragico, fatale, usato per i flagelli per eccellenza, dalla peste tebana di Edipo (Esiodo, Teogonia, 326); alla “rovina” che Nestore preconizza agli Achei minacciati
dall'improvvisa reazione troiana (Iliade, X, 174); alla eschilea “silenziosa
morte che annienta” di Eumenidi, 935, tuttavia questa non è la sede più
adatta per discutere approfonditamente di questi tecnicismi letterari.
Spesso la cultura e l'erudizione prendono la mano ad Agazia,
228
229
230
Rispettivamente De rer. nat. VI, 1142 e 1261.
Bas-Empire, II, pp. 607-608.
II, 49, 1: se qualcuno era già colpito da qualche infermità, ἐς τοῦτο πάντα
ἀπεκρίθη, letteralmente essa si risolveva in questa [peste]; il riferimento al passo tucidideo si trova nell'edizione di Agazia a cura di S. Costanza, p. 68. Mi sarei tuttavia aspettato il rinvio ad un passo successivo di Tucidide (II, 51) che sostanzialmente recita: durante tutto quel tempo non li afflisse nessuna delle consuete malattie, o se qualcuna li colpiva, si risolveva in quella [=peste]. Come già ricordato in precedenza l'uso della parola
“peste” per l'epidemia narrata da Tucidide è ormai tradizionale, ma non è corretto.
74
poeta prestato alla storia: i suoi giudizi sono spesso affrettati e dettati da
pregiudizi di convenienza religiosa; i pagani alamanni, ad esempio, non
accoglievano la verità e quindi erano nel peccato, e sarebbero stati puniti
per questo, specie quando l'assenza della verità nei loro animi si fosse trasformata nella rabbiosa furia saccheggiatrice delle chiese: e chi li aveva
guidati in quel percorso di follia ne avrebbe pagato il fio231. La sconfitta
(di franchi e) alamanni è pertanto dovuta alla loro intrinseca malvagità,
che è ἀδικία, letteralmente “mancanza di giustizia”: e l'ἀδικία include
l'ἀφροσύνη, qualcosa, cioè, di molto simile alla follia.
Agazia non esita a citare, come termine di paragone (a mio avviso anche qui senza troppa convinzione), un episodio della tragica spedizione in Sicilia, nel corso della Guerra del Peloponneso narrata da Tucidide (415-413 a.C.)232: divine intervention was for him a valid sufficient historical explanation. Any disaster could for him be explained as a punishment sent from God for the sin which men had committed233.
Agazia usa una “meccanica” peccato/punizione decisamente semplicistica e non fa l'uso marcato di un concetto “pagano” come τύχη,
“sorte”, “destino”, come usa invece Procopio234: per Leutari e i suoi, finiti
a morire orribilmente a Ceneda dopo aver saccheggiato invano mezza Italia, le chiese in particolare, Agazia sceglie però di usare τύχη235, e non mi
sembra che in questo caso il concetto si possa leggere nella forma attenuata che viene attribuita al nostro storico (while τύχη means simply 'chance',
and not any kind of personified fate236); qui è evidente che si parla di “destino” conseguente alle azioni, e cioè della “disastrosa sorte della spedizione di Leutari e dei suoi uomini” come ho ritenuto di dover tradurre.
Depurato dal giudizio divino, dall'incrostazione letteraria e mitologica, l'esito da contrappasso dantesco toccato agli alamanni ci offre un
insperato scorcio di storia (e di epidemiologia) locale d'assoluto interesse.
231 Vd. Averil Cameron, Agathias, pp. 55 e p. 94.
232 Vd. Averil Cameron, Agathias, p. 55 (con riferimento
ad Agath. II, 10, 5, p. 54; tr.
ingl. p. 43; i passi tucididei di riferimento sono nel VI libro): vd. M. Rampi, La storiografia agaziana, p. 57, e nota 71; Begoña Ortega Villaro, Agatías, Historias, pp. 153154, nota 195.
233 Averil Cameron, Agathias, pp. 55-56.
234 Vd. Averil Cameron, Agathias, pp. 56 e 96-97.
235 Agath. II, 3, 8 (in fine), p. 44; tr. ingl., p. 35.
236 Averil Cameron, Agathias, p. 97 (anzi, ha scritto l'autrice, a proposito di Agazia,
ibid.: the absence of from any major role in the History is another manifestation of the
genuinely Christian sentiments which lie behind it); vd., in questo senso, S. Impellizzeri,
La Letteratura bizantina. Da Costantino a Fozio, Firenze 1975, p. 236; sulla τύχη in Agazia, e sulla sua “accezione comune e banale”, vd. anche S. Costanza, Orientamenti cristiani, p. 106.
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Mi sembra infatti si possa concludere questo capitolo, osservando che l'esame dettagliato della testimonianza di Agazia – persino malgré
lui – costituisce un tassello per la conoscenza della vicenda dell'area cenedese all'inizio della seconda metà del VI secolo d.C., un'epoca altrimenti
pressoché priva di riscontri specifici.
Dobbiamo ricordare che Ceneda, piccolo borgo fortificato, era (o
si apprestava di lì a poco, a divenire) sede di un episcopato237 e quindi capitale del più sconosciuto (e misconosciuto) dei ducati longobardi: pertanto veder attribuita alla località, da parte bizantina, importanza militare, e
di immagine, non è poco, anzi mostra che le informazioni che abbiamo
definito di intelligence, avevano colto nel segno concentrandosi su ciò che
accadeva a Ceneda. La centralità della cittadina come snodo stradale e
presidio strategico era stata perfettamente compresa.
Non importa che Agazia, tutto preso dal suo “racconto esemplare”, ometta tout court di parlarci della sorte della popolazione cenedese
nella circostanza: leggendo Agazia tocchiamo con mano la sua vaghezza
socio-antropologica e ricaviamo persino la curiosa impressione che pensasse all'Italia come a una terra popolata da goti, quindi da “nemici”; egli
non si identifica mai con la popolazione romana o italica – che pare assente – né parla della guerra vinta alla fine da Narsete come di una “guerra di liberazione”, cavallo di battaglia della propaganda giustinianea evidentemente già messa da parte: quel tempo era ormai passato238.
Cap. 4 - Le condizioni climatiche in Europa e in Italia, le carestie e lo
scatenarsi della “peste giustinianea” tra 541 e 544 d.C.
È necessario entrare negli interna corporis della testimonianza
agaziana, più di quanto non si sia fatto nel commentare le sue parole, e
cercare di individuare cosa provocò la strage degli alamanni invasori a
Ceneda, tanto da meritare di essere ricordato nonostante la modestia della
località e la scarsa correlazione tra la fine di Leutari e dei suoi e il prosie237
De origine episcopatus Cenetensis viri docti inter se discordant scriveva P.F. Kehr
(Regesta Pontificum Romanorum – Italia Pontificia – vol. I, Venetia et Histria, pars. I,
Provincia Aquleiensis, Berolini, 1923, p. 82); io stesso ho altrove ipotizzato, cercando di
portare elementi a sostegno della tesi, che non potesse affatto escludersi la creazione di
un episcopato cenedese già nella prima metà del VI secolo, sotto la stessa occupazione
franca o poco più tardi (vd. M. Gusso, Franchi Austrasiani, pp. 66-75 e Id., Silloge delle
fonti su Ceneda, pp. 86-88).
238 Vd. Averil Cameron, Agathias, p. 118.
76
guo della storia. Cerchiamo quindi – a questo punto – di determinare quale tipo di malattia si sviluppò a Ceneda nell'autunno del 554 d.C., prendendo le mosse dal contesto climatico degli anni immediatamente precedenti, e dalle implicazioni che, sul delicato equilibrio demografico dell'epoca, ebbe la prima catastrofica pandemia degli anni 541-544.
Prendiamo in esame le fonti principali che illustrano le condizioni generali del periodo: bisogna risalire ad almeno cinque anni prima, infatti – al 536 – quando situazioni meteorologiche “estreme” avevano dato
luogo a severi episodi di raffreddamento nell'emisfero settentrionale, probabilmente a causa di eruzioni vulcaniche239; si è parlato da parte di alcuni
studiosi anche della possibilità di un impatto della terra con un corpo celeste, una cometa o un asteroide240.
Comunque prodotta, una vastissima area di polveri sospese gravò l'atmosfera terrestre alterando significativamente soleggiamento e condizioni atmosferiche generali, e riducendo drasticamente qualità e quantità dei raccolti. Ricordo che un'eruzione vulcanica può rilasciare polveri
raggiungendo lo spazio compreso tra la troposfera (la regione più bassa, a
circa dieci chilometri d'altezza) e la stratosfera (la regione più alta), con
239
Si era pensato al Krakatoa, sull'isola di Giava, ma ora gli studiosi si orientano
piuttosto su qualche vulcano dell'emisfero settentrionale. Si vedano R. B. Stothers-M.
Rampino, Volcanic Eruptions in the Mediterranean before AD 630 from Written and Archaeological Sources, «Journal of Geophysical Research» 88, 1983, pp. 6357-6371; ancora R. B. Stothers, Mystery Cloud of AD 536, «Nature» 307, 1984, pp. 344–45; Id., Volcanic Dry Fogs, Climate Cooling, and Plague Pandemics in Europe and the Middle East,
«Climatic Change» 42, 1999, pp. 713–723; D. Keys, Catastrophe. An Investigation into
the Origins of the Modern World, New York 2000, pp. 251-295; M. McCormick, Rats,
Communications, and Plague: Toward an Ecological History, «Journal of Interdisciplinary History» 34, 2003, pp. 1–25, part. pp. 20 ss.; A. Arjava, The Mystery Cloud of 536
CE in the Mediterranean Sources, «Dumbarton Oaks Papers » 59, 2005, pp. 73-94; R.
Sallares, Ecology, Evolution, and Epidemiology of Plague, in L. K. Little (ed.), Plague
and the End of Antiquity, Cambridge University Press 2007, pp. 284-285 e il lavoro collettivo di L. B. Larsen et al., New Ice Core Evidence for a Volcanic Cause of the A.D.
536 Dust Veil, «Geophysical Research Letters» 35, 2008, L04708, che ha studiato gli effetti della nube di polveri acide sui ghiacci, http://www.agu.org/pubs/crossref/2008/2007GL032450.shtml (ricordo che i dati relativi ai ghiacci sono sempre osservati con una
oscillazione temporale at A.D. 533-534 ± 2 years). Per le anomalie rilevabili nelle sezioni del legno degli alberi vd. invece M. Baillie, Dendrochronology Raises Questions
about the Nature of the AD 536 Dust-Veil Event, «The Holocene» 4, 1994, pp. 212–217.
240 Sull'ipotesi cometa, vd. M. Baillie, Exodus to Arthur. Catastrophic Encounters
with Comets. 2nd ed. London, 2000, pp. 65-88 e passim; E. Rigby-M. Symonds-D. WardThompson, A Comet Impact in AD 536?, «Astronomy & Geo-physics» 45, 2004, 1.231.26. Sull'asteroide: M. McCormick, Rats, Communications, and Plague, p. 21 (“oceanic
asteroid”); B. Ward-Perkins, The Fall of Rome and the End of Civilisation, Oxford 2005,
tr. it. La caduta di Roma e la fine della civiltà, Roma-Bari 2008, p. 163.
77
conseguenze e durate diverse rispetto agli sviluppi della conseguente “velatura” della luce solare.
Fondamentale la testimonianza di Procopio di Cesarea, il quale,
scrivendo della guerra africana dei bizantini contro i vandali, nel 536, ricorda che καὶ τέρας ἐν τῷδε τῷ ἔτει ξυνηνέχθη γενέσθαι δεινότατον. ὁ
γὰρ ἥλιος ἀκτίνων χωρὶς τὴν αἴγλην, ὥσπερ ἡ σελήνη, ἐς τοῦτον δὴ
τὸν ἐνιαυτὸν τὴν ἅπαντα ἠφίει, ἐκλείποντί τε ἐπὶ πλεῖστον ἐῴκει, τὴν
ἀμαρυγὴν αὑτοῦ οὐ καθαρὰν οὐδὲ ᾗπερ εἰώθει ποιούμενος. ἐξ οὗ τε
συμβῆναι τοῦτο τετύχηκεν, οὔτε πόλεμος οὔτε λιμὸς οὔτε τι ἄλλο ἐς
θάνατον φέρον τοὺς ἀνθρώπουϛ ἀπέλιπε. χρόνος δὲ ἦν, ὅτε δέκατον
ἔτος Ἰουστινιανὸς τὴν βασιλείαν εἶχεν [quell'anno si verificò un feno-
meno molto impressionante: il sole mandò luce senza raggi, alla maniera
della luna, per l'intera durata dell'anno, e sembrò del tutto simile ad un'eclisse, perché non c'era una luce splendente come il solito. Dal momento
in cui cominciò a verificarsi questo fenomeno, gli uomini continuarono
ad essere decimati dalla guerra, dalla carestia e da ogni altro flagello apportatore di morte. Era quello il decimo anno del regno di Giustiniano]241.
Sono diverse le fonti che ribadiscono e corroborano la testimonianza procopiana con concorde puntualità. Giovanni Lido, ad esempio,
conferma la carestia connessa alla riduzione della luce solare, scrivendo
che quando il sole si oscura a causa della produzione di umidità (ἀνάδοσιϛ
ὑγρότητοϛ), perché l'aria è più densa, e ciò è proprio recentemente avvenuto, durante la scorsa quattordicesima indizione per quasi tutto l'anno,
sotto il consolato di Belisario (τὴν ὕαπτον ἔχοντος Βελισαρίου), i frutti
(καρπούς)242 si guastarono prematuramente, perché nelle aree occidentali
(in Europa)... l'umidità presente (τῆϛ ὑποκειμένηϛ ὑγρότητοϛ), trascinata
in alto fino a unirsi alle nubi, oscura lo splendore del disco solare nascondendolo alla nostra vista, che non riesce ad attraversare quella densità e a raggiungerlo243.
241 Procopio, Bell. Vand. II, 14 (la tr. it., pp. 296-297, che ho riportato, va corretta nel
“pestilenza” che reca, a fronte del “carestia” del testo procopiano).
242 The Greek word καρπούς (translated literally and as such correctly as
“fruits”...) may refer to any produce and often to the grain harvest, come nota A. Arjava,
The Mystery Cloud, p. 80.
243 De ostentis 9c, tr. it., pp. 58-59. Nel passo viene citata la XIV indizione, 536 d.C.,
ma anche l'anno del consolato di Belisario, 535; ricordo che il 536 fu un anno senza consoli, ricordato tuttavia, soprattutto nelle fonti orientali, come postconsolato di Belisario
(cfr. ad es. R.S. Bagnall et al. (edd.), Consuls of the Later Roman Empire, Atlanta, Georgia, 1987, p. 607); per la datazione del passo di Lido cfr. anche J. Caimi, Burocrazia e diritto, p. 67, nota 206 (questo autore ipotizza la composizione del De ostentis tra 540 e
543, in prossimità della catastrofe climatica); vd. anche D.Ch. Stathakopoulos, Famine
and Pestilence, pp. 265 e 267.
78
Se poi – nel tentar di spiegare il prodigio che gli era toccato in
sorte di interpretare – Lido abbia potuto, o meno, discernere effettivamente le caratteristiche della composizione fisica della nube di origine vulcanica, non sono in grado di dire244.
Anche Michele il Siro conferma il fenomeno nel dettaglio: pur
scrivendo nel dodicesimo secolo, infatti, egli si rifaceva a fonti contemporanee a Procopio, quali Giovanni Efesino245, così come fanno la cosiddetta
Chronicle of Zuqnin (= lo Pseudo Dionisio di Tell-Mahrē246, che pure deriva da Giovanni Efesino), la Cronaca di Zaccaria di Mitilene247, per non
parlare del continuatore di Marcellinus Comes248, e persino degli Annali
irlandesi249.
Si trattò di un periodo valutabile al suo apice in almeno diciotto
mesi, all'incirca tra aprile 536 e settembre 537, seguito da carestie straordinarie e altrettanto gravi deficit alimentari per le popolazioni250.
E in più infuriava la guerra in diverse aree, Africa e Italia, in particolare: per l'Italia, e anche per la Venetia, la situazione descritta da Procopio è altrettanto ben documentata nello stesso periodo e per il periodo
immediatamente precedente: vorrei ricordare che deficit annonari si erano
avuti in varie zone d'Italia già a partire dagli anni '20251, vuoi per ragioni
meteorologiche, che per difficoltà di approvvigionamento dei cereali siciliani252, e africani253, ma anche a causa di manovre speculative di grandi
244
E rinvio pertanto ancora a A. Arjava, The Mystery Cloud, pp. 80-81.
Vd. J.B. Chabot, Cronique de Michel le Syrien, Patriarche jacobite d'Antioche,
1166-1199, Paris 1899-1910, II, 220-221). Per un inquadramento generale di questa e
delle altre fonti siriache, che saranno citate anche in seguito, vd. M.G. Morony, 'For
Whom Does the Writer Write?' The First Bubonic Pandemic According to Syriac Sources, in L. K. Little (ed.), Plague, pp. 59-86.
246 La c.d. Chronicle of Zuqnin, conosciuta come Pseudo-Dionysius of Tel-Mahrē,
Chronicle, part. III, ed. W. Witakowski, Liverpool, 1996, p. 65 (tr. ingl.): the sun darkened
and stayed covered with darkness a year and half, that is eighteen months. Although rays
were visible around it for two or three hours (a day) they were as if diseased, with the result that fruits did not reach full ripeness. All the wine had the taste of reject grapes.
247 Vd. The Syriac Chronicle known as That of Zachariah of Mitylene, transl. F.J. Hamilton and E.W. Brooks, London 1899, repr. New York, pp. 9-19.
248 Ad a. 536.11, pp. 46 e 130 (ed. B. Croke).
249 Vd. The Annals of Ulster, ad a. 536; The Annals of Inisfallen, ad aa. 536-539 e poi
da The Annals of the Four Masters, ad a. 543.2.
250 Vd. A. Arjava, The Mystery Cloud, pp. 83-84; D.Ch. Stathakopoulos, Famine and
Pestilence, p. 267.
251 Lellia Cracco Ruggini, Economia e Società, pp. 471 ss.
252 Cassiodoro, Var. IX, 10; 11; 12 (anno 526), pp. 276-278.
253 Sempre nel 526 (Lellia Cracco Ruggini, Economia e Società, p. 471) si ricorse al
mercato ispanico, senza successo (Cassiodoro, Var. V, 35, pp. 162-163).
245
79
proprietari terrieri che cercavano di manovrare i prezzi al rialzo254, e infine per abusi e ruberie di funzionari pubblici255.
Nel 535, poi, Belisario sbarcò le sue truppe in Sicilia256 ed ebbe
avvio la guerra contro i goti che coinvolse fin dall'esordio i franchi, per
iniziativa di Giustiniano il quale si decise a chiedere ufficialmente la cooperazione della corte merovingia (di un sovrano cattolico quindi), contro i
goti ariani257.
La carestia causata dalla nube di polveri sospese nell'atmosfera
colpì già allora, in modo particolare, l'Italia settentrionale e il Veneto, tanto che si fece ricorso alle scorte dei centri di ammasso fiscale (per il Veneto quello di Tarvisium, Treviso)258: Cassiodoro scriveva propter sterilitatem
quoque praesentis temporis de singulis speciebus259, ottenendo dal re goto
Teodato la riduzione dei tributi e le distribuzioni di frumento a basso prezzo (pretia facite temperari), mentre si moltiplicavano le incursioni dei
barbari germanici (le diverse popolazioni a settentrione dell'Italia soffrivano della medesima fame) e i presidi goti impegnati nel conflitto con i bizantini non erano in grado di contenerli o respingerli260.
Quindi caratteristica costante per l'Italia, nel corso della guerra
gotico-bizantina, è il deficit annonario: in parte si trattò degli effetti dello
stress climatico e delle conseguenze della guerra, ma anche, come si è
254 Cassiodoro, Var. IX, 5 (anno 527), pp. 271-272 (quando homines in famis
periculo constituti rogantes offerunt quo se spoliari posse cognoscunt).
255 Cassiodoro, Var. XI, 5 (anno 533), p. 334.
256 Vd. J.B. Bury, History, II, p. 171 (la conquista dell'intera isola sarebbe stata completata entro il dicembre del 535). Nello stesso anno, la Novella XXXII di Giustiniano
(in Corpus Iuris Civilis, Vol. III, Novellae, pp. 239-240) indica grossi problemi derivanti
dalla carestia che interessava la Tracia, che era – lo ricordo – una regione produttrice di
grano (vd. J.L. Teall, The Grain Supply of the Byzantine Empire, 330-1025, «Dumbarton
Oaks Paper» 13, 1959, p. 135; D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, p. 265).
257 Vd. J.B. Bury, History, II, pp. 170-171. Sull'intento scopertamente ideologico che
aveva spinto Giustiniano a perseguire pervicacemente l'alleanza con i franchi “cattolici”
nella sua crociata antiariana, vd. Τ.Κ. Λουγγης, Ὁ «πρῶτος αὐτοκράτωρ Ρωμαίων»
καὶ ὁ «πρῶτος Ρωμαίων ἁπάντων». Ἡ ἀνολοκλήρωτη Reconquista. [= T.C. Lounghis, Le “premier empereur des Romains” et le “premier entre tous les Romains”. La
reconquête inachevée], pubbl. in «Βυζαντινα Συμμεικτα» [=Byzantina Symmeikta], 5,
1983, pp. 217-247 (pp. 240 ss. per l'evoluzione di tale politica dopo il 548).
258 Cassiodoro, Var. X, 27 (inizi 536), p. 314; cfr. A. Arjava, The Mystery Cloud, p. 80.
259 Var. X, 28 (536), p. 315; cfr. A. Arjava, The Mystery Cloud, p. 80.
260 Cassiodoro, Var. XII, 7 (saevam barbariem; Sueborum incursionem; cfr. G. Löhlein, Die Alpen- und Italienpolitik, pp. 30-31, note 100 e 102); Var. XII, 28 (Burgundiorum
incursionem; Alamannorum nuper fugata subreptio), p. 384. Sull'altalenanza delle fonti nel
citare alamanni e suebi, vd. H.J. Hummer, The Fluidity of Barbarian Identity: the Ethnogenesis of Alamanni and Suebi, AD 200-500, «Early Medieval Europe» 7,1, 1998, pp. 1-27.
80
detto, di ripercussioni delle scelte dei grandi proprietari terrieri che decisero di rinchiudersi nelle loro tenute, tesaurizzando le scorte e frenando la
circolazione delle derrate.
La miscela esplosiva, formata dalla guerra, dagli speculatori e
dallo stesso clima, peggiorato in maniera significativa a partire dal 536, fa
sì che le condizioni generali non lasciassero adito a particolari speranze.
Gli ultimi raccolti utili sembrano essere stati quelli del 533 e,
solo in parte, quelli del 534 e, mentre la guerra avanzava nella Liguria e
nella Venetia (primavera del 534), il governo ostrogoto cercava ancora di
riscuotere le esazioni arretrate e di disporre distribuzioni straordinarie di
frumento.
Il pendant italico del racconto procopiano sta nelle parole sul raffreddamento del clima scritte nel 536 da Cassiodoro, in una lettera indirizzata ad Ambrosius, facente funzioni del Prefetto del Pretorio per l'Italia,
un testo piuttosto interessante, citato spesso, ma quasi mai riproposto e
che resta quindi generalmente sconosciuto nei suoi dettagli261.
Tutto ciò che accadde in seguito, malattie, epidemie ecc. appare
in qualche modo iscritto nel contesto segnato dal drammatico shock climatico262 descritto da Cassiodoro, sia pur nel suo modo cancelleresco e
ampolloso. L'esordio parla di mutatos rerum ordines: è cambiata quindi,
agli occhi di tutti, la regolare disposizione delle cose, il senso stesso delle
cose. La traduzione intercalare proposta è mia263.
Quis autem de talibus non magna curiositate turbetur, si versa
vice consuetudinum a sideribus aliquid venire videatur obscurum? [Chi
dunque non sarebbe scosso da grande ansia di sapere a causa di tali fatti,
se, al contrario del normale, vediamo venire dai corpi celesti qualcosa di
scuro?] Quale est, rogo, stellarum primarium conspicere et eius solita
lumina non videre? lunam noctis decus intueri orbe suo plenam et naturali
splendore vacuatam? cernimus adhuc cuncti quasi venetum solem: miramur
media die umbras corpora non habere et vigorem illum fortissimi caloris
usque ad extremi teporis inertiam pervenisse, quod non eclipsis momentaneo defectu, sed totius paene anni agi nihilominus constat excursu. [Cosa
261 Var. XII 25, pp. 381-382. Cassiodorus does not record a date, but is it quite clear
that the author refers to the same phenomenon as Prokopios (D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, p. 267); la datazione “a. 533”, indicata dall'editore per la lettera 25
del XII libro delle Variae, va necessariamente intesa come “a. 536”; cfr. anche A. Arjava,
The Mystery Cloud, p. 80. Per la figura e la carriera del personaggio cui la missiva era inviata, Agens Vices Praefecti Praetorio, vd. specif. PLRE II, s.v. Ambrosius 3, p. 69.
262 Vd. A. Arjava, The Mystery Cloud, p. 76.
263 Una traduzione inglese parziale si può leggere in D.Ch. Stathakopoulos, Famine
and Pestilence, pp. 266-267.
81
significa, mi chiedo, osservare la principale delle stelle e non scorgerne la
consueta luminescenza?264 E vedere la luna piena, ornamento della notte,
privata del suo naturale splendore? Ci rendiamo tutti conto che il sole
continua ad avere una luce quasi azzurra: vediamo che a mezzogiorno i
corpi non gettano ombra e che il vigore del fortissimo calore è ridotto a
un indolente, meschino tepore, e non per il momentaneo venir meno (causato) da un'eclissi, ma risultando tale praticamente da quasi tutto l'anno.]
Qualis ergo timor est diutius sustinere quod vel in summa solet
populos celeritate terrere? habuimus itaque sine procellis hiemem, sine
temperie vernum, sine ardoribus aestatem. unde iam speretur posse venire
temperiem, quando menses qui fructus decoquere poterant boreis flatibus
vehementer algebant? quid enim fertilitatem producat, si terra aestivis
mensibus non calescat? quid germen aperiat, si matrix pluviam non resumat? duo haec elementis omnibus probamus adversa rigorem perpetuum et
contrariam siccitatem. mutaverunt se tempora non mutando et quod
mixtis imbribus solebat effici, ex ariditate sola non potest optineri. [Come
dunque sopportare la paura che con grande rapidità sta terrorizzando tutti
quanti265? Abbiamo avuto un inverno senza bufere, una primavera senza
temperature moderate, un'estate senza caldo. Da dove ormai si spera possa arrivare il giusto clima, quando i mesi che potevano far maturare i frutti
erano invece duramente battuti da venti gelidi? Cosa può determinare la
fertilità, se la terra non è riscaldata durante i mesi estivi? Che cosa farà
germogliare il seme se non ricomincerà a piovere? Riconosciamo almeno
due fattori contrari a tutti i principi, il freddo continuo e la rovinosa siccità. Le stagioni sono diventate diverse senza essere cambiate e ciò che derivava abitualmente dalla rotazione delle piogge, non può certo essere ottenuto dalla loro assenza totale.]
E aggiungeva, verso la fine: Sed si hoc divinae providentiae
tradatur, satagere non debemus, quando ipsius imperio prodigia quaerere
prohibemur. [Ma se questo è mandato dalla provvidenza di dio, non dobbiamo affannarci, quando ci vietiamo per suo stesso ordine di indagare gli
eventi prodigiosi266.]
Tra 537 e 538 la carestia si estese sempre di più267 e, nel 539, una
grande incursione di franchi, comandati dal re Teodeberto, discese in Ita264 Più avanti dirà anche: diutius radii siderum insolito colore fuscati sunt, “da molto
tempo i raggi delle stelle appaiono offuscati nella loro luce”.
265 Anche Procopio, nel suo racconto, sopra riportato, parlava di τέρας... δεινότατον,
letteralmente di prodigio spaventoso per descrivere l'offuscamento della luce del sole.
266 Si tratta, forse, di un riferimento al Vangelo di Matteo 16, 1 ss., un brano che riecheggia analoga ansia per i segni del cielo.
82
lia dal Gottardo, depredando le province Alpes Appenninae, Liguria ed
Aemilia. Fu poi la volta della grande peste, proveniente da Oriente, che
imperversò anche in Italia mentre la guerra tra goti e bizantini continuava
senza tregua facendo terra bruciata e imponendo alle popolazioni costi
umani sempre più insostenibili.
Infatti, come prezzo estremo imposto anche dal drammatico stress
climatico, era improvvisamente scoppiata la peste, ed aveva colpito pesantemente, a partire dal 541 d.C.268: inizialmente era stata interessata
buona parte dell'area mediterranea orientale in direzione Egitto, Siria e
Palestina, poi in direzione sud-nord, tra l'Egitto e Costantinopoli, quindi
verso la penisola italiana.
La peste (l'epidemia cioè causata dal ciclo della c.d. Yersinia pestis) era in qualche modo endemica nell'antichità.
La Yersinia pestis è un batterio che dalle analisi del DNA mostra
di aver cominciato ad evolversi non più di 2500 anni fa ed è, anzi, un ottimo esempio di evoluzione in azione: si è infatti adattato perfettamente al
complesso sistema di trasmissione attraverso la pulce del ratto (Xenopsylla cheopis); per fare un esempio tanto l'agente patogeno del tifo (Rickettsia prowazekii) che quello della lebbra (Mycobacterium leprae) sono assai
più antichi269.
Le prime notizie che abbiamo della peste – almeno nella variante
267 Lellia Cracco Ruggini, Economia e Società, pp. 474-475; D.Ch. Stathakopoulos,
Famine and Pestilence, pp. 270-271.
268 Per la peste cosiddetta “di Giustiniano”, oltre a Procopio, Bell. Pers. II, 22-23, si
vedano anche Giovanni Malala, Chronographia, rec. I. Thurin, [CFHB], Berolini et Novi
Eboraci 2000, 18, 90 (481 Dindorf), p. 406, 87 che data la peste costantinopolitana alla
quinta indizione e 18, 92 (482 Dindorf), p. 407, 12-19, ove si parla di θνῆσις (= mortalitas), e Teofane, Chronographia, rec. C.De Boor, Lipsiae 1883-85, II, p. 222, 22-25, che
parla di τὸ μέγα θανατικόν (= mortalitas magna). Esistono diversi lavori generali, o
specifici, che si sono occupati della peste giustinianea, vd. E. Stein, Bas-Empire, II, p.
841, excursus X; J.C. Russel, That Earlier Plague, «Demography» 5, 1, 1968, pp. 174184; P. Allen, The Justinianic Plague, «Byzantion» XLIX, 1979, pp. 5-20; K.-H. Leven,
Die Justinianische Pest, «Jahrbuch des Instituts für Geschichte der Medizin der Robert
Bosch Stiftung» 6, 1987, pp. 137-161; E. Kislinger-D.[Ch.] Stathakopoulos, Pest und
Persenkrieg bei Prokop. Chronologische Überlegungen zum Geschehen 540-545, «Byzantion» 69, 1999, pp. 76-98; D.[Ch.] Stathakopoulos, The Justinianic Plague Revisited,
«Byzantine and Modern Greek Studies» 24, 2000, pp. 256-276; Id., Travelling with the
Plague, in R. Macrides (ed.), Travel in the Byzantine World, Aldershot 2002, pp. 99-102;
F.P. Retief-L. Cilliers, The Epidemic of Justinian (AD 542): a Prelude to the Middle
Ages, «Acta Theologica Supplementum» 7, 2005, pp. 115-127, oltre al volume curato da
L.K. Little (ed.), Plague (2007). Si veda anche il più divulgativo volume di W. Rosen,
Justinian's Flea: Plague, Empire, and the Birth of Europe, New York 2007.
269 Vd. R. Sallares, Ecology, Evolution, pp. 231-289 (p. 252).
83
“bubbonica” – provengono da una accurata descrizione di un medico greco vissuto ai tempi dell'imperatore Traiano, Rufo di Efeso, raccolta poi
nelle c.d. Oribasii Collectiones270.
La peste, per svilupparsi in forma epidemica o addirittura pandemica, come accadde con il 541, necessita di una serie di circostanze che
favoriscano il suo sviluppo: as plague is primarily a zoonose, its outbreaks depend on the behaviour of its hosts and carriers and most notably their fertility and reproductive cycle. The most fertile period for rats
is spring and summer, while a warm and moist climate is the ideal breeding ground for rat fleas. A large number of fleas therefore emerge in the
summer, contrary to very limited number of these insects in the winter.
The influence of climate is of primary importance271; da qui l'influenza
dell'alterazione climatica indotta dalla nube di polveri sospese.
Evidentemente qualcosa accadde – nel 541 – a produrre i necessari “squilibri”: e la peste attaccò l'uomo, non solo a causa della situazione di fame e carestia272, ma forse per una improvvisa e paradossale scarcity of rats, “scarsità di topi”, che anzi furono visti morire da alcuni autori
che ne hanno dato testimonianza nei loro scritti, un po' come nella scena
iniziale della “peste” oranese di Albert Camus273: forse la carenza alimentare si era scaricata, prima che sugli uomini, sui topi, riducendone il numero e favorendo il passaggio delle loro pulci sugli esseri umani.
La provenienza originaria, egiziana, del morbo è specificamente
dichiarata da Procopio274: furono probabilmente navi onerarie provenienti
dall'Egitto, per rifornire Costantinopoli di grano, e che portarono probabilmente, assieme ai carichi di grano, ratti infetti (o le loro pulci), a costituire il veicolo del contagio275.
270 Il passo si può leggere in R. Sallares, Ecology, Evolution, p. 251, nota 79. Vd. comunque il vecchio lavoro di G. Osann, De loco Rufi Ephesii Medici apud Oribasium servato, sive de Peste Lybica disputatio, Gissae 1833, pp. 19
271 D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, p. 130.
272 Vd. J.N. Hays, Historians and Epidemics. Simple Questions, Complex Answers, in
L. K. Little (ed.), Plague, pp. 49-50.
273 Si vedano M. McCormick, Rats, Communications, and Plague, part. pp. 4-5, nota
5 e M.G. Morony, The First Bubonic Pandemic, p. 71. Nel testo mi riferivo al libro dello
scrittore francese, Albert Camus, La Peste, Paris 1947.
274 Procopio, Bell. Pers. II, 22, 6 (tr. it., p. 152). L'epicentro della diffusione del morbo è identificato con la città di Pelusium (hod. Al Farama) nella parte orientale del delta
del Nilo, celebre perché vi fu ucciso Pompeo Magno nel settembre del 48 a.C. (vd. Plutarco, Pomp., 77-79).
275 Non è detto, né necessario, che a “viaggiare” fossero i topi, bastava che a spostarsi fossero le pulci; potevano anzi essere proprio le pulci (tipo Xenopsylla Cheopis) infatti
ad infestare i marinai e i passeggeri dalle navi: esisteva infatti un volume di traffico lun-
84
Fondamentale concausa, a detta dello stesso Procopio, furono le
sanguinose guerre intraprese dai bizantini che – si può facilmente immaginare – contribuirono a disseminare il contagio. Proprio lo storico di Cesarea, una delle fonti più interessanti, scrive che la peste dilagò per ogni
dove, in ogni stagione, e senza risparmiare nessuno276: è impossibile stabilire la portata dell'evento, ma in termini demografici dovette essere molto
pesante277. La scelta giustinianea di scatenare una guerra totale contro i nemici dell'impero ebbe come conseguenza secondaria il trasferimento del
contagio lungo le rotte del Mediterraneo, la strage degli abitanti e il crollo
verticale delle loro ricchezze e del loro benessere primario per moltissimi
anni a seguire278.
La peste, provenendo da oriente, arrivò in Italia (passando probabilmente dalla Sicilia279), in Africa280, nelle Gallie281, e nell'Europa balca-
go le rotte del Mediterraneo sufficiente a garantire la probabilità del contagio e la sua disseminazione; vd. R. Sallares, Ecology, Evolution, pp. 259 e 266. Sulla disseminazione marittima della peste si veda: M. McCormick, Bateaux de vie, bateaux de mort: Maladie,
commerce, transports annonaires et le passage économique du Bas-Empire au Moyen
Âge, in Morfologie sociali e culturali in Europa fra tarda antichità e alto Medioevo. Settimane di studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo 45. Spoleto, 1998, pp.
35–118 e Id., Rats, Communications, and Plague, pp. 1–25. Sui rifornimenti granari egiziani verso Costantinopoli, fino alla crisi demografica indotta dalla peste degli anni giustinianei, vd. J.L. Teall, The Grain Supply of the Byzantine Empire, 330-1025, pp. 91-92,
e P. Magdalino, The Maritime Neighbourhoods of Constantinople: Commercial and Residential Functions, Sixth to Twelfths Centuries, «Dumbarton Oaks Paper» 54, 2000, pp.
209-226.
276 Procop. Bell. Pers. II, 22-23 (tr. it., pp. 151-157). Vd. il lavoro di Benno von Hagen, Die Pest im Altertum, Jena 1939, basato in buona parte sulla testimonianza procopiana della Peste giustinianea.
277 Leggiamo Evagrio, Hist. Eccles. IV, 29, che spiegava come, mentre certe città erano colpite in tal maniera che erano svuotate di tutti i loro abitanti, c'erano luoghi dove la
mala sorte era più leggera: καὶ πολλάκις ἦν ἱδεῖν ἐν οὐ νοσούσῃ πόλει ἐνίας οἰκίας
ὑπερβολὴν φθειρομέναϛ [e spesso, in una città non contagiata dalla malattia, si potevano vedere morti gli abitanti di una certa casa] ἔστι δὲ οὗ μία ἢ δύο φθαρεισῶν
οἰκῶν τὸ λοιπὸν τῆς πόλεως ἀπαθὲς μεμενήκει [e invece accadeva che una o due famiglie fossero distrutte dalla malattia mentre il resto della città restava sano].
278 Vd. A.H.M. Jones, The Later Roman Empire, pp. 1040-1045; tr. it. Il Tardo Impero Romano, III, pp. 1502-1507; Id., L'economia romana, p. 313; R. Sallares, Ecology,
Evolution, pp. 286-287. La fine della peste nell'anno 544 è attestata ufficialmente da un
provvedimento legislativo di Giustiniano (la Novella CXXII, del 23 marzo 544, indirizzata al Prefetto del Pretorio, ora in Corpus Iuris Civilis, Vol. III, Novellae, pp. 592-593,
dove si parla dell'appena passato “castigo divino” (post castigationem quae secundum
domini dei clementiam etc.) cercando di porre qualche limite a speculazioni e aumenti
dei prezzi seguiti alla crisi.
85
nica, occidentale e settentrionale282: fa decisamente impressione il termine
latino che la definisce, seccamente esplicito, mortalitas, che contiene in sé
la denominazione del morbo e i suoi effetti283.
Il sesto secolo ci appare davvero come un periodo terribile: si conteranno almeno 37 carestie e 52 epidemie, la più alta concentrazione di
tali fenomeni testimoniata tra il quarto e la seconda metà dell'ottavo284.
Cap. 5 - Il “morbo cenedese”
Abbiamo letto dello stato del clima, della penuria dei raccolti,
degli effetti delle distruzioni belliche, delle epidemie e di tutto ciò che
l'insieme di tali drammatiche criticità dovette comportare per l'Italia settentrionale, per la Venetia – e il Cenedese – alla metà del VI secolo: la situazione era quindi tragicamente propizia all'innalzamento di ogni ulteriore livello di crisi, in primo luogo di tipo igienico, demografico e sanitario.
Testimoniata almeno per il ventottesimo anno di regno di Giustiniano (quindi tra l'aprile 554 e il marzo 555, ma forse in atto da prima), ἐν
279 Una lapide siciliana (tre fratelli morti nel dicembre 542) si legge in G. Manganaro, Byzantina Siciliae, «Minima Epigraphica et Papyrologica» 4, 2001, p. 133.
280 Vd. ad es. Corippo, Iohannis, 3, 347-393.
281 Vd. Gregorio di Tours, Liber Vitae Patrum, 6, 6 (cum autem lues illa quam inguinariam vocant per diversas regiones desaeviret et maxime tunc Arelatensim provinciam depopularet).
282 Com'è esplicitamente testimoniato dal Continuatore di Marcellino (Marcellinus
Comes) che annota con sintetica chiarezza: mortalitas magna Italiae solum devastat,
Orientem iam et Illyricum peraeque attritos (Marcellini Additamentum, ad a. 543, 2 - ed.
Croke, p. 50). Persino gli irlandesi The Annals of the Four Masters, ad a. 543.2, testimoniano che there was an extraordinary plague though the world, which swept away the
noblest third part of the human race. Sugli antichi Annali Irlandesi vd. anche R. Sallares,
Ecology, Evolution, pp. 257.
283 Vd., per ogni approfondimento terminologico, Liliane Bodson, Le vocabulaire
latin des maladies pestilentielles et épizootiques, in G. Sabbah (ed.), Le latin médical. La
constitution d'un langage scientifique, Saint-Etienne 1991, pp. 215-241.
284 Per i dati vd. D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, p. 23 (Table 2.1).
D'altronde la stessa Cronaca di Giovanni Malala può anche essere letta in filigrana come
una elencazione dei disastri naturali che caratterizzarono il VI secolo. I libri 17 e 18 che
coprono i regni di Giustino I e Giustiniano, anni 518-565, contano riferimenti a ben trentasette “disastri naturali” (trenta sotto il solo Giustiniano) per neppure cinque decenni del
secolo. Si veda lo studio iniziale di M. Meier, Natural Disasters in the Chronographia of
John Malalas: Reflections on their Function – An Initial Sketch, «The Medieval History
Journal» 10, 2007, pp. 237-266, part. pp. 250-251 (e note 61-62).
86
διαφόροις πόλεσιν285,
“in diverse città”, è registrata dalle fonti una ulteriore epidemia definita θνῆσις, cioè “mortalitas”, come segnalano concordi Agapio, Giovanni Malala e Teofane: quest'ultimo – che copia Malala – aggiunge di suo che essa si rivelò letale μάλιστα δὲ τῶν παίδων “soprattutto per i bambini”286: quindi, negli anni dell'incursione alamannica
(553-554) era in corso l'ennesima epidemia dagli esiti mortali per la parte
più debole di una popolazione già tanto provata (anche se non possiamo
affermare che si trattasse di peste: si veda comunque la successiva nota 313).
Tale situazione morbosa certamente colpì Roma, e le aree circonvicine, ma ignoriamo se avesse raggiunto l'Italia settentrionale, non potendosi tuttavia trascurare l'ipotesi, visto che non cessarono praticamente mai
gli spostamenti delle truppe imperiali dai vari scenari di guerra e quelli
dei contingenti di goti sbandati che cercavano di ritornare verso il nord
della penisola.
Sappiamo che la salubrità di buona parte delle regioni italiane
era ai livelli minimi, e che erano compromesse le soglie elementari della
stessa sopravvivenza. Anche i luoghi ove esisteva ancora un precario
equilibrio tra risorse e popolazione erano ormai a rischio.
Dobbiamo chiederci se il morbo che infuriò a Ceneda nel 554, e
annientò Leutari e i suoi guerrieri, sia stato provocato dalla peste, ovvero
da una causa diversa e, in tal caso, quale.
Per questo cerchiamo innanzitutto di farci un'idea su come la peste fosse stata descritta in quegli anni, e iniziamo dalla esposizione che
dell'epidemia del 542-543 fece Procopio, nel secondo libro del suo Bellum Persicum287, poi da ciò che scrisse Agazia a proposito della seconda
285
Giovanni Malala, Chronographia, 18, 120 (488 Dindorf), p. 418.
Teofane, Chronographia, II, 6048, p. 230, 15-17. Su Agapio (Patrologia Orientalis, 8, 433) e Malala, citato nella nota precedente, vd. D.Ch. Stathakopoulos, Famine and
Pestilence, pp. 302-303.
287 II, 22-23, tr. it. pp. 151-157, senza necessità di richiamare la celebre descrizione
tucididea della cosiddetta “peste” di Atene del 430 a.C., che pure lo storico di Cesarea
utilizzò come sfondo e modello narrativo. Discussioni e analisi – per chi fosse interessato – sui rapporti tra Procopio e Tucidide si possono leggere in F. Bornmann, Motivi Tucididei in Procopio, «Atene e Roma» 19, 1974, pp. 138–150; M. Meier, Beobachtungen zu
den sogenannten Pestschilderungen bei Thukydides II 47–54 und bei Prokop, Bell. Pers.
II 22–23, «Tyche» 14, 1999, pp. 177–210; E. Samama, Thucydide et Procope: Le regard
des historiens sur les épidémies, in S. Bazin-Tacchella-D. Queruel-E. Samana, Air, Miasmes et Contagion: Les épidémies dans l’Antiquité et au Moyen Âge, Langres 2001, pp.
55–74. Per una rivisitazione completa e recente del modello tucidideo nella narrazione
che Procopio fa della peste giustinianea, si veda il lavoro di Lyvia Vasconcelos Baptista,
Procópio e a reapropriação do modelo Tucideano: a representação da peste na narrativa historica (VI século d.C.), Diss., Universitade Federal de Goiás, Goiãma (Brazil), 2008.
286
87
ondata di peste che infuriò a Costantinopoli nel 558, dal mese di febbraio
a quello di luglio288. Subito dopo, sottoporrò al lettore una serie di schede
compilate allo scopo di ricavare ipotesi valide per l'eziologia di quel che
ho definito il morbo cenedese.
Si sa che la peste, nella sua forma bubbonica, mostra una sintomatologia caratterizzata da febbre, seguita dallo sviluppo di un'infezione
che si manifesta attraverso vistose tumefazioni dei linfonodi inguinali,
ascellari e della regione cervicale (soprattutto sul collo). A tali sintomi,
aggravati da disagi neurologici (delirio, coma ecc.), tien dietro, in una
percentuale significativa, la morte289.
Procopio, premesso di rifiutare alla epidemia ogni spiegazione,
diremmo oggi “scientifica”, e di non poter attribuirla altro che “al volere
di Dio”, comincia col descrivere le allucinazioni (concretizzate addirittura
in sinistre apparizioni di fantasmi) che precedevano – in alcuni pazienti –
la scoperta della malattia, e i segni di alterazioni mentali che proseguivano, in varie forme, durante il decorso del morbo, quasi che qualcuno avesse ricevuto una sorta di preannunzio del male,“ma alla maggior parte delle persone accadeva di essere colte dalla pestilenza senza essere preavvertite di ciò che sarebbe successo né da sveglie né in sogno. Cadevano
invece ammalate in questo modo. Erano assalite [all'improvviso] dalla
febbre (ἐπύρεσσον ἄφνω290), alcune appena si svegliavano dal sonno, altre mentre passeggiavano, altre ancora mentre erano intente a fare qualsiasi altra cosa. Il corpo non cambiava il suo precedente colore né diventava caldo, come avviene a chi è colto dalla febbre, e neppure appariva
alcuna infiammazione, ma dal mattino fino alla sera la febbre era così
debole che né ai malati stessi né al medico che tastava loro il polso sembrava preannunciare un indizio di pericolo (μήτε ἰατρῷ ἁπτομένῳ
δόκησιν κυνδύνον παρέχεσθαι).”291
Ma ecco, nell'immediatezza, apparire gli orribili bubboni, sintomo pauroso, eclatante – e identificativo! – del contagio: “nella stessa giornata, qualcuno nella seguente, altri non molti giorni dopo, vedevano formarsi un bubbone (βουβὼν ἐπῆρτο) non soltanto in quella parte del corpo che è sotto l'addome ed è chiamata inguine, ma anche sotto le ascelle,
288 Agath.
V, 10, pp. 175-176; tr. ingl., pp. 145-146 (anno 558); cfr. Giovanni Malala,
Chronographia, 18, 127 (489 Dindorf), p. 420, 71-74 (θνῆσις... ἀπὸ βουβώνων), e Teofane, Chronographia, II, p. 232, 13-15. Vd. poi E. Gibbon, The History of the Decline and
Fall, vol. II, chap. xliii, p. 774 ss., tr. it., pp. 1657 ss. a commento della descrizione agaziana della peste B. von Hagen, Lyssa, p. 5 e anche R. Sallares, Ecology, Evolution, p. 282.
289 Fonti antiche in R. Sallares, Ecology, Evolution, pp. 237-238 ss.
290 Vd. B. von Hagen, Die Pest im Altertum, pp. 8-9.
291 Procopio, Bell. Pers. II, 22, tr. it. p. 153.
88
e in qualche caso anche dietro le orecchie o in un punto qualunque delle
cosce”292.
Fino a quello stadio della malattia i sintomi apparivano sostanzialmente uguali per tutti,“ma da quel momento cominciavano manifestazioni differenti... alcuni infatti cadevano in un profondo coma (ἐπεγίγνετο
γὰρ τοῖς μὲν κῶμα βαθύ)293, altri erano presi da un violento delirio (τοῖς
δὲ παραφροσύνη ὀξεῖα), e tanto i primi che i secondi soffrivano esattamente tutti gli inconvenienti caratteristici di queste due infermità”.294
Quindi per alcuni una situazione del tutto passiva (coma) e per
altri una situazione iperattiva (insonnia; frequenti allucinazioni; forme parossistiche fino ad arrivare a drammatiche pulsioni suicidarie).
“Coloro che non cadevano in coma o non erano colti dal delirio,
morivano invece perché il bubbone andava in cancrena (τούτοις δὴ ὅ τε
βουβὼν ἐσφακέλιζε295) ed essi non riuscivano più a sopportare il
dolore”. I medici decisero quindi di esaminare i bubboni su alcuni cadaveri: “sezionato un certo numero di bubboni, scoprirono che nel loro interno si era formata una specie di carbonchio purulento (καὶ διελόντες
τῶν βουβώνων τινὰς ἄνθρακος δεινόν τι χρῆμα ἐκπεφυκὸς εὗρον)296.
Alcuni morivano subito, altri molti giorni dopo, e in certi casi fiorivano
su tutto il corpo nelle pustole nerastre grosse come lenticchie (τισί τε
φλυκταίνας μελαίναις, ὅσον φακοῦ μέγεθος, ἐξήνθει τὸ σῶμα)297. Questi non rimanevano in vita nemmeno un giorno, ma morivano immediatamente. Molti altri, anzi, erano colti all'improvviso da uno spontaneo
sbocco di sangue, che li faceva restare soffocati sul colpo”298.
292
Ibid.
Qui, in italiano, credo si sarebbe potuto tranquillamente tradurre “sonno”, invece
di “coma”, che sentiamo come termine clinico, dal momento che anche “profondo
sonno” avrebbe reso bene l'idea. Vd. B. von Hagen, Die Pest im Altertum, pp. 9 e 11.
294 Procopio, Bell. Pers. II, 22, tr. it. p. 153; vd. B. von Hagen, Die Pest im Altertum,
pp. 9-10.
295 Vd. B. von Hagen, Die Pest im Altertum, pp. 11 e 20.
296 Vd. B. von Hagen, Die Pest im Altertum, pp. 11-12. Su questo spunto di tradizione ippocratica che ci trasmette Procopio, a proposito della “dissezione” dei bubboni vd.
R. Sallares, Ecology, Evolution, p. 233.
297 La descrizione è impressionante per la sua precisione, e potrebbe segnalare casi di
peste setticemica. Infatti black or purple spots or patches, caused by disseminated intravascular coagulation, and leading to death within twenty-four hours... are perhaps the
most obvious symptom of septicemic plague (R. Sallares, Ecology, Evolution, p. 235). Sugli esantemi procopiani vd. anche B. von Hagen, Die Pest im Altertum, pp. 23-26.
298 Procopio, Bell. Pers. II, 22, tr. it. p. 154; quest'ultimo richiamo allo sbocco di sangue potrebbe far pensare, in realtà, a casi di peste polmonare seguiti a quelli della bubbonica. Su questo – senza approfondire – mi limito a rinviare a D.Ch. Stathakopoulos, Fa293
89
Procopio ci parla anche di coloro che scampavano la morte “nei
casi in cui il bubbone diventava molto grosso e maturava pus (ἐς πῦον
ἀφῖκτο)” in quanto“la virulenza del carbonchio trovava lì una via di sfogo, e in genere questo era un indizio di guarigione”299. Ma ai malati e ai
superstiti restava ben poco perché, nel frattempo, “si era diffusa una spaventosa carestia (λιμός τις ἀκριβής). Trovare un po' di pane o qualunque
altra cosa in misura appena sufficiente, appariva senza dubbio un'impresa molto difficile e degna di nota”300. Fin qui lo storico di Cesarea, che ho
molto sintetizzato. Più essenziale, invece, la descrizione offerta da Agazia, che espongo più estesamente: apoplessia, morte rapida, i caratteristici
bubboni e la febbre ininterrotta, appaiono la caratteristiche più salienti:
10. Ἐκείνου δὲ τοῦ ἔτους ἅμα ἦρι ἀρχομένῳ ἡ λοιμώδης
νόσος αὖθις τῇ πόλει ἐνέπεσε καὶ μυρία διέφθειρε πλήθη, λήξασα μὲν
ἐς τὸ παντελὲς οὐδ' ὁπωστιοῦν, ἐξ οὗ τὴν ἀρχήν, φημὶ δὴ κατὰ τὸ
πέμπτον <καὶ δέκατον> ἔτος τῆς Ἰουστινιανοῦ βασιλείας, ἐν τῇ καθ'
ἡμᾶς εἰσήρρησεν οἰκουμένῃ. 2. μεταβᾶσα δὲ πολλάκις μεταξὺ ἄλλοτε
ἄλλοθι καὶ τόπον ἐκ τόπου λυμηναμένη καὶ ταύτῃ τοῖς λειπομένοις
ἀνακωχῆς τινος μεταδοῦσα, τότε δὴ οὖν πάλιν ἐς τὸ Βυζάντιον
ἐπανῆκεν, ὥσπερ, οἶμαι, τὸ πρότερον ἐξηπατημένη καὶ θᾶττον δήπου
τοῦ δέοντος ἐνθένδε ἀπαλλαγεῖσα. 3. ἔθνησκον τοιγαροῦν πολλοὶ
ἐξαπιναίως καθάπερ ἀποπληξίᾳ ἰσχυρᾷ κάτοχοι γεγενημένοι· οἱ δέ γε
πλεῖστον διαρκοῦντες μόλις πεμπταῖοι ἀπώλλυντο. ἡ δὲ τῆς νόσου
ἰδέα παραπλησία τῇ πρεσβυτέρᾳ ἐτύγχανεν οὖσα. πυρετοὶ γὰρ ἐπὶ
βουβῶσιν ἀνήπτοντο συνεχεῖς καὶ οὐκ ἐφήμεροι, οὐδὲ μετρίως γοῦν
ὑποχαλῶντες, μόνῃ δὲ τῇ τελευτῇ τοῦ ἁλόντος ἀποπαυόμενοι. [10. In
quell'anno, all'inizio della primavera, l'epidemia di peste si abbatté di nuovo sulla città e uccise un numero grandissimo di persone; in sostanza, non
si era mai arrestata completamente dal tempo della sua prima comparsa,
cioè dal quindicesimo anno del regno di Giustiniano, durante il quale si
propagò sulla nostra terra301. 2. Dopo essere nel frattempo passata da un
luogo all'altro, contaminando un territorio dopo l'altro e dando in questo
modo un po' di sollievo ai superstiti, allora (=anno 558) piombò di nuovo
su Bisanzio, quasi che in precedenza si fosse ingannata, andandosene via
più in fretta del necessario. 3. Dunque, morivano in molti, all'improvviso,
mine and Pestilence, p. 140 e a R. Sallares, Ecology, Evolution, pp. 240-242.
299 Procopio, Bell. Pers. II, 22, tr. it. p. 155 (vd. R. Sallares, Ecology, p. 238).
300 Procopio, Bell. Pers. II, 23, tr. it. p. 157.
301 Agazia intende qui riferirsi alla descrizione della peste che aveva letto in Procopio, dell'anno 542 (ne parla anche esplicitamente in praef. 28, p. 8; tr. ingl. p. 7), quando
la peste, scoppiata l'anno precedente in Egitto, e diffusasi in Palestina e Siria, arrivò nella
capitale dell'impero (interessante la notazione dello stato ormai endemico del morbo, a
Costantinopoli, negli anni tra 542 e 558).
90
come se fossero stati colpiti da un violento attacco di apoplessia302; i più
resistenti a stento sopravvivevano cinque giorni. La sintomatologia del
male era simile a quella di un tempo (=anno 542): insieme ai gonfiori (=bubboni) insorgevano febbri continue, non giornaliere, che non davano neppure un po' di tregua, ma scomparivano solo con la morte della vittima.]303
4. ἔνιοι δὲ μήτε θέρμης ἡγησαμένης μήτε ἄλλου ἀλγήματος,
ἀλλὰ δρῶντες ἔτι τὰ εἰθισμένα, οἴκοι τε καὶ ἀνὰ τὰς λεωφόρους οὕτω
παρασχὸν κατέπιπτον καὶ ἀθρόον ἄπνοι ἐγίγνοντο, ὥσπερ τὸν θάνατον
σχεδιάσαντες· καὶ ἅπασα μὲν ἡλικία χύδην304 ἐφθείρετο, μάλιστα δὲ τὸ
ἀκμάζον τε καὶ ἡβάσκον, καὶ ἐν τούτῳ πλέον οἱ ἄρρενες· τὸ γὰρ δὴ
θῆλυ οὐ μάλα ὅμοια ἔπασχεν. 5. τὰ μὲν οὖν παλαίτατα τῶν Αἰγυπτίων
λόγια καὶ οἱ παρὰ Πέρσαις ἔτι τῆς τῶν μετεώρων κινήσεως
δαημονέστατοι χρόνων τινῶν περιόδους ἐν τῷ ἀπείρῳ αἰῶνι συμφέρεσθαι λέγουσι, νῦν μὲν ἀγαθὰς καὶ εὐδαίμονας, νῦν δὲ μοχθηρὰς καὶ
ἀποφράδας, εἶναί τε τὴν παροῦσαν περιφορὰν ἐκ τῶν κακίστων
ἐκείνων καὶ ἀπαισίων· ἐντεῦθεν τοιγαροῦν πολέμους τε ἁπανταχοῦ
ξυνίστασθαι καὶ στάσεις ταῖς πόλεσι καὶ τὰ λοιμώδη πάθη μόνιμά τε
εἶναι καὶ συνημμένα. [4. Alcuni non erano colpiti dalla febbre né da qual-
che altro male, ma continuavano a svolgere le solite attività: quando veniva il momento, cadevano in casa o nelle strade e rimanevano d'un tratto
senza vita, come se la morte fosse un fatto accidentale. Gente di ogni età
moriva alla rinfusa (= a caterve), ma soprattutto i giovani nel fiore degli
anni e tra costoro, in particolare, i maschi: le donne, infatti, non avevano
una sorte analoga. 5. I più antichi oracoli egiziani e quei persiani che sono
ancora i più esperti conoscitori del movimento dei corpi celesti affermano
che nel corso infinito dei secoli si verificano alcuni periodi di tempo ora
buoni e fortunati, ora infelici e nefasti: il ciclo attuale era tra i peggiori e i
più sventurati e per questo scoppiavano guerre dovunque, le città erano in
rivolta e le pestilenze durature e persistenti.]305
6. ἕτεροι δὲ ὀργὴν τοῦ κρείττονος αἰτίαν εἶναί φασι τῆς
φθορᾶς, μετιοῦσαν ἀξίως τὰ τοῦ ἀνθρωπείου γένους ἀδικήματα καὶ
τὸ πλῆθος ὑποτεμνομένην. 7. ἐμοὶ δὲ διαιτᾶν ἑκατέρᾳ δόξῃ καὶ
ἀποφαίνεσθαι τὴν ἀληθεστάτην οὐκ ἐγχειρητέα, τυχὸν μὲν οὐδὲ
ἐπισταμένῳ, τυχὸν δέ, εἰ καὶ εἰδείην, ἀλλ' οὐκ ἀναγκαῖον τοῦτό γε
εἶναι δοκοῦν οὐδὲ τῷ παρόντι λόγῳ προσῆκον· μόνου γάρ μοι τοῦ
302
Cfr. R. Sallares, Ecology, Evolution, p. 235 e nota 16.
La traduzione italiana qui proposta è quella di Fabrizio Conca, in U. Albini-E.V.
Maltese (curr.), Bisanzio nella sua Letteratura, p. 141 (con riferimento ad Agath. V, 10,
in.-3, pp. 175-176; tr. ingl., p. 145).
304 È il medesimo avverbio che Agazia aveva usato per gli alamanni di Ceneda in II,
3, 8 (vd. supra testo e traduzione).
305 Tr. it. di F. Conca., pp. 141-142 (Agath. V, 10, 4-5 p. 176; tr. ingl., p. 145).
303
91
ξυμβεβηκότος εἰ καὶ διὰ βραχέων ἐπιμνησθέντι ὁ τῆς ἱστορίας
ἐκτεθεράπευται νόμος. [6. Altri sostengono che la causa di questa rovina
sia l'ira della divinità, che punisce degnamente il genere umano per le sue
colpe e riduce la popolazione306. 7. Non spetta a me giudicare entrambe le
opinioni e indicare quale sia più vicina al vero: forse non ne sono capace,
forse, se anche sapessi farlo, non lo giudicherei né necessario né conveniente ad un'opera come questa; la legge della storia è rispettata se ricordo, anche in breve, solo quello che è accaduto.]307
Non si può non rilevare come, in questo caso, Agazia abbia adottato una sospensione di giudizio di fronte alla alternativa tra l'adesione
alla prospettiva “astrologica” e a quella “della punizione divina”.
È stato anzi scritto che Agathias is the only author to offer such
alternative perspectives openly, adopting at the same time an agnostic
stance308, in ciò comportandosi assai diversamente da come aveva fatto in
altre circostanze, ed in particolare di fronte al morbo cenedese, attribuito
senza esitazioni all'ira divina a sanzione del comportamento degli alamanni, impuniti pagani e sistematici saccheggiatori di luoghi e oggetti sacri.
Non credo di allontanarmi troppo dalla verità sostenendo che, di
fronte alla peste di Costantinopoli il poeta-storico – sicuramente perplesso
di fronte al dilagante fanatismo ortodosso della corte – non avesse osato
usare il nome di Dio, evocato fin troppo brutalmente da Giustiniano nell'affannosa ricerca di capri espiatori, nella Novella CXLI309, sanzionando i
306
Questo τὸ πλῆθος, tradotto con “la popolazione”, è il singolare del termine che
Agazia aveva scelto per indicare la concentrazione umana in Ceneda in II, 3, 4 (vd. supra
il testo, la traduzione e anche la nota 122).
307 Tr. it. di F. Conca, p. 142 (rif. Agath. V, 10, 6-7 p. 176, tr. ingl., pp. 145-146); una
traduzione inglese del passo agaziano, par. 5-7, si trova anche in D.[Ch.] Stathakopoulos,
Crime and Punishment, p. 108. Sulla “fallacia delle predizioni mantiche” in Agazia, vd.
M. Rampi, La storiografia agaziana, pp. 57-58.
308 Vd. ancora. D.[Ch.] Stathakopoulos, Crime and Punishment, p. 108 e R. Sallares,
Ecology, Evolution, pp. 233-234.
309 In Corpus Iuris Civilis, Vol. III, Novellae, p. 703-704 (de luxuriantibus contra naturam); sul provvedimento imperiale, datato 559 d.C. vd. anche E. Cantarella, Secondo
Natura. La bisessualità nel mondo antico, Roma 1988, pp. 232 ss.; D.[Ch.] Stathakopoulos, Crime and Punishment, pp. 113-114. Comunque già prima del 541 Giustiniano declared that it was sodomy and blasphemy that causes plagues, earthquakes, and famines;
whole cities and their inhabitants had been destroyed because of these sins (A. Kaldellis,
The Literature of Plague and the Anxieties of Piety in Sixth-Century Byzantium, in F.
Mormando-Th. Worcester (edd.), Piety and Plague from Byzantium to the Baroque, Kirksville (Missouri – USA) 2007, p. 5); il bigottismo clericale adottato da Giustiniano cercava di giustificare e “coprire” il fallimento della sua politica e trovare una ragione alle
conseguenze incontrollabili – oggi diremo “ai disastri ambientali” – che quella politica
aveva contribuito ad acuire.
92
comportamenti omosessuali, con evidenti connessioni tra quei “comportamenti peccaminosi” e le ultime punizioni divine (con il riferimento nemmeno troppo scoperto alla peste)310.
Letti Procopio e Agazia, appare evidente la difficoltà di calare la
malattia di Leutari e dei suoi nelle descrizioni della peste: la febbre, in
particolare, ma anche l'apoplessia, le alterazioni nervose, i deliri, sono frequenti infatti in molte altre situazioni morbose, come vedremo311.
Agazia – che qui a noi interessa in modo particolare – conosceva bene la peste, essendone stato testimone oculare: se nei rapporti dei
suoi informatori (o nei documenti) relativi alla fine degli alamanni di Ceneda avesse riscontrato elementi che richiamassero anche solo vagamente
i sintomi che ben conosceva avrebbe chiamato la peste con il suo nome e i
suoi attributi: invece – come abbiamo detto – non v'è, per dirne una, alcun
cenno ai bubboni, che restano l'elemento più repellente e sconvolgente
delle descrizioni specifiche della peste, e rappresentano il fattore identificativo, il marchio di fabbrica, e di infamia, di quel tipo di epidemia312.
Agazia ha quindi descritto, consapevolmente, dell'altro313.
Cercherò pertanto di analizzare gli elementi ricavabili dal testo
agaziano, perché c'è chi vi ha anche letto – senza tuttavia motivare le proprie affermazioni – una epidemia di vaiolo o manifestazioni attribuibili ad
altre malattie conseguenti all'assunzione di acqua infetta, di alimenti corrotti, mortali gastroenteriti o dissenterie emorragiche, ovvero virulente
forme tifoidee conseguenti a disastrose condizioni igieniche.
310
Vd. D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, p. 305.
Rilevo che né Procopio, né Agazia, citano tra i sintomi della peste la diarrea. Senz'altro si tratta di un sintomo secondario ma la menzione che ne fa Evagrio rende la testimonianza di quest'ultimo la più completa (Hist. Eccl. IV, 29: ἄλλοις ῥύσις γαστρὸς
ἐγίγνετο); vd. R. Sallares, Ecology, Evolution, pp. 237-238, nota 28.
312 Vd. D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, p. 145 (concerning the occurrence of buboes it has been shown that such symptoms occur only in extremely rare cases
in other diseases, while they constitute a characteristic feature of the plague) sottolineatura mia.
313 Tuttavia, un isolato B. Rubin, citando Leonhard Franz, ha sostenuto che erlag das
Heer Leutharis' der Pest die ein Jahr zuvor in Byzanz ausgebrochen war und inzwischen
Italien erreicht hatte (“le truppe di Leutari furono contagiate dalla peste che un anno prima era scoppiata a Bisanzio e aveva nel frattempo raggiunto l'Italia”); ne abbiamo accennato giusto all'inizio di questo capitolo; resta da spiegare come mai non ci sia una descrizione di tale evento morboso nei termini di una peste vera e propria, i cui sintomi, non
occorrerebbe ripeterlo, Agazia ben conosceva. Il libro di Rubin è Das Zeitalter Iustinians,
Berlin-New York, 1995, vol. II (ed. Carmelo Capizzi), pp. 196-200; il riferimento è alla
nota 570, p. 246; il testo citato è di L. Franz è Zur Bevölkerungsgeschichte des frühen
Mittelalters, «Deutsches Archiv für Landes- und Volksforschung» II, 1938, pp. 404 ss.
311
93
E proprio dal cosiddetto “tifo castrense” partiamo per mettere
qualche punto fermo. Certo, l'immagine di numerosi soggetti debilitati
concentrati in scarso spazio e in discutibili condizioni igieniche, può far
pensare allo scatenarsi di una epidemia di tifo esantematico (o petecchiale, o castrense), malattia che si trasmette attraverso il morso del pidocchio
dell'uomo (Pediculus humanus corporis), indotta da un batterio chiamato
Rickettsia prowarzwekii314.
Si tratta di un morbo estremamente contagioso; infatti, quando il
pidocchio ha succhiato il sangue di un individuo infetto, il bacillo passa
dallo stomaco alle feci dell'insetto; queste, depositate su di un individuo
sano – ovviamente nelle tipiche drammatiche situazioni di sovraffollamento (assedi, campi di prigionia, concentrazione di truppe ecc.) – inoculano
le feci dell'insetto e il germe dell'infezione attraverso lesioni o persino micro-lesioni della pelle. I sintomi sono mal di testa, febbre alta, brividi ed
eruzioni cutanee (le cosiddette petecchie, da cui il nome). Ho già escluso
tuttavia che gli alamanni di Leutari fossero necessariamente ammassati in
un unico ambiente ristretto, ma in realtà, come per la peste, anche il tifo
petecchiale non deve essere preso in considerazione ancora una volta per
la accertata – assoluta – mancanza di segnalazioni dermatologiche, pustole, vescicole, esantemi o bubboni, nella descrizione agaziana.
Identico discorso vale ovviamente per il vaiolo, relativamente al
quale vieppiù varrebbero i richiami a pustole e lesioni cutanee, come insegnano le descrizioni di celebri “cosiddette pesti”, quella di Atene (gli
ἕλκους di Tucidide, II, 49, 5) o quella “antonina”, che appunto epidemie
di vaiolo potrebbero essere state.
Ma faccio cenno solo di sfuggita (in nota) al dibattito tra gli studiosi che riguarda i tempi l'effettiva comparsa del vaiolo nell'Europa occi314 Vd. ad es. C.G. Mor, Verona Medievale, p. 18, n. 1. Si considerino poi, a proposito del tifo, le curiose osservazioni del prof. Alfonso Corradi, in uno studio piuttosto datato e apparentemente fuori luogo (Delle Morti Repentine Avvenute in Bologna nel trentacinquennio 1820-1854. Studio di Statistica e Metrologia medica, «Memorie della Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna» serie seconda, t. III, 1863, p. 132). Parlando
dei casi antichi di morti repentine Corradi scriveva: specie di morte subitanea od apopletica (sic) già veduta da Agatia nel 558 quando la peste di nuovo incrudeliva in Costantinopoli, e dal medesimo notata fra le malattie che assalirono nel 554 le torme di Franchi
e d'Alamanni scese in Italia sotto il comando di Leutari. Ma queste non erano epidemie
d'apoplessia, come da taluno venne creduto; la morte subitanea, lo stato di stupore od il
letargo erano forme o sintomi d'altri morbi cioè della peste bubonica (sic), e probabilmente del tifo castrense. Mi premeva citare questo lavoro, non tanto per il suo contenuto
intrinseco, quanto per contribuire a documentare la straordinaria diffusione, ad ogni livello degli ambienti storici e scientifici, della discussione sulla vicenda del morbo cenedese.
94
dentale315.
Partiamo dall'ipotesi che si sia trattato di un morbo diverso dalla
peste, e da altre affezioni con esiti dermatologici vistosi, e osserviamo le
diverse ipotesi che si possono avanzare, alla luce di un esaustivo esame
dei sintomi che Agazia ci propone nel suo racconto.
Ritengo si possano rinvenire nel racconto agaziano elementi in
qualche modo riconducibili – in via generale – ad almeno otto diverse situazioni morbose:
(A) infezioni del tratto gastro-intestinale (febbre tifoide; shigellosi);
(B) intossicazioni da cibi contaminati (ergotismo; aspergillosi; antrace);
(C) malaria;
(D) rabbia;
(E) pseudo-rabbia (o morbo di Aujeszky).
Considerando il fil rouge della febbre, che lega in qualche modo
tra di loro tutte queste malattie (all acute infectious diseases produce a
high fever316), ma anche, per alcune, le apoplessie e i deliri, le esamineremo di seguito, Scheda per Scheda, nella consapevolezza della difficoltà
nel formulare le cosiddette diagnosi retrospettive, nell'applicare cioè “sintomatologie” narrate da storici e cronisti antichi all'esperienza (o alla manualistica) della medicina moderna317.
Scheda A): Infezioni del tratto gastro-intestinale
Data la scarsa igiene personale e collettiva, l'eliminazione delle
acque di scolo ridotta al minimo (anche nei luoghi dove un tempo era stata regolarmente praticata), la concentrazione improvvisa e non organizzata in una stessa area di una pluralità di soggetti senza la possibilità di garantire un accettabile smaltimento delle feci umane con il conseguente inquinamento dell'acqua da bere, era inevitabile lo sviluppo di infezioni quali la Febbre tifoide, la Shigellosi e altre forme pericolose di dissenteria318.
Situazioni tipiche gli assedi o i “blocchi” prolungati, con le ovvie
315 Sul vaiolo nell'antichità rinvio comunque a D.Ch. Stathakopoulos, Famine and
Pestilence, pp. 91-96 ed a R. Sallares, Ecology, Evolution, p. 237.
316 Vd. R. Sallares, Ecology, Evolution, p. 235.
317 Per questo si veda l'importante contributo di K.-H. Leven, 'At times these ancient
facts seem to lie before me like a patient on a hospital bed' – Retrospective Diagnosis
and Ancient Medical History, in H.F.J. Horstmanshoff-M. Stol, Magic and Rationality in
Ancient Near Eastern and Graeco-Roman Medicine, Leiden-Boston, 2004, pp. 369-386
(p. 373); vd. però, contra, D.[Ch.] Stathakopoulos, Crime and Punishment, p. 99 e nota 2.
318 Vd. D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, pp. 97 ss.
95
difficoltà di approvvigionamento di cibo e di accesso all'acqua pulita: il
mix di malnutrizione e contaminazione, in quelle circostanze, raggiunge il
picco della sua pericolosità. Anche operazioni prolungate, distanti dalle
basi di partenza, in condizioni igieniche precarie, con prolungato approvvigionamento idrico da corsi d'acqua contaminati, potevano tuttavia condurre ad analoghi risultati.
A1) La Febbre tifoide è una malattia infettiva sistemica, febbrile, a trasmissione oro-fecale, provocata da un batterio del genere Salmonella, detto anche bacillo di Eberth o di Gaffky. Si ritiene trattarsi di uno
dei più frequenti patogeni dell'antichità.
Sintomi: febbre, letargia, dolori addominali (e dolori diffusi su
tutte le membra), mal di testa, tosse, costipazione e diarrea. In casi particolari subentrano depressione e delirium tremens. Nel corso della seconda
o terza settimana di malattia possono apparire vescicole di color rosato
sulla parte superiore dell'addome319. L'incubazione dura una/due settimane
e la mortalità – naturalmente in epoca pre-antibiotici – si stima potesse attestarsi attorno al 10%320.
A2) La Shigellosi è un'infezione intestinale acuta, provocata da
enterotossine prodotte da batteri del genere Shigella, Gram-negativi.
I batteri si trasmettono da individuo a individuo per via oro-fecale, quando un soggetto contaminato, venuto a contatto con le proprie feci,
tocca cibi e liquidi a disposizione altrui. La tossina prodotta dalla Shigella
dysenteriae agisce bloccando la sintesi proteica delle cellule con le quali
viene in contatto, uccidendole. L'incubazione è assai rapida, 36/72 ore.
Principali caratteristiche i dolori addominali e la diarrea, con conseguente
disidratazione.
Sia la Febbre tifoide che la Shigellosi si manifestano soprattutto
nella stagione calda quando aumentano le difficoltà di accesso ad acqua
pulita ed abbondante. La malnutrizione favorisce entrambe le malattie e
per la Shigellosi, in particolare, i tassi di mortalità possono andare da un
comune 1% ad un severo 50% laddove il contesto igienico-sanitario e la
319 Vd. D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, p. 97; queste vescicole sono
forse simili a quelle riferite qualche anno dopo, Mario Aventicense che, per l'anno 570571, p. 238, scriveva: hoc anno morbus validus cum profluvio ventris et variola Italiam
Galliamque valde afflixit (vd. ancora D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, pp.
97; 313-314 e R. Sallares, Ecology, Evolution, p. 258, nota 104).
320 Vd. D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, p. 98.
96
malnutrizione dei pazienti si presentino a livelli drammatici321.
Parlando, nelle pagine precedenti, dell'invasione franca del 539,
sulla base della testimonianza di Procopio, abbiamo ricordato di come lo
storico avesse attribuito alla cattiva alimentazione – o meglio, alla alimentazione di sola carne (forse non conservata, né cotta, in modo appropriato)
– e all'acqua del fiume Po cui avevano attinto i franchi, una estesa epidemia che si può definire di “diarrea gastrica” e di “dissenteria”, e che
avrebbe sterminato un terzo degli uomini del re Teodeberto322.
Anche in quell'occasione risulta incidentalmente, ma significativamente, la modalità caratteristica in uso agli incursori franchi, del consumo integrale delle risorse dell'area, fino a rimanere vittime delle proprie
stesse razzie, e della mancanza di risorse e provviste.
Vorrei ricordare infine la notizia che dànno congiuntamente Agazia e Fredegario, relativamente al contingente di Butilino, che prima di essere definitivamente sconfitto da Narsete, avrebbe sofferto di una grave
epidemia, probabilmente dissenteria323.
Queste patologie si adatterebbero al caso di Ceneda, tanto per le
circostanze ambientali – l'area poteva infatti essere definita ad alto rischio
per gli uomini della spedizione di Leutari, per gli acquitrini e le zone impaludate per lo scarso o nullo controllo delle acque – quanto per alcune
delle sintomatologie che si sono citate, penso alle forme apoplettiche (letargia, depressione) o al delirium tremens che possono conseguire alla
Febbre tifoide, e che potrebbero adattarsi alla descrizione di alcuni dei
“sintomi” proposta da Agazia.
Bisogna tuttavia rilevare che nessuna delle caratteristiche più comuni ed evidenti delle malattie del tratto gastro-intestinale, quali il vomito
321
322
Ibid.
Anche in questo caso bisogna applicare una tara ai numeri e agli ordini di grandezza di Procopio, che aveva assegnato alla spedizione franca del 539 una forza di ben
centomila uomini; vd. Procop. Bell. Goth. II, 25 (tr. it. p. 511); l'episodio va collocato
“nella Valle del Po”, tra Ticinum (Pavia) e Dertona (Tortona); Gregorio di Tours, Hist.
Fr. III, 32, vol. I, p. 268 (tr. it., p. 269) annotò a proposito dell'insalubrità della zona attraversata da Teodeberto: loca illa, ut fertur, morbida sunt [sono malsane], exercitus eius in
diversis febribus corruens vexabatur; multi enim ex his in illis locis mortui sunt.
323 Di “una malattia” che avrebbe colpito pesantemente gli uomini di Butilino, parla
effettivamente Agath. II, 4, 2, p. 44; tr. ingl., p. 35; senza entrare in dettagli: καὶ τῆς
ἀμφ' αὐτὸν στρατιᾶς νόσῳ ἑαλώκει καὶ διεφθείρετο; E. Stein, Bas-Empire, p. 608, riferendosi al malanno, lo indica come dysenterie. Fredegario, Chron. III, 50, p. 106, la cui
cronaca dipende da Gregorio, specifica autonomamente che Butilino sarebbe stato sconfitto perché lui e i suoi erano indeboliti da un profluvium ventris. Scriveva: Buccelenus in
Aetalia... infirmatus a profluvium ventris et exercitos suos e infirmitate adtritos. Vd. anche PLRE III-B, s.v. Narses 1, pp. 921-922.
97
e la diarrea – né le eventuali vescicole addominali – compaiono nella descrizione agaziana.
È poi difficile trasferire nell'area cenedese del 554 d.C. La presunta abbondanza di carne segnalata per il 539 da Procopio come preda
sistematica e unico elemento della vorace dieta dei franchi incursori.
Consideriamo tuttavia che l'osservazione – quasi socio-antropologica – di Procopio farebbe piuttosto pensare al disappunto dell'uomo
mediterraneo, abituato ad una dieta sobria, prevalentemente costituita da
vegetali e farinacei, posto davanti al saccheggio di quel che restava degli
allevamenti italiani, portato avanti da un'etnia avvezza al regolare consumo di carne (soprattutto suina), pur considerando che all'epoca – come si
è già visto – il clima, diverse carestie e la guerra incessante avevano messo in forse i raccolti della penisola e le relative scorte324.
Nessuna di queste due affezioni avrebbe potuto tuttavia provocare la vera e propria strage descritta da Agazia a Ceneda, se non altro per
la loro relativa gravità e per la loro bassa mortalità325.
Scheda B): Intossicazione da cibi contaminati
L'assunzione di cibo contaminato da funghi, muffe e tossine,
conduce – com'è noto – a forme di avvelenamento (o intossicazione) che,
in relazione alla quantità o alla tossicità delle sostanze consumate, possono portare anche alla morte. Sintomi generali di tali intossicazioni sono
vomito, diarrea e capogiri. L'intossicazione da cibo non ha evidentemente
caratteristiche di epidemia, tuttavia, quando una collettività di individui
consuma sistematicamente – per un periodo significativo – alimenti contaminati da tossine, il risultato è simile a quello di un'epidemia che, nell'antichità, era difficilmente distinguibile da quello conseguente ad un
contagio infettivo326.
Procopio descrive ad es. la terribile fame patita dagli abitanti di
Roma, nel corso del crudele assedio imposto dai goti nel 546327: ai cittadini non restò, ad un certo punto, che nutrirsi di sole ortiche (ὁ δὲ δὴ ἄλλος
ἅπας ὅμιλος τὰς ἀκαλήφας μόνας ἤσθιον), che crescevano abbondanti
324
Sul consumo di carne suina da parte dei guerrieri germanici, quasi come una sorta
di obbligazione “religiosa”, vi veda più oltre, la nota 431.
325 Piuttosto isolato C.G. Mor, Bizantini e Langobardi, p. 235, che scrive, di Leutari,
morto di dissenteria sul Garda.
326 Vd. D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, pp. 103-104. Sul concetto di
contagio presso gli antichi rinvio a Vivian Nutton, The Seeds of Disease: an Explanation
of Contagion and Infection from the Greeks to the Renaissance, «Medical History» 27,
1983, pp. 1-34.
327 Bell. Goth. III, 17, tr. it. p. 580.
98
attorno alle mura tra le rovine e in ogni punto della città (οἷαι πολλαὶ
ἀμφὶ τὸν περίβολον κἀν τοῖς ἐρειπίοις πανταχῆ τῆς πόλεως φύονται).
A causa di tale alimentazione, divenuta esclusiva, the people
continued to lose weight, their flesh vanished, their skin became livid and
while chewing nettles, they suddenly collapsed and died. This poisoning
which Procopius ascribed to nettles (Urtica dioica) is curious because it
is well known that nettles do not per os cause poisoning. Si ritiene tuttavia
che l'intossicazione massiva degli abitanti di Roma non possa attribuirsi
tout-court alla sola ingestione di ortiche ma che it appears that this poisoning was due to eating other herbs, perhaps poisonous, such as those
containing alkaloids which obviously, on account of the inhabitant's great
hunger, they could not distinguish or gathering nettles328.
B1) Aspergillosi.
Si tratta di una intossicazione causata da muffe, Aspergillus fumigatus o Aspergillus flavus, che possono infestare i cereali, sia in grani
che in prodotto lavorato (farine), di regola durante lo stoccaggio. Nel corso del suo ciclo vitale, esse producono sostanze ad elevata tossicità (aflatossine, metaboliti secondari termostabili). La sintomatologia è ricca e articolata: convulsioni, paralisi e stati di allucinazione329.
Probabilmente fu causata proprio da Aspergillosi – anche se si è
pensato ad una diversa causa – la strage di almeno cinquecento soldati bizantini nella località di Methone (Μεθώνη, in Messenia, Peloponneso, località non lungi da Capo Matapan), databile nell'estate del 533, nel corso
del trasferimento di truppe imperiali verso la Sicilia in preparazione al
successivo attacco ai vandali d'Africa330.
328 Le tre precedenti citazioni nel testo sono riferite a J. Lascaratos, Mass Poisoning
during the Gothic War (535-555 AD), «Mithridata. Toxicological History Society» 9-1,
1999, pp. 1-3 (p. 2). Nello stesso contributo (pp. 1-2), Lascaratos parlava anche di un altro avvelenamento alimentare di massa descritto, sempre da Procopio negli anni 538-539,
nell'area toscana, a causa dell'utilizzo delle ghiande delle querce, macinate per ricavarne
un surrogato del frumento (Bell. Goth. II, 20, tr. it. p. 495): this food, however, – scriveva
Lascaratos – did not save them, according to the historian, because it caused mass poisoning with the following symptoms: rapid loss of weight, paleness and, in the final
stages, hardening of the skin, black discoloration of it, “like burnt pine torches”, mania
and death.
329 Vd. C. Moreau, Les effets des les aspergilliticoses, «Bulletin de la Societé mycologique de France» 98, 1982, pp. 267-273; D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, p. 106.
330 Secondo Procopio, Bell. Vand. I, 13, 14-20 (tr. it. pp. 226-227), Belisario si vide
costretto a sbarcare le sue truppe a causa di una persistente bonaccia, e a sistemarle a terra; vd. J.B. Bury, History, II, pp. 129 e D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence,
99
A causa degli illeciti arricchimenti imputati da Procopio al Prefetto del Pretorio, Giovanni di Cappadocia, accusato di lucrare sulla (scarsa) qualità della farina, ma anche sulle (altrettanto scarse) forniture di legna da ardere per la corretta cottura del buccellatum (βουκκελλᾶτον) il
pane cioè in dotazione ai soldati, questo risultò contaminato (evidentemente non cotto, né conservato, in modo adeguato)331.
Ritrasformato il pane in farina, infatti, questa si mostrò graveolente e muffita: ne derivò, a seguito di una seconda – avventurosa – panificazione, un prodotto disgustoso che, una volta consumato, intossicò i
soldati. La presunta epidemia – così venne infatti percepita – e i suoi effetti cessarono interrompendo la somministrazione di quello specifico
stock di pane, nel momento in cui Belisario ordinò di ricorrere ai prodotti,
e ai panificatori, del posto.
Si è scritto tuttavia che non di Aspergillosi si sarebbe trattato, nel
caso di Methone, ma di Ergotismo, anzi, del primo caso documentato di
questa pericolosa forma di intossicazione alimentare332.
B2) Ergotismo.
La sintomatologia descritta da Agazia, nel caso di Ceneda, potrebbe rimandare a un quadro clinico simile a quello causato dall'Ergotismo, e nel contempo diverso.
È stato infatti ipotizzato che potesse essersi trattato di an epidemic, since many persons became ill, and that it affected the nervous
system333, in linea con la sintomatologia classica dell'Ergotismo, che deriva, com'è noto, dall'intossicazione per ingestione di graminacee, in particolare segale, infestate da un parassita denominato Claviceps purpurea,
comunemente chiamato Ergot334. Infatti certains des symptômes décrits
[da Agazia, nel caso di Ceneda] rappellent ceux de l'ergotisme («mal des
ardents») fréquent en Europe médiévale: vertiges, céphalées, crises
pp. 104 e 263-264 (per la data, ibid., p. 264).
331 It is therefore more likely that the epidemic of Justinian's troops was due to the
appearance of ergot in the grains of wheat stored in damp conditions with water content
of more than 13%, which favoured the development of the fungus; J. Lascaratos, A Mass
Poisoning of the Troops of Justinian I (533 AD): One of the First Epidemics of Ergotism
in History?, «Mithridata. Toxicological History Society» 6-2, 1996, pp. 14-17 (p. 16).
332 L'ipotesi, formulata dal citato studio di J. Lascaratos, A Mass Poisoning of the
Troops of Justinian I, è stata contestata da D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence,
pp. 107-108 e 264 sia per ragioni climatiche specifiche sia perché è raro trovare grano
contaminato da Ergot, parassita che infesta soprattutto la segale.
333 Vd. J. Théodoridès, Rabies in Byzantine Medicine, «Dumbarton Oaks Papers»
vol. 38, Symposium on Byzantine Medicine (1984), pp. 148-158 (p. 156).
334 Vd. D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, pp. 106-107.
100
épileptiformes avec hypersalivation335.
La malattia, spesso fatale, ben conosciuta lungo tutto il Medioevo col nome di Fuoco di Sant'Antonio336, si presentava sotto la forma di
Ergotismus convulsivus, caratterizzato da sintomi neuroconvulsivi di natura epilettica: l'intossicazione portava il malato a devastanti forme allucinatorie in particolare per effetto degli alcaloidi, compreso l'acido lisergico
(LSD-25) che costituisce il loro nucleo fondamentale, sostanze vasocostrittrici capaci di compromettere la circolazione e di interagire con il sistema nervoso centrale, agendo sui recettori della serotonina. Per masse
ridotte alla fame e prive di risorse, la necessità di provvedere alla panificazione combinando ogni genere di prodotto, anche inadatto come la segale, è il fattore che induceva all'intossicazione descritta, considerata anche la resistenza che gli alcaloidi mostrano, persino alle alte temperature
dei forni di cottura del pane.
Prendiamo in considerazione, a titolo esemplificativo, due casi
occorsi rispettivamente nel 507 e nel 559-560, caratterizzati da intossicazioni (avvelenamenti) di massa. In tali termini sono infatti interpretabili le
rispettive descrizioni, in quanto appaiono correlati a manifestazioni collettive di follia piuttosto interessanti.
Il primo caso, verificatosi ad Alessandria, ed estesosi probabilmente al di fuori della città, è attribuito, dal vescovo-cronista Vittore di
Tunnuna337, a degli immundi spiritus (“spiriti immondi” = demoni), i quali
avrebbero “posseduto” populos Alexandrinos et totius Aegypti omnes simul
pusillos et magnos, liberos ac servos, clericos atque monachos praeter
peregrinos, tutti, cioè, “piccoli e grandi, liberi e servi, uomini di chiesa e
monaci, eccetto gli stranieri”. E tutti, allora, humana locutione privati
latrare cunctis diebus ac noctibus ut canes coeperunt338, privati della capacità di parlare cominciarono a latrare come cani, notte e giorno.
335 Vd. J. Théodoridès, Quelle était la maladie, p. 155.
336 Vd. ad es. P. Camporesi, Il pane selvaggio, pp. 153
ss. Se ne veda, molto tempo
dopo i nostri fatti, la classica lettura di Flodoardo di Reims (Flodoardi Canonici Remensis, Annales, P.L. 135, a. 945, c. 464): In pago Parisiacensi (=a Parigi) necnon etiam per
diversos circumquaque pagos, hominum diversa membra ignis plaga (lett. “dalla malattia
del fuoco”) pervaduntur; quaeque sensim exusta consumebantur, donec mors tandem finiret supplicia); una traduzione inglese del passo si trova in A.J. Stoclet, Consilia humana, ops divina, superstitio. Seeking Succor and Solace in Times of Plague, with Particular Reference to Gaul in the Early Middle Ages, in L. K. Little (ed.), Plague, p. 141. L'attuale nome popolare di Fuoco di Sant'Antonio usata ad indicare l'infezione da herpes zoster, non si riferisce – è ovvio – alla medesima malattia.
337 Victoris Tonnennensis Episcopi, Chronica, MGH AA, XI =Chronica minora II,
Berlin 1894, repr. München 1981, a. 507, p. 194 (a questo passo si riferiscono anche le
successive citazioni; la traduzione è mia).
101
Tale comportamento poteva tuttavia essere ricondotto superficialmente a quello di persone affette da una forma apparente (?) di Rabbia, come mostrano alcune fonti mediche antiche che descrivono some of
the persons afflicted “bark like dogs” and attack other people339.
L'intervento delle autorità, di fronte a tale scandaloso comportamento, si rese infine necessario ita ut vinculis ferreis vincti ad ecclesias
postea, ut sanitatem perciperent, traherentur, “affinché, messi in catene,
fossero condotti nelle chiese per recuperare la loro salute (mentale)”.
Secondo alcuni studiosi si tratterebbe di una descrizione delle
conseguenze allucinatorie derivanti dal consumo di massa di cibi corrotti,
inquinati, tossici e pericolosi, comunque inadatti alla nutrizione340: la spiegazione di tale consumo è ovviamente legata alle successive ondate di carestia che colpirono il Medio Oriente341.
È possibile si sia trattato di un caso di massa di Ergotismo, anche
se è molto difficile interpretare fonti storiche tanto pesantemente inquinate da fanatismo religioso. È infatti la faziosità religiosa cattolico-ortodossa a interpretare in chiave di regressione animale, l'auspicata punizione
per “eretici” monofisiti, come gli egiziani – gli alessandrini in particolar
modo –, che pervicacemente continuavano ad opporsi ai deliberati del
Concilio di Calcedone (451 d.C.).
Vittore di Tunnuna ci presenta addirittura l'intervento ammonitorio d'un angelus il quale in viri specie quibusdam ex populo apparuit dicens
eis pro eo, quod anathema synodo Calchedonensi dederint, comminatus
deinceps nihil eos tale aliquid praesumere (“con l'aspetto di un uomo apparve ad alcuni, dicendo loro che ciò che era accaduto derivava dal loro
[degli Alessandrini] rifiuto del sinodo di Calcedone, e che [il castigo] era
stato loro comminato fin tanto a che essi avessero continuato in tale condotta”)342: da qui l'esclusione “selettiva” degli stranieri dalla possessione
diabolica, diretta a punire comportamenti devianti dall'ortodossia, evidentemente localizzati.
338
La notizia è ripresa anche da Isidori Iunioris, Chronica, MGH AA, XI = Chronica
minora II, § 384, p. 473: Alexandria et Aegyptus errore Dioscori haeretici languens
immundo repleta spiritu canina rabie latrat.
339 J. Théodoridès, Rabies in Byzantine Medicine, p. 150 (a proposito del medico Philumenos, del II sec. d.C.).
340 Vd. D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, pp. 104 e 258-259.
341 Vd. D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, pp. 248-258 con i casi documentati e documentabili, tra 494 e 505-506, in Siria.
342 Non è questa la sede per affrontare una simile complessa questione; rinvio pertanto a C. Capizzi, L'Imperatore Anastasio I (491-518), Roma 1969, pp. 100-137 (“La politica religiosa”), spec. pp. 113-119. Basti dire che in quegli anni era lo stesso imperatore
Anastasio a favorire i monofisiti contro i cattolici ortodossi.
102
Sempre preceduto – non casualmente – da una carestia tra 546 e
555343, è il secondo caso di presunto Ergotismo di massa accaduto, tra 559
e 560, ad Amida (hod. Diarbakir), città siro-mesopotamica bagnata dal
fiume Tigri344. Siamo informati di questi fatti grazie alla storia scritta da
Giovanni Efesino (nativo proprio di Amida e probabilmente lui stesso testimone oculare o persona ben informata), conservataci nella Cronaca del
cosiddetto Pseudo-Dionisio di Tel-Mahrē345.
Alle prime avvisaglie, secondo le quali l'esercito persiano sarebbe stato in procinto di prendere la città, il panico corse tra gli abitanti di
Amida, e fu follia collettiva, interpretata anche qui come possessione diabolica: fury, madness and demoniacal possession346.
Essa si estese anche alle città vicine, Tella, Edessa (hod. Urfa) e
altre: la popolazione si ritrovò per strada senza sapere dove andare, tutti a
latrare al modo dei cani, a belare come capre, a emettere i versi di svariati
altri animali, insomma, a comportarsi con modalità allucinate disumanizzanti e senza alcun freno inibitorio347.
Esiste un'altra testimonianza su questa stessa vicenda, di parte
monofisita, quella di Giacomo di Edessa348, il quale ritenne di poter ricavare una propria morale dalla follia degli abitanti di Amida: essi sarebbero
stati puniti in quel modo per la loro obbedienza ai canoni del Concilio di
Calcedone, per aver accettato cioè il dogma delle due nature di Cristo: sarebbero stati così castigati assumendo voci e comportamento di cani e altri animali. È facile vedere come i fatti di Alessadria e di Amida siano stati apertamente utilizzati in una sorta di resa dei conti teologica e come il
punto di vista di Vittore di Tunnuna, cattolico ortodosso, appaia specularmente rovesciato in Giacomo di Edessa, monofisita.
343 Vd. D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, p. 299.
344 Pseudo-Dionysius of Tel-Mahrē, Chronicle, part. III, p. 104
(tr. ingl.); vd. D.Ch.
Stathakopoulos, Famine and Pestilence, p. 307, che data gli eventi tra 558 e 559.
345 Pseudo-Dionysius of Tel-Mahrē, Chronicle, part. III, pp. 104-107.
346 Pseudo-Dionysius of Tel-Mahrē, Chronicle, part. III, p. 104.
347 Vd. D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, pp. 105 e 306; Pseudo-Dionysius of Tel-Mahrē, Chronicle, part. III, p. 105, scriveva: people began to bark like dogs,
to bleat like goats, (to howl) like cats, to crow like cocks and to imitate the voices of
every dumb animal... they gathered in groups, confused, disturbed, troubled and disordered, rushing here and there... speaking meaningless and gross words as if (uttered)
by a demoniac, bursting out in laughter, using licentious speech and evil curses... wallowed naked (on the earth) and (did) other things of the kind, so that none of them could
even recognize his home or his house.
348 Cronicon Jacobi Edesseni, in Chronica Minora. 3, CSCO 5/Syri 5 = Jacob of
Edessa, XII, ed. E.W. Brooks, Louvain 1907, p. 260; vd. D.Ch. Stathakopoulos, Famine
and Pestilence, pp. 105 e 307.
103
Entrambi questi episodi saranno utili, più avanti, per le successive Schede D) ed E), in ragione di certi loro ulteriori sviluppi del tutto particolari e assai interessanti.
Che ci sia stato qualche problema legato al regime alimentare,
per gli ossessi “rabbiosi” di Amida, connesso in qualche modo all'olio e al
vino, è rivelato in una delle nostre fonti, che specifica come people stopped
giving them oily food and wine to drink, giving them (only) bread and salt
or dry pulses without any oil to eat, and posca to drink (“la gente smise di
recar loro cibi conditi con l'olio, e vino da bere, portando loro esclusivamente pane e sale o legumi secchi e una bevanda di acqua e aceto”)349 .
Ma nonostante tutto, l'Ergotismo, con i suoi pur severi picchi di
mortalità al 41,5%350, e con questo torbido alone di punizione per i peccati
commessi (come si vede nelle interpretazioni teologiche estreme adottate)
appare una fattispecie difficile da applicarsi al caso cenedese – nonostante
gli alamanni fossero pagani351 ed avessero saccheggiato chissà quanti edifici sacri! – e comunque non pare adatto a riscontrare compiutamente la
ripugnante sintomatologia agaziana: toutefois, la maladie de Leutharis et
de ses compagnons en diffère car dans l'ergotisme, qu'il s'agisse de la
forme «gangréneuse» ou «convulsive», surviennent des troubles digestifs
(nausées et vomissements) non mentionnés ici, et cette même affection se
caractérise par l'absence de fièvre, alors qu'Agathias note que les Alamans
périrent «la plupart accablés de fièvre», “tuttavia, la malattia di Leutari e
dei suoi compagni appare diversa perché nell'ergotismo, sia nella forma
cancrenosa che in quella convulsiva, si verificano disturbi digestivi (nausee e vomito) non menzionati qui, e questa stessa condizione si caratterizza per l'assenza di febbre, mentre Agazia nota che gran parte degli alamanni erano morti sopraffatti dalla febbre”352.
B3) Antrace.
Un'altra gravissima malattia legata a malaugurate ingestioni alimentari, deve essere qui doverosamente richiamata, l'Antrace, un'infezio349
Pseudo-Dionysius of Tel-Mahrē, Chronicle, part. III, p. 106. Si tratta forse di un
richiamo tout-court al regime “normale” di alimentazione, che non poteva contemperarsi
con uno stato “anormale”, se non attraverso una sorta di purificazione alimentare? In
ogni caso “sale” e “aceto” si ritrovano nella tarda medicina bizantina tra i rimedi antirabbici; vd. J. Théodoridès, Rabies in Byzantine Medicine, pp. 156-157.
350 Vd. J. Lascaratos, A Mass Poisoning, p. 15 e D.Ch. Stathakopoulos, Famine and
Pestilence, p. 107.
351
Non è infatti esatto, come sostiene per evidente svista J. Théodoridès, che
les Alamans avaient embrassé l'arianisme (Quelle était la maladie, pp. 154).
352
104
J. Théodoridès, Quelle était la maladie, pp. 155.
ne acuta causata nell'uomo da un batterio denominato Bacillus anthracis.
Il nome utilizzato per definire l'equivalente malattia negli animali è “carbonchio”: il termine antrace deriva infatti dal greco, nel significato di
“carbone”, a causa del colore nero delle ulcere necrotiche cutanee che
l'infezione sviluppa nei capi di bestiame contagiati, nella più frequente
forma cutanea. Procopio, come abbiamo visto, usava la parola ἄνθραξ
(pron. ánthrax) a proposito dei bubboni dell'omonima peste353.
Malattia endemica negli animali erbivori, selvatici o domestici
(anche dei maiali, che vedremo più avanti posti sotto particolare attenzione354), può anche svilupparsi nell'uomo, per esposizione a fauna infetta, o,
nella forma gastroenterica, per l'assunzione di carni contaminate dalle
spore del batterio. Non risulta tuttavia una specifica contagiosità da uomo
a uomo355.
C'è chi ha sostenuto persino che la stessa Peste nera medievale
could not have been a pandemic of plague but was rather one of anthrax356.
Bisogna dire, in effetti, che la sintomatologia dell'Antrace ha confuso,
nelle loro diagnosi, anche medici contemporanei: basti pensare che ancora
nel 1967, in Nepal, nel corso di una circoscritta epidemia di peste, si rinviene an instructive example of how [la peste] may masquerade as anthrax... the presence of carbuncles on the skin resembling the symptoms
of cutaneous anthrax... suggested an initial diagnosis of anthrax357.
La malattia dell'Antrace avrebbe qualche possibilità di essere
correlata sul piano teorico alla vicenda narrata da Agazia solo supponendo
l'ingestione sistematica di carni infette, anche perché non è possibile fondatamente provare l'insorgenza negli sfortunati guerrieri dei sintomi dell'Antrace nella sua forma inalatoria, la più pericolosa: inizialmente simili
a quelli di una grave influenza, portano tosse, spossatezza, febbre e poi la
morte. In questo senso l'intossicazione – se ammessa in questi termini –
apparirebbe più simile a quella caused by the consumption of foods containing the botulin-toxin, tra cui senz'altro sta la badly preserved meat358.
Si tratta di una ipotesi di scuola, e resta la difficoltà ad ammettere che il territorio cenedese fosse in grado di fornire la carne – anche di
animali malati – necessaria a sfamare (e quindi eventualmente ad infetta353 Vd.
354 Vd.
B. von Hagen, Die Pest im Altertum, p. 11.
R. E. Walker, Roman Veterinary Medicine, p. 330 sul carbonchio nei maiali.
355 Vd. R. Sallares, Ecology, Evolution, p. 238.
356 D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, p. 145, che si riferisce a G. Twigg,
The Black Death: a Biological Reappraisal, London, 1984, il quale ultimo peraltro non
contesta la natura di peste all'epidemia giustinianea.
357 R. Sallares, Ecology, Evolution, p. 239; riferimenti in letteratura alle note 35 e 36.
358 D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, p. 109.
105
re) questi guerrieri in un periodo di profonda crisi ambientale e agricola.
Scheda C): Malaria
La Malaria è una malattia causata da parassiti del genere Plasmodium, veicolati da zanzare femmine del tipo Anopheles.
A due parassiti (P. vivax e P. falciparum) sono attribuibili le frequentissime, virulente epidemie che caratterizzarono molte aree dell'antico Mediterraneo359.
La Malaria scoppia frequentemente in autunno – e a questo periodo dell'anno pare si possa assegnare l'episodio morboso di Ceneda – e
l'incubazione può anche risultare abbastanza lunga, tra due e sei settimane
dopo il morso delle zanzare infette360.
Se pensiamo al non facile attraversamento del Po (fine estate del
554), con una permanenza degli alamanni magari in zone paludose circostanti il fiume per almeno una-due settimane, prima di varcarlo e raggiungere il rifugio offerto dal castrum cenedese, la Malaria si presterebbe ad
essere riconosciuta nel caso raccontato da Agazia361, con i suoi sintomi caratteristici, soprattutto la febbre ricorrente (e intermittente, a seconda del
protozoo responsabile: terzana e quartana), i dolori di testa, i dolori muscolari anche acuti, coma, edema polmonare e collasso cardiocircolatorio362. Il vomito e la diarrea con altre complicanze, quali ingrossamento di
milza e fegato, non sono invece tra quelli ricordati da Agazia.
Alcuni degli uomini di Leutari, attribuivano – lo abbiamo visto –
alla cattiva qualità dell'aria (Agath. II, 3, 5: μοχθηρὸν... ἀέρα αἴτιον
ἐκεῖνον τοῦ πάθους γεγενῆσθαι ἡγοῦντο)363, l'improvviso peggioramento
del loro stato di salute, la febbre, gli acuti dolori di testa, le forme di apoplessia e le allucinazioni. D'altronde non sarebbe necessario immaginare
359
Vd. in generale W.H.S. Jones, Malaria. A Neglected Factor in the History of
Greece and Rome, London, 1907; A. Celli, Die Malaria, Berlin 1913 e R. Sallers, Malaria and Rome: a History of Malaria in Ancient Italy, Oxford 2002.
360 Vd. D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, p. 101 (between two to six
weeks after the bite).
361 L'area veneta è stata sempre caratterizzata da manifestazioni endemiche di malaria: vd. A. Celli, Die Malaria, pp. 63-69; vd. ancora D.Ch. Stathakopoulos, Famine and
Pestilence, p. 102: Italy in general, and the swampy areas of the Veneto specially, were
known endemic foci of malaria.
362 Vd. W.H.S. Jones, Malaria, pp. 19-20; D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, pp. 101-102. La multiformità dei sintomi della malaria crea tuttora problemi diagnostici ai medici: nel Madagascar del 1997 (!) casi di peste vennero interpretati come
Malaria e come tali, in un primo momento, inutilmente trattati (vd. R. Sallares, Ecology,
Evolution, pp. 234-235 e nota 14).
363 Cfr. R. Herzog, Malaria und Tollwut, p. 141.
106
un'infezione da Malaria in itinere, in quanto anche il territorio cenedese
risulta ampiamente impaludato fin dal quinto secolo a causa del progressivo venir meno dell'irreggimentazione e della cura delle acque364.
Può essere che i nuovi venuti fossero risultati assai più a rischio
dei locali, in qualche modo parzialmente immunizzati per il più frequente
contatto con la malattia365.
In ogni caso, tornando all'ipotesi della localizzazione dell'infezione nei pressi del Po, non sarebbe stata la prima volta che le aree attorno al grande fiume mettevano in difficoltà una spedizione diretta o propiziata dai franchi: ne abbiamo parlato nella Scheda A2), a proposito della
spedizione guidata dal re Teodeberto, nel 539.
Non si può escludere, comunque, una leggerezza di Leutari e un
deficit organizzativo da quei guerrieri stanchi e sfiduciati366. In ogni caso,
una elementare raccomandazione della manualistica militare romana, senz'altro ancora ben nota ai bizantini, prescriveva: si autumnali aestivoque
tempore diutius in isdem locis militum multitudo consistat, ex contagione
aquarum et odoris ipsius foeditate vitiatis haustibus et aëre corrupto
perniciosissimus nascitur morbus, qui prohiberi non potest aliter nisi
frequenti mutazione castrorum [“se nei periodi autunnali ed estivi una gran
quantità di soldati si trattiene troppo a lungo negli stessi luoghi, dall'appestamento delle acque e persino dal cattivo odore che infesta il respiro e vizia l'aria si scatena una epidemia veramente dannosa, che non può essere
evitata se non con un frequente spostamento dell'accampamento”]367.
Che dire poi della quasi antropologica difficoltà dei guerrieri germanici a sopportare il clima caldo? Potrei citare Agazia, a proposito dei
franchi368, ma ho in mente ancora una volta Tacito, Germania 29-30, e son
tentato di riferirmi proprio a lui per l'ennesima dimostrazione di spirito di
osservazione, che si legge in un altro suo passo, centrato sull'allentamento
della disciplina di militari di origine germanica e gallica, nella città di
364 Vd. S. De Nardi-G. Tomasi, L'Agro Centuriato Cenedese, pp. 40-41 (ove è descritto, grazie ai toponimi, il trasferimento degli abitati sulle colline a causa dell'impaludamento delle aree pianeggianti in concorrenza con la forestazione).
365 Vd. D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, p. 102.
366 Come racconta Agazia, parlando del contingente guidato da Butilino, i franco-alamanni erano in realtà perfettamente capaci di allestire per loro stessi accampamenti a regola d'arte (vd. Agath. II, 4, 5-8, p. 45; tr. ingl. pp. 35-36).
367 Vegezio, Epitoma, III 2, 12 (tr. it., pp. 195-197); vd. ancora Vegezio, Epitoma, III
2, 2 con la raccomandazione di evitare di far sostare i soldati nelle aree insalubri (in pestilenti regione) e nei pressi delle paludi malsane (iuxta morbosas paludes), tr. it. p. 193.
368 Vd. infatti Agath. I, 19, 2, p. 34; tr. ingl. p. 27, e cfr. Averil Cameron, Agathias on
the Early Merovingians, p. 129. Sulla “origine comune” di franchi e germani, vd. ancora
Agath. I, 2, in., p. 11; tr. ingl., p. 10 (e Procopio, Bell. Goth. I, 11, 29; tr. it., pp. 379-380).
107
Roma, agli esordi del breve regno di Vitellio (69 d.C.): sed miles, plenis castris et redundante multitudine, in porticibus aut delubris et urbe tota vagus, non principia noscere, non servare vigilias neque labore firmari: per
inlecebras urbis et inhonesta dictu corpus otio, animum libidinibus imminuebant, postremo ne salutis quidem cura infamibus Vaticani locis magna
pars tetendit, unde crebrae in vulgo mortes; et adiacente Tiberi Germanorum Gallorumque obnoxia morbis corpora fluminis aviditas et aestus impatien-tia labefecit (Historiae, II, 93).
In pratica Tacito vuol dire che “i soldati, vagavano per la città,
senza più conoscere la sede del loro reparto; abbandonati turni di guardia
ed esercitazioni, preferivano abbruttirsi tra le tentazioni offerte dalla città
e svaghi del corpo tutt'altro che onesti. E non facevano più nemmeno attenzione alla propria salute: una gran parte si accampò infatti sconsideratamente nella malsana area del Vaticano [storicamente da sempre infestate dalla malaria] e quindi frequenti erano le morti perché i corpi dei germani e dei galli, già predisposti ad ammalarsi, si indebolirono ancora di
più per la vicinanza del Tevere e per la loro smania di tuffarsi nel fiume,
dovuta alla incapacità di sopportare il caldo”.
Come si vede, il contesto descrittivo tacitiano s'adatterebbe piuttosto bene a descrivere la situazione degli alamanni in Ceneda, per molti
elementi comuni: essere di etnia germanica; non tollerare il clima caldo;
aver perso il contatto con la disciplina e gli esercizi militari cedendo all'inattività; una certa maschia supponenza che celava la mancata consapevolezza sulla salubrità della zona, e su dove porre in sicurezza gli alloggiamenti; infine – considerata la malattia di cui ci occupiamo in questa Scheda – l'ipotesi del contagio a causa della permanenza per un certo tempo in
un ambiente malarico.
A suggerire che il morbo narrato da Agazia fosse la Malaria, era
stato uno studioso come Rudolf Herzog369, il quale tuttavia aveva creduto,
in tal modo, di trovare una soluzione di compromesso, che si rivelerà
macchinosa, rispetto ad altre ipotesi (che esamineremo anche qui), sostenendo la tesi di due distinte malattie letali, una per il capo e una per i suoi
uomini. Leutari, secondo tale ipotesi, sarebbe morto a causa della Rabbia,
malattia della quale ci occuperemo diffusamente nella prossima Scheda D),
mentre i guerrieri sarebbero periti a causa della endemica Malaria italica370.
Questa idea della doppia malattia lascia tuttavia sconcertati.
369 Vd. R. Herzog, Malaria und Tollwut, pp. 140-147, spec. pp. 142-143 e D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, pp. 103 e 302.
370 Both options are plausible, ha commentato salomonicamente D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, p. 302.
108
Avevo già avuto modo di sottolineare che Agazia inizia il suo
racconto sui fatti di Ceneda parlando della malattia come di un fatto comune a tutti gli alamanni, qualcosa che li minacciava tutti, a partire dai
primi sintomi. Solo nello sviluppo del suo breve racconto, sembra ricavarsi, dalle parole di Agazia, una sorta di divaricazione tra una forma eclatante, la malattia di Leutari, e un altro male da cui sarebbero stati affetti
gli altri guerrieri. Ricordiamo che proprio la prima parte del racconto cenedese, quella legata alle informazioni ricevute dal nostro storico, indica
con certezza che la malattia che uccise gli alamanni fu una soltanto e che
solo il gusto di stupire che muoveva la scrittura di Agazia, lo ha poi portato a ricreare una situazione quasi mitologica allo scopo di far morire
esemplarmente Leutari.
Alla soluzione di Rudolf Herzog (Rabbia/Malaria), a dir poco artificiosa, si è ribellato lo studioso, che, come vedremo, ha sostenuto per
primo l'idea della Rabbia per il morbo cenedese: daß Leutharis an Lyssa,
seine Mannen aber an Malaria gestorben seien, kann ich nicht beipflichten,
“non posso accettare che Leutari sia morto a causa della Rabbia ma che i
suoi uomini siano morti di Malaria”371.
Von Hagen ha precisato che dann hätte Agathias die
Malariasymptome einwandfrei klar skizzieren müssen. Denn die spätere
Antike kannte die Malaria in allen ihren Variationen aufs genaueste. Daß
die vox populi (nach Agathias) für den Ausbruch der Krankheit die
„schlechte” Luft anklagte, spricht nicht für Malaria – deren Geschichte
ich selbstverständlich kenne –, besagt vielmehr ebensowenig, wie die von
Agathias angeführten „Sünden” der germanischen Krieger, “inoltre Agazia avrebbe potuto (se avesse voluto) tratteggiare con estrema chiarezza i
sintomi della Malaria. Infatti gli uomini della tarda antichità conoscevano
perfettamente la Malaria in tutte le sue varianti. Che la vox populi (secondo Agazia) imputasse alla cattiva (qualità dell')aria lo scoppio della malattia, non significa che si sia trattato di Malaria – la cui storia ovviamente
conosco – anzi significa poco almeno quanto i peccati commessi dai guerrieri germanici addotti da Agazia [per le violazioni delle leggi umane e divine commesse]”.
E ha poi concluso, scrivendo: an Malaria sterben auch niemals
alle Erkrankten ohne Ausnahme, wie in unserem Falle Agathias bezeugt
und wie es bei Lyssakranken vor Pasteur immer der Fall war und noch
heute ohne rechtzeitiges Immunisierungsverfahren unausbleibliche
Notwendigkeit ist. Nicht einmal für eine Differentialdiagnose kommt
meines Erachtens Malaria in Frage, viel eher schon traumatischer
371
B. von Hagen, Zum Problem, p. 356.
109
Tetanus oder Delirium tremens, “non è mai accaduto che tutti i malati di
malaria morissero senza eccezione, come nel nostro caso testimonia Agazia, e come invece accadeva sempre in caso di malati di Rabbia, prima di
Pasteur, e (accadrebbe) inevitabilmente ancor oggi senza le opportune immunizzazioni. Non ho mai preso in considerazione di ipotizzare la Malaria come diagnosi alternativa (alla Rabbia): tanto varrebbe allora pensare
al Tetano traumatico o al Delirium tremens372”.
Scheda D): Rabbia
Eccoci così introdotti all'ipotesi della Rabbia quale causa dei fatali eventi descritti dallo storico bizantino e occorsi nella città di Ceneda
nel 554, nel tentativo di mettere più coerentemente in rapporto tra loro le
descrizioni dei sintomi di cui avrebbe sofferto Leutari, il capo, e quelli
che annientarono via via i suoi uomini, specie le morbosità febbrili, allucinatorie e convulsive.
L'ipotesi Rabbia è stata avanzata nel 1940 dallo studioso tedesco
le cui parole abbiamo appena citato, Benno von Hagen, anzi, a detta di J.
Théodoridès, von Hagen a été le premier à tenter une interprétation
médicale de ce passage373.
Von Hagen aveva supposto la trasmissione del morbo attraverso
il morso dei cani o attraverso il sistematico contatto dei guerrieri con la
saliva canina infetta374: in tutte le spedizioni militari dei barbari germanici
– sosteneva – quindi evidentemente anche in quella guidata da Leutari,
372
373
Ibid.
Quelle était la maladie, p. 155; vd. il saggio già citato dello studiose tedesco:
Lyssa, eine medizingeschichtliche Interpretation (1940); cfr. Averil Cameron, Agathias,
p. 62 e le perplessità di D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, p. 102. Il titolo
del lavoro tedesco viene dal gr. λύσσα (pron. lýssa), che equivale alla nostra Rabbia; a
quanto pare sussiste anche in italiano un fossile di “lissa”: ancor oggi infatti, a Reggio
Calabria, di qualcuno che fa le bizze, si usa dire che avi a lissa, dal siciliano lissa, “malumore, piagnisteo dei bambini, sete forte, vivo desiderio” (vd. G.L. Beccaria, Tra le pieghe delle parole. Lingua storia cultura, Torino 2008, p. 45).
374 Like the Greeks, Pliny attributed canine rabies to the existence of a small worm
(lyssa), situated under the frenum of the dog's tongue, the removal of which prevented the
disease; J. Blancou, Early Methods of Control and Treatment of Rabies in the Mediterranean World, in A. Veggetti et al. (edd.), 35th International Congress, pp. 51 ss. (p. 53).
Il morso appariva l'unico veicolo che l'antica medicina era riuscita ad immaginare per la
trasmissione della malattia, se si esclude una sorta di idrofobia “spontanea” (sine manifesta causa), di cui si può leggere in Celio Aureliano (De morbis acutis et chronicis. Libri
VIII, III, 9, 100, su cui vd. J. Théodoridès, Rabies in Byzantine Medicine, p. 154 e Anna
Dysert, Capturing Medical Tradition: Caelius Aurelianus' On Acute Diseases, «Hirundo.
The McGill Journal of Classical Studies» 5, 2006/07, pp. 161-173, part. p. 167).
110
das eben eine wandernde Horde war, “che pure era un'orda migrante” che
discese l'Italia kämpfend und Beute machend, “combattendo e facendo bottino”, avrebbe trovato posto una grande quantità di cani (eine Menge
Hunde befanden) utilizzati per sorvegliare i carriaggi dei trasporti e assicurare la protezione degli accampamenti nel corso della notte375. Il contatto tra guerrieri e cani era senza dubbio stretto e sistematico.
Secondo von Hagen i cani alamannici avrebbero potuto essere
stati infettati nell'Italia meridionale da cani indigeni, affetti endemicamente dalla Rabbia, e poi, a loro volta, avrebbero progressivamente trasmesso
l'infezione ai guerrieri attraverso il morso vero e proprio o, più spesso, attraverso il semplice contatto della saliva canina con ferite o lesioni agli
arti inferiori e superiori, piuttosto frequenti – anzi addirittura croniche –
in soldati sottoposti ad azione continua376.
L'abbondante saliva infetta del cane appare il veicolo più adatto
(e subdolo) a trasmettere l'infezione ad una pluralità di soggetti che si trovino in particolari condizioni, con ferite aperte, suppurate o ulcerose.
Come sempre infatti, nel corso delle guerre, da quando si sono combattute
a colpi di pietra, i piedi dei combattenti, a seguito di marce, del freddo e
di molte altre circostanze, si presentano piagati in modo spesso irrimediabile, in assenza di presidi sanitari efficienti, e soprattutto del tempo necessario a ridurre efficacemente le piaghe stesse.
Von Hagen citava un caso contemporaneo al suo studio, accaduto
a militari germanici: die Menschen hatten sehr viel durchgelaufene Füße;
die Wunden, nicht gepflegt, wandelten sich zu Geschwüre um, und nun
haben die Menschen diese Geschwüre belecken lassen von Hunden, die
vor dem Ausbruch der Hundelyssa bereits durch Virus infizierten Speichel
hatten... [“gli uomini avevano i piedi assai piagati; le piaghe non curate si
trasformarono in ulcere e gli uomini facevano leccare queste ulcere da
cani che avevano la saliva già infettata dal virus della rabbia canina...”]377.
In realtà, l'idea (la convinzione) di poter curare determinate malattie con la saliva non è nuova, anzi è profondamente connaturata in una
sorta di atavico senso comune, si pensi, per fare solo un esempio, a un celebre passo del Vangelo di Luca, dove il povero mendicante Lazzaro, coperto di ulcere, se le fa leccare dai cani378.
375
Si parla di cani die schon zur Bewachung des Trosses und jedes Nachtlagers
unerläßlich waren; B. von Hagen, Lyssa, p. 29 (anche per le brevi citazioni precedenti).
376 Vd. ancora B. von Hagen, Lyssa, p. 29.
377 Zum Problem, p. 356 (von Hagen riferisce il contenuto di una lettera dell'agosto
del 1940, scrittagli da un chirurgo berlinese, il professor Felix Landois).
378 16, 20-21: πτωχὸς δέ τις ὀνόματι Λάζαρος ἐβέβλητο πρὸς τὸν πυλῶνα αὐτοῦ
εἱλκωμένος καὶ ἐπιθυμῶν χορτασθῆναι ἀπὸ τῶν πιπτόνων ἀπὸ τῆς τραπέζης τοῦ
111
L'incubazione della Rabbia umana può rivelarsi piuttosto variabile – da dieci giorni a più di otto mesi!379 – e la malattia può quindi manifestarsi a grande distanza nel tempo rispetto al luogo dell'infezione, al
punto di apparire frutto di un'epidemia, pur non potendo la Rabbia infettare la popolazione umana in forma epidemica380: trattandosi com'è logico
della somma di infezioni individuali, estese però a buona parte del corpo
di spedizione, assunse però un indubbio seuchenartigen Charakter381.
L'ipotesi dello studioso tedesco si fondava evidentemente sul
rapporto intenso e sistematico che gli alamanni dovettero coltivare con i
propri cani: anche di questo l'archeologia ha fornito alcune prove indiziarie, grazie alla scoperta di numerose sepolture alamanniche di uomini e
cani, o di soli cani, peraltro referring to “large dogs”..., male dogs of a
considerable size382; sappiamo inoltre che during life, these large dogs
will have been used especially in defending livestock against wolves, and
in warfare383.
Si ritiene che status and companionship siano tra the main reasons for the dogs in the graves384: era cioè un intimo rapporto tra uomini e
πλουσίου· ἀλλὰ καὶ οἱ κύνες ἐρχόμενοι ἐπέλειχον τὰ ἕλκη αὐτοῦ (et erat quidam men-
dicus nomine Lazarus, qui iacebat ad ianuam eius ulceribus plenus, cupiens saturari de
micis, quae cadebant de mensa divitis, et nemo illi dabat; sed et canes veniebant et lingebant ulcera eius).
379 Vd. B. von Hagen, Lyssa, p. 29 e D. Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence,
p. 102. Il virus della rabbia si muove lentamente dalla zona di inoculazione, solitamente
la cute e il tessuto muscolare sottostante, verso il sistema nervoso centrale, trasportato
passivamente lungo le guaine dei nervi (M. La Placa, Virus e batteri, p. 77).
380 Bei der langen Inkubationsdauer nehme ich an, da Feldherr und Soldaten nach
dem Marsche durch ganz Italien sich nicht mehr des Bisses erinnert haben, zumal solche
Bisse gut zu heilen pflegen... Beim Ausbruch der Lyssa hat sicher keiner sich daran
erinnert, daß ihn vor Wochen oder Monaten ein Hund gebissen oder mit seinem Speichel
berührt hatte scriveva B. von Hagen, Lyssa, p. 29. Vd. R. Sallares, The Ecology of the
Ancient Greek World, London, 1991, pp. 288-289 e D. Ch. Stathakopoulos, Famine and
Pestilence, pp. 258 e 306.
381 Zum Problem, p. 356, ove c'è un riferimento al caso di rabbia “di massa”, verificatosi a Creta nell'aprile 1948 (su altri casi consimili accaduti tra 1810 e 1925, vd. id., Lyssa, pp. 24-25).
382 E. Knol et al., The Early Medieval Cemetery of Oosterbeintun (Friesland), «Palaeohistoria» 37/38, 1995/96, p. 326 [“riferite a grandi cani... esemplari maschi di stazza
considerevole”].
383 Ibid. [“nella loro vita questi grandi cani dovettero essere stati utilizzati soprattutto
per difendere l'accampamento dai lupi e in combattimento”]; cfr. anche Martha Paul,
Wolf, Fuchs und Hund bei den Germanen, Wien 1981, pp. 23-48 e W. Prummel, Early
Medieval Dog Burials among the Germanic Tribes, «Helinium» 32/1-2, 1992, pp. 132-194.
384 “Status e relazione di cameratismo sono tra le principali ragioni che giustificano
la presenza di cani nelle tombe” come scrive Anne-Sofie Gräslund, Dogs in Graves – A
112
cani (come con i cavalli) a giustificare la loro comune sepoltura. Di certo
si può essere certi as dog and horse played such an important role in Old
Norse religion385: nel sostrato più profondo dell'antica religione germanica
doveva infatti esistere un rispetto particolare per il cane386. E sul rapporto
intenso tra i guerrieri alamanni e i loro cani potrebbe essersi giocato il trasporto della Rabbia a Ceneda al seguito del contingente in fuga.
Sulla scorta di quanto scrive Agazia, von Hagen sosteneva che
questa apparente “epidemia” si dovesse leggere all'interno di un comune
quadro sintomatologico, “con sfumature e accentuazioni diversificate”
(die Buntheit der abweichenden Symptome)387. Lo studioso tedesco assumeva lo specifico quadro patologico di Leutari come descrizione-tipo, da
estendere in linea di massima anche agli altri guerrieri; individuava poi
nove contesti sintomatologici di massima dai quali non sarebbe possibile
prescindere (ich glaube, es sind neun Symptome, von denen wir ausgehen
müssen)388 per cercare di capire quel che accadde:
(1) il malato, quasi fosse un malato di mente, delira e smania in
stato di evidente sovreccitazione;
(2) è preso da κλόνος... μυρίος (Agath. II, 3, 6), cioè da attacchi
convulsivi irrefrenabili (rasch aufeinanderfolgenden, scriveva ancora von
Hagen, cioè “rapidamente susseguentisi”, “in rapida successione”), accompagnati da cupi gemiti; convulsioni e lamenti sono sintomi assolutamente tipici della Rabbia umana, così come la grande agitazione del paziente389; si tratta di una situazione – che mostra una singolare affinità anche con gli attacchi di tetano – caratterizzati da crampi alla muscolatura
della mascella, della lingua, della nuca e della schiena, che ne risultano
tesi allo spasimo390.
question of Symbolism?, in Picus. Man and Animal in Antiquity. Proceedings of the Conference at the Swedish Institute in Rome – September 9-12, 2002, Rome 2004, p. 171.
385 Anne-Sofie Gräslund, Dogs in Graves, p. 171 [“che cane e cavallo rivestirono un
importante ruolo nell'antica religione norrena”].
386 Ha scritto Gianna Chiesa Isnardi (I Miti Nordici, Milano 19972, p. 570): la simbologia [del cane] nel mondo nordico è quella di uno spirito custode che tiene lontano
l'uomo dai pericoli e insieme presagisce e annuncia gli eventi. Vd. anche R. Nedoma,
Hund und Hündergräber, § 2. Altertumskundliches, in Reallexikon der Germanischen
Altertumskunde, Berlin-New York 2000, pp. 212-232.
387 Id., Lyssa, p. 23 e Zum Problem, p. 356.
388 B. von Hagen, Lyssa, p. 10 (l'elencazione dei sintomi di seguito discussa nel testo
si trova alle pp. 10-12).
389 B. von Hagen, Lyssa, pp. 14 e 17.
390 Quello di Leutari sarebbe stato da considerarsi delirium tremens a parere di Th.
Hodgkin, Italy and Her Invaders, vol. V, pp. 35-36, ma un accenno, già rilevato, alla somiglianza dei sintomi del tetano e appunto del delirium tremens è fatto anche da B. von
113
Un ricercatore più interessato all'ipotesi Malaria, aveva comunque commentato: either the Alamanic chieftain was infected with a form
of rabies or he suffered, as did his troops, from malaria, whereas his condition had a particularly prominent convulsive trait, cioè “sia che il capo
alamanno fosse stato infettato da una forma di rabbia o avesse sofferto,
come i suoi uomini, di malaria, le sue condizioni erano tuttavia caratterizzate da un tratto convulsivo particolarmente accentuato”391.
(3) La violenta sollecitazione spasmodica e l'agitazione costringe
il paziente a mutare continuamente la propria posizione da una parte e
dall'altra, finendo a terra in delirio392;
(4) la rilevante quantità di bava alla bocca è conseguente a un
importante incremento della salivazione393;
(5) gli occhi del malato sono caratterizzati, nella descrizione
(Agath. II, 3, 6), da specifici aggettivi al duale. Il primo, βλοσυρὼ, deriva
dal verbo βλύω, “crescere”, “gonfiarsi”; B. von Hagen respinge opportunamente la vecchia traduzione latina torvi horrendumque in modum inversi; der griech. Ausdruck βλοσυρός – scrive infatti – scheint mir
indessen mehr zu sagen als torvus. Denn βλοσυρός kommt vom Verbum
βλύω, eigentlich “aufquellen”. Aufgequollene Augen haben in der Tat
etwas Schauerliches!, cioè: “occhi molto gonfi hanno in effetti qualcosa
di orribile!”394. Il secondo duale, παρατετραμμένω, dal verbo παρατρέφω, letteralmente “muto il corso”, “piego”, “storgo”, descrive cioè occhi
orribilmente gonfi e strabuzzati, seitwärts gewendet, che potremmo rendere “rivolti uno da una parte e uno dall'altra” o anche con un “fuori dalle
orbite”. È però possibile che tale sintomatologia possa far pensare allo
strabisme convergent segnalato per una diversa patologia che vederemo
nella successiva Scheda E). È in questo sintomo che von Hagen trovava
Hagen, Zum Problem, p. 356.
391 D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, p. 103.
392 Non a caso “Rabies se rattache à un verbe rabere, dont le sens demande à être
précisé. Or, parmi les symptômes de la rage, l'un des plus constants est le suivant: les
animaux atteints de cette maladie, sous l'empire d'une inquiétude extrème, courent et
errent au hasard. C'est précisément le sens du verbe grec ῥέμβω, qui veut dire «errer,
tournoyer»... rabere a la même sens et que c'est un mot venu du grec par une
transmission demi-savante. Il fait remarquer, incidemment, que le français rêver a eu
aussi à l'origine le sens di «vaguer, vagabonder» et qu'il pourrait bien venir de rabies, par
l'intermédiaire d'un substantif bas-latin rabia et d'un substantif français raive.” M. Bréal,
Quelques étymologies (rabies, cælum), in «Comptes-rendus des Séances de l'Académie
des Inscriptions et Belles-Lettres» 33e Année, 4, 1889, p. 256.
393 It has been observed that sick animals will show an unusual flow of saliva from
their mouths (D.Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, p. 103).
394 Lyssa, p. 11.
114
traccia, tra l'altro, della fotofobia tipica della Rabbia395.
Devo dire che nella frase di Agazia sulla condizione degli occhi
è stata anche letta – troppo affrettatamente, credo – una reminiscenza derivante dalla sintomatologia esposta da Tucidide, Storie II, 49, 2396.
A mio avviso, nella descrizione agaziana, l'uomo Leutari si sta
disumanizzando, sta imbestiandosi, ed è per prima cosa sul suo volto che
si legge la deformazione che lo sta trasformando e distruggendo397. Potremmo provare a riferirci, qui, al rapporto cosiddetto di “proporzione inversa”, descritto da Ippocrate, tra l'ὁμοιότης del paziente con se stesso,
cioè, e la gravità della malattia di cui soffre398: σκέπτεσθαι δὲ χρὴ ὧδε...
πρῶτον μὲν τὸ πρόσωπον τοῦ νοσέοντος, εἰ ὅμοιόν ἐστι τοῖσι τῶν
ὑγιαινόντων, μάλιστα δέ, εἰ αὐτὸ ἑωυτῷ· οὕτω γὰρ ἂν εἴη ἄριστον, τὸ
δὲ ἐναντιώτατον τοῦ ὁμοίου δεινότατον [“bisogna osservare in questo
modo... il volto del malato, se è simile a quello del sano e soprattutto se è
simile a se stesso (quando è sano): questo sarebbe infatti il caso migliore,
tanto più è dissimile invece tanto più è grave”]399. Nel caso di Leutari, non
ci sono dubbi.
(6) Il paziente arriva, nella descrizione agaziana, a un caratteristico stato di eccitazione furiosa400 tanto da mordersi le braccia, wie ein
wildes Tier (“come un animale selvaggio”), e da leccare il sangue che scaturiva dalle ferite; von Hagen si sofferma sul significato del singolare (ed
equivoco) termine che Agazia ha sentito il bisogno di usare, τὸν ἰχῶρα,
nominativo ἰχώρ (pron. ichṓr), che sarebbe da intendersi – alla lettera –
395 Vd. part. Von Hagen, Lyssa, p. 19.
396 Il suggerimento si trova nell'edizione
di Agazia, a cura di S. Costanza, p. 67, anche se, a mio avviso, manca in Tucidide, cui lo storico bizantino avrebbe alluso, una testualità precisa cui fare riferimento, se non limitatamente a una patologia oculare, che a
me sembra tuttavia diversa. Il passo non si trova censito o rilevato neppure da Averil Cameron, nel suo attento ed utile Herodotus and Thucydides in Agathias, spec. pp. 50-51.
397 Se Agazia “trasforma” Leutari, a causa della di lui malvagità, è quasi inevitabile
ricordare la trasformazione, sempre per malvagità, di Jekyll in Hyde: vd. R.L. Stevenson,
Dr. Jekyll and Mr Hyde, 1886, ed. New York 1985, ad es. p. 76: his face became suddenly black and the features seemed to melt and alter [“il viso divenne improvvisamente
nero e i suoi lineamenti parvero dissolversi ed alterarsi”, tr. it. di O. e G. Del Buono, Milano 1952, p. 73]; e p. 83: evil besides... had left on that body an imprint of deformity and
decay [“la malvagità inoltre... aveva impresso in quel corpo un marchio di deformità e di
decadenza”, tr. it., p. 79].
398 Vd. Amneris Rosselli, Introduzione a La Chirurgia ippocratica, Firenze 1975, p.
xxxvi.
399 Ippocrate, Progn. II, 1; la traduzione è di Amneris Rosselli, Introduzione a La
Chirurgia ippocratica, p. xxxvi.
400 Vd. part. Von Hagen, Lyssa, p. 21.
115
come liquido da necrosi più che sangue401, chiarendo tuttavia che ovviamente, la Rabbia keine putride Infektion ist402.
(7) Caratteristico poi, in parte dei pazienti, appare il doloroso,
straziante perder conoscenza fino alla morte403.
(8) L'epidemia non concede tregua fino a che tutti i guerrieri non
giacciono privi di vita: Agazia non è preciso circa la sorte di tutti, aber
offenbar ist gemeint, daß ausnahmslos alle starben, die jene Symptome
gehabt hatten, “ma è chiaro che quelli che avevano mostrato uno dei sintomi [della Rabbia] morirono tutti, senza eccezione”.
(9) La febbre (Agath. II, 3, 8: πυρετῷ), appare elemento caratterizzante comune (Fieber war eine Allgemainerscheinung): nella Rabbia
umana può toccare i 40°/41°.
Accanto al quadro clinico esagitato e selvaggio di alcuni si trova,
in altri, uno stato apoplettico (ἀποπληξία), che potrebbe richiamare la
cosiddetta Stille Wut, la “Rabbia muta, o silenziosa”, che si presenta in
una doppia forma, come terzo o ultimo stadio della “Rabbia frenetica” (lo
stadio cioè di estrema prostrazione, Erschöpfungsstadium), ovvero come
una forma autonoma di rabbia che conduce egualmente alla morte senza
fenomeni di frenesia404 mentre c'era anche chi soffriva dei tremendi mal di
testa (καρηβαρία, lett. “pesantezza di testa”) caratteristici pure della Rabbia.
Tuttavia la présence de chiens et de leurs morsures n'est pas
mentionnée dans le texte d'Agathias écrit à une époque où la rage était
bien connue405, ed è vero che non si trova alcun cenno, nel racconto di
Agazia, a cani al seguito dei guerrieri, ma – per l'informatore del nostro
storico – poteva trattarsi di un particolare trascurabile406.
401 Von Hagen, Lyssa, p. 11 cita la trad. latina promanantem saniem lambens, che a
sua volta rende con “den herauslaufenden Gewebesaft gierig leckte”; se arrancaba la
carne, que devoraba como una bestia salvaje lame la sangre fresca (come traduce Begoña Ortega Villaro, Agatías, Historias, p. 139).
402 Von Hagen, Lyssa, p. 13, n. 1.
403 Vd. ancora B. Von Hagen, Lyssa, p. 21; il dumpfer Kopfschmerz condurrebbe allo
Stadiums der Lähmung und Erschöpfung della Rabbia, cioè allo stadio “della paralisi e
della prostrazione”.
404 Vd. B. von Hagen, Zum Problem, p. 356; sulla “Rabbia muta” vd. anche J. Théodoridès, Rabies in Byzantine Medicine, pp. 150 e 154.
405 L'obiezione è stata sollevata da J. Théodoridès, Quelle était la maladie, p. 155;
cfr. Id., Rabies in Byzantine Medicine, p. 156.
406 Effettivamente sono molto pochi i riferimenti “ai cani” contenuti nelle Storie di
Agazia, relativi quasi tutti ai persiani, in particolare ai loro “deprecabili” costumi funerari
(cfr. II, 22, 6 e 23, 2 p. 70; 31, 7 e 31, 9, p. 82; poi V, 8, 2, p. 173, salvo 13, 4, p. 179 e
13, 6, p. 180 a proposito, invece, dei cani maltesi). Sui cani dei persiani vd. C. Questa, Il
morto e la madre. Romei e Persiani nelle 'Storie' di Agatia, in Id., L'Aquila a due teste.
Immagini di Roma e dei Romani, Urbino, 1998, pp. 137-169, e part. A. Borghini, Ca-
116
Il fatto che Agazia non facesse riferimento ad un particolare costume degli alamanni è ulteriormente indicativo della provenienza militare delle sue informazioni, che evitavano di trattare notizie scontate, come
l'uso dei cani al seguito di quei guerrieri; appare in ogni caso evidente
l'impossibilità per le spie bizantine di collegare la morte dei loro nemici
ad una ragione precisa, diversamente da quel che accadde ai cenedesi, testimoni diretti della strage.
Nulla esclude poi che la più parte dei cani fosse morta in precedenza, nelle convulse fasi della risalita della penisola lungo la via che
condusse infine a Ceneda quel che restava del contingente, e che quindi
non ci fosse – in realtà – alcuna notizia da dare sui cani degli alamanni407.
Secondo von Hagen, il tempo trascorso dall'infezione allo scoppio della malattia era stato sufficientemente lungo da non consentire un
collegamento tra l'infezione dei cani alamannici, la loro morte eventuale e
la successiva trasmissione della malattia ai guerrieri: stiamo parlando di
uomini privi di conoscenza e consapevolezza medica e nemmeno le spie
bizantine sarebbero state in grado di fare i collegamenti necessari: una
volta visti morire i guerrieri loro nemici e non avrebbero perso tempo a
cercarne la causa.
Se all'epoca in cui scriveva lo storico bizantino, il contagio della
rabbia dal morso del cane – a differenza, per fare qualche esempio, del
complesso ruolo della pulce del ratto nella diffusione della peste (o, in alcune zone, della zanzara in relazione alla malaria408; del pidocchio nel
ne-uccello, cani e uccelli: incomprensione culturale, e recupero del “reale” come retorica, in alcuni passi di Agatia, in G. Marzoli-F. Gasti (curr.), Prospettive sul Tardoantico,
Atti del Convegno di Pavia (27-28 novembre 1997), Como 1999, pp. 157-165. Non è
inopportuno ricordare che il giudizio assai severo di Agazia sui costumi persiani colpisce
e differs markedly from his earlier digression on the Alamanni, in which Agathias expresses a surprising tolerance for false belief rooted in “irrationality” and “savagery”,
common among the barbarians of the north (S. McDonough, Were the Sasanians Barbarians? Roman Writers on the “Empire of the Persians”, in R.W. Mathisen-Danuta Shanzer (edd.), Romans, Barbarians, and the Transformation of the Roman World. Cultural
Interaction and the Creation of Identity in Late Antiquity, 6th Biennial Conference on
Shifting Frontiers of Late Antiquity, University of Illinois, 2005, Farnham 2011, p 63).
407 Per es., Agazia non cita affatto i carriaggi di cui peraltro Leutari doveva disporre,
per trasportare bottino, armi e quanto poteva servire per gli accampamenti: ciò non significa che tali carri non ci fossero stati al pari di quelli indicati al seguito di Butilino (vd.
Agath. II, 4, 5, p. 45; tr. ingl., pp. 35-36).
408 Vd. R. Sallarers, Malaria and Rome, pp. 45 e 49; Id., Ecology, Evolution, p. 270.
Tuttavia l'uso di qualcosa di assai simile alla nostra zanzariera (δικτύον), testimoniato
dallo stesso Agazia e dal suo amico Paolo Silenziario, mostra che, a parte il fastidio notturno provocato dalle zanzare, qualche sospetto sulla loro pericolosità intrinseca esisteva;
rinvio ad Anth. Pal., IX, 764 e 765 (Paolo Silenziario) e IX, 766 (Agazia) = G. Viansino,
117
caso del tifo409) – era relativamente ben conosciuto dalla medicina ufficiale e da quella popolare, almeno sul piano “meccanico” del contagio animale-uomo, ma sarebbe stato necessario avere la precisa consapevolezza
della concatenazione dei fatti e delle conseguenti eziologie410. Agazia non
accenna all'idrofobia, tipica nella Rabbia umana (limitandosi forse solo ad
un cenno sulla fotofobia411), per difetto di informazioni, in quanto gli era
stato riferito un elenco di effetti lasciandolo all'oscuro sulle cause.
La complessa spiegazione-ricostruzione proposta da von Hagen,
assai affascinante, è ancor oggi citata412: egli non credeva ad una “versione letteraria” confezionata da Agazia ad uso dei suoi lettori: a suo avviso
lo storico bizantino usa infatti consapevolmente il verbo ἐλύττα, “smaniava rabbioso”, “era preso da furia, rabbia”413, che abbiamo già visto derivare da λύττα (=λύσσα, pron. lýssa), parola che indicava con precisione
la malattia che chiamiamo “Rabbia”.
La Rabbia, per gli antichi, era miserrimum genus morbi414: ben lo
sapeva – e altrettanto bene lo rappresentò – Sant'Agostino quando scrisse
(primo trentennio del V sec. d.C.): quantus est metus, quanta calamitas ...
vel etiam mortiferis morsibus, a rabie quae contingit ex rabido cane, ut
etiam blanda et amica suo domino bestia nonnumquam vehementius et
amarius quam leones draconesque metuatur faciatque hominem, quem
forte adtaminaverit, contagione pestifera ita rabiosum, ut a parentibus
coniuge filiis peius omni bestia formidetur [“quanto terrore, quante diAgazia, p. 96; vd. Lynda Garland, Public Lavatories, Mosquito Nets and Agathias' Cat:
the Sixth-Century Epigram in its Justinianic Context, in G.Nathan-L. Garland (edd.), Basileia: Essays on Imperium and Culture in Honour of E.M. and M.J. Jeffreys, Brisbane
2011, pp. 141-158, spec. p. 145.
409 Vd. R. Sallarers, Ecology, Evolution, p. 270.
410 Vd. J. Théodoridès, Rabies, pp. 148-158 (la descrizione del medico bizantino Aezio, contemporaneo di Agazia, degli effetti sull'uomo della rabbia, si legge ibid., pp. 154155). Vd. anche F. Orth, s.v. Hund, RE, VIII, 2 (1913), cc. 2569-2571; Johanna Schmidt,
s.v. Lyssa, RE, XIV, 1 (1928), cc. 69-71; R.E. Walker, Roman Veterinary Medicine, Appendice a J.M.C. Toynbee, Animals in Roman Life and Art, Baltimore and London 1966,
pp. 330-331; K.-H. Leven (hrsg.), s.v. Tollwut, in Antike Medizin. Ein Lexikon. München,
2005, cc. 870-871. Vd. però Von Hagen, Lyssa, pp. 25-27.
411 Vd. R. Herzog, Malaria und Tollwut, p. 146, nota 17 (Agathias die Hydrophobie
nicht erwähnt) e J. Théodoridès, Quelle était la maladie, p. 155.
412 Vd. ad es. S. Winkle, Die Tollwut im Altertum, «Die Gelben Hefte» 1, 1971, XI.
Jahrgang, pp. 34-44; Margitta Hamann, Zur Geschichte der Prophylaxe unter besonderer
Berücksichtigung des Hundes, Dissertation, Freie Universität Berlin 2003, ed. Berlin
2004, pp. 79-80.
413 Mentre R. Herzog, Malaria und Tollwut, p. 143, riteneva che l'uso fatto da Agazia
di ἐλύττα non potesse essere inteso in senso tecnico.
414 Celso, de medicina V, 27, 2; vd. B. Von Hagen, Lyssa, p. 26.
118
sgrazie... derivano anche dai morsi mortali, dalla rabbia che viene trasmessa dal cane rabbioso così che un animale gradevole e amico del proprio padrone diventa più temibile, per aggressività e cattiveria, dei leoni e
dei serpenti (velenosi), e fa diventare così furioso colui che casualmente
ha morso trasmettendogli il suo pestifero contagio, che egli, dai genitori,
dal coniuge e dai figli, viene temuto più che ogni altra belva”]415.
E tra le tantissime abiezioni nelle quali l'uomo si dibatte disperato nel corso della sua vita, Sant'Agostino, sempre nel passo appena citato,
non esita a citare anche sacrilegia e haereses, “le eresie”416. In un Age of
Anxiety era ghiotta l'occasione di attribuire la Rabbia ai peccatori; la connessione tra la Rabbia (e il cane!) con il peccato è molto antica, ancestrale
forse, e legata ad un'idea di riduzione dell'uomo a livello animale, all'imbestiamento417.
Abbiamo già anticipato – nella Scheda B2) – due episodi, accaduti nel 507 (Alessandria d'Egitto) e nel 559-560 (Amida, in Mesopotamia), legati o connessi forzosamente a problemi cristologici, caratterizzatisi in forme morbose (attribuite ad intossicazioni alimentari) che avevano
dato luogo a prolungate manifestazioni di follia collettiva. Gli episodi apparivano incentrati sulla riduzione degli sventurati alla perdita della ragione e alla contestuale assunzione di aberranti comportamenti e atteggiamenti, in particolare, canini: humana locutione privati latrare cunctis
diebus ac noctibus ut canes coeperunt, scriveva Vittore di Tunnuna a proposito di Alessandria418, e l'abbiamo già citato; Isidoro aveva chiosato lo
stesso episodio, sintetizzando efficacemente: immundo repleta spiritu
canina rabie latrat419, scegliendo non certo a caso la parola “rabies”.
People began to bark like dogs, aveva scritto dal canto suo lo PseudoDionisio, pure ricordato per l'episodio di Amida, molto più diffusamente
narrato420. In entrambe le circostanze, pur da punti di vista opposti, il rifiuto, ovvero l'accettazione, dei deliberati Calcedonensi del 451 d.C., era415
Sant'Agostino, De Civitate Dei, XXII, 22 (traduzione mia); vd. anche P. Brown,
Augustine of Hippo (1967 ss.), tr. it. Agostino d'Ippona, Torino (1971=) 2005, pp. 323329 e 399-401.
416 Peraltro il richiamo alla disumanizzante Rabbia per definire eretici e pagani si ritrovava già in San Girolamo (IV sec.): Discant ergo – scriveva – Celsus, Porphyrius, Julianus, rabidi adversus Christum canes (De Viris Illustribus, Praef. 7: nella versione greca reca: οἱ λυσσώδεις κατὰ Χριστοῦ κύνες; vd. anche Id., Epist. 33, 5: adversum eum
rabidi canes, su una controversia origeniana).
417 Vd. B. Lincoln, Homeric λύσσα: 'Wolfish Rage', «Indogermanische Forschungen»
80, 1975, pp. 98-105.
418 Victoris Tonnennensis Episcopi, Chronica, a. 507, p. 194.
419 Isidoris Iunioris, Chronica, 384, in MGH, AA, p. 473.
420 Pseudo-Dionysius of Tel-Mahrē, Chronicle, part. III, p. 105 (tr. ingl.).
119
no stati interpretati come gravissimo peccato, meritevole di una punizione
esemplare. Ma evidentemente non bastava!
Nell'episodio amidese, quella sorta di “rabbiosi posseduti” were
seen to act like dogs with rabies, foaming and brawling421, e per di più behaving furiously, biting each other422: l'atto del mordere da parte dei soggetti malati non appare indirizzato su loro stessi, ma sugli altri423; mentre
Vittore di Tunnuna precisa che i rabbiosi alessandrini invasati comedebant
enim suas manus simulque et brachia pariter omnes, “tutti si divoravano
infatti le mani e del pari le braccia”424.
Vorrei ricordare come la singolare vicenda amidese sia piuttosto
vicina ai tempi della composizione delle Storie agaziane e la sua fama
avrebbe potuto essere pervenuta all'orecchio del nostro storico; comunque
è interessante (e significativo) che compaiano, in testi diversi, descrizioni
di atteggiamenti e comportamenti che conducono a sintomi e denominazioni riconducibili alla Rabbia, culminanti con pulsioni autofagiche che
ricorderebbero da vicino il comportamento descritto da Agazia per il disgraziatissimo Leutari425. Tuttavia proprio tali pulsioni, tali manifestazioni
estreme, l'autofagia insomma – se dobbiamo prestar fede ad Agazia – non
risultano attestate nella Rabbia umana, se non in una sua particolare
“pseudovariante” animale: per tale ragione è stata ipotizzata, almeno per
Leutari, proprio in ragione della sua terribile e selvaggia sintomatologia,
un'affezione derivante dalla cosiddetta Pseudo-rabbia426.
Scheda E): Pseudo-rabbia (o Morbo di Aujeszky)
Osservata e descritta per la prima volta nel 1813 negli Stati Uniti, venne chiamata inizialmente mad itch ossia qualcosa come “prurito fu421
D. Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, p. 306.
Pseudo-Dionysius of Tel-Mahrē, Chronicle, part. III, p. 105.
Some of the persons afflicted “bark like dogs” and attack other people scrive J.
Théodoridès, Rabies in Byzantine Medicine, p. 150 (ne abbiamo già fatto cenno in precedenza, a proposito del medico Philumenos, del II sec. d.C.), ma anche Paolo Egineta, medico bizantino del VII sec. d.C., parlava di persone that... had been attacked by rabid
men and not by animals (mi riferisco ancora a J. Théodoridès, Rabies in Byzantine Medicine, p. 155).
424 Victoris Tonnennensis Episcopi, Chronica, a. 507, p. 194.
425 Forse il Muratori aveva in mente Vittore quando, collettivizzando il racconto che
Agazia dedica a Leutari ed estendendolo a tutti i suoi uomini, scriveva: non men egli che
tutti i suoi furono colti da una terribile e sì feroce peste, che coi denti si strappavano a
brani la carne propria, e tutti o quasi tutti per esso malore finirono di vivere (Annali d'Italia, p. 100).
426 Vd. J. Théodoridès, Rabies in Byzantine Medicine, p. 156.
422
423
120
rioso”. Il nome di Pseudo-rabbia fu utilizzato per la prima volta nel 1849,
in Svizzera, in quanto molti dei segni clinici erano simili a quelli della
Rabbia o ad essa potevano essere ricondotti. È stata descritta scientificamente solo nel 1902 come malattia di origine non batterica grazie al lavoro di un veterinario ungherese, Aladár Aujeszky427 (da qui viene la definizione di morbo/malattia di Aujeszky). Nel 1910 fu dimostrato che l'agente
patogeno era di tipo virale: si tratta infatti di un virus del gruppo Herpes
(sottofamiglia Alphavirus), immunologicamente legato a Herpes simplex
e a Herpes B virus. Il suino è l'unico ospite naturale della Pseudo-rabbia428, sopportandone egregiamente le conseguenze429.
Il virus è in grado di contagiare anche bovini e ovini, oltre a cani,
gatti e animali selvatici quali volpi e furetti; in occasioni più rare colpisce
i cavalli. In tutte queste specie può provocare encefalomielite.
Ne parliamo a proposito di Leutari e degli alamanni di Ceneda,
visto che il veicolo più frequente di quell'infezione, come si è detto,
avrebbe dovuto essere il maiale: si è pensato di ritenere i barbari guerrieri
soggetti particolarmente esposti considerata la loro dieta ove, se possibile, la carne suina sarebbe stato al primo posto430.
Vorrei ricordare l'esistenza di una tradizione germanica di origine
mitico-religiosa che considerava la carne suina (cinghiali e maiali) il cibo
per eccellenza dei guerrieri431, e la presenza di ampie zone a querceto nel
territorio cenedese, come indicano toponimi specifici, lascia supporre una
diffusa presenza di suini in quel territorio, probabilmente allo stato brado,
anche se è evidentemente impossibile offrire riscontri cronologici su pre427 Il suo saggio, intitolato Über eine neue Infektionskrankheit bei Haustieren, fu
pubblicato sul «Zentralblatt für Bakteriologie, Parasitenkunde und Infektions-krankheiten»
Abt. I, 32, pp. 353-357, nel 1902.
428 Vd. J. Théodoridès, Quelle était la maladie, p. 156: son les porcs qui constituent
les hôtes naturels et les principaux «réservoirs de virus».
429 En matière de maladie d'Aujeszky, le porc est le grand dispensateur de virus sans
pour autant en souffrir particulièrement (parere del professor P. Goret a J. Théodoridès,
Quelle était la maladie, p. 157).
430 Vd. ancora J. Théodoridès, Rabies in Byzantine Medicine, p. 156 (paragrafo specificamente dedicato alla Pseudo-Rabies in Agathias). Dubbi sono stati avanzati tuttavia da
D. Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, pp. 102-103.
431 Rinvio al § 38 del celebre Gylfaginning (in Snorri Sturluson, Edda, tr. it. cur. G.
Dolfini, Milano 1975, p. 89) laddove si legge che i caduti in battaglia sono sempre “gran
moltitudine”, ma “per quanto grande sia la folla nella Valhöll [il nibelungico Walhalla],
mai avrà fine la carne del cinghiale che ha nome Sæhrímnir. Esso vien cotto ogni giorno
e la sera è integro ancora”; si può evidentemente citare anche la strofa 18 della norrena
Grímnismál (la “Canzone di Grímnir”, in P. Scardigli, cur., Il Canzoniere Eddico, Milano
1982, p. 63), oltre a richiamare Gianna Chiesa Isnardi, I Miti Nordici, pp. 522 e part. pp.
564-566.
121
senza, diffusione e numerosità di quegli animali432.
Ou peut raisonnablement admettre que la contamination de
Leutharis et de ses hommes se soit faite en consommant de la viande
infectée (probablement de porc) insuffisamment cuite puisque l'on sait
aujourd'hui que c'est de cette façon que les animaux contractent la maladie433, caratterizzata peraltro par un état fébrile, de l'agitation, des vomissements, une abondante salivation, de la mydriase avec parfois un strabisme convergent434. Resta da giustificare come tale morbo possa essersi trasmesso ai guerrieri alamanni posto che la specie umana ne sarebbe in realtà potenzialmente immune435, così come resterebbe da dimostrare una concreta e reale abbondanza di cibo in un periodo che – come si è visto in
precedenza – appare invece caratterizzato da continue, rovinose carestie.
Abbiamo visto i casi alessandrino e amidese (quest'ultimo in particolare), i quali, oltre a essere stati preceduti da carestie testimoniate dalle fonti, potrebbero essere ricondotti anche all'assunzione di particolari
alimenti. comunque diversi dalla carne (alterati o corrotti).
Si è supposto che the strains of the virus of Aujeszky's Disease
could have been, in Agathia's day, much more virulent than currently known,
and it would affect humans as well as animals [“i ceppi del virus del morbo di Aujeszky avrebbero potuto essere, al tempo di Agazia, molto più virulenti di quelli conosciuti oggi, e in grado di colpire gli esseri umani tanto
quanto gli animali”]436. Su questo, tuttavia, il giudizio dev'essere sospeso:
per quanto riguarda i casi di automutilazione, essi sono stati infatti registrati solo in alcuni cani affetti da Pseudo-rabbia (Self-mutilations by dogs
afflicted with this disease are frequent)437, causati essenzialmente da un
prurit insupportable che amenant l'animal à lécher tout d'abord la région
qui en est le siège, puis à la ronger avec ses incisives, ce qui amène de
432
Vd. S. De Nardi-G. Tomasi, L'Agro Centuriato Cenedese, p. 27 (toponimi da allevamento dei maiali); p. 42 e p. 81, tav. 13 (toponimi da presenza di querceti, e di conseguenza indicanti maiali allevati allo stato brado).
433 Vd. J. Théodoridès, Quelle était la maladie, p. 157.
434 Vd. J. Théodoridès, Quelle était la maladie, p. 156.
435 In human cases only mild symptoms have been recorded (D. Ch. Stathakopoulos,
Famine and Pestilence, p. 103). Les rares cas de cette affection signalés chez l'homme
par contamination accidentelle sont bénins et se traduisent seulement par un prurit des
membres, accompagné de courbature, suivi de céphalée, d'un état d'abattement prononcé
et de l'apparition de taches purpuriques dans les régions prurigineuses. La maladie ne
dure que trois jours e n'est jamais fatale (J. Théodoridès, Quelle était la maladie, p. 156).
436 Vd. J. Théodoridès, Quelle était la maladie, pp. 156-157; J. Théodoridès, Rabies
in Byzantine Medicine, p. 156; this is hardly plausible afferma tuttavia D. Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence, p. 103.
437 J. Théodoridès, Rabies in Byzantine Medicine, p. 156.
122
véritables automutilations438.
Per i casi alessandrino e amidese è puro esercizio d'ipotesi ritrovarvi il morbo di Aujeszky, anziché la Rabbia o qualche tipologia di intossicazione alimentare con esiti allucinatori: una delle testimonianze sull'episodio di Amida parla di una vera e propria strage finale 439, altre narrano
invece di guarigioni (ad Alessandria), mentre sappiamo che dall'Ergot e
dal morbo di Aujeszky si poteva guarire, mentre chi fosse stato infettato
dalla Rabbia, prima di Pasteur, avrebbe potuto solo attendere la morte.
Rimane ovviamente aperta, per il caso cenedese, l'ipotesi di una
esagerazione retorica da parte di Agazia e di una utilizzazione di qualche
indizio sintomatologico particolarmente ripugnante per recuperare da un
lato il mito poetico di Erisittone, del quale si è fatto cenno, ma soprattutto
al fine di enfatizzare il tema della punizione divina.
La tentation est donc grande de considérer la maladie de Leutharis et de ses hommes comme étant celle d'Aujesky, mais un tel diagnostic, outre qu'il est rétrospectif, présente une certaine difficulté car les
rares cas de cette affection signalés chez l'homme440: anche l'ipotesi della
Pseudo-rabbia, insomma, va ricondotta al novero delle ipotesi di scuola.
Considerazioni finali (I): sintesi delle ipotesi Epidemiologiche
Ho già detto di essere consapevole di quanto sia temerario costruire elenchi di sintomi morbosi sulla base del testo d'un autore antico:
essi infatti, alla fine – messi uno accanto all'altro – possono trovare una
loro coerenza e dare verosimiglianza all'idea che ci siamo fatti di un certo
male cercato, soppesando quelle antiche parole.
Si può essere tentati di assegnare, a parole antiche e ad elenchi
moderni, coerenza e consapevolezza non facili da dimostrare nell'ambito
di un testo, o negli intenti dell'autore: importante è mettere sull'avviso i
propri lettori. La tabella deve servire pertanto come strumento riassuntivo: i dati esposti non pretendono infatti di avere carattere probatorio, ma
solo indiziario. Non è mia intenzione attribuire alle parole di Agazia rango di diagnosi medica certificata ex post, tuttavia mi sento di proporre la
tabella all'attenzione del lettore per sintetizzare le sintomatologie studiate
lavorando sul testo agaziano anche per indicare, nel rapporto tra testo e
possibile interpretazione, una più verosimile, indicata con (o una meno
438
439
J. Théodoridès, Quelle était la maladie, p. 156.
Jacob of Edessa, XII, p. 260 riferisce di ben 130.000 morti ad Amida; vd. D.Ch.
Stathakopoulos, Famine and Pestilence, pp. 105 e 307: abbiamo visto come si debbano
trattare con prudenza i numeri riferiti da cronisti e storici antichi.
440 Vd. J. Théodoridès, Quelle était la maladie, p. 156.
123
sicura, con ) corrispondenza con le caratteristiche dei diversi morbi. I
confronti proposti restano quindi puramente indicativi e non vogliono
creare premesse per una “attribuzione” scientifica, neppure sulla base del
maggior numero di indizi raccolti (vd. la colonna evidenziata in grigio).
“Sintomatologie” nel racconto di Agazia, Hist. II, 3, 3-8
Disturbi nervosi
delirio, eccitazione, smania, allucinazioni, melancolia
A)
B) C) D) E)
Attacchi convulsivi
gemiti, grida, lamenti, spasmi muscolari
Mobilità scomposta sollecitazioni spasmodiche, agitazione incontrollabile e ininterrotta, crollo a terra del paziente che non cessa di rotolarsi
Bava alla bocca
importante e incontrollato aumento della salivazione
Distorsioni oculari
occhi gonfi, scoordinati, fuori dalle orbite; fotofobia
Agitazioni furiose seguite da automutilazioni
automutilazioni; autofagia; il paziente si morde le carni e lecca il sangue
Stato apoplettico
perdita della conoscenza, prostrazione, letargia, paralisi
Stato febbrile
attacchi di febbre
Dolori di testa, cefalee
acuti dolori di testa
Possibile mortalità superiore al 50%
dal 50 al 100%
A) infezioni del tratto gastro-intestinale (febbre tifoide; shigellosi); B) intossicazione da cibi contaminati
(ergotismo; aspergillosi; antrace); C) malaria; D) rabbia; E) pseudo-rabbia (o morbo di Aujeszky)
Si tratta insomma di tirare le fila dell'analisi intrapresa, che ha
portato anche me a dichiarare una esplicita preferenza per la Rabbia umana come causa del morbo cenedese, senza tuttavia, lo ripeto, rivendicare
certezze assolute, né rimuovere i dubbi che restano: appare però chiaro da
quanto esplicitato nella Scheda D) che effettivamente la Rabbia – con le
eccezionali “modalità infettive” ivi indicate, estese a buona parte di un
gruppo di soggetti esposti al medesimo rischio – potrebbe aver avuto le maggiori probabilità di causare la tragica fine della spedizione alamannica441.
441 Si vedano comunque i richiami di R. Doerr, Die Empfänglichkeit der natürlichen
Wirtsarten als Ausdruck der Anpassung der infektiösen Mikroben, «Archiv für die
gesamte Virusforschung» 2, 2, 1941, pp. 88-155, spec. p. 140, con riguardo al lavoro di
Benno von Hagen über die von Agathias beschriebene Epidemie im Heere des Leutharis.
124
Esistevano certamente le condizioni oggettive perché si determinasse anche un diffuso contagio malarico, per la permanenza sul territorio
cenedese, e – in precedenza – nel corso della ritirata del contingente nell'area del Po, ma né la classica sintomatologia malarica (verificabile solo
in qualche aspetto, della descrizione del morbo da parte di Agazia), né l'esito fatale massivo, giustificherebbero la scelta.
Qualche forma di intossicazione alimentare (Ergot soprattutto)
può essere tenuta in qualche considerazione, specie pensando ai fenomeni
allucinatori e ai disturbi neurologici collettivi, ma assai meno serie sono
le probabilità “contestuali” del suo manifestarsi (cultura alimentare dei
guerrieri; effettiva disponibilità di risorse alimentari ecc.), ed è difficile
ipotizzare a suo carico una mortalità della misura prospettataci da Agazia.
Se c'è qualche perplessità nell'attribuzione del morbo cenedese
alla Rabbia, essa è legata alla descrizione della terribile fine di Leutari
(automutilazione, autofagia ecc.), che non trova riscontro nella letteratura
medica (se non per quanto concerne certuni casi di animali affetti, però,
dal c.d. Morbo di Aujeszky) e deve essere confinata – con ogni probabilità – all'autonoma rielaborazione di Agazia, che ha forse voluto concentrare sul capo della spedizione una sorta di elaborato contrappasso letterario.
Difficile comunque parlare di annientamento totale del contingente alamannico: dovette però perirne una parte significativa, e in maniera particolarmente ripugnante, tanto da essere avvertita – quella strage –
quasi come un evento prodigioso e da non essere più considerati, i superstiti (ridotti a numero esiguo), un reale pericolo per i bizantini, i quali poterono sfruttare (se non “rivendicare”) questo annientamento morboso,
amplificandone la portata ai fini di propaganda442.
La morte di massa, a Ceneda, potrebbe essere stata spiata, osservata, riferita, e celebrata, al pari di una vittoria, ad uso di Narsete e del
morale dei suoi uomini, chiamati alla prova decisiva della battaglia contro
Butilino443 ma ritengo restasse incisa nella memoria di chi vi aveva assistito da spettatore, a Ceneda, come indelebile ricordo.
Considerazioni finali (II): suggestioni toponomastiche
Proprio per tale ragione, visto che riscontri oggettivi o documentari diretti non ne possediamo, è legittimo chiedersi se sia possibile cercare sul terreno le tracce di quanto accaduto.
442 Lo stesso varrà per l'annientamento in battaglia del contingente di Butilino: Agazia ci racconta che solo 5 uomini sarebbero sopravvissuti e rientrati in patria (vd. Agath.
II, 9, 11, p. 53; tr. ingl., p. 42).
443 La notizia della fine di Leutari sarà comunicata alle truppe imperiali subito dopo
la vittoria su Butilino, stando ad Agath. II, 11, in., p. 55 (tr. ingl., p. 43).
125
Potrebbe soccorrerci, in linea teorica, l'archeologia: scavi, anche
in area veneta, hanno individuato tombe certamente ascrivibili a individui
di etnia alamannica, di epoca appena antecedente i fatti di cui ci siamo occupati: esistono infatti criteri precisi per identificare sepolture o corredi
funerari appartenuti a quel gruppo etnico444 anche se nel caso di specie si
sarebbe trattato di seppellimenti in fosse comuni.
Inutile dire però che nessuno intraprenderebbe alla cieca una
campagna di scavi nella campagna cenedese per ritrovare le ossa di Leutari e dei suoi sfortunati guerrieri.
La scoperta di resti umani in fosse comuni potrebbe assicurare
persino la verificabilità diretta delle ipotesi morbose avanzate in precedenza: l'ingresso in campo di paleopatologi e paleobiologi, con i loro sofisticati metodi d'indagine, darebbe molte risposte, chiarendo i dubbi. Tuttavia, in cases where no material fit for paleopathology is available, allora
non si può che ricorrere a other material, that means especially texts445, e,
nel nostro caso, non solo testi.
Abbiamo infatti letto con acribia, e cercato di interpretare, ciò
che Agazia – unico – ha potuto e voluto comunicarci, corredando la descrizione dei fatti con dettagli significativi. Sappiamo però che non basta,
anche se l'ipotesi della Rabbia – nel caso di Ceneda – consentirebbe di
spiegare efficacemente gli eventi, e il loro precipitare, e appare coerente
con il contesto culturale in cui si muovevano i guerrieri che ne furono gli
involontari protagonisti. L'uso comune di “cani da guerra”, e la particolare vicenda bellica in cui uomini e cani agirono di concerto per mesi, corrobora la particolare congettura epidemiologica. Essa va tuttavia verificata, raccogliendo indizi indipendenti dalla fonte letteraria (Agazia) e della
costruzione induttiva dell'ipotesi (Rabbia), affinché quest'ultima non appaia una semplice giustapposizione retorica.
444
Mi riferisco ai ritrovamenti di Alcagnano (Vicenza), e di altri nei dintorni di Verona, dove sono stati portati alla luce resti umani e oggetti di fattura alamannica. Tali ritrovamenti attestano la presenza di piccoli insediamenti alamannici nell'Italia settentrionale
durante il regno ostrogoto. Vd. V. Bierbrauer, Aspetti archeologici di Goti, Alamanni e
Longobardi, in Magistra Barbaritas, p. 469 il quale nega tuttavia, per ragioni cronologiche, che le tombe alamanniche di area veneta abbiano il minimo legame con le spedizioni militari degli Alamanni condotte dai duchi Butilino e Leutari attraverso la penisola; si
tratterebbe infatti di tombe non più tarde del 552, relative agli alamanni accolti da Teodorico nella Venetia dopo il 506 d.C. Ricordo comunque che “insediamenti alamannici” ancora precedenti, risalenti al IV secolo d.C., sono ricordati da Ammiano Marcellino in aree
non precisate attorno al fiume Po (XXVIII, 5, 15: Alamannos... ad Italiam iussu principis [= Teodosio, ca. anno 370 d.C.] misit, ubi fertilibus pagis acceptis, iam tributarii circumcolunt Padum).
445 K.-H. Leven, Retrospective Diagnosis, p. 373.
126
Pertanto, se non possiamo cercare nel territorio attraverso campagne di scavo, possiamo indagare sul territorio, interrogando la toponomastica locale per verificare la sussistenza di tracce lessicali del supposto
evento massivo di morte che, per le sue atroci modalità di compimento,
avrebbe potuto lasciare un'impronta nella memoria collettiva della comunità cenedese del VI sec.; si badi bene che tale impronta potrebbe essersi
conservata anche in una denominazione apparentemente estranea al contesto ipotizzato ovvero – sempre apparentemente – inadatta e incoerente rispetto ad esso.
La conservazione della memoria – una delle funzioni peculiari
della Storia – è messa a dura prova in area veneta e cenedese, a partire dal
periodo che ci interessa, almeno stando alle poche fonti documentarie rimasteci: ho già fatto cenno alla difficoltà di datare gli inizi dell'episcopato
di Ceneda, per non parlare dell'eclissi pressoché completa della memoria
del suo ducato longobardo, ma non basta, se già i franchi, che pure avevano occupato parte della Venetia fino agli anni sessanta del VI sec., duecento
anni dopo, nel momento della riconquista della stessa Venetia (a. 774),
sembra avessero perduto ogni ricordo della precedente esperienza446.
Non ce ne dobbiamo meravigliare, se si pensa, analogamente,
come scopriamo consultando una fonte bizantina più tarda, che i veneziani dell'epoca erano considerati – up the date – dei franchi fuggiti da Aquileia e da “altre città della Francia”, in seguito all'ormai mitica incursione
unnica guidata da Attila447: sorprendentemente Costantino VII sembra
ignorare che l'Italia aveva fatto parte dell'impero romano di cui i Bizantini si consideravano gli eredi e persino che, fino all'VIII secolo, una parte
dell'Italia settentrionale, tra cui la stessa Venezia, erano state sotto il diretto controllo dell'impero bizantino448.
La toponomastica, per sua natura eminentemente conservativa,
può rappresentare davvero l'ultima ratio, in casi e contesti come il nostro.
Partiamo dal presupposto di non escludere che il luogo, ove i
corpi degli alamanni morti furono infine sepolti, si sia “fissato” nella toponomastica locale con una denominazione in qualche modo indicativa
dell'accaduto o del contesto: centinaia di cadaveri da inumare, periti in
breve lasso di tempo (con modalità bestiali e ripugnanti), non sarebbero
potuti passare infatti sotto silenzio. Molto interessante, a questo proposito,
446
Vd. L.A. Berto, La “Venetia” tra Franchi e Bizantini. Considerazioni sulle fonti,
«Studi Veneziani» n.s. 38, 1999, pp. 189-202.
447 Vd. Constantinus [VII] Porphyrogenitus, De Administrando Imperio, cap. 28, pp.
123-125; si tratta di un'opera databile al sec. X.
448 Come scrive L.A. Berto, La “Venetia” tra Franchi e Bizantini, p. 201.
127
sarebbe l'individuazione di toponimi ascrivibili, in via indiziaria, anche a
un solo elemento del contesto descritto nelle pagine precedenti: mi riferisco alla denominazione etnica dei morti e/o alla causa della loro improvvisa scomparsa.
A tal proposito – a preciso monito di non cercare l'ovvietà, ma
anzi di scartarla – voglio presentare brevemente un caso umbro, ove certa
superficialità, unita a una tradizione di maniera, smentita poi dalla ricerca,
aveva assegnato, nei pressi di Cortona, i fin troppo “evidenti” (quasi caricaturali) toponimi di Ossaia o Sepoltaglia, alla memoria dei tumuli dei
morti romani della sanguinosa battaglia del Lago Trasimeno, nel corso
della quale Annibale annientò le truppe al comando del console Caio Flaminio, nel 217 a.C., così come, in zona, persino il torrente Sanguineto recitava la sua brava parte come una sorta di Blood River ”de noantri”449.
Analogo, sempre nel corso della seconda guerra punica, il caso
marchigiano del cosiddetto Monte Sdrovaldo (Monte Asdrubaldo?), sulla
riva destra del Metauro, presunto testimone della strage avvenuta nel corso della battaglia combattuta sulle rive di quel fiume nel 207 a.C. Allora,
a parti invertite, avevano vinto i romani ed era stato sconfitto, e ucciso, il
fratello di Annibale, Asdrubale, con moltissimi dei suoi450.
Dobbiamo chiederci se esistano, a Ceneda o nei suoi immediati
dintorni, indizi toponomastici grazie ai quali, scartate assonanze o facili
paretimologie tipo quelle appena citate, si possa ricavare qualche elemento indipendente a sostegno della storia narrata da Agazia, magari connesso
con l'interpretazione epidemiologica suggerita (la Rabbia).
Inutile negare che un toponimo, tra tutti, possiede un indiscutibile fascino, Pra' del liman, lungo il corso del torrente Cervada451, espressione che effettivamente potrebbe leggersi, ed essere interpretata, come
449 Vd., ad es., Touring Club Italiano, Umbria, Milano 2004, p. 181, con osservazioni
negative rispetto a tali attribuzioni.
450 Vd. Tito Livio, Storie, XXVII, 48, 1, cur. L. Fiore, Torino 1981, p. 316; per l'esplicito accenno ai tumuli punici si leggano i versi di Silio Italico, Punica XV, 556-557:
patulos regione Metauri | damnavi tumulos Poenorum atque ossibus agros (“nella regione del Metauro ho già destinato vaste campagne a divenire la tomba in cui giaceranno le
ossa dei punici”). Ancora sull'area del Monte Sdrovaldo vd. N. Alfieri, La Battaglia del
Metauro (207 a.C.), «Picus» 8, 1988, pp. 7-35; Gfr. Paci, Histoire politique et militaireStoria politica e militare, in «Mélanges de l'Ecole française de Rome. Antiquité» 105, 1,
1993, pp. 345-359 (p. 346).
C'è da dire, incidentalmente, che una sorta di genius loci sembra legare la sconfitta di
Leutari presso Fano con quella di Asdrubale al Metauro: l'aveva segnalato già Th. Hodgkin, Italy and Her Invaders, p. 36 (a cui rinvio).
451 Per la localizzazione si veda S. De Nardi-G. Tomasi, L'Agro Centuriato Cenedese,
p. 81 (part. Tav. 13).
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“campo dell'alamanno”: quale miglior definizione si potrebbe chiedere al
luogo di sepoltura degli uomini di Leutari?
Freniamo l'entusiasmo. Più che da un etnonimo, la denominazione risale forse ad un ordinario antroponimo di epoca successiva: Alaman e
Alamannus risultano infatti censiti come nomi propri longobardi452, e in
realtà le poche rese toponomastiche note, di sicura e diretta derivazione da
“alamanno”, salvo eccezioni da dimostrare453, son quasi tutte situate nell'Italia meridionale e mostrano un diverso esito fonetico454.
Anche a cercare assonanze, per puro amore di riscontro, tra il
Pra' del liman e il non troppo distante idronimo Limana (località e torrente nei pressi di Sedico, Belluno) si ricava poco, in quanto Limana, come
la Limena (nei pressi di Padova), deriva probabilmente dal latino limen,
“confine” o ha altra, diversa, origine455.
C'è da dire poi che con ogni probabilità, i cenedesi del tempo
non avrebbero forse definito alamanni i loro nuovi, effimeri, occupanti
(avrebbero preferito dirli franchi); certo ci saremmo trovati davanti ad una
prospettiva molto più allettante, se in area cenedese fosse stato registrato
nel passato, o esistesse ancora oggi un toponimo simile al noto opitergino
Colfrancui456. Non intendo tuttavia scartare del tutto il Pra' del liman dal
452 Vd. Nicoletta Francovich Onesti, Vestigia longobarde in Italia (568-774). Lessico
e antroponimia, Roma 1999, pp. 175 e 247; G. Tomasi, Tomonomastica germanica nel
Cenedese, in Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche, Ceneda e il suo territorio, pp. 5781, spec. pp. 63-64.
453 Vd. G. Tomasi, Tomonomastica germanica, p. 67, che segnala un Magna (alla -),
presso S. Stefano di Vadobbiadene, anche se mancano indicazioni abbastanza antiche da
suffragare l'ipotesi.
454 Mi riferisco ai toponimi calabresi Manno, Campo di Manna, Colle dei Manni e
Lamanna (anni 1183 e 1196); c'è poi un Monte Lemanna nel comune di Casina, Reggio
Emilia; vd. G.B. Pellegrini, Toponomastica Italiana, Milano (1990=) 2008, p. 279.
455 Per Limana, nel senso di “confine” vd. G.B. Pellegrini, Contributo allo studio
della romanità della Provincia di Belluno, Padova, 1949, p. 46, contra D. Olivieri, Toponomastica Veneta, Venezia-Roma, 1961, p. 81, che propende da una derivazione da
“imu” (quindi “imanus”), nel senso di “profondo, situato nella parte bassa”; G. Tomasi
(Tomonomastica germanica, p. 64) propone però (villa) alimana > Limana, comunque
sempre da antroponimo. Concordano, invece, i primi due studiosi, sulla derivazione di
Limena da limen (cfr. D. Olivieri, Toponomastica, p. 132 e G.B. Pellegrini, Toponomastica Italiana, p. 222).
456 Per Colfrancui, vd. D. Olivieri, Toponomastica, p. 31 (da Curtis Franconis? Col
Francudo?). Il toponimo è attestato dal 1185. Ricordo che la eventuale data della documentazione non incide sulla determinazione della effettiva “antichità” di un toponimo,
nel senso che essa si limita a registrare la forma scritta assunta, in un momento dato, da
un'informazione toponomastica la quale, in forma orale, aveva evidentemente già storia e
antichità, proprie e indipendenti. Una tentazione cui comunque non rinuncio è quella, già
129
novero dei siti di cui tener debito conto: il fascino di una vicenda tanto
singolare e cruenta costringe a supporre – lo ripeto ancora una volta – che
possa persisterne una traccia in qualche denominazione prediale territoriale, non necessariamente conclamata.
Vanno invece abbandonati gli spunti toponomastici assimilabili a
tumulazioni generiche, prive di definizione, del tipo del Pra' de le ossa,
sito nei pressi di Fregona documentato dal 1547, o del/dei vari Tombaril457, nonostante sia difficile non subire il fascino, nei pressi di Longhere
(Vittorio Veneto), di un toponimo molto localizzato e poco noto, ricordato
come Carnof, che potrebbe essere letto forse anche come “carnaio” (?)
ovvero “sepoltura di molti corpi” (?), anche se, più credibilmente, è stato
interpretato con altro significato in un libro di prossima pubblicazione, di
Massimo Della Giustina e Irene Spada, sull'Oratorio di Sanguseʼ dedicato
a San Floriano458.
Mi parrebbe opportuno piuttosto concentrare l'attenzione e la ricerca su qualche sito/toponimo che possa rinviare alla malattia che, come
si è cercato di mostrare, potrebbe aver causato la strage degli incursori
alamanni, la Rabbia. Dobbiamo tener conto dalla evidente mancanza di
consapevolezza, tra gli studiosi di storia locale, della semplice possibilità
che potesse essere stata questa malattia a causare la strage: salvo errore
non ho trovato il minimo cenno, in questo senso, nella pubblicistica corrente459. In assenza di corrette informazioni in tale direzione, determinati
toponimi erano necessariamente destinati a ricevere in dote i significati
vista, di immaginare almeno il monte Frescone/Frascone, presso Revine (fatto derivare
da un Franc, dall'Olivieri), come uno dei presidi occupati già a cavallo della metà del VI
secolo; vd. G. Tomasi, Dizionario del Dialetto di Revine, Belluno 1992, p. 70, s.v. Fraskón, che non gli assegna però alcuna derivazione da “franco/franchi”. Vd. anche i riferimenti già citati alla nota 82.
457 Località Costa de Tombarìl (Fadalto): vd. D. Olivieri, Toponomastica, p. 117 (non
nel significato diretto di tomba, ma in quello di Tumba, “sporgenza del terreno”); vd. altre segnalazioni in G. Tomasi, L'uomo e il territorio attraverso la toponomastica, in D.
Gasparini (cur.), Due Villaggi della Collina Trevigiana, Vidor e Colbertaldo, Vidor 1989,
pp. 17-38 (p. 22: modeste alture denominate Le tombe, Pra' delle tombe), e G.B. Pellegrini, Toponomastica Italiana, p. 204.
458 Devo questa e altre segnalazioni alla cortesia e alla sollecitudine del dott. Giovanni Tomasi, studioso sperimentato della toponomastica cenedese, anche se evidentemente
spetta solo a me la responsabilità dell'interpretazione e dell'uso fàttone in queste pagine.
459 Un attento studioso di storia cenedese come Vincenzo Ruzza, ad. es., nel suo, Dizionario biografico Vittoriese e della Sinistra Piave, Vittorio Veneto 1992, p. 229, dedicò
significativamente una breve voce a Leutari, segnalando come lui e i suoi uomini fossero
periti a Ceneda a causa di “una strana micidiale pestilenza”, come sintetizzò con efficacia, senza prendere tuttavia posizione sulla natura del morbo né accennare alle ipotesi nel
frattempo emerse da numerosi studi (specie pubblicati in Germania a partire dal 1940).
130
più evidenti o tradizionali460.
Concentrerei, a questo punto, l'attenzione su un toponimo interessante e “promettente”, nella massa di nomi di luogo del Comune di Vittorio Veneto: proprio nella
zona di Ceneda, venendo da
Cozzuolo lungo la Strada Provinciale n. 86, che assume la
denominazione di via Canova,
si incontra una traversa, sulla
destra (collocata dopo via Mascagni), denominata via della
Rabosa, che testimonia la persistenza, nell'area di un toponimo antico, detto alla Raboxa.
Tale tipo di denominazione,
certamente connesso al latino
rabiosus (da rabies, rabbia), è
costantemente riferito alla forza impetuosa (quindi “rabbio461
sa”) di torrenti o corsi d'acqua .
Quest'area appare ancor oggi prativa e pianeggiante, senza particolari dislivelli (e che fosse stata tale, la situazione, anche nel passato lo
mostrano i prediali immediatamente vicini: Cal de Prade, “dei prati”, Pra'
del Vesco, “prato del Vescovo”; Sbraite, “campagna”462, e anche, poco più
a nord, il citato Pra' del liman!); ebbene, essa, da un momento indeterminato a oggi, ha conservato, al suo interno, il toponimo alla Raboxa. Non
sappiamo circoscrivere con precisione l'areale: in ogni caso non possiamo
460
Un altro attento conoscitore e divulgatore di cose cenedesi, come Mons. Basilio
Sartori, non ha fatto nemmeno cenno agli alamanni, o alla vicenda del 554, nel suo Pagine di Storia e Vita Cenedese, II, Vittorio Veneto 1995, anche riferendosi ad altri cultori di
storia locale, a proposito del toponimo di cui mi accingo a parlare.
461 Vd. D. Olivieri, Toponomastica, p. 81 (alla Raboxa, a. 1460); S. De Nardi-G. Tomasi, L'Agro Centuriato Cenedese, p. 41 (Rabosa, a. 1414; da “rabbiosa”, sottinteso acqua, forse risorgiva); vd. anche G.B. Pellegrini, Toponomastica Italiana, p. 255.
Si vedano anche altri idronimi quale Margorabbia (o Morgorabbia), torrente nella
Valganna (Varese) e la Val di Rabbi, percorsa dal torrente Rabbies, Comune di Rabbi, laterale della Val di Sole (in Trentino); un Rin Rabiós (torrente rabbioso) discende dal Treséir e attraversa i prati di Cerén in Valfurva; un secondo Rin Rabiós si ritrova in Val Zebrù (Bormio); un torrente Rabiósa si trova a Campodolcino (Sondrio). Se Rabbia è dialettale per “il punto più veloce dove scorre l'acqua di un fiume”, esiste un parallelo con lo
spagnolo Rabion.
462 Leggo ancora da B. Sartori, Pagine di Storia, II, pp. 210-211.
131
pretendere però di far coincidere il toponimo con la strada che ora ne porta il nome, nell'attuale geometria viaria di Vittorio Veneto.
L'antica Raboxa poteva essere collocata anche in un'area eccentrica rispetto all'attuale, anche se contigua; la campagna circostante, pur
caratterizzata da ricchezza d'acqua e da risorgive (convogliate nel corso
del tempo in una serie di pozzi), non pare tuttavia immaginabile solcata
da un corso d'acqua “impetuoso”, “rabbioso”, tale da originare un idronimo “aggressivo”463.
Ancor più arduo, poi, dimostrare che si trattasse di una zona a vigneto già in grado – all'epoca in cui si comincia a trasmettere in forma
scritta il toponimo (inizi del XV sec.) – di risultare “degna di nota” per la
produzione di “uva rabosa” e quindi di “vino raboso”, anzi tale ipotesi si
può infatti tranquillamente scartare464: il toponimo è senz'altro assai più
463
Il Maschietto non nega che una volta potesse esistere un corso del genere, che
andava a scaricarsi nel torrente Cervada, annotava, senza prendere posizione, B. Sartori,
Pagine di Storia, II, p. 211 (“Via Rabosa”); Sartori si riferiva al libro di Angelo Maschietto, Toponomastica Vittoriese. Vie e Piazze del territorio comunale, Vittorio Veneto
1963, p. 117; in realtà quest'ultimo autore così scriveva, interrogativo: che la via si intitoli così perché si dirigeva una volta nelle vicinanze del torrente Crevada (sic, per “Cervada”), impetuoso in tempo di pioggia? (parlava cioè di scolo delle acque piovane, nemmeno di risorgive). Recenti lavori hanno interessato il confine meridionale dell'area entro la
quale si situa la Rabosa, per realizzare una contestata “bretella” autostradale di Ceneda,
che collega il casello di Vittorio Veneto Sud all'Alemagna. Il cantiere impegnato nell'opera è stato costretto a mantenere incessantemente in funzione pompe di drenaggio per evitare che gli scavi si riempissero d'acqua (vd. «La Tribuna di Treviso», 24 settembre 2011,
p. 42), il che conferma la ricchezza idrica del suolo.
464 La denominazione del vitigno “raboso” non avrebbe a che fare con l'idronimo di
un torrente, la Rabòs, che scende lungo il Canal di Guia (interessante anche una Costa
Rabosa a ca. 1000 metri, tra Guia e la Valle del Caldanè, dorsale prealpina tra Valdobbiadene e Serravalle). Il corso d'acqua guiese, la Rabòs, si unisce ad altro torrente, vicino a
Moriago, per confluire, vicino a Sernaglia, nel Piave, come tributario di sinistra; esso deriverebbe piuttosto dall'asprezza, dall'acidità e dal carattere marcato dell'uva che dava un
vino “aggressivo”, quindi “rabbioso”, “forte” (per fare un paragone pensiamo al vitigno
“Durella” della Lessinia). B. Sartori, Pagine di Storia, II, p. 211, a proposito della possibile attribuzione del toponimo “Rabosa” alla coltura dell'uva omonima, cita con qualche
esitazione L. Marson, Guida di Vittorio e suo Distretto, Treviso-Vittorio 1889, secondo il
quale per i vitigni neri, il prodotto principale della campagna vittoriese era l'uva rabosa.
Ho consultato il volume nell'edizione anastatica curata dall'editore De Bastiani, Godega
2005, Parte I, p. 126, ma si tratta senza dubbio di notizie statistico-economiche sulla produzione agricola del territorio comunale coeve alla stesura della medesima Guida, senza
alcun riferimento a produzioni del passato, sulle quali non esiste alcuna documentazione
specifica. Peraltro non ho trovato notizie risalenti al XV secolo che affermino tout-court
l'esistenza di un'uva denominata rabosa e del vino suo prodotto (vd. ad es. G. Bardini,
Commercio del vino lungo la Strada Regia verso l'Alemagna, il Cadore e Venezia. Serravalle e Conegliano: da un periodo di florido mercato alla crisi di fine Seicento, in Circo132
antico dell'affermarsi della denominazione enologica.
Sgombrato il campo da corsi d'acqua “rabbiosi” o da coltivazioni
di “uva rab(i)osa”, non possiamo permetterci di escludere che all'origine
della formazione del toponimo alla [tèra?] Raboxa (sempre da rabies,
“rabbia”, stavolta nel senso proprio del morbo) possa esserci stata l'inumazione, in quella campagna, giusto alle porte di Ceneda, di numerosi cadaveri di morti per quella patologia, evidentemente riconosciuta come
tale, evento drammatico e coinvolgente che a suo tempo dovette lasciare
un segno d'orrore nella popolazione che assistette alle morti “prodigiose”
dei guerrieri che avevano invaso da ultimo la piccola città465.
Non si può escludere che i cenedesi vedessero nella “Rabbia”,
che avrebbe potuto aver interessato i soli alamanni, un morbo selettivo e
mirato, inviato come punizione dei barbari reprobi. Che ciò fosse accettato, e accettabile, nel senso comune del tempo, l'abbiamo visto nelle stesse
parole di Agazia, su Leutari e i suoi, e quando ci siamo occupati della misteriosa “Rabbia” di Alessandria d'Egitto, che – in modo speculare – aveva interessato i cittadini, risparmiando gli stranieri466.
L'area della Rabosa (Raboxa) non dista che poche centinaia di
metri dal citato Pra' del liman: ci dobbiamo limitare a prender atto con interesse – senza andar oltre – della contiguità e della potenziale coloritura
etnica di questo sito oltre che della potenziale qualificazione epidemiologica dell'altro. Vien fatto di pensare scherzosamente alle parole che sir Arthur Conan Doyle fa dire, in qualche circostanza, al suo Sherlock Holmes,
per trarlo d'impaccio: when you have eliminated the impossible, whatever remains, however improbable, must be the truth, “quando hai eliminato l'impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità”.
Qualcuno potrebbe obiettare, infine, che scavare una fossa comune in un terreno con significativo rischio di infiltrazioni d'acqua non sembrerebbe la scelta più logica, oltre a produrre rischi di inquinamento della
stessa falda idrica. Si può rispondere che non è affatto sicuro – come già
spiegato – che la Raboxa si trovasse esattamente dove ora corre l'omonima via, e che quindi il seppellimento avrebbe potuto essere stato realizzalo Vittoriese di Ricerche Storiche, La Strada Regia di Alemagna, Convegno Nazionale,
Vittorio Veneto 24 maggio 2008, ed. Vittorio Veneto, novembre 2008, pp. 101-129).
465 Ci troveremmo davanti, così, ad un caso di “nosotoponimo”, credo davvero raro,
se non unico. Mi servo del poco usato termine nosonimo (“nome di una patologia”) per
costruire nosotoponimo (quindi “nome di luogo derivante da quello di una patologia”),
nell'identico modo in cui ad es. fitonimo (“nome di una pianta”) sta a fitotoponimo
(“nome di un luogo derivante dal nome di una pianta”).
466 Mi riferisco alla Cronaca di Vittore di Tunnuna, citata alla nota 337 (per l'anno
507 d.C.).
133
to in un terreno campestre anche più a nord – in sostanza all'altezza dei
terreni occupati dall'attuale cimitero di Ceneda – in una zona quindi non
interessata da infiltrazioni o risorgive; si può aggiunger anche che scrupoli
igienici difficilmente avrebbero sfiorato gli uomini di quei tempi difficili,
costretti, com'erano, a vivere in una perpetua emergenza.
Abbiamo poco altro sulla Rabbia nell'antico cenedese, ma si tratta di un indizio da non trascurare. Non si può non far cenno, infatti, a una
cerimonia, apparentemente inspiegabile, riferita all'anno 1458, di cui troviamo notizia nell'Archivio Parrocchiale di Serravalle (sempre in Comune
di Vittorio Veneto). La notazione potrebbe restituire il senso d'una vera e
propria antica tradizione, e non di una circostanza occasionale (che altrimenti sarebbe stata adeguatamente motivata legandola ad un evento specifico): apprendiamo, nel documento, che, a carico della Pieve serravallese, ci si recava all'Abbazia di Follina a prendere il pane contro il morso
dei cani rabidi467. La cerimonia abbaziale, forse destinata a sollecitare l'intercessione della Madonna, è probabilmente l'estrema – labile – testimonianza di un rituale assai più risalente, del quale si sono evidentemente
perdute le tracce. È piuttosto singolare che nell'area cenedese (Serravalle
si è sviluppata autonomamente in tempi assai più recenti) si fosse dato
luogo, senza una ragione legata ad una contingenza specifica e significativa, a una cerimonia propiziatoria contro la Rabbia di cui non vi è a quanto pare altra diversa fonte, a meno che essa non perpetuasse il ricordo di un
evento particolare di un lontano passato, da ricordare a solenne monito.
La “liturgia” follinese sembra collegarsi infatti a riti antichi di
secoli del tipo di quello celebrato per ottenere la protezione e l'intercessione del celebre santo merovingio Uberto, vescovo di Maastricht (VII sec.),
che viene così ricordata: in festo S. Huberti fit sollemnis benedictio aquae,
salis et panis in honorem S. Huberti antidotum contra morsum rabidorum
canum et intoxicationes468.
Vorrei rammentare, a proposito del richiamo del “pane e sale”
(nella fonte serravallese abbiamo solo “pane”, altrove anche “solo sale”469)
che supra, servendoci di una fonte siriaca, abbiamo affrontato quella sorta
467 L'importante spunto documentale si legge in G. Tomasi, La Diocesi di Ceneda.
Chiese e uomini dalle origini al 1586, Vittorio Veneto 1998, I, p. 578 (devo anche qui
allo stesso dott. Tomasi la segnalazione).
468 Cito qui il testo dagli Annalen des historischen Vereins für den Niederrhein, in
besondere die alte Erzdiözese Köln (herausgegeben von J. Mooren et. al.), Köln 1862, p.
56, relativamente al 1681, zona di Colonia.
469 In una fonte di medicina popolare: salt, or salt and water, was applied anciently...
and used as a bandage for bites of mad dogs (W.G. Black, Folk Medicine; a Chapter in
the History of Culture, London 1883, p. 131).
134
di “Rabbia” collettiva, esplosa nella città mesopotamica di Amida nel
559-560 d.C.: alla fine, la folla degli ossessi sarebbe stata placata, se non
“guarita”, proprio grazie ad una dieta basata su “pane e sale”470.
La Rabbia era infatti intesa (e spiegata), in antico, essenzialmente come impossessamento del corpo del malato da parte d'un demone, di
uno spirito maligno. Leggiamo in Rufino, a proposito di un discepolo di
Sant'Antonio eremita, Paulus nomine, cognomento Simplex, che cum quidam rabiem patiens in modum canis laniaret omnem, qui ausus fuisset
accedere et perductus ad eum fuisset, insistebat orationi, ut daemonem
qui eum urgebat fugaret (“quando un tale sofferente di rabbia, come un
cane, mordeva tutti, [Paolo] osò affrontarlo e giunto davanti a lui, si mise
a pregare con zelo fino a mettere in fuga il demone che lo tormentava”471).
In questo senso, il complesso “pane e sale” doveva aver costituito, nella tradizione cristiana, una sorta di dieta esemplare, di nutrimento
essenziale, di presidio, per un personaggio come Sant'Antonio eremita (lo
testimoniano Cassiodoro e Sedulio Scoto472): si trattava di un santo continuamente impegnato ad allontanare da sé demoni d'ogni sorta.
Un legame doveva esistere quindi tra la dieta a pane e sale e la
cacciata dei demoni e quindi anche, per estensione, con la “prevenzione”
dalla (e la “cura” della) Rabbia, intesa come indemoniamento.
Molti interrogativi restano evidentemente aperti: sulla natura della malattia; su eventuali nuove interpretazioni possibili delle parole di Agazia ecc. Non mi
illudo di aver offerto risposte definitive, anzi spero, magari anche attraverso i miei
errori di valutazione, se ne avrò commessi, di aver comunque stimolato interesse e
curiosità in ricercatori di varia estrazione e specializzazione, bizantinisti, medievalisti, storici della medicina, studiosi di toponomastica e di storia locale: se ne deriverà qualche ulteriore indagine sarebbe, per me, la migliore remunerazione per l'ingente lavoro proposto nelle pagine precedenti.
Senza Internet queste pagine non avrebbero potuto svilupparsi con il respiro che solo le fitte connessioni della Rete consentono di esplorare. Per la parte
più tradizionale dell'accesso alle informazioni, non si può non dimenticare che Università, Biblioteche, Istituzioni culturali e singoli studiosi continuano – per fortuna
– a svolgere un eccezionale lavoro, e rappresentano presidi e riferimenti che chi studia e ricerca non può ancora permettersi di trascurare.
470
Vd. qui, in precedenza, le note 330 e 331.
Rufino, Historia Monachorum, XXXI.
472 Cassiodoro, Historia Ecclesiastica Tripartita, I, 11-26; Sedulio Scoto, Collectaneum Miscellaneum, XXVI.
471
135
Abstract
Si tratta di un'indagine diretta a individuare la misteriosa malattia che
uccise i guerrieri alamanni che avevano partecipato a un'incursione lungo la penisola italiana, guidati dal dux Leutari, nel 553-554 d.C.: sconfitti dai bizantini
vicino a Pesaro, furono costretti a rifugiarsi nella piccola città di Ceneta (oggi
Vittorio Veneto). Solo il bizantino Agazia, che scrisse le sue Historiae attorno al
570 d.C., ci fornisce queste notizie nei dettagli. L'indagine, tenendo conto di stilemi, tecniche e spirito della storiografia bizantina del tempo, contestualizza analiticamente la vicenda (e la narrazione agaziana), anche ricorrendo a un esame
completo di tutta la letteratura inerente o di supporto, antica, moderna e contemporanea. Una volta esclusa la peste, spesso indicata nel passato come causa della
strage, e individuata una serie ragionata di possibili malattie, l'approfondita analisi ha indicato che la rabbia umana (da Lyssavirus) avesse avuto le maggiori
probabilità di colpire quei guerrieri, in base ai dati etno-antropologici e allo studio delle sepolture alamanniche in diverse zone d'Europa. L'ipotesi della rabbia
come causa della strage degli uomini di Leutari viene suffragata in maniera originale da una inedita reinterpretazione di un antico toponimo cenedese che potrebbe essersi originato proprio in quanto luogo dell'originaria sepoltura degli
alamanni.
This is a survey aimed at identifying the mysterious illness that killed
the Alamannic warriors who had participated in a raid on the Italian peninsula,
led by dux Leutari, in 553-554 AD: defeated by the Byzantines near Pesaro, they
were forced to refuge in the small town of Ceneta (now Vittorio Veneto). Only
Agathias, a Byzantine who wrote his Histories around 570 AD, gives us the news
in detail. The survey, taking into account the styles, techniques and spirit of the
Byzantine historians of the time, analytically contextualizes the story (and
storytelling of Agathias), even using a full review of all literature related to or in
support, ancient, modern and contemporary art. After excluding the plague, often in the past indicated as the cause of the massacre, and identified a reasoned
series of possible diseases, the detailed analysis indicated that the human rabies
(from Lyssavirus) had the highest probability of hitting those warriors, according to the ethno-anthropological data and to study of Alamannic burials in various parts of Europe. The hypothesis of rabies as the cause of the massacre of
Leutari's men is supported by an original reinterpretation of an ancient place
name of Ceneta, that may have originated precisely as the original burial place
of the Alamanni.
136
Professionisti della sanità nelle Prealpi orientali
nei secoli XIII-XVII
Relazione presentata al Convegno da
Giovanni e Silvia TOMASI
Questa ricerca intende riassumere le generalità sui presidi sanitari esistenti tra il tardo Medioevo e la prima Età moderna nelle Prealpi
Trevigiane orientali, fornendo poi un dettagliato elenco dei professionisti
che vi lavorarono.
Il territorio considerato corrisponde grosso modo agli attuali
dodici Comuni di: Cappella Maggiore, Cison, Colle Umberto, Cordignano, Follina, Fregona, Miane, Revine Lago, S. Fior, Sarmede, Tarzo, Vittorio Veneto, tutti in Provincia di Treviso, per un totale di circa kmq 340.
Sino al Trecento avanzato la zona fu in mano ai Caminesi, tranne il Feudo vescovile di Ceneda.
Dal primo Quattrocento l’area passò ai Veneziani, suddivisa tra
la Podesteria di Serravalle e i Feudi comitali di Ceneda (ai vescovi), di S.
Cassiano (ai Rangoni) e di Valmareno (ai Brandolini). Il periodo considerato spazia su circa quattro secoli, dal primo Duecento sino alla prima
metà del Seicento.
Per il Duecento ovviamente sono rare le notizie, precisamente
due medici a Ceneda nel 1207 e 1230, forse presenti in quanto facenti
parte della familia episcopi, due speziali a Serravalle nel 1228-33 e un altro della fine di quel secolo e tre barbieri attivi dal 1270 al primissimo
Trecento.
Le strutture sanitarie, allora come oggi, si ponevano su tre livelli:
- i maghi1, i ciarlatani e i praticoni2, ed infine l’esperienza personale.
1 Donà della Mora del Conta’ di Meduna, che aveva rapporti col Demonio, era a Ceneda nel 1637, cfr. Tomasi 2012, p. 118.
2 Antonio da Candelort, detto “medego” viveva a Corbanese prima del 1572, e dopo
di lui i discendenti, che mantennero a lungo il soprannome (ASTV Not. I, b. 1121, passim). Per quanto strano possa sembrare medico divenne anche nome proprio, cfr Raynerius de Medico, Medegucius, Medicus filius Alexandri de Rindolla nel 1242 (Girardi pp.
267-270).
137
- la religione e quindi le chiese3, le visioni della Madonna4, le reliquie e i santi5, i famosi grandi santuari lontani6.
A testimonianza di questi culti religiosi e salvifici ci restano i noti
ex-voto secenteschi offerti alla Madonna di Loreto a Corbanese e a
sant’Augusta di Serravalle .
- infine i presidi pubblici basati su medici e chirurghi condotti e sulle levatrici, e quelli privati, cioè i barbieri e gli aromatari.
A questi si aggiungevano le strutture locali di solito tenute da
confraternite, cioè gli ospedali, vale a dire gli ospizi per i poveri e i viandanti (quattro a Serravalle, uno a Ceneda, uno a Tovena e uno a S. Antonio di Tortal [in Podesteria di Belluno])8.
Quindi le infermerie dei monasteri, in particolare quelle dell’abbazia di Follina e del monastero di san Girolamo a Serravalle9.
7
3
Alla chiesa di santa Maria di Follina si andava a prendere il pane contro la rabbia
già nel Quattrocento, cfr. Tomasi 1998, I p. 578. Dal 1630 in ringraziamento dello scampato pericolo della peste i serravallesi si recarono ogni anno in pellegrinaggio alla chiesa
di sant’Augusta.
4 Nel Cinquecento vi furono in diocesi di Ceneda due visioni miracolose della Madonna, a Ramoncello presso S. Lucia di Piave e a Motta.
5 In particolare san Sebastiano e poi anche san Rocco, ma pure san Lazzaro per le
malattie epidemiche e nella chiesa di sant’Andrea di Bigonzo esiste un affresco quattrocentesco di san Giobbe con le piaghe. In generale ai santi venivano attribuite doti terapeutiche per malattie particolari, spesso determinate dagli organi soggetti al loro martirio
o a loro particolarità. Per esempio santa Apollonia per i denti, santa Augusta per la cefalea, san Biagio per la gola, san Gottardo per le patologie delle gambe, santa Lucia per gli
occhi, san Valentino per l’epilessia, ma la lista è lunga.
6 Così Compostela in Galizia e Loreto nelle Marche, ma famosissimo era quello di
Vienne in Francia con le reliquie di sant’Antonio abate, invocato contro l’Herpes e l’ergotismo (entrambi noti come “fuoco di sant’Antonio”). Nell’alto Medioevo ci si recava
anche alla chiesa di san Martino a Ravenna, come testimonia Venanzio Fortunato, che
verso il 550 vi andò col vescovo Felice di Treviso per chiedere la guarigione da una malattia agli occhi, cfr. Lanzoni II, p. 903.
7 Per quelli di Corbanese cfr. Puttin, per quelli di sant’Agusta cfr. Campo Dell’Orto,
pp. 37-41.
8 Su ospizi e lazzareti medioevali nel territorio dell’attuale diocesi di Vittorio Veneto
cfr. Tomasi 1998, II p. 420.
9 Per Follina un atto fu rogato nel 1231 in porticu domus enphermarie (Tomasi 1998,
I p. 27), nel 1288 in solerio firmarie (ASTV CRS Follina b. 2, tomo H, c. 190v) e nel
1363 iuxta portam parlatorii qua itur ad infirmariam (ivi, b. 5, processo del 1434-36, c.
25 r.). Per il monastero di Serravalle la prima documentazione è del 1553 (ASTV CRS
san Girolamo b. 4). Queste infermerie si servivano di medicinali come segue, Follina a
Venezia e a Conegliano e dal 1612 anche a Cison, il monastero di san Girolamo si riforniva a Serravalle.
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Al bisogno nel tardo periodo veneziano vi erano anche i “restelli” di sanità10, e inoltre, già nel Medioevo, i lazzareti11.
Tutte queste strutture come è logico si localizzavano sulle strade principali, questo spiega la concentrazione a Serravalle e la presenza di
un ospizio a Tovena e un altro a Tortàl, questi ultimi due sulla perigliosa
strada del canale di san Boldo. Immediatamente a sud vi erano gli ospedali di Conegliano e di Talpon12 e a nord quelli di Belluno e delle Dolomiti13,
poco ad est vi era l’ospedale di Sacile, ad ovest quelli del Quartiere del
Piave e di Valdobbiadene.
Qui seguono le liste degli aromatari, chirurghi, barbieri e medici di cui si trova notizia nei quattro secoli considerati. Si tratta complessivamente di oltre duecento professionisti, di cui 46 aromatari, 50 chirurghi
e 58 barbieri, cui si aggiungono 59 medici e due veterinari. Per questi ultimi è da segnalare che si tratta delle prime documentazioni italiane, settanta anni prima di quanto sinora noto.
AROMATARI e SPEZIALI
Con l’appellativo moderno di farmacista s’ intendeva in antico
chi preparava e vendeva oltre ai farmaci, anche spezie o droghe, oli,
estratti, cere, e altro, professionisti detti aromatarius, speciarius, spezial,
in dialetto ”speziér, spiziér”.
A Serravalle erano attive più spezierie, due erano a Ceneda e
una a Cordignano e dal primissimo Seicento (11 dicembre 1605, ASTV
Not. I, not. S. Privitellio, b. 1281) una è documentata anche a Cison. A
fronte di sei botteghe effettivamente documentate a Serravalle, due a Ceneda e una a S. Cassiano e a Cison, il numero degli speziali è di 46 persone, segno che molti erano soci, garzoni, famigli o aiutanti del titolare. L’e10
I “restelli” erano cancellate di legno con possibilità di chiusura a chiave; posti sulle
strade principali erano sorvegliati da guardie locali che richiedevano ai passanti la “fede
di sanità”, lasciando passare solo quelli che ne erano provvisti e respingendo gli altri.
Sono noti sinora i “restelli” settecenteschi del monte Frascon sopra Revine, quello presso
Tarzo e uno era a borgo Botteon presso S. Floriano a nord di Serravalle.
11 Un lazzareto duecentesco - malsane de Costa - è noto a Costa di Serravalle (località dove oggi esiste una via del Lazzareto), uno molto più tardivo sorgeva fra i paesi di
Lago e di Sottocroda.
12 A Talpon, presso il guado del Piave, all’inizio del sec. XII fu fondato un ospizio,
noto nei secoli successivi come l’ospedale di Lovadina.
13 Per gli ospizi delle Dolomiti cfr. Gnesda, per quelli della bassa valle del Cordevole
cfr. De Nardin, Poloniato, Tomasi.
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levato numero di speziali a Serravalle si spiega anche col fatto che qui vi
erano anche quattro fra monasteri e conventi ed era notevole il flusso di
viandanti, trafficanti e commercianti.
Il Consiglio di Serravalle imponeva al medico condotto di controllare con regolarità anche le farmacie e così il 9 e 23 gennaio 1555
(ASVV S b. 95) si deliberò d'ispezionare le botteghe di m° Nicolò del fu
Bortolo Porta e di m° Zuane de Carlo per assicurarsi che non esistessero
"medicinali scaduti”. Qualche problema insorto fra medici e farmacisti si
può evincere dal fatto che il 28 marzo 1527 (ASVV S b. 91) in Consiglio
fu discussa una mozione contro Francesco da Ravenna e Nicolò “Schip”
che rifiutavano di pagare il medico condotto.
Per l’attività della famiglia e la continua presenza in città sono
da menzionare gli aromatari De Carli originari da Conegliano, i Fondra
provenienti dalla val Brembana, e i Sanfior a Serravalle, mentre per Ceneda gli Speziari, che da speziali divennero poi nobili.
Alcune botteghe sono ricordate oltre che col generico nome di
“Aromataria” anche con quello dell’insegna che esponevano sopra la porta, così a Conegliano quelle “Al pomo d’oro” e “Al segno della stella”, a
Cordignano “Da quelli delle Bilance”, a Serravalle “Alla santa Maria”.
1. Andrea de Zolt, figlio del fu Valentino, aromatario a Sacile ma abitante a Ceneda, il 3.02.1583 (ASTV Not. I, b. 969) viene redatto il contratto dotale fra lui e Maddalena del fu Piero Antonio “de Althio” da Ceneda, che gli porta in dote £ 652:14.
- Andriana aromataria, è inserita qui di seguito nella scheda del marito “Schip”
Nicolò.
2. Antenore, speziale a Serravalle, di lui si ha documentazione perché il
10.02.1586 fu battezzata Tranquilla Apollonia, figlia sua e della moglie Paulina (AP S
Anagrafi).
3. Asquino da Serravalle, speziale, è presente nel 1327 (ASTV CRS S. Giustina
perg.).
4. Bartolomeo, speziale a Serravalle citato nel 1307 (ASTV CRS S. Giovanni di
Serravalle perg. b. 3).
5. Bartolomeo, speziale a Serravalle doc. nel 1390 (ASVV S, b. 625).
6. Bastanzi Urbano 1617-29
Figlio del notaio Adamo, speziale a Ceneda, doc. nel 1619-27 per una controversia su una compravendita di terre ad Ogliano e Scomigo che finì in tribunale a Conegliano (AMVC b. 131, fasc. M). Per liti a Conegliano è qui citato ancora nel 1629 (AMVC
b. 136, fasc. 289). Egli sposò Andriana del Fol, vedi Schip Nicolò.
7. Bella (della - ) Giuseppe 1600-28
Speziale a Serravalle, è riportato nelle anagrafi parrocchiali il 23.09.1600 quando
fu battezzato Bernardino figlio suo e di Bartolomea (AP S anagrafi). Passò poi a Cison
dove è ricordato come speziale nel 1601-05 (ASTV pod. Cison b. 90), in lite con lo speziale cisonese Zamaria della Bella; sempre in quella località è ricordato come speziale e
chirurgo nel 1616-28 (ivi, b. 102). Un Giuseppe della Bella fu notaio a Cison verso il
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1630 e Giovanni Battista della Bella da Valmareno cancelliere a Meduna è citato in un
processo a Cison nel 1572 (ivi, b. 38).
8. Bernardis (de - ) Francesco 1513-29
Proveniva da Ravenna, era aromatario a Serravalle e ivi presente nell’intervallo
temporale 1513-29 (ASTV Not. I, b. 451). Il 18.03.1530 madonna Zuana, vedova di m°
Francesco, s’accorda col futuro genero Zuane Francesco fu Zuane da Carlo, il quale sposerà sua figlia Filomena con una dote di ducati 200, di cui 80 in attrezzi da farmacia,
“vasi, scatole, pitari e rami” e altri 50 entro due mesi e 70 in beni immobili. Seguirà la
cerimonia religiosa il 22.03.1530 nella chiesa di Costa e del matrimonio ci resta testimonianza scritta del nobile Bortolo Cesana notaio presente al matrimonio, il 5.12.1530 vi è
un’ ulteriore specifica di dote per £ 670:19 (tutto in ASTV Not. I, b. 532). Il 29.03.1530
(ivi, b. 507) la sua vedova dà procura al fratello Sigismondo “Patavin” per esigere i crediti dal medico Daniele da Forlì attualmente a Chioggia. La lite, per un debito di ducati
16 e mezzo, è ricordata anche il 24.07.1535 in ASVV S b. 93. Egli fornì cere ed incenso
alle chiese cittadine tra il 1525 e il 1528 (ASVV S, b. 593).
I Bernardis rimasero in città, Lauro fra il 18.11.1546 (ASTV Not. I, b. 513) e il
31.10.1551 (ASTV Not. I, b. 865), poi il 12.03.1582 (ASTV Not. I, b. 1119) è citato ser
Lauro fu Francesco de Bernardis da Ravenna abitante a Venezia. Il 31.07.1589 (ivi, b.
1211) Lauro è nuovamente in zona e abita a Costa di Serravalle, e risulta ancora come
proprietario nel 1593-94 (ASVV S, b. 169). Egli avrà un figlio, Zuane Battista, noto
come “indorador”.
9. Bressan Francesco, speziale a Serravalle e di cui abbiamo la data di morte il
15.03.1652 (AP S Anagrafi).
10. Carara Pietro, aromatario a Ceneda citato in un atto notarile il 19.10.1551
(ASTV Not. I, b. 663), e ancora il 9.04.1561 (ivi, b. 576).
Carulo (de - ), Kruli, Carli, famiglia presente a Serravalle per oltre cento anni
con quattro generazioni di speziali, con bottega in piazza nel 1505, dove venivano comprate anche le cere per le chiese.
Originari da Conegliano, infatti il 3.05.1483 (ASTV Not. I, b. 271) Francesco
“Kruli” vien detto di Conegliano, ma il 29.12.1534 (ASTV Not. I, b. 532) un altro Francesco Carulo viene detto da Porcia, tuttavia è esatta la prima provenienza, a Conegliano
infatti m° Leonardo speziale fu Carulo pellicciaio (alias de Carulo) è doc. già nel 14661500 (AMVC b. 4, fascc. 36 e 8, fasc. 65). I Carli a Conegliano furono attivi per tutto il
Cinquecento.
141
11. Carulo (de - ) Francesco 1479-1511
Originario da Conegliano, doc. dal 5.08.1479 (ASTV CRS, S. Giovanni perg. 2) e
poi più volte nel 1480-1508 (ASTV Not. I, bb. 271, 272), ancora attivo il 28.01.1511
(ivi, b. 532).
12. Carulo (de - ) Francesco 1530-53
Aromatario, figlio di Giovanni, talvolta chiamato anche Zuanfrancesco, che nel
1530 sposa Filomena di Francesco de Bernardis speziale, più volte doc. sino al
30.04.1553 (ASTV Not. I, b. 532); ancora presente nel periodo 1536-39 (ASTV Not. I,
b. 568), abitante a Ceneda dove tiene una bottega d'aromataria in piazza, poi nel 1551 è
documentato abitare in Serravalle nella contrada di Fontana-Piai. Fornì candele e cera
alle chiese cittadine nel 1542 e 1550 (BCVV S b. 593) ed alla cattedrale nel 1536-39
(ADVV Massaria). Suo figlio Lauro è citato il 19.01.1548 (ASTV Not. I, b. 468).
13. Carulo (de - ) Giovanni 1502-05
Figlio di Francesco, presente in città dal 9.11.1502 (ASTV Not. I, b. 272) al
27.11.1505 (ivi, b. 400), mentre il 17.08.1512 (ivi) compare la sua vedova Cristina come
governatrice del figlio Giovanni Francesco, loro erede.
14. Carulo (de - ) Giovanni 1555-67
Figlio di Francesco, aromatario doc. dal 1555 quando fu ispezionata la sua spezieria dal medico condotto di quel tempo Geronimo Amalteo, e ancora vivo il
24.07.1567 (ASVV S b. 630). Il 6.04.1557 (AMVC b. 35 fasc. 140) m° Giovanni da procura al suo parente Agostino de Carulo da Conegliano, il che dimostra gli stretti legami
con il ramo della famiglia a Conegliano. Vi è documentazione che fornì cere alle chiese
cittadine nel 1561 (ASVV S b. 593) e nello stesso anno anche al monastero di S. Girolamo (ASTV CRS, S. Girolamo b. 4).
Il 27.02.1574 (ASTV Not. I, b. 539) e 26.03.1576 (ASTV Not. I, b. 1025) compaiono la madre Filomena e la moglie Camilla a tutela degli eredi; questi ultimi, come proprietari anche dell'aromataria in piazza, sono citati il 9.07.1581. Suo figlio Gregorio che
142
abitava in Calcada si sposò il 7.01.1580 con Branda di Antonio Cesana. Di Branda sappiamo che fu cresimata assieme alla sorella Mattia il 12.02.1576 nel monastero di S. Girolamo e morì poi il 6.04.1630. I loro figli sono battezzati il 28.09.1581 Veneranda Zuaneta, il 22.01.1583 Zuane Carlo, il 12.02.1587 Fulvia Cornelia; la figlia Veneranda si
sposò il 22.11.1605 con Alvise Zanne da Sacile (AP S anagrafi).
Fondra (da - ), Sfondra, famiglia di speziali attivi a Serravalle, provenienti da
Fondra, un piccolo centro dell'alta val Brembana (BG). La famiglia continuò a risiedere
a Serravalle e fra i discendenti vi è anche qualche notaio secentesco.
15. Fondra (da - ) Bartolomeo 1572-1610
Figlio di Francesco da Treviso, speziale a Serrravalle, dove si sposò il 26.11.1583
con Bernardina di m° Andrea “Cruzise” nella chiesa di sant'Augusta e dove vengono battezzati i loro figli (AP S anagrafi), così il 16.10.1584 Giustina, 13.01.1586 Prospero
Anastasio, 27.04.1587 Nicolò Anastasio, 12.06.1590 Anzolo, il 21.06.1592 Aloisio
(questi divenuto chierico fu sepolto il 15.07.1628, ucciso con una pugnalata alla gola dal
fratello Zuane Paulo, così in ASVV S b. 650.1, era confratello dei Battuti ), il 19.01.1594
fu battezzato Anzolo; il 25.11.1599 ancora Andrea, avuto dalla moglie Isabetta. Il
10.04.1572 (ASTV Not. I, b. 1045) Piero fu m° Zuane Laurenti s'accorda con lui perché
il figlio Lucio possa fare da garzone, imparando “l'arte di fare le medicine e altri
rimedi”; nel 1585 è suo famiglio Domenico di m° Tiziano Guerin (ASVV S b. 632). Citato in atti notarili anche il 2.02.1573 (ASTV Not. I, b. 861), l’ 8.03.1590, il 25.03.1591
(ivi, b. 1027) e il 31.05.1589 (ivi, b. 863) risulta creditore di £ 99:5 da parte di Tomaso
fu Nicolò Tomasi, di cui £ 64 sono state pagate, per il restante ser Tomaso s'impegna a
pagare £ 12 l'anno sino ad estinzione del debito. Nel 1589-1601 aveva accumulato un discreto patrimonio, infatti acquista più terre in zona (fra cui nel 1601 alcune da Gregorio
de Carli), case a Serravalle, affida bestiame in soccida, affitta terre e presta denaro
(ASTV Not. I, bb. 673,1026- 1028). Il 1.12.1607 (ASTV Not. I, b. 1028) crea suo procuratore il figlio Prospero. Confratello dei Battuti fu sepolto il 22.08.1610 (ASVV S b.
650.4).
Il padre, ser Francesco del fu ser Iacobo Rosseto da Fondra, abitante a Venezia,
vende i suoi diritti sul maso di S. Mor presso Ceneda il 4.07.1528 (ASTV Not. I, b. 663).
Sua figlia Giustina fu chiesta in moglie da Pietro Fusari da Serravalle ma Bartolomeo rifiutò; il Fusari allora, alla festa di san Biagio aspettò la ragazza che saliva per le
scalette verso la chiesa di sant’Augusta e – davanti a tutti – cercò di baciarla e la gettò a
143
terra tentando di abusare di lei. Preso fu condannato dal podestà di Treviso nel 1608 al
bando per quindici anni da Treviso e dal Cenedese (ASTV Not. II, b. 977, vol. 47).
Un Bortolo Fondra è doc. a Serravalle il 30.10.1545 (ASVV S b. 94), non è chiaro il rapporto di parentela, che tuttavia è suggerito dall’omonimia.
16. Fondra (da - ) Prospero 1586-1650
Figlio di m° Bortolamio e nato il 13.1.1586, speziale nella bottega del padre in
piazza a Serravalle, dove è doc. il 10.10.1611 (ASTV Not. I, b. 1358) e anche 8.06.1615
(ivi, b. 1328). Il 27.10.1620 nella loro casa in Tiera i fratelli Prospero, Giovanni Paolo,
Alvise e Bartolomeo, dopo aver dato al fratello Angelo la sua quota di eredità paterna,
decidono di rimanere in fraterna e poi, 12.03.1626 e 7.07.1627 Prospero insieme alla madre Bernardina e ai suoi fratelli Giovanni Paolo, Alvise, Giovanni, si dividono i beni,
dopo aver fatto l’inventario della bottega (ASTV 1328). Coi suoi fratelli è ricordato ancora nel 1648-50 (ASTV Not. I, b. 1841, not. F. Filomena).
Si sposò il 29.04.1634 (AP S anagrafi) con Giacinta di Paolino Giustinian; divenne confratello dei Battuti nel 1612 e sua moglie divenne consorella nel maggio 1635
(ASVV S b. 650.4).
17. Francesco aromatario a Serravalle con un’unica attestazione del 15.07.1582
(ASTV Not. I, b. 1025).
Francesco da Sacile 1464-74
Aromatario abitante a S. Cassiano, dove è ricordato il 17.11.1464 e 9.01.1465 e
ancora nel 1473-74 (ASTV pod. Cordignano bb. 104, 130).
18. Gasparo da Padova, figlio di Guido, aromatario a Serravalle 9.11.1465
(AMVC b. 2, fasc. 17).
19. Giorgio 1403-39
Detto “Iorio”, aromatario, figlio del notaio Mainardo (doc. nel 1392-1416) a sua
volta figlio di Iorio da Pederobba notaio a Serravalle dove è attestato nel 1362 e abitante
in Calgranda (Tomasi 2002, ASVV S bb. 625, 626).
20. Giovanni da Scutari 1440-59
Figlio di Pietro albanese, speziale abitante in Calcada e con la bottega nella piazza di Serravalle, sposato con Bartolomea di Gregorio Piloni da Salce, fece costruire verso il 1442 la chiesa della Trinità presso la sua casa e la donò al convento di san Giovanni
Battista. Dettò il suo testamento il 18.12.1459 (sub 30.04.1465) a Rimini nella chiesa di
san Nicolò - rogato dal notaio Guidone de Fagnanis - chiedendo di essere sepolto in
quella città e in quella chiesa, lasciando legati alla Scuola degli albanesi, che qui si riunisce, beneficando la moglie e lasciando la casa dove abitava a Serravalle ai figli minori
del defunto m° Iacobo spadaio.
Già il suocero ser Gregorio fu Bartolomeo Piloni da Belluno per suo testamento
del 25.10.1449 aveva lasciato erede universale la figlia Bartolomea, con la condizione
che se essa moriva senza figli tutto il suo avere nel Bellunese sarebbe passato alla Scuola
di santa Maria dei Battuti di Belluno e quello nella Trevisana al convento di san Giovanni Battista di Serravalle (tutto da ASTV CRS S. Giovanni perg. b. 2).
Egli fu anche un notevole imprenditore; il 5.10.1454 (AMVC b. 3, fasc. 25) chiede le strida per una casa nella parte inferiore della piazza di Serravalle comprata nel
1452 per £ 50 da Cristoforo Galletti e il 5.07.1455 (AMVC b. 2, fasc. 13) compra un
grande campo presso la pieve di Bigonzo per £ 192. Il 18.04.1463 (ivi) la sua vedova
Bartolomea diede la dote alla sua serva Margherita figlia di Iacobo “de Richafena” da
Ampezzo, cioè vesti per un totale di £ 46:8.
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21. Lino (dal - ) Nicolò, aromatario a Serravalle attestato in un solo atto il
26.04.1570 (ASTV Not. I, b. 539).
22. Marson Andrea (Serravalle 1583, Conegliano 1626)
Figlio del fabbro m° Daniele e di sua moglie Lucia, fu battezzato a Serravalle il
29.05.1583 e passò poi a Conegliano dove è citato dal 18.03.1610 (ASTV Not. I, b.
1291), in quella città gestiva una bottega di spezieria al segno del “Pomo d’oro” e colà fu
sepolto il 19.03.1626 (AP Conegliano, Defunti). A Conegliano fu battezzato suo figlio
Giovanni il 19.04.1623 (AP Conegliano, Batt.). Il 22.09.1626 la sua vedova Anzola citò
in tribunale lo speziale Francesco Monachini, socio nella bottega col defunto marito, e
chiese la chiusura dei conti e l’inventario, seguì un processo nel 1626-27 (AMVC b. 132,
fasc. 281, filza a se stante).
23. Matteo del Fol 1582-1636
Speziale la cui prima attestazione è come padrino in chiesa a Serravalle il
16.08.1582 e lì documentato come Matio dela Mora, ma si tratta di Matio del Fol, speziale doc. con questo nome il 4.05.1606 (AP S anagrafi).
Il 7.12.1605 (ASTV Not. I, b. 1409) Matio e il fratello Andreia comprano per £
310 una camera posta sopra la loro aromataria all’insegna di “santa Maria” confinante a
est col campanile e la loggia, a sud con la strada pubblica e a nord con la contrada di
Piai. La sua spezieria fornì alla Comunità la carta per stampare gli Statuti cittadini e fu
pagato £ 4:10 il 2.07.1603 (ASVV S b. 103); fu massaro o gastaldo dei Battuti più volte
sino al 1635 (ASVV S b. 650.4) ed è documentato come confratello nel 1608-36 lasciando alla morte un legato alla Scuola per due messe annue, così è ricordato nell’agosto
1646 (ASVV S bb. 637.2, 650.4).
Sposato con Caterina che è comare ad un battesimo il 20.01.1606; le loro figlie
furono battezzate il 27.08.1595 Antonia e 8.08.1597 Andriana (AP S anagrafi). Il
23.10.1617 sua figlia Andriana si lamenta delle angherie subite dal marito Urbano Bastanzi da Ceneda e si cautela presso il notaio annullando atti notarili passati o futuri ai
quali potrebbe essere costretta dal marito (ASTV Not. I, b. 1409).
24. Monachinis (de -) Antonio 1568-1598
Figlio di Carlo e aromatario a Conegliano dove teneva in affitto la bottega di Pietro de Caronelli “al segno della Stella”, così il 2.09.1568 (ASTV Not. I, b. 853, not. A.
Coderta); nel 1570 è in lite con l’aromatario Ferrante Spreviero, a Conegliano il
21.1.1589 (ivi, b. 1291) vende terra a ser Bernardo Sas da Bolzano Vicentino, è ricordato
vivo fino alla fine del secolo. Il 18.02.1606 (AMVC b. 102) e l’ 1.12.1609 (ASTV Not. I,
b. 1291) Elena vedova di Antonio affitta terra.
L’aromataria al “segno della Stella” verrà poi gestita dal figlio Francesco, citato
come speziale il 16.09.1618 (ivi), spesso doc. perlomeno per varie liti, in particolare viene citato col fratello, pre Giovanni Battista rettore a Basalghella, così doc. il 20.04.1627
(AMVC b. 131 M). Un avo, Troilo Monachini di Antonio si sposò con Maria da Cison e
l’8.11.1535 (ASTV Not. I, b. 529) fu redatto il contratto dotale per £ 810:11, pagate dalla
madre Franceschina e dal marito di lei Francesco da Milano (omonimo del noto pittore).
I Monachini sono presenti a Conegliano dal primo Cinquecento, provenienti da
Porcia e attestati nel 1530 in AMVC b. 16, fasc. 100, passando poi in parte a Cison nel
tardo Cinquecento.
25. Morando, speziale a Serravalle nel 1233 (ASTV CRS S. Giustina perg. b. 1).
26. Nicolò detto “Spagnolo”, speziale forse di Cordignano, è teste nel 1333
(ASTV CRS S. Giustina perg.).
145
27. Parmesan Antonio, il 21 gennaio 1565 (ASTV CRS Follina b. 1, tomo D, c.
123 r) risulta affittuario della bottega detta “Aromataria” posta sopra la piazza di Ceneda
e presente ad un atto notarile.
28. Petrino, speziale a Serravalle nel 1228 (BSVV Zuliani, p. 151). Nel 1270
(ASTV CRS Follina b. 2, tomo H) si ricorda una terra a Serravalle di Bartolomea e India
figlie del defunto speziale Petrino.
29. Pietro 1567-69
Aromatario nella bottega di “Quelli delle Bilance” sita a Cordignano presso il
ponte sul Meschio il 9.12.1567, presente il 1.05.1568, e ancora il 15.09.1569 (ASTV
Not. I, b. 925).
30. Pietro da Serravalle, speziale, suo figlio Nicolò era notaio e roga un atto a
Serravalle nel 1322 (ASTV CRS S. Giustina perg.), alla data il padre era già morto. Il
notaio Nicolò è documentato nel 1320-28 (Tomasi 2002, p. 86).
31. Pompeo, speziale forse a Cison, fornisce di medicinali l’abbazia di Follina
nel 1612 (ASTV CRS Follina b. 33).
- Porta (della - ) alias “Schip” Nicolò.
32. Resani Nicolò 1566-83
Aromatario a Serravalle attestato il 18.06.1566, il 13.09.1567 e ancora il
4.03.1583 (ASTV Not. I, bb. 861, 863).
Salsa, famiglia notabile da Salsa di Ceneda.
33. Salsa (da - ) Antonio, 1578-m. 1637
Figlio di Giulio, aromatario in piazza a Ceneda; ricordato il 13.07.1578 come
compare di matrimonio (AP C anagrafi), quindi il 7.08.1579 (ASTV Not. I, b. 967) quando donna Maura vedova di Giulio Salsa ricorda che vendette per ducati 100 terre a Mattio fu Domenico da Salsa, denaro che poi spese per attrezzare l'aromataria del figlio Antonio, ora sposato con Bona di ser Vilio pellicciaio da Serravalle, chiede pertanto di poter
restare in casa degli sposi per cinque anni, aiutando e senza intromettersi nella gestione.
Il 14.06.1584 (ASTV Not. I, b. 969) egli e la madre s'accordano col chirurgo Matio fu
Zuane delle Moneghe da Serravalle “di far parentella”e Matio promette di sposare sua
sorella Antonia; segue l'8.09.1584 (ivi) l’ inventario dei beni mobili della dote, per un totale di £ 930, di cui 546 in contanti.
Citato spesso fra i consiglieri di Ceneda nel ruolo dei popolari, alla sua bottega si
serviva di cere la cattedrale perlomeno dal 1600 (ADVV Massaria) e la chiesa dei Battuti
dal 1587 (ADVV Meschio, Massaria). Nel 1608 risulta proprietario della casa da coppi
con orto e cortile dove abita (ASVV C b. 92) e il 20.12.1633 (ASTV Not. I, b. 1115, not.
146
Stringari) assieme al figlio Michele dà procura per una lite a Venezia contro Isdraele Coneian.
Antonio da Salsa fu sepolto il 2.05.1637 e Ceneda furono battezzati i suoi figli
Vincenza Lucia il 28.01.1582, Felicita il 21.03.1585, Bonaventura il 19.07.1587, Marco
il 16.07.1590, Iulia il 4.10.1592, Isabetta il 23.10.1594, Michiel il 13.10.1599 e il
19.03.1605 Iseppo (AP C anagrafi). Il 1.05.1589 (ASTV Not. I, b. 971) viene rogata la
sentenza arbitrale che divide i beni dei fratelli Antonio e Francesco, fatte salve le doti
della madre Maura e delle sorelle Bona (cui va un supplemento dotale di £ 372) e Ursina
(cui va una dote di £ 710:14); nell'inventario sono comprese “robe da depentori de diverse sorte”, fra gli altri è arbitro il cognato Matio delle Moneghe. I beni restituiti alla madre Maura sono ancora elencati nell’atto notarile il 23.06.1591 e il 22.08.1592 (ivi, bb.
971, 972), all'ultima data per un totale di £ 1005 e vi è compreso molto materiale da farmacia; la signora fece poi testamento il 23.04.1598 (ASTV Not. I, b. 1198) chiedendo di
essere sepolta in cattedrale nel sepolcro della famiglia, lasciò 10 ducati alla figlia Antonia, sposata con il chirurgo Matio delle Moneghe da Serravalle, ducati tre cadauno ai nipoti Pietro, Michiel e Zuane (figli di suo figlio Domenego), ducati 5 al nipote Giulio (figlio di suo figlio Antonio) ed altri 5 al figlio Antonio, erede universale l'altro figlio Francesco. Sono documentati anche alcuni matrimoni dei figli; la figlia Lucia si sposò il
29.11.1603 con Piero Callisto fu Zambatta, suo figlio Ventura il 2.02.1609 con Margarita
fu Alessandro Artico, sua figlia Giulia il 21.04.1617 con il cartaio m° Daniele fu Iacobo
Bressanino da Salò. Sua moglie Bona fu sepolta il 14.10.1624 (AP C, anagrafi).
34. Salsa (da - ) Francesco 1583-1614
Figlio di Giulio e fratello del soprastante Antonio, dapprima aromatario col fratello il 27.06.1583 (ASTV Not. I, b. 969), poi anche chirurgo sino al 1588 (ivi, bb. 970971), attestato poi solo come chirurgo il 9.05.1614 (ivi, b. 1120), e più volte doc. nel
1608-13 (ivi, bb. 1175-1176). Il 12.01.1588 (ASTV Not. I, b. 971) m° Orazio della Zana
e suo figlio Zuane Federico affermano che m° Francesco chirurgo prestitisse medellam
Ioanni Francisco qui ob lapsu casu e monte Crus sibi fregit et pedem de quo ad presente
claudi et magister Franciscus dedit unguentum et medicinas. Essendo poveri non possono pagarlo e quindi chiedono che le £ 77 tenute da Francesco Speziari per una vendita
siano loro restituite per poter pagare la parcella; ogni tanto venne chiamato anche all’ospedale di Meschio dal 1590 per curare i degenti (ADVV Meschio, Massaria). Ebbe anche un incarico amministrativo poiché è citato spesso fra i consiglieri di Ceneda nel ruolo dei popolari.
Sua moglie Ursina è doc. il 27.08.1594 (ASTV Not. I, b. 972), il figlio Francesco
fu battezzato il 21.02.1587, poi Maria il 26.01.1589, Maura il 27.01.1591, Domenego il
2.01.1594 (chierico, così il 9.12.1613 e poi come suddiacono il 22.3.1616 in ASTV Not.
I, b. 1176), Iseppo il 21.02.1596, Lugretia il 18.10.1600, Giulio Bernardino il
24.03.1602, Zuane il 6.03.1605 e Franceschina il 14.04.1607; una figlia Franceschina fu
sepolta il 12.05.1601 (AP C anagrafi).
Sanfior, nobile famiglia serravallese.
35. Sanfior Carlo 1586-1623
Aromatario a Serravalle, negli anni 1586-87 provvide le candele e nel 1596-1623
la cera per le chiese plebane, per un importo annuale medio di £ 400-650 (BCVV S bb.
596, 598). Fornì anche il monastero di S. Girolamo nel 1591-1623, (ASTV CRS S. Girolamo b. 4), e quello di S. Giustina dal 1598, dove nel 1605 era monaca anche la figlia
Andriana (ivi, S. Giustina b. 9).
147
Sposato con Camilla, il 17.11.1592 fu battezzato il loro figlio Silvestro, cui seguirono Marietta il 7.09.1595, Dionisio il 22.05.1599, Camilla il 7.07.1603 (AP S,
anagrafi).
36. Sanfior Giovanni Battista 1593-1647
Figlio del soprastante Carlo, fu battezzato il 27.07.1593 (AP S anagrafi), aromatario ed erede del padre, a partire dal 1627 provvide di cera le chiese cittadine (ASVV S b.
598), e anche il monastero di santa Giustina che nel 1644-47 è suo debitore per £ 1270
(ASTV CRS, S. Giustina b. 5) e il convento di san Francesco nel 1628 (ivi, S. Francesco
di Conegliano b. 13)
37. Sardo Gabriele, aromatario a Serravalle citato il 30.06.1579 (ASTV Not. I,
b. 1025); "sardo" rifletterà forse la provenienza.
38. “Schip” Nicolò 1506-57
Si tratta di Nicolò fu Bortolo dalla Porta, aromatario a Serravalle nel borgo superiore, in questo caso “Schip” è soprannome. Non è nota la parentela ma va ricordato che
una famiglia Dalla Porta da Portogruaro è citata a Serravalle nel primo Cinquecento.
Mastro Nicolò è doc. dal 10.06.1506 (ASTV Not. I, b. 272), poi negli anni dal 1514-43
(ivi, b. 451), il 30.10.1545 (BCVV S b. 94), e il 1.12.1546 (ASTV Not. I, b. 468). Egli
provvedeva di cere, olio, candele e piombo le chiese cittadine, così nel 1523-48 (BCVV
S b. 593) e anche il monastero di san Girolamo nel 1543-57; il 15.12.1534 (ADVV b.
27) il vicario vescovile ingiunse a Barbara badessa di santa Giustina a Serravalle di pagarlo per le medicine fornite. Nel convento di S. Giustina il 1.04.1557 mise la figlia
Margarita (ASTV CRS, S. Girolamo b. 4).
E’ già morto il 24.01.1551 (ASTV Not. I, b. 532), la sua vedova è doc. il 28.01.1560 (ivi,
b. 666) e come Andriana “aromataria” nel 1564 (ASTV Not. I, b. 772, fasc. stride). Il
26.02.1562 (ivi, b. 863, f. sciolto) un atto viene rogato nella bottega dei suoi eredi. Il
30.09.1586 (ASTV Not. I, b. 1358) viene dettato al notaio il testamento di Eva fu Nicolò
dalla Porta speziale, moglie di ser Nicolò Cesana, dando istruzioni per essere sepolta nella chiesa di san Giovanni Battista nel sepolcro del figlio Bortolamio e lascia erede il nipote Bonacorso, figlio di Bortolamio.
Nel 1537 (BCVV S b. 162) si ricorda donna Cecilia da Salzan che sta con m° Nicolò
“Schip”. Un m° Nicolò “de Bassiano” aromatario a Serravalle è doc. 11.06.1529,
4.05.1530 (ASTV Not. I, b. 532).
39. Seroto Gabriele 1559-84
148
Aromatario a S. Cassiano doc. il 29.04.1559 (ASTV Not. I, b. 637) e poi a Ceneda dove il 5.04.1570 (ASTV Not. I, b. 864) prende in affitto da Fabrizio fu Francesco
Breda una casa a Ceneda “da quelli de Lisot” per 6 ducati annui; presente il 3.03.1571
(ASTV Not. I, b. 965). Successivamente m° Gabriele passò a Serravalle, dove è ricordato per una causa con un cordignanese nell’agosto 1582-giugno 1584 (ASTV pod. Cordignano b. 139). Il 28.07.1567 (AP C anagrafi) fu battezzato “Rugier Zamaria de m° Gabriel Sarotto spicier in Ceneda e Orseta”.
40. Seroto Virgilio 1582-90
Aromatario a Serravalle dove è doc. il 16.10.1582 (ASTV Not. I, b. 1001) e il
5.11.1590 (ivi, b. 971).
41. Sgualdis (de - ) Domenico 1557-91
Alias de Topo, de Svaldis, figlio di Valido, Sgualdo, Svaldo cioè Osvaldo, proveniente da Toppo (PN) e ora aromatario a Ceneda, provvedeva di cere e olio la cattedrale
(ADVV Massaria). Documentato come aromatario fra l'11.07.1557 (ASTV Not. I, b.
569) e il 14.08.1582 (ivi, b. 1119), e ancora il 5.06.1591 (ivi, b. 971). Attestato dagli anni
settanta ma non sempre come aromatario, il 26.05.1570 (ASTV Not. I, b. 964) vende a
donna Zuana relitta di Bortolamio Lovera nobile udinese una casa a S. Fris e terre a S.
Rocco per ducati 108.
Sposato con Paola fu battezzata la loro figlia Benedetta Elisabetta il 2.03.1564,
sposato con Silvia il 10.02.1574 fu battezzato il loro figlio Teodoro cui seguirono il
1.06.1575 Valentino, il 15.04.1579 Rosanna, il 13.10.1580 Lavinia, il 17.12.1583 Lucio,
il 3.08.1585 Alessandro Annibale, il 14.03.1587 Valerio (tutto da APC anagrafi); suo figlio Sgualdo ebbe la prima tonsura il 30.12.1583 (Della Coletta, Tomasi 2006).
42. Simone da Anfagne, speziale a Ceneda doc. il 8.07.1453 (ASTV CRS, S.
Maria Meschio b. 4).
Speziari, de Spetiariis, de Aromatariis, Spicier, famiglia il cui cognome deriva
dal mestiere. Originari da Scomigo con pre Bortolo, trasferitisi a Ceneda nella prima
metà del Quattrocento e quindi divenuti notabili. In Ceneda essi tenevano una bottega
gestita da Gregorio , Sebastiano e fratelli, dove si serviva anche la cattedrale nel primo
Cinquecento (ADVV Massaria). Forse era loro la bottega detta “Aromataria” posta sopra
la piazza di Ceneda, affittata ad Antonio Parmesan.
43. Speziali Geronimo, fornì di cera e generi vari la cattedrale perlomeno nel
1495-1510 (ADVV Massaria).
44. Speziari Nicolò 1443-76
149
Figlio di pre Bartolomeo da Scomigo, doc. nel 1443-76, alla sua bottega si serviva di cere la cattedrale e tenne il dazio vescovile in città nel 1454-59 (Tomasi 1998 II, p.
378, ADVV Massaria, e b. 59/2, 3). Sua moglie Caterina è proprietaria di terra il
26.12.1467 (ASTV Not. I, b. 282, not. Crobato). Suo figlio Antonino sposò Peregrina figlia di m° Simone fabbro da Ceneda ed il contratto dotale per £ 216:4 fu rogato il
29.04.1455 (AMVC b. 2, fasc. 13).
45. Spreviero Ferrante 1569-93
Figlio di m° Nuzzo da Gallipoli in terra d'Otranto; a Conegliano fu garzone dell’aromatario Antonio Monachini col quale entrò in lite il 16.02.1570 (AMVC b. 51, fasc.
167) per il suo salario e per un prestito al padrone come da scritto del 5.12.1569; per arbitrato fu deciso che m° Antonio doveva pagare al Ferrante suo garzone £ 83 entro aprile
1571. Passò poi temporaneamente a Ceneda, per poi trasferirsi a Serravalle dove affittò
una casa il 18 aprile 1572 (ASTV Not. I, b. 1127). Il 19.03.1578 (ivi) affitta per cinque
anni da Nicolò Cesana la bottega di spezieria con i vasi e gli strumenti in essa presenti
per £ 70 l'anno, nel contratto è previsto che a Nicolò e alla sua famiglia resta il diritto di
avere medicine per due scudi l'anno.
Provvide di medicinali il monastero di san Girolamo nel 1573-87 (ASTV CRS, S.
Girolamo b. 4). Il 2.06.1590 (ASTV Not. I, b. 1027) Pietro Sicco s'accorda con m° Ferrante perché quest'ultimo possa terminare l'affitto della bottega. Egli risulta ancora aromatario e nel settembre 1593 (ivi b. 1027) vende 60 pecore per £ 200 e poi altre 10.
Ferrante sposò il 13.12.1572 (AP C anagrafi) la vedova Leoncina figlia del defunto Gregorio Sanfior, la quale il 16.10.1582 (ASTV Not. I, b. 1001) fece testamento e volle essere sepolta nella chiesa di Bigonzo nel monumento dei genitori, lasciando 6 ducati
cadauna alle figlie del primo matrimonio: Margareta moglie di Zanuto Varnier e Isabetta
sposata con Zaccaria Gambaldi da Bergamo, il resto andrà all'amato marito. Quest'ultimo
poi si risposò e infatti il 10.09.1585 fu battezzata Elisabetta Leoncina di m° Ferrante e
Andriana (AP S Anagrafi).
46. Tomasi Giorgio 1513-24.
Figlio di ser Tomaso de Thomasiis da Venezia, abitante a Caneva dove è documentato, non come aromatario, dal 1513 al 1516; si trasferì poi a S. Cassiano dove aveva
un’aromataria, doc. fra il 18.11.1519 e il 29.08.1524 (ASTV Not. I, b. 399, passim). Suo
figlio Nicolò si trasferì a Serravalle dov’è presente perlomeno nel 1524-43 (ivi, b. 451) e
dove la famiglia espresse notai e preti ed entrò nel Consiglio.
CHIRURGHI e BARBIERI
In dialetto antico chirurgo è “ciròico, ciròlego, cirùsego” e
qualche volta è usato anche come sinonimo barbiere (in latino chirurgus,
150
barbitonsor, tonsor). Il mestiere di chirurgo o cerusico non prevedeva la
laurea, questo professionista si occupava della chirurgia minore cioè salassi, ferite lavate e suture, applicazione di sanguisughe e “cavar denti”, a
Serravalle è documentata anche l'applicazione di ventose e l’aiuto in casi
di “squilence” ovvero angine, laringiti e tonsilliti.
Dal 1517 i chirurghi a Serravalle hanno la condotta documentata e dall’inizio del Seicento in città operano due professionisti; condotte
vi erano pure a Ceneda, S. Cassiano e Valmareno.
A Ceneda sono state trovate due sole condotte, riferite ai chirurghi Geronimo Panza e Michele Orlandi, ci sono comunque almeno due
nuclei famigliari di chirurghi e barbieri operanti nel territorio: i Bertucci
che esercitavano in piazza nella loro bottega e i Panza.
A Serravalle le famiglie che espressero più mastri con questa
specialità erano i da Zante, i Delle Moneghe, la famiglia Iusto, e i Salce,
tutte di origine straniera; a Cordignano gli Agrizzi da Pinidello, i da Brescia e i Tibertino, e a Silvella i de Barbitonsoribus. In totale si contano 50
chirurghi e 58 barbieri.
CHIRURGHI A SERRAVALLE
CHIRURGHI A CENEDA
Honesio da Corbanese
1348-90
Nicolò da Cadore
1395-1437
Giovanni
ante 1451
Paolo
1442
Michele da Trento
1449
Iacobo da Alessandria 1478-83
Agostino del Zane
1492
Iacobo
1496
Salzis Giuliano
1517-24
Salzis Paolo
1528-33
Giovanni spagnolo
1533-34
Francesco romano
1579-80
Panza Pasqualino
1596-1624
Francesco da Candia
1622-23
Mazzer Andrea
1623-28
Maddalena Giovanni
1629-34
Daniele da Padova
Iacopo da Valenza
Panza Antonio
Panza Geronimo
Bartolomeo veronese
Mampitolo Giovanni
Orlandi Melchiorre
1465-68
1478
1479-1509
1511-1514
1533
1584-1612
1616-1620
CHIRURGHI NEL CONTA’
DI S. CASSIANO
Agrizzi G. Pietro
1502-1517
Agrizzi Bernardino 1517-1539
Brescia (da-) Angelo
1504
Brescia (da-) Domenico
1509
Tibertino Antonio
1520-1552
Tiberto
1528
Novellis (de -) Cosmo
1531
Pasqualino da Fornaci
1590
Monachino Alessandro
1592
Angeli Giovanni A.
1605
151
1. Agostino del Zane, chirurgo a Serravalle citato nel 1492 (Tomasi 2002, p. 18,
da ASTV Not. I, b. 272).
Agrizzi, de Agritio, famiglia di chirurghi originaria di Pinidello. Il mestiere di
chirurgo fu professato ancora successivamente, infatti il 23.03.1671 (ASTV pod. Cordignano, b. 48) Pellegrino Agrizzo chirurgo di S. Cassiano testimonia di aver medicato una
ferita.
2. Agrizzi Bernardino, 1517-39
Tutte le documentazioni che lo riguardano sono tratte da ASTV Not. I, b. 399.
Egli era chirurgo, figlio di m° Pietro e citato insieme al padre e al fratello Batta il
4.08.1517. Il 2.07.1521 Maria fu Iacobo “Mamaluco” dà procura al marito m° Bernardino; successivamente, in data 25.09.1521, il defunto Iacobo “Mamaluco” viene ricordato
per questioni ereditarie dal fratello Leonardo del fu Tomaso Farussi da Malnisio del Friuli. Il 10.02.1527 Iacobo fu Benedetto della Brigida da Silvella accetta di pagare £ 20:16 a
m° Bernardino che lo medicò di una ferita, parte il giorno di san Giacomo e parte al
“mercato dei roveri” del 1528, al tempo fu teste e perito m° Batta chirurgo da Ronchi di
Sacile. Mastro Bernardino fece testamento il 23.05.1539 ordinando di essere sepolto a S.
Cassiano dove erano i suoi morti, lasciando alla chiesa una terra per pagare in eterno tre
messe l’anno, usufruttuaria la moglie Catterina, erede per metà il fratello m° Andrea e il
nipote Pietro del defunto Batta, altro suo fratello; era ancora vivo il 28.07.1539.
3. Agrizzi Giovanni Pietro, 1502-17
Chirurgo a Pinidello, sua figlia Lucia è doc. insieme al padre il 4.05.1502; sono
ricordati anche gli altri suoi figli, cioè m° Bernardino chirurgo, m° Odorico cerdone, Andrea e Batta (ASTV Not. I, b. 399).
4. Angeli Giovanni Antonio, chirurgo a Cordignano che il 2.08.1605 (ASTV
pod. Cordignano, b. 25) dichiara d’aver medicato una ferita di coltello inferta dietro le
spalle ad Antonio Salatini.
5. Angelo da Venezia (Cumanus) il 16.05.1496 (ASTV pod. Cordignano, b. 59)
dichiara in tribunale d’aver medicato Matteo detto Mattarella da Ponte, più volte ferito e
quindi morto.
6. Bartolomeo, veronese e chirurgo a Ceneda doc. il 20.01.1533 (ASTV Not. I, b.
395).
7. Bartolomeo, “ciroico” da Mel è in Valmareno nel luglio 1579 (ASTV pod. Cison, b. 45).
- Bella (della - ) Giuseppe, speziale e chirurgo a Cison nel 1616 (vedi aromatari).
Bertucci, de Bertuciis (de - ), Bartucci, de Asula, famiglia di barbieri o chirurghi, proveniente da Asola (oggi in provincia di Mantova ma nel 1440-1797 nel Bresciano
e quindi nello Stato Veneto), presenti a Ceneda dalla fine del Quattrocento. Per i barbieri
152
vedi qui sotto. Nello stesso periodo è presente anche una famiglia Bertucci da Salsa, non
imparentata con questi.
8. Bertucci Giovanni (Ceneda 1510-1588)
Figlio di Lorenzo, battezzato il 13.05.1510 (ADVV C, anagrafi) e documentato
già il 20.03.1526 (ASTV Not. I, b. 568). Fu chirurgo salariato dalla Comunità perlomeno
nel 1568-73 (ASVV C, b. 82), fece una richiesta senza data al Consiglio affinché gli fosse confermata la condotta (ivi, b. 67).
Il 7.08.1549 (ASTV Not. I, b.576) vi è una composizione di lite, infatti fa la pace con Zanino Polenta, cui suo figlio Lorenzo - minorenne - aveva ferito il figlio con un colpo di
pietra in testa e che era morto tre giorni dopo.
Il 9.08.1550 (ivi) m° Giovanni e il fratello Giandonato fu m° Lorenzo vendettero ad Antonio fu Pietro Parmesan da Serravalle ma abitante a Venezia la bottega “ditta la Barbaria” in casa loro presso la piazza per ducati 29, subito dopo a loro riaffittata. Il 9.04.1577
(ASTV Not. I, b. 1211) fu emanata una sentenza riguardante una rissa con spargimento
di sangue avvenuta a Corbanese nel 1575, la parte lesa portò fra le richieste di indennizzo anche le £ 7:4 pagato a m° Giovanni chirurgo che prestò la sua opera per le cure del
caso; nel 1578 medicò una donna ferita degente all’ospedale di Meschio (ADVV Meschio, Massaria).
La prima moglie era Iacoba fu Antonio Boloto da Tarzo, con la quale risulta sposato
(così 1.12.1558 in ASTV Not. I, b. 569) e sono noti i figli m° Giulio 10.09.1560 (ivi, b.
664) e m° Lorenzo citato in questa scheda. Il 17.04.1575 (AP C, anagrafi) si sposò con
Gaspara, vedova di Bastiano d'Arlant, e nell’atto dichiara 75 anni compiuti (in effetti ne
aveva quasi 65), come anche la moglie.
Il 7.06.1582 viene steso il contratto dotale di Ursula fu Sebastiano de Arlant, sorella del
chirurgo Melchiorre Orlandis (vedi) e sua figliastra, che sposa Francesco de Moris teutonico abitante a Ceneda, la dote di £ 363:4 viene pagata da Zuane barbiere fu m° Lorenzo
Bartucci che la tenne in casa ab incunabolis. Poco dopo, il 12.06.1582 (ASTV Not. I, b.
968) m° Giovanni fa testamento, lasciando usufruttuaria la moglie in secondi voti Gaspara, cui lascia anche ducati 25, e donando a Melchiorre barbiere figlio di Gaspara “un secchiel da barbier, uno bacino, fazuoli, rasori et cariega pertinenti alla barberia”, erede universale suo figlio Lorenzo. Morì probabilmente nella primavera del 1588.
Il 9.06.1588 (ivi, b. 970) infatti il figlio ed erede m° Lorenzo redige l'inventario del defunto m° Zuane Bertucci e a sua volta fece testamento il 17.04.1605 (ivi, b. 1032) e fu
poi sepolto il 26.06.1615 (AP C, Anagrafi).
Brescia (da -) famiglia di chirurghi attivi sul confine veneto-friulano nella zona
di Cordignano. Potrebbero discendere da m° Antonio fu Giovanni Battista Montanino da
Brescia tonsore abitante a Villa di Villa ricordato il 4.8.1494 (ASTV pod. Cordign., b. 48).
153
9. Brescia (da -) Angelo, “chirubico” presente a Cordignano il 23.12.1504
(ASTV Not. I, b. 455).
10. Brescia (da -) Batta, figlio del fu Leonardo e chirurgo a Ronche di Sacile,
agisce anche a nome del fratello m° Angelo il 13.04.1526 (ASTV Not. I, b. 455), fu teste
di un pagamento avvenuto nel 1528.
11. Brescia (da -) Domenico, “cirubico” a Cordignano attestato il 27.05.1509
(ASTV Not. I, b. 455).
12. Daniele da Padova 1465-68
Personaggio sempre citato come “cirogulo”, ovvero chirurgo, a Ceneda dove è presente
il 12.02.1465 (ASTV Not. I, b. 282, not. Crobato), nel marzo 1466 (ADVV, b. 1) e il
24.04.1468 (ASTV Not. I, b. 271). Questa è’ la più antica attestazione per l’ arte della
chirurgia a Ceneda.
13. Eugeri Francesco da Candia 1595-m. 1623
Barbiere, noto anche come Francesco da Candia, era figlio di m° Zorzi Eugeri; la
sua prima attestazione è il 6.02.1595 quando si sposò a Serravalle con Cassandra di m°
Tiziano del Buia, negli anni seguenti fu battezzata la loro figlia Elisabetta il 26.10.1598,
e ancora fu teste di matrimonio il 23.09.1600 (AP S, anagrafi). In concorso con il collega
Andrea Mazzer chiese la condotta chirurgica al Consiglio di Serravalle il 31.03.1621 e fu
scelto il 9.01.1622 assieme all’anziano Pasqualino Panza (ASVV S, b. 107).
Morì nel gennaio del 1623 (BCVV S 107, 108) e la sua vedova Cassandra fu sepolta il 14.02.1632 (AP S, anagrafi).
14. Francesco Romano, chirurgo che ebbe la condotta annuale a Serravalle a partire dal 9.09.1579 con stipendio di £ 25 (ASVV S, b. 99).
15. Gaspare, chirurgo di Treviso, è doc. a Serravalle il 29.08.1543 (ASTV Not. I,
b. 462).
16. Gaspare, fu pagato per una prestazione chirurgica a S. Cassiano il 2.06.1621
(ASTV Not. I, b. 1528, Processi)
17. Giandonato, barbiere o chirurgo a Ceneda, teste a un matrimonio come Zandonà de Claudio chirurgo figlio di m° Geronimo. Di lui è nota una figlia, Antonia che il
27.06.1583 si sposò con Zanbatta fu m° Guecelono Ghisi (AP C, anagrafi).
18. Giovanni, chirurgo a Serravalle, la cui vedova Floridia risulta proprietaria di
terre a Fregona il 3.11.1451 (AMVC, b. 56, ultimo fascicolo, processo del 1576).
19. Giovanni da Ceneda, figlio di Guarino (e quindi della famiglia Guerin), chirurgo abitante a Fossalta nel distretto di Portogruaro, che il 5.08.1514 (ASTV Not. I, b.
653) compra una casa coperta a paglia a Fossalta in località Brunella presso il lago per
ducati 5 ½.
20. Giovanni spagnolo, dottore in chirurgia, chirurgo salariato a Serravalle dove
è doc. dal novembre 1533, poi licenziato dal Consiglio il 21.03.1534 (ASVV S, b. 93). Si
tratta dell’unico chirurgo laureato rinvenuto in questa ricerca.
21. Honesius da Corbanese 1348-90
Figlio di Gabriele, “ciroicus” abitante a Serravalle dove è presente nel periodo
1348-90, all’interno di questi estremi datali è attestato nel 1385 come massaro dei Battuti
e nel 1377 come gastaldo (ASVV S, bb. 624, 625). E’ il più antico chirurgo emerso dagli
archivi consultati per Serravalle.
22. Iacopo da Alessandria 1478-83
Abitante a Serravalle e qui documentato nelle seguenti date: 2.11.1478,
19.03.1483, 25.07.1483, 10.09.1483 (ASTV Not. I, b. 271). Questo chirurgo potrebbe essere la stessa persona del seguente e coevo m° Iacopo da Valenza, va tenuto presente in154
fatti che Valenza Po è a 14 km da Alessandria, inoltre potrebbe lui anche l’attestazione
quel m° Iacobo tonsor doc. a Serravalle il 7.03.1496 (ivi, b. 334)
23. Iacopo da Valenza 1474-95
Da Valenza di Lombardia, chirurgo abitante a Ceneda è ricordato il 22.03.1478
(ASTV Not. I, b. 329) e il 7.07.1478 (ADVV, b. 118); Iacopo da Valenza è citato a Cordignano il 13.05.1495 e forse si tratta di mastro Iacobo barbiere abitante a Villa di Villa
il 4.08.1494, Iacobo barbiere da Pinè nell’aprile 1495 (ASTV pod. Cordignano, b. 48) e
Iacopo (Brisioli ?) tonsore abitante a Pinè nel febbraio 1494 (ivi, b. 95) e novembre 1491
(ivi, b. 125), Iacopo tonsore il 15.02.1492 (ivi, b. 96), Iacobo barbiere nel 1474 (ivi, b.
130). De la Valenza è “cognome” di S. Cassiano dove è documentato dal 1465 circa.
Un omonimo è presente negli stessi anni in Serravalle, si tratta del celebre pittore
Iacopo da Valenza.
24. Janes (de -) Simone, viene da Tolmezzo ma è un chirurgo salariato in Cadore,
ed è presente a Serravalle il 21.04.1551 (ASTV Not. I, b. 532).
25. Lissotti Gasparo, chirurgo da Sacile, medicò un ferito grave di Pinidello nell’agosto 1620 (ASTV pod. Cordignano, b. 157).
26. Maddalena Giovanni Andrea 1624-47
Figlio di Giorgio, il 28.04.1624 si offrì come chirurgo al Consiglio dopo la morte
di m° Pasqualino Panza, ricordando di aver esercitato per molti anni a Venezia; fu chirurgo condotto a Serravalle nel periodo 1629-34 (ASVV S, b. 598) ma nel 1644-47 è detto
“fisico” ossia medico (ASTV CRS, S. Giustina b. 5).
27. Mampitolo (de -) Giovanni 1584-m. 1612
Figlio di Giovanni Maria, barbiere e cerusico a Ceneda, il 10.02.1584 (ASTV
Not. I, b. 1030) viene redatto il contratto dotale con Apollonia di Nicolò ab Acquis, per £
290:19. Fu sepolto il 25.04.1612 (AP C, anagrafi). I suoi figli furono battezzati il
26.02.1584 Giovanni Maria, il 16.02.1585 Rocco, l’1.05.1586 Maria (ivi).
La famiglia Mampitolo è doc. dal 11.05.1531 (BSVV 12B52) con Antonio detto
“Mampitol” fu Franchino “de Canderano” [Calderano, TV] ma abitante a Ceneda.
28. Mazzer (del -) Andrea 1611-28
Barbiere e chirurgo a Serravalle, dove fu redatto il 29.10.1611 (ASTV Not. I, b.
1358) il contratto dotale con Antonia figlia del falegname Tiziano da Feltre per £ 650. Fu
chirurgo condotto in città, chiese la condotta il 9.01.1622 ma gli fu preferito m° Francesco Eugeris, dopo la morte di costui si offrì ancora in data 6.01.1623 e fu poi accettato il
16.06.1624 (ASVV S, bb. 107, 108); resta documentazione dei pagamenti effettuati dalla
Luminaria cittadina nel 1626-28 (ivi, b. 598).
29. Mazzer (del -) Giovanni Battista, chirurgo a Serravalle dove sua moglie Antonia entrò nella Scuola dei Battuti nell’aprile 1632 (ASVV S, b. 650).
30. Michele da Trento, era chirurgo a Serravalle documentato nel 1449 (Tomasi
2002, p. 70, da ADVV 97).
31. Monachino Alessandro, chirurgo a Cordignano nel 1592 (Bartolini).
32. Natale “dela Crea” 1577-91
Originario da Pordenone, chirurgo a Serravalle dove talvolta è attestato come barbiere o speziale, la sua prima documentazione è il 3.08.1577 (ASTV Not. I, b. 1127). In
Serravalle furono battezzati i figli: della prima moglie Caterina, così Marietta il 5.1.1579,
e della seconda, Isabetta, il 19.11.1585 fu battezzato Giovanni Ippolito figlio di m° Nadal da Sacile speziale, il 13.03.1589 Gian Batta e l’ 8.4.1591 Geronima (AP S, anagrafi).
33. Nicolò da Cadore 1395-1437
155
Chirurgo a Serravalle nel 1395 (Tomasi 2002, p. 58, da ADVV b. 16), citato anche nel 1424 perché sostituì il collega Salcis Iacobo, e ancora citato il 23.07.1437
(AMVC, b. 1, fasc. 7). Mastro Nicolò non fu sempre a Serravalle, da novembre 1427
sino al 1429 infatti fu per un biennio chirurgo salariato a Conegliano (AMVC bb. 395
[fasc. 6], 396 [fasc. 7]). Forse era suo figlio pre Odorico citato a Serravalle nel 1441-65
(Tomasi 1998, II p. 323).
34. Novellis (de -) Cosmo, figlio di Simone da Venezia, chirurgo a S. Cassiano il
9.09.1531 (ASTV Not. I, b. 399).
35. Orlandis (de -) Melchiorre 1580-m. 1624
Alias m° Melchiorre fu Bastiano “de Arlant” la cui prima attestazione è
l’8.02.1580 (ASTV Not. I, b. 1119); era figlio di Sebastiano da Confin e di Gaspara, la
quale il 17.04.1575 (AP C, anagrafi) sposò in secondi voti il chirurgo m° Giovanni Bertucci, che divenne quindi patrigno di Melchiorre, cui lasciò gli strumenti da barbiere. Fu
chirurgo a Ceneda documentato nel periodo 1595-1616 (ASTV Not. I, bb. 1175-1176), si
sposò il 4.01.1585 (AP C, anagrafi) con Osta di ser Piero dalle Acque detto “Bortos” e il
22.07.1605 (ASTV Not. I, b. 1175) fu redatto il contratto dotale. Il 18.03.1613 (ivi, b.
1176) a casa sua fece testamento pre Cesare Cordes veneto, parroco di S. Vendemiano.
Egli fu consigliere di Ceneda nel ruolo dei popolari. Il 19.06.1616 chiese la condotta chirurgica a Ceneda stante la mancanza del medico condotto ed il Consiglio accettò ma il
28.05.1620 fu deliberato di togliergli lo stipendio annuo di £ 100 (ASVV C, b. 63). Mastro Melchiorre fu sepolto il 28.09.1624 (AP C, anagrafi).
Ebbe dei figli di cui riportiamo le date di battesimo: il 19.08.1590 Lorenzo, il
7.02.1593 Giovanni, il 15.05.1595 Nereo, il 29.02.1600 Maria (AP C, anagrafi). Sua figlia Maddalena si sposò il 9.08.1611 (AP C, anagrafi) con Iseppo Massoti abitante a S.
Vendemiano.
Panza, famiglia di chirurghi attivi sia a Ceneda che a Serravalle, il cui capostipite
arrivò dalla Campania nella seconda metà del Quattrocento.
156
36. Panza Antonio 1479-1509
Era da Buccino (Provincia di Salerno), chirurgo a Ceneda dove è citato dal
30.06.1479 (ASTV Not. I, b. 329) e dove sua moglie Grazia è doc. il 5.05.1509 (ivi, b.
395). Il figlio Geronimo fu chirurgo; un altro figlio, pre Iacobo, ebbe la prima tonsura il
15.03.1494.
37. Panza Geronimo 1511-50
Figlio di m° Antonio, chirurgo a Ceneda documentato nel periodo 1511-14
(ASTV Not. I, b. 395) e poi più volte, senza qualifica sino al 1527 (ivi, b. 401) e poi ancora il 21.03.1550 (ivi, b. 642). Forse a lui si riferisce il pagamento effettuato nel gennaio 1523 (ADVV, Massaria) “dati a Noni Panza per mezo ano che so fiolo fu zago”.
38. Panza Pasqualino 1582-m. 1624
Figlio di m° Francesco, fu chirurgo attivo a Serravalle dove è presente il 19.11.
1582 (ASTV Not. I, b. 863), poi chirurgo condotto in città perlomeno nell’intervallo
temporale 1596-1624 (ASVV S, b. 598), chiese al Consiglio la ricondotta ancora il 2.7.
1621 e fu scelto poi il 9.01.1622. Morì poi nella primavera del 1624 (ivi S, bb. 107, 108).
È il Pasqualino barbiere di cui il 19.01.1592 viene battezzata la figlia Apollonia,
avuta dalla moglie Salatina, cui seguirono Francesco Antonio il 24.01.1596, Angela il
20.10.1598, Francesco il 18.03.1601. Sua figlia Daniela morì poi il 10.03.1630 (tutto da
AP S, anagrafi). La seconda moglie Fior entrò nei Battuti nel 1604 (ASVV S, b. 650.4).
39. Paolo, “cerebrigus” a Serravalle, citato un’unica volta il 2.07.1442 (ASVV S,
b. 626).
40. Pasqualino, chirurgo a Cordignano nel 1590 (Bartolini), forse si tratta di m°
Pasqualino dalle Fornaci “cirogolo” che è compare a Serravalle il 2.12.1590 (AP S, anagrafi).
41. Ponte Antonio chirurgo a Serravalle dove il 21.11.1593 (AP S, anagrafi) viene battezzato suo figlio Aurelio, avuto dalla moglie Caterina.
42. Rossi Giuseppe 1579-97
Figlio di ser Luca da Mel, spesso citato come “de Rubeis”, era chirurgo e presente a Miane il 25.02.1589 (ASTV Not., b. 1117). Il 24.05.1587 (ASTV pod. Cison, b. 51)
porta in giudizio Pietro de Meneghin da Miane che gli deve 10 ducati perché egli lo curò
per una grave ferita al capo sopra l’orecchia sinistra. Iseppo de Rossi “ciroico” in Valmareno è citato più volte nel 1584-88 (ivi, b. 29). Si tratta di Rossi Giuseppe che fu chirurgo condotto a Mel nel 1579-97 (Bartolini), forse pronipote del pittore Antonio Rosso.
- Salsa (da -) Francesco 1583-1614, fu dapprima aromatario (vd.) e poi chirurgo.
43. Salsa (da - ) Marco, chirurgo a Ceneda che il 23.07.1632 (ASTV pod. Ceneda, b. 168) dichiara di aver medicato e dato 12 punti di sutura a Giovanni de Zanco ferito
di taglio in faccia per la lunghezza di una quarta dall’arcata destra al mento. Il feritore
era il figlio Domenico, poi bandito.
Salce, Salzis (de -), famiglia di chirurghi proveniente da Salce presso Belluno da
dove prende il cognome, la famiglia è attestata a Belluno, Sacile, Serravalle e Valmareno. Va ricordato che già l’ 1.12.1473 (ASTV Not. I, b. 271) Nicolò fu Giovanni da Valmareno e Giovanni Iacobo da Salce fu Giovanni Pietro con tutti i loro fratelli e consorti
furono beneficati nel testamento del defunto Gregorio Piloni da Belluno, che fece lasciti
di terre in Valmareno e a Belluno alla moglie Nicoletta e al nipote Nicolò da Valmareno.
Si tratta di una bella ed ben rappresentata dinastia di chirurghi, attiva con continuità nei secoli XV-XVI non solo a Belluno, dove sono citati sino alla fine del secolo e il
cui capostipite potrebbe essere m° Gregorio da Salce marangone abitante a Belluno fi157
glio del defunto m° Bernardo, doc. il 4.01.1406 (ASBL Not., b. 1412). Qui di seguito riportiamo le attestazioni dei componenti della famiglia che furono attivi nella città di Belluno: un Gianfrancesco da Salce chirurgo è presente a Belluno l’1.05.1435 (ASVV S, b.
626), poi m° Zanantonio barbiere fu m° Gregorio da Salce è attestato il 10.01.1438
(ASBL Not. 6873), lo stesso era chirurgo salariato l’8.06.1451 (ivi, b. 4298) e confermato il 22.4.1462 (ACBL LP, I), m° Giovanni Antonio fu Battista ebbe la ricondotta a Belluno dal 1466 (ivi), ancora un altro m° Giovanni Antonio chirurgo fu m° Bernardo barbiere chirurgo de Salcis è condotto a Belluno nel 1475- 1505 (ACBL LP K, M), lo stesso
è citato anche nel 1504-07 (ASBL Not., b. 1778) sino al 7.07.1511 come cittadino di
Belluno (ivi, b. 4664), e in città è citato anche m° Zaniacobo chirurgo da Salce alla fine
del '400 che il 16.04.1509 paga la dote alla sorella Caterina (ivi, bb. 6884, 6886).
44. Salce Giuliano 1510-25
Figlio di m° Bernardo chirurgo, abitante in Valmareno dov’è documentato più
volte a Cison a partire dal 31.01.1510 (ASTV Not. I, b. 448) e nel periodo 1511-16. In
data 2.04.1511 risulta essere creditore per ducati 10 e soldi 40 nei confronti di Daniele da
Caiada di Lago, che pagherà entro il “mercato della rovere” di settembre per aver curato
il cugino Francesco, e in data 18.05.1511 è creditore anche di Giovanni del Posetto da
Villa di Mel per cure ricevute (ivi, b. 394). Ebbe poi per due anni la condotta chirurgica a
Serravalle a far data dall’11.03.1517 e, qui trovandosi ad esercitare la sua professione, il
25.12.1519 chiese di poter abitare in città partendo dalla Valmareno. A questo proposito
domanda la casa e uno stipendio di 25 ducati “e tenir botega de barbaria con uno suficiente barbier per poter melgio servire”, la condotta gli fu rinnovata poi il 5.08.1522 con
stipendio di £ 200 l’anno (ASVV S, b. 90). Nell’ottobre 1522 è ricordato a Tarzo (ASTV
pod. Ceneda, b. 146)
Il 3.02.1525 (ASTV Not. I, 448) Bernardo figlio e procuratore di m° Giuliano
vende una casa a Mareno e qui è ricordato ancora nel 1529 (ASTV pod. Cison, b. 6).
45. Salce Iacobo, da Col de Busco di Salce, il 18.01.1424 (ADVV, b. 59/1) si ricorda che sostituì il barbiere m° Nicolò abitante a Serravalle.
46. Salce Paolo 1511-46
Figlio di m° Bernardo chirurgo da Salce (BL), abitava a Cison dove è presente
perlomeno nel 1513-17 (ASTV Not. I, b. 394), passò poi a Serravalle dove aveva bottega
in Calgranda ed è attestato il 17.09.1529, in questo atto si ricorda la madre Maura e la
sua casa di Belluno in contrada del Mercato. Il 5 aprile 1530 (ivi, b. 464, not. pre V. Antiga), benché già abitante a Serravalle, fu presente a Cison al testamento del conte Antonio Maria Brandolini. Nell’ottobre 1522 fu a Tarzo (ASTV pod. Ceneda, b. 146), poi
ebbe una condotta chirurgica quinquennale a Serravalle il 30.05.1528, e oltre lo stipendio ebbe sette ducati per la casa e fu esentato dalle “angarie”; il 9.01.1529 chiese alla
Comunità un aumento di stipendio che quindi gli fu portato a £ 100 l’anno (ASVV S, bb.
91, 92). Il 13.12.1529 (tutto in ASTV Not. I, b. 532) era chirurgo salariato e medicò Benedetto fu Augusto da Ponte ferito gravemente al capo due volte con lacerazione, effusione di sangue e frattura dell'osso e con due ferite minori alle spalle e pretende ora ducati 25 di parcella. Il 24.04.1531 chiese che lo stipendio fosse portato a ducati 25 e il 7
maggio ebbe la ricondotta con stipendio di £ 170 e sono prescritti gli obblighi di “salasar, ventosar, cavar denti e socorer casi de squilence” (ASVV S, b. 92). Il 3.01.1538 il
Consiglio cittadino accolse la sua domanda di avere ancora la condotta di chirurgo salariato per £ 100 l'anno, offrendo gratis la sua opera “circha sallassar, cavar denti et in casi
de squilencie”; alla data il chirurgo era assente. Fu poi licenziato il 4.01.1540 (ivi, bb.
93-94) perché suo figlio aveva offeso a male parole il medico Geronimo Amalteo. Nell'a158
prile 1544 fu chiamato a Tarzo per il tentato omicidio di Agnese di Domenico da Rui, accoltellata alla schiena per gelosia da Maria moglie del notaio Domenico Latras; quest'ultima fu condannata a £ 80 di multa e tre anni di bando (BSVV, Zuliani 658). Il
26.04.1546 prese in affitto dalla confraternita dei Battuti una casa in Tiera di Serravalle
(BCVV S, b. 629). Suo padre m° Bernardo barbiere fu m° Giovanni Antonio da Salce fu
condotto a Belluno dal 1467 (ACBL LP, I).
Erano invece suoi figli pre Iacobo doc. a Serravalle il 14.12.1540 e sino al 1548
(ASTV Not. I, b. 507 e Tomasi 1998), Dario presente a Serravalle il 10.07.1582 (BCVV
S, b. 681) e m° Domenico cerdone fu Paolo da Salce di Belluno, abitante a Sacile doc. il
20.07.1573 (ASTV Not. I, b. 1096), dove si era sposato come Domenico callegaro fu m°
Polo “ciroico de Salzis” da Serravalle il 20.11.1566 (AP Sacile, Matr.) con Brandia figlia
di Valentino detto “Setemin” da Sacile, e ancora m° Francesco de Salcis chirurgo fu m°
Paolo da Belluno che abitava a Conegliano il 16.09.1566 (ASTV Not. II, b. 2051). I Salce a Sacile sono doc. ancora nel 19.04.1600 quando fu battezzato Valentino di m° Paolo
Salcis e Caterina e il 28.11.1605 quando fu battezzato Giovanni Innocente figlio di Paolo
e Caterina (AP Sacile, Batt.).
47. Salce Valerio 1551-77
Figlio di m° Paolo, chirurgo a Serravalle dove abitava in Tiera nel 1551 (ASVV
S, b. 94), il 20.06.1560 è nominato arbitro fra il barbiere m° Peregrino che medicò una
ferita a Battista Genzio e quest'ultimo, qui il chirurgo stima l'opera in 13 scudi d'oro. In
quegli anni aveva anche un’altra attività, cioè manovrava “i foli dei organi” nella chiesa
di Serravalle (BCVV S, b. 593). Nel 1573 (ASTV pod. Cison, b. 38) cita in tribunale Fabrizio Brun della Valmareno suo debitore che non lo pagò per averlo medicato.
Citato anche il 14.05.1564 (ASTV Not. I, b. 861), fa testamento nel maggio 1577
(ASTV Not. I, b. 1126). Si sposò a Ceneda il 29.09.1576 con Catarina del fu messer Antonio Pavona da Udine (AP C, anagrafi). Si tratta di m° Valerio barbiere citato in Valmareno nel marzo 1566 (ASTV pod. Cison, b. 27)
Tibertino, famiglia il cui cognome è derivato da m° Tiberto.
48. Tibertino Antonio 1520-52
Chirurgo a Cordignano, doc. il 28.07.1520 col figlio Bartolomeo e il 8.12.1540
(ASTV Not. I, b. 454), un altro figlio, Danesio è citato il 19.09.1552 (ivi, b. 637).
49. Tiberto 1528-34
159
Chirurgo a Cordignano attestato il 28.03.1528 (ASTV Not. I, b. 529) e per una lite
con Zanino Polini da Silvella anche l’1.04.1534 (ASTV pod. Cordignano, b. 40).
50. Tiberto, 1532-40
Figlio del fu Iacobo Donà da Cison è qui ricordato per crediti nel 1540 (ASTV
pod. Cison, b. 6) e come mastro Tiberto da Solighetto chirurgo già il 26.08.1532 (AMVC
b. 18, fasc. 104)
BARBIERI
Detti anche “barbitonsori, tonsori”, i migliori fornivano anche supporto ai
chirurghi.
1. Agostino da Ceneda, barbiere presente a Ceneda il 13.04.1513 (ASTV Not. I,
b. 395).
2. Alberto, detto “Brusolino”, barbiere a Serravalle nel 1338 (ASVV S, b. 624).
3. Almerico, barbiere a Serravalle, dove è doc. suo figlio Giuseppe nel 1326-27
(ASVV S, b. 624), alle date il padre era già morto, e doc. ancora il 1365 (ASTV CRS, S.
Giustina b. pergamene).
4. Antonio, fu barbiere a Ceneda nel 1487 (ASVV C, b. 81).
5. Artico Francesco 1526-30
Figlio di Polidoro da Ceneda, barbiere a S. Cassiano dove il 2.06.1530 gli viene
data ragione riguardo gli affitti del 1526-29. Il 3.08.1530 sua moglie Elena, essendo il
marito carcerato e bisognoso di denaro, stende l’inventario di quanto possiede, cioè beni
per £ 74 (ASTV Not. I, b. 399).
Barbitonsoribus (de -) famiglia di Silvella di Cordignano, discendente da Antonio
da Colonia (Germania) barbiere, nota anche come “de Tonsori”. Il notaio ser Bortolamio
de barbitonsoribus da Silvella è ricordato nel 1572-86 (ASTV pod. Cordignano, b. 139).
6. Antonio da Colonia 1492-1522
Figlio di Bortolamio, tonsor abitante a Silvella è ricordato il 15.02.1492 (ASTV
pod. Cordignano, b. 174) e l’11.12.1493, 20.08.1496 (ivi, b. 95) poi ancora nel febbraio
1492 (ivi, b. 96) e per un pegno il 3.08.1506 (ivi, b. 66) e il 4.02.1508 (ASTV Not. I, b.
379), suo figlio Giovanni si sposò nel 1522 con Maria di Andrea da Gandino. Il
30.06.1518 è teste Cecilia moglie di m° Antonio barbiere da Colonia abitante a Silvella
con la loro figlia Elisabetta; il 1.10.1519 compaiono Batta di Gerusalemme da S. Giacomo di Veglia con Pietro da Anzano entrambi generi di m° Antonio barbiere da Silvella
(ASTV pod. Cordignano, b. 88).
7. Bartolomeo 1526-28
Barbiere documentato nel 1526 e nel gennaio 1527 (ASTV pod. Cordignano, b.
131) e ancora il 1.02.1528 (ASTV, Not. I, b. 399), la cui vedova Maria è doc. il
20.03.1542 (ivi, b. 513) per un atto rogato nel 17.05.1539.
8. Bartolomeo, barbiere a Serravalle noto perché sua figlia Caterina, vedova del
merciaio Tusino da Serravalle, fece testamento il 18.05.1420, ricordando nell’atto la data
del loro matrimonio avvenuto il 19.12.1400 (ASTV CRS, S. Giovanni perg. b. 2).
9. Bartolomeo dall’Isola 1437-69
Figlio del fu Matteo da Pinidello, barbiere che abitava a Serravalle il 28.11.1437
(AMVC b. 1, fasc. 7) dove è presente anche nel 1446-52 (ASTV CRS, S. Giovanni,
160
perg. b. 2), il 22.01.1469 (BCVV S, b. 285, alla data col figlio Zanandrea); il 10.04.1480
(ASTV Not. I, b. 271) sua figlia Teodora vedova di Iacobo da Bergamo si sposa con m°
Guglielmo teutonico pellicciaio a Serravalle con una dote di £ 73:8.
10. Bernardino de Senuariis da Montagnana, figlio del fu m° Bartolomeo, il
27.02.1494 (ASTV pod. Cordignano, b. 95) Angelo fu Zeno da Pinidello e sua moglie
Francesca gli promettono in moglie la loro figlia, impegnando tutti i loro averi.
11. Bertucci Flaminio n. 1568-1603
Figlio di m° Giandonato, nato il 21.03.1568, sposato con Domenica i loro figli
furono battezzati il 13.04.1597 Marietta e il 7.09.1603 Maria (AP C, anagrafi).
12. Bertucci Francesco 1541-82
Figlio di m° Lorenzo, detto “Cechon”, inizialmente è attestato come barbiere e
“caleghèr” , almeno in due momenti, il nell’ottobre 1541 (ASTV 642) e nel periodo
1545-48 (ASVV C, b. 62), successivamente è documentato solo come cerdone, e come
tale citato spesso sino al 1582 (ASTV Not. I, bb. 964-968).
13. Bertucci Giandonato 1550-68
Figlio di m° Lorenzo, il 9.08.1550 (ASTV Not. I, b. 576) insieme al fratello m°
Giovanni prima vendono e poi chiedono in affitto la loro bottega da barbieri, probabilmente per urgente necessità di denaro. Il 21.03.1568 (AP C, anagrafi) fu battezzato Flaminio di m° Giandonato barbiere. La sua vedova Iacoma è documentata fra i proprietari
nell’Estimo del 1582 (ASVV C, b. 91).
14. Bertucci Lorenzo 1496-1527
Barbiere da Asola attivo a Ceneda dove è attestato il 16.08.1496 (ASTV pod.
Cordignano, b. 152) e come proprietario nel 1501-02 (ASVV C, b. 87), ancora a Ceneda
è presente l'8.02.1508 (ADVV C, anagrafi) quando fu battezzato suo figlio Giovanni,
mentre il 22.05.1527 (ASTV Not. I, b. 395) m° Lorenzo è citato come abitante a Serravalle ed è la sua ultima attestazione da vivente poiché già il 4.08.1531 è citata la sua vedova Elisabetta fu Donato Moscardini (ivi).
Il 9.01.1554 (ASTV Not. I, b. 576) un arbitrato stabilisce la divisione dei beni del
defunto m° Lorenzo fra gli eredi; al figlio pre Taddeo spetta il diritto d'abitare sinché vivrà
in alcune stanze della casa paterna in piazza a Ceneda, al figlio m° Giovanni va “la botega de barbaria” e il resto, cioè la bottega, la casa in piazza, stalla e orto e terre a “Col de
l'occhio” e Campestrin viene diviso fra tutti, m° Giovanni barbiere, Giandonato, Francesco e Peregrino, inoltre la figlia Lucrezia avrà la dote. Il figlio pre Taddeo ebbe la prima
tonsura il 12.3.1510 e fu poi “zago” della cattedrale nel 1518 (Tomasi 1998, II p. 381).
15. Bertucci Peregrino 1546-72
Figlio di Lorenzo, presente a Ceneda il 17.09.1546 (ASTV 635), di lui è noto il
figlio Pietro attestato il 1.03.1572 (ASTV Not. I, b. 965).
16. Capite Brolei (de - ) Manfredo 1448-55
Figlio di Rizzardo, esercitò come barbiere a Ceneda, citato fra i regolieri il
24.10.1448 (ADVV b. 1) e poi ancora 17.10.1455 (AMVC b. 2, fasc. 3).
17. Delaido, barbiere a Ceneda vivente nel 1372 (ASTV CRS, S. Giustina perg.).
18. Ferrarino “Piva”, barbiere a S. Cassiano doc. il 4.01.1515 (ASTV Not. I, b.
399).
19. Francesco da Feltre 1526-35
Barbiere abitante a S. Cassiano doc. il 20.3.1535. Potrebbe essere il m° Francesco
barbiere che abitava a Pinè ricordato nel luglio 1526 (ASTV pod. Cordignano, b. 131).
20. Gabriele, figlio del defunto Quaglia, barbiere a Serravalle documentato nella
seconda metà del Trecento (28 agosto, manca l’anno) in ASVV S, b. 625.
161
21. Gaiardo della Fontana, del fu Michele, barbiere a Serravalle citato nel 1348
(ASVV S, b. 624).
22. Gianmaria de Pol, fu barbiere e presente a S. Cassiano nel 1596 (ASTV Not.
I, b. 1074).
23. Giovanni, barbiere a Serravalle e detto “Zecho”, il 16.09.1597 (AP S, anagrafi) viene battezzato Domenico figlio suo e di Maria, padrino è m° Francesco barbiere,
forse quel m° Francesco da Candia effettivamente presente in città a quella data.
24. Giovanni da Ceneda 1328-45
Figlio di Antonio da Cal de mezzo, citato nel 1328 (ADVV b. 1). Potrebbe essere
il Giovanni barbiere citato nel 1340-45 (ADVV b. 63) che lavorò spesso come falegname per la cattedrale, così nel 1340 fu pagato 20 soldi per aver riparato l’armadio della
sacrestia superiore, nel 1341 gli furono date due calvee di fave per aver aggiustato i vasi
e l’ancona, e nello stesso anno lire 12 e soldi 4 e piccoli 8 per la fattura del legname posto alla stessa ancona (forse la cornice lignea) e per aver messo a posto la campana grande, nel 1345 aggiustò gli armadi in sacrestia ove venivano tenuti i libri della chiesa per
soldi 37.
25. Giovanni da Ceneda 1471-1508
Era barbiere ed esercitava in piazza a Serravalle in data 10.09.1483 (ASTV Not.
I, b. 271), ed è ancora presente il 11.10.1508 (ivi, b. 334). Ragionando sulle date in cui è
effettivamente in zona ci sentiamo di attribuirgli le seguenti attestazioni: m° Giovanni
barbiere fu Sebastiano da Zoldo abitante a Ceneda doc. il 16.02.1471 (ivi, b. 282, not.
Crobato), un’ altra documentazione come “mastro Zaneto barbier” citato nel 1484
(ADVV Massaria) e ancora come m° Giovanni barbiere da Salsa doc. nel 1480 (BCVV
C, b. 81) e il 4.02.1493 (ASTV pod. Cordignano, b. 152) e l’8.08.1499 (ASTV Not. I, b.
448). Potrebbe essere il padre del barbiere Paolo, e forse è sua figlia quella “Ioana” fu
m° Giovanni tonsor citata il 24.08.1524 (ASVV S, b. 637.1).
26. Giovanni da Serravalle, presente nel 1343 come barbiere (ASTV CRS, S.
Giustina perg.), dopo tale data sono citati i suoi eredi, ovvero i figli Andrea e Francesco,
in città nel 1348 (ASVV S, b. 624). Nel catasto vescovile trascritto nel 1397 ma databile
al 1348, questi ultimi pagano per una casa in Oltraponte di Serravalle ed essi ereditano
per testamento del 2.09.1348 (ASTV Perg. Osped. testam. n. 117) la metà degli averi di
Ainardo da Serravalle fu Giovanni de Turada, l’altra metà andrà a Sebastiano figlio del
muratore Puppo da Olarigo.
Giovanni, barbiere a Soligo nel 1298 (Farronato p. 19)
27. Giovanni Maria “del Furlano” 1518-38
Barbiere abitante a S. Cassiano dov’è attestato in tre date: il 12.08.1518 (ASTV
Not. I, b. 290), il 3.08.1521 (ivi, b. 399) e il 4.12.1538 (ivi, b. 513).
28. Gironcoli Marco, figlio del fu Iacobo da Corbanese, barbiere a Venezia in
confinio di S. Barnaba, il 4.09.1554 dà procura al fratello Francesco abitante a Cison, per
pagare la dote alla sorella Osta. Otto giorni dopo a Cison in casa di Benedetta vedova del
fu Iacobo Gironcoli viene redatto il contratto dotale per £ 310 fra Osta fu Iacobo e il fabbro m° Giovanni Battista del fu Mainardo fabbro (ASTV Not. I).
29. Guerra da Serravalle, barbiere presente nel 1333 (ASTV CRS, S. Giustina,
b. perg.).
30. Iacopo, barbiere a Ceneda, i suoi eredi sono presenti nel 1348 (ADVV b.
59/I).
31. Iacopo da Treviso, barbiere ma nel 1340 taverniere nella contrada di S. Lorenzo a Serravalle (ASVV S, b. 624).
162
Iusto, de Iustis, famiglia di barbieri attiva a Serravalle, discendenti di m° Iusto
qui sotto riportato. Una famiglia de Iustis è presente a Conegliano nella seconda metà del
Cinquecento (AMVC bb. 80 e succ.).
32. Iusto 1461-80
Figlio di m° Corrado “maratarius adelbinensis” doc. il 19.4.1461 (ASVV S b.
627), alemanno e barbiere a Serravalle dove è spesso citato nel periodo 1462-80 (ASTV
Not. I, b. 271) e 1464-66 (AMVC b. 2, fasc. 3). Potrebbe essere fratello di quel chierico
Corrado fu Corrado medico d’Alemagna, famigliare del vescovo, citato a Ceneda il
17.06.1437 (AMVC b. 1, fasc. 7) e che poi fu rettore di Visnà nel 1450-56 (Tomasi 1998,
II p. 216).
33. Iusto Geronimo 1513-50
Figlio di m° Giovanni, tonsor a Serravalle dove abitava in Calgranda, viene detto
“Ugerio”, ben documentato tra il 1513 e il 1528 e poi nel 1550 (ASTV Not. I, b. 532). Il
24.03.1538 e succ. si offrì come banditore della Comunità in luogo dell'anziano Antonio
da Cremona quiescente, ma il Consiglio non accettò (ASVV S b. 93).
Suo figlio Iusto, sposato con “Ioana”, è attestato nel periodo 1542-48 (ASTV Not.
I, b. 462), il 13.10.1580 (ASVV S b. 631) e fu consigliere della Scuola di san Rocco il
19.06.1560 (ASTV Not. I, b. 666).
34. Iusto Giovanni 1478-94
Figlio di m° Iusto, barbiere a Serravalle è attivo e documentato dal 8.12.1478
(ASTV Not. I, b. 271) al 10.04.1494 (ivi. b. 334). I suoi eredi sono citati nella sua casa in
Calgranda di Serravalle il 11.02.1497 (ASVV S b. 627) e il 9.06.1535 (ASTV Not. I, b.
568) è citato il figlio (E)ugerio, alla data il padre è già morto.
35. Leonardo 1341-52
Barbiere a Ceneda, affittuario della cattedrale nel periodo 1341-48 (BSVVms.
Zuliani pp. 259, 260 e ACVV b. 63).
36. Leone, fa il barbiere a Serravalle il 6.05.1466 (ASTV Not. I, b. 271).
37. Mailane Giovanni Antonio 1586-96
Figlio di Vittore del borgo superiore di Serravalle. Il 30.04.1596 è barbiere a Sacile e vende al cugino Bernardino fu Matteo Mailane una casa in Serravalle per £ 340, poi
il 14.05.1596 compra una terra a Rindola da m° Giulio cerdone fu Camillo orefice
(ASTV Not. I, b. 1408). Risulta proprietario fra i forestieri nella rilevazione del periodo
1586-94 (ASVV S b. 168).
163
38. Marco da Porcia, tonsor a Serravalle con un’unica documentazione in vita
nel 1517 (ASVV S b. 646.3), mentre i suoi eredi sono doc. nel 1569 (ivi, b. 646.4).
39. Martino, una terra di Serravallo figlio del barbiere Martino da Serravalle è citata nel 1270 (ASTV CRS Follina b. 2, tomo H).
40. Mazzer (del -) Antonio, barbiere detto “Boconcin”, la sua unica attestazione è
nel 1640 (ASVV S b. 650.4), quando entrò nei Battuti.
Moneghe (dalle -), a Monialibus, famiglia tedesca proveniente da Primiero (TN),
doc. a Serravalle col capostipite Paolo nel 1487, la sua vedova Ursula fu consorella dei
Battuti, così il 19.03.1505 (ASVV S b. 627).
41. Moneghe (dalle -) Andrea n. 1598-1627
Figlio di mastro Matteo, nato a Serravalle il 15.04.1598 (AP S anagrafi); nel 1624
lo troviamo citato come proprietario (ASVV S b. 174), il 15.12.1627 (ASTV Not. I, b.
1409) Andrea si divide i beni di famiglia con la madre Antonia e la sorella Maddalena.
42. Moneghe (dalle - ) Matteo 1574-m. 1611
Figlio di m° Giovanni da Primiero, barbiere a Serravalle, il 24.11.1574 (ADVV b.
27) il vicario vescovile, su istanza di m° Matteo da Salsa ingiunse a pre Antonio de Rossetis da Serravalle di pagarlo per le cure ricevute.
Il 14.06.1584 m° Matteo promette di sposare Antonia sorella dell'aromatario Antonio da Salsa, la quale gli porta una dote consistente.
Il 4.11.1585 viene battezzata sua figlia Marietta, il 22.09.1587 Gianbatta, il
10.02.1590 Giovanni Maria, l'8.12.1592 Maddalena, il 3.12.1593 Gianbatta, 7.05.1596
Maddalena, 15.04.1598 Andrea (AP S anagrafi), tutti avuti dalla moglie Antonia che nel
1598 diventa consorella dei Battuti (ASVV S b. 650.4). Documentato ancora il
16.05.1595 (ASTV Not. I, b. 1027) e il 9.02.1596 (ivi, b. 973) quando abita a Ceneda e
poi ancora il 21.11.1603 (ivi, b. 1408).
L’artigiano fece testamento nel maggio 1611 nella sua casa nel Borgo superiore di
Serravalle, chiedendo di venire tumulato nel cimitero della vicina chiesa di san Giovanni, lasciando usufruttuaria la moglie Antonia che darà quanto ritiene opportuno alla figlia
Maddalena per dote, per il resto erede universale il figlio Andrea.
La vedova Antonia è ricordata nel giugno dello stesso anno per cui m° Matteo
morì forse a maggio (tutto da ASTV Not. I, b. 1328). Di sua sorella Franceschina fu redatto il contratto dotale - per £ 173:7 - con Francesco da Fadalto il 18.09.1548 (ivi, b.
642).
164
43. Moscardin Donato, aveva bottega di “barberia” a Ceneda, passata poi agli
eredi, così nel giugno 1527 (ASTV Not. I, b. 395). Suo fratello era pre Zuane Andrea “de
Omnibono” che fu cappellano della Scuola del Battuti nel 1517 e altarista di S. Michele
a Serravalle nel 1547-67, per approfondimenti si rinvia a Tomasi 1998, I, p. 323.
44. Nicolò, barbiere a Serravalle che abitava in piazza 29 settembre 1309 (ASTV
CRS Follina b. 1, tomo F, c. 24 v).
45. Nicolò, barbiere di Serravalle che il 22.05.1442 (ASTV 236, not. G. Sandri)
compare ad Oderzo; forse si tratta di Nicolò da Fontanelle per cui si rimanda al n. 57.
46. Olivo da Venezia, barbiere a Serravalle dove è ricordato nel 1374 (ASVV S b.
624).
47. Paolo 1499-1539
Attestato come barbitonsor a Ceneda nel 1499-1526 (AP Salsa, Massaria 14981526) e poi dal 1500 (ASVV C b. 81) e ancora nelle seguenti date: il 24.07.1503 e
16.08.1539 (ASTV Not. I, b. 395), il 3.01.1521 e il 24.01.1532 (ivi, b. 401). Mastro Paolo era figlio di m° Giovanni barbiere, forse quel m° Giovanni da Ceneda attivo nel periodo 1471-1508. La sua vedova Perina è ricordata l’ 8.09.1556.
48. Paolo da Treviso 1529-57
Figlio di m° Giovanni, barbiere a Ceneda con bottega in piazza e abitante lì presso, a Calonega, doc. fra il 14.12.1529 (ASTV Not. I, b. 568) e il 26.12.1557 (ivi, b. 664),
in quest’ultima data fa un lascito alla moglie Ursina - sposata in secondi voti - e nel documento ricorda la precedente stesura del testamento datata 12.02.1553. La moglie Ursina era vedova di Zaneto de Mosconi, così il 10.02.1550 (ASTV Not. I, b. 1002). Mastro
Paolo fu consigliere della Comunità nel 1538 e negli anni seguenti.
49. Peregrino 1560-m. 1571
Barbiere a Serravalle, doc. il 20.6.1560 quando il chirurgo Valerio Salzis stima in
13 scudi d’oro il valore delle cure che egli prestò a Battista Genzio, attestato ancora il
12.09.1563 (ASTV Not. I, b. 666), morì nel giugno 1571 (AP Scuola Santissimo). Il
12.06.1570 (ASTV Not. I, b. 1001) fu redatto l'inventario dei beni mobili del defunto
Marco de Barbieri dati a m° Pellegrino barbiere, suo suocero e curatore.
50. Pietro 1525-57
Alias Pierantonio, figlio di m° Zaneto (o Zanino) da Treviso, tonsor a Serravalle
attestato nelle seguenti date: il 31.12.1525 (ASTV Not. I, b. 409), l’1.02.1528 e il
7.04.1554 (ivi, b. 532). Fu consigliere dei Battuti nel 1540 e sua figlia Coletta fu candidata alla grazia di £ 50 il 25.12.1557 (ASVV S b. 637.1).
51. Pietro, tonsor de Ceneta doc. a Sarmede in data 29.06.1572 (ASTV Not. I, b.
992).
52. Porta (dalla -) Alberto, 1514-18
Figlio di m° Francesco Ogniben a Porta da Serravalle, barbiere che ha documentazione il 12.12.1514 (ASTV Not. I, b. 448), e nell'Estimo di Serravalle del 1518 quando tiene in affitto la bottega nella casa di Francesco Libano posta in Tiera (ASTV, ex comunale b. 1272). Spesso noto come Berto.
53. Tomaso da Foltrano 1348-82
Figlio di Alessandro, detto anche Andrea Tomaso, barbiere a Serravalle che nel
1397 paga al vescovo per terre a Foltran (ADVV b. 59/I, catasto vescovile trascritto nel
1397 ma databile al 1348), suo figlio Simone abitante in città, in luogo detto Piai, fece
testamento il 17.05.1382 (ASVV S b. 625).
54. Zambono, barbiere originario da Belluno ma abitante a Serravalle nel 1338
(BSVV ms. Zuliani 318).
165
Zante (de, del -), famiglia di barbieri presente a Serravalle, derivano da m° Nicolò da Fontanelle alias “de Azante”, soprannome di difficile comprensione.
55. Zante (de - ) Augusto 1496-1508
Figlio di Nicoleto, è attestato dal 9.03.1496 (ASTV Not. I, b. 334) al 16.07.1508
(ivi, b. 532) ancora attivo. Il 4.05.1505 (ivi, b. 334) si ricorda a Serravalle Luca da Zante
fratello di m° Augusto barbiere.
56. Zante (del - ) Iacobo 1506-29
Figlio di Nicoleto, tonsor a Serravalle, il 26.05.1506 (ASTV Not. I, b. 334) ebbe
ducati 17 da m° Augusto suo fratello anche a nome dell'altro fratello Luca e della sorella
Polissena; citato ancora sino al 11.03.1529 (ivi, b. 532) quando vende una bottega, confinante a sera con gli eredi del fu Francesco de Carli, in Serravalle a Marino fu Michele de
Marchis. Il nipote Nicolò cerdone fu Nicolò tonsore la ricomprò il 18.07.1538 (ASTV
Not. I, b. 507) e nell'atto è ricordata anche la sorella Lorenza fu Nicolò, sposata con Iacobo “de Agnelina” [Valdagno].
Sua moglie Ioana è doc. nel 1517 (ASVV S b. 646.3).
57. Nicolò da Fontanelle 1422-50
Figlio di Costantino da Fontanelle, alias m° Nicolò fu Costantino “de Azante”
(8.04.1449), barbiere a Serravalle dove è più volte doc. nell’arco di tempo 1422-49
(ASVV S bb. 625, 626); va ricordato che m° Nicolò da Zante fu muratore addetto ai restauri della chiesa di santa Augusta nel 1450 (Villanova p. 128).
Odorico di m° Nicolò barbiere da Fontanelle abitante a Serravalle è ricordato il
23.04.1432 (ASBL Not. b. 6873); e molto probabilmente era suo fratello quel Antonio
fu Costantino da Fontanelle presente alla collazione della pieve di Fontanelle il
28.02.1424 (ADVV b. 59/1). Va ricordato che gli eredi del defunto pre Costantino da
Fontanelle, proprietari di terra a Mareno di Conegliano sono ricordati il 25.04.1443 (ivi,
b. 59/2).
58. Zante (de - ) Nicolò 1506-08
Figlio di Augusto, ricordato senza indicazione di mestiere il 29.01.1506 e poi il
16.07.1508 (ASTV Not. I, b. 334) fa testamento la moglie Paola figlia di ser Lorenzo
“Pupiro” da S. Daniele del Friuli, che lascia erede la figlia Lucrezia ed usufruttuario il
marito Nicolò.
166
Un altro Nicolò de Zante è citato il 20.02.1544 (ASTV Not. I, b. 462) e il
3.11.1560 (ASVV S b. 637.1) quando chiese un’elemosina ai Battuti per la figlia Caterina.
Suo figlio Augusto è doc. nel 1569 (ivi, b. 646.4) e come proprietario straniero nel
1594 (ASVV S b. 168) e un Nicolò fu Nicolò del Zante abitante a Venezia sigla un concordio con fra Fiorino de Sartori guardiano del convento di san Francesco di Conegliano
il 31.12.1565 (ASTV Not. I, b. 769).
MEDICI
In dialetto medico è “mèdego” e in lingua dotta “fisico”, cioè
medico internista.
La laurea era strutturata su due livelli, prima uno in Arti e Filosofia e poi quello in Medicina; va tenuto presente che nel Cinquecento il
medico era essenzialmente un internista, il chirurgo invece si occupava
della chirurgia minore, attività ritenuta volgare e che non prevedeva la
laurea.
Prima delle Università più antiche, cioè Bologna, Pavia e Padova, vi era l’antica Scuola Medica Salernitana, inoltre papi ed imperatori
potevano concedere lauree e alcuni medici si formavano presso altri professionisti di fama.
Dopo i due livelli di laurea seguiva il permesso di esercitare,
una sorta di moderno esame di stato; questo studio universitario era l’unico di norma aperto anche agli ebrei, i quali però oltre all’iter sopra esposto dovevano ottenere per ultimo anche il permesso di curare i cristiani.
Medici della Comunità sono documentati a Serravalle perlomeno dal Trecento, vanno poi ricordate le famiglie cenedesi di medici Del
Giudice, presto migrati a Conegliano, e dei Gandin di origine bergamasca.
Medici sono documentati nel primo Seicento anche a Cison e a Cordignano. Per Serravalle le spese della condotta erano suddivise tra i cittadini, a
titolo volontario, per cui sono a disposizione alcune liste cinquecentesche
dei paganti, compresi gli ebrei e le comunità religiose.
Dalle delibere consiliari di Serravalle si evincono bene sia le
trattative tra la Comunità e i medici, che l’aumento del salario annuo nel
tempo, che gli sforzi per ottenere buoni professionisti, spesso in gara con
le Comunità circostanti.
Di seguito si trova notizia di tutti i medici trovati nei documenti, non è detto siano stati tutti condotti in zona.
167
MEDICI A SERRAVALLE
Bernardo da Reggio
1338
Natale
ante 1375
Franceschino da Oderzo
1375
Sigisfredo
ante 1404
Giovanni da Serravalle 1424-25
Iacobo
1449
Francesco da Padova
1480
Filomena G. Andrea
1491-1505
Piasentin Nicolò
1494-1505
Dal Pozzo Zaccaria
1506-1507
Paolo Geronimo
1511
Rato Pietro
1512-1515
Villalta Angelo
1515-1525
Daniele da Forlì
1525-1528
Agolante Bortolo
1529-1530
Dall’Olmo Angelo
1531-1534
Amalteo Geronimo
1538-1559
Minucci Andrea
1559-1564
Solari Lorenzo
1564-1571
Pellizzari Simone
1571-1576
Pancetta Sartorio
1576-1594
Marcatelli Iacobo
1595-1599
Ovio [Giulio]
1600
Pancetta Sartorio
1604-1610
Angeli Giov. Battista 1610-12
Rotta Giov. Battista
1612-17
Pelizza Ippolito
1617-1629
Panati Giov. Battista 1630-41
MEDICI A CENEDA
Abolafia
Amalteo Geronimo
Gandin Antonio
Angeli Giov.Battista
Bonaldi Pietro
Stefani Giovanni
1494
1536-1538
1583-1597
1608-1610
1613-1616
1625-1632
1. Abolafia, medico ebreo presente a Ceneda nella primavera del 1494, cfr. Tomasi 2012, p. 47.
2. Agolante Bortolo (1487-1564)
Medico da Treviso dove fu aggregato al Consiglio dei medici nel 1517
(Bartolini), ebbe la condotta a Serravalle il 27.04.1529 con stipendio di ducati 108; accettò con lettera del 3.05.1529 e dodici giorni dopo fu redatta la condotta nei vari capitoli, con stipendio aumentato a ducati 130. Il 2.05.1530 ebbe una ricondotta e chiese ducati
200, con una controfferta da parte del Consiglio di ducati 140. Il 6.07.1530 dichiarò che
a Udine gli avevano offerto uno stipendio annuo di ducati 320 e chiese quindi licenza
(ASVV S b. 92). Si tratta di Bartolomeo di Ludovico Agolanti, medico dal 1517, filosofo, morì a Udine (Binotto).
3. Almerico da Serravalle, figlio di Paolo, laureato a Padova in Arti nel 1396 e
in Medicina nel 1400, lavorò a Treviso, Trieste, Zara e Padova (Tomasi 2002, p. 18), il
16.09.1410 (ASTV Not. I, b. 141, not. Nicolò da Castagnole) è citato a Treviso com Almerico di Paolo del fu Giuseppe da Serravalle. Suo figlio Contus abitante a Serravalle è
qui citato nel 1452 (ASTV CRS, S. Giovanni B. di Serravalle, perg. b. 2). Pesce , p. 140
ricorda gli altri figli, Antonio laureato in Diritto a Padova nel 1435, Nicolò morto a Treviso nel 1440 e suor Agnola.
4. Alpago (de -) Paolo, medico da Belluno ma abitante a Serravalle il 29.12.1534
(ASTV Not. I, b. 400). La famiglia Alpago ebbe un medico anche prima, il 6.08.1508
( ASBL Not. b. 6886) infatti dividono i beni il fisico Andrea e i suoi fratelli.
5. Amalteo Gerolamo (Oderzo circa 1506- 1574)
168
Figlio di Francesco, laureatosi in Medicina a Padova l'11.08.1533, medico condotto a Ceneda perlomeno dal primo semestre del 1536 e per questo fu pagato in agosto
(ADVV Massaria), il 10.10.1538 (ASVV C b. 74) chiese licenza al consiglio di poter
partire entro Natale, qui a Ceneda è anche citato come procuratore del suocero ser Iacobo Brunello il 9.08.1538 (ASTV Not. I, b. 568).
Fu poi a Serravalle con delibera del Consiglio del 21.12.1538 per tre anni con stipendio di 130 ducati annui e condotta in cinque capitoli, rinnovata il 29.10.1541 (ebbe
poi la licenza di allontanarsi il 19.11.1542) e 30.10.1545 aggiungendo anche l'obbligo di
controllare i prodotti delle ”spezierie” cittadine (ASVV S b. 94) e poi ancora il
1.11.1547. Poco dopo il medico richiese un aumento di stipendio, da d. 137 a 150, che fu
approvato l'8.08.1548; scaduta anche questa condotta fu cercato un nuovo medico con
delibera del 2.03.1550 e quindi fu ripreso il dottor Gerolamo Amalteo, con delibera del
11.01.1551 per cinque anni con stipendio di ducati annui 160 e va ricordato che alla data
furono censite in città 225 "famiglie" (in effetti unità economiche, per lo più famiglie,
ma anche monasteri e conventi, Luminaria, ecc.) suddivise per quartieri di cui 177 si tassarono per pagarlo (per un totale di £ 1032:12) e 48 rifiutarono; la delibera di ricondotta
data al 21.01.1551 ed il medico accettò l'8.03.1551.
Il 9.10.1558 fu deliberato di aumentare lo stipendio annuo a £ 1000 e il
29.03.1559 il Consiglio gli diede licenza di partire. Una nuova ricondotta fu deliberata
nel 1561 con stipendio di d. 150 ma il 21.11.1561 ebbe ancora il permesso di allontanarsi.
A Serravalle rimase quindi nel 1539-59 e 1561, passando quindi a Sacile (1559,
così in ASTV Not. II, b. 1066) dove rimase sino al 1570 e infine passò ad Oderzo (Ruzza
p. 19, Tomasi 1998, p. 152). Il 4.02.1545 abita nel borgo inferiore e il 12.05.1540 (entrambi in ASTV Not. I, b. 468) è procuratore di Iacomo Brunello da Ceneda, suo suocero
e attualmente abitante a Serravalle, qui il 13.06.1548 affitta alcune terre e il 10.02.1550
(ASTV Not. I, b. 462) ne acquista altre. Il 30.07.1556 (ASTV Not. I, b. 576) comprò terre nel distretto di Portobuffolè; nel 1569 (AMVC 48, fasc. a se stante) processo fra il medico e i figli del fu Donato Petrucci da Conegliano per l’acquisto di otto iugeri di terra a
S. Fior di sotto, fatto dall’Amalteo allora abitante a Sacile il 11.09.1567 a Conegliano a
casa di Giuseppe da Cesa bellunese medico condotto a Conegliano.
Suo figlio Giulio compare più volte a Conegliano nel 1575-79 (AMVC bb. 5658) e a Serravalle il 25.03.1583 (ASTV Not. I, b. 863) per vendere una terra a Bavèr. Il
17.12.1567 (AMVC b. 52, fasc. 169) a Conegliano fu rogato il testamento del medico
Giuseppe da Cesa di Belluno del fu Gaspare, che volle come tutori testamentari il suocero Gerolamo Amalteo e Pietro Locatelli da Polcenigo suo santolo, chiese di essere sepolto nella chiesa di santa Maria Mater Domini lasciando arredi e il denaro che teneva presso di se alla madre Gasperina mentre erede universale sarà la figlia minorenne Livia, alla
moglie Isabella – figlia dell’Amalteo – andrà la dote se non vorrà vivere con loro. Isabella si risposò poi con Lauro Riccio da Motta.
6. Andrea, medico che chiede il sequestro dei beni di un distrettuale di S. Cassiano il 27.02.1473 (ASTV pod. Cordignano b. 89).
7. Angeli Nicolò, medico di Sacile, padrino nel 1605 al battesimo del figlio dello
speziale Antonio Salsa (vedi).
8. Angeli Giovanni Battista 1602-m. 1612
Medico a Serravalle dove ebbe la condotta triennale il 13.10.1610, qui morì, infatti il 22.08.1612 (BCVV S b. 104) il Consiglio deliberò di pagagli i funerali, costati poi
£ 83. Prima fu medico a Ceneda, dove il 2.07.1608 il Consiglio aveva deliberato di rinnovargli la condotta biennale e il medico accettò il 26 luglio (ASVV C b. 63). Il dottore
169
risulta presente, già laureato in Filosofia e Medicina, all’università di Padova il
3.07.1602 (Zen Benedetti 481).
9. Angiolieri, medico forse a Cison, documentato nel 1616 (ASTV CRS, Follina
b. 33). Potrebbe trattarsi di Angelerius, laureato in Filosofia e Medicina a Padova il
27.08.1604 (Zen Benedetti 1338).
10. Antonio romano, ciroico e fisico abitante a Sarmede il 3.08.1508 (ASTV
Not. I, b. 379).
11. Avegno Bartolomeo, dottore in Arti e Medicina e famigliare domestico del
vescovo di Ceneda, il 25.06.1572 (ASTV Not. I, b. 965) dà procura a ser Geronimo Rota
visconte di Tarzo per la lite che ha con l'abate Montemerulo de Montemerulis vertente su
un credito di 50 scudi. Un signor Pietro Avegno, famigliare del vescovo, è doc. a Ceneda
il 20.11.1576 (ASTV Not. I, b. 966).
12. Bartolomeo da Padova, medico che il 17.11.1472 (ASTV pod. Cordignano b.
89) fa citare un distrettuale di S. Cassiano.
13. Bernardo da Reggio, fisico a Serravalle nel 1338 (BSVV, ms. Zuliani p. 318).
14. Benetti Mattio, “dottore” presente ad un matrimonio in cattedrale il
30.11.1566 (APC, matrim.).
15. Bonaldi Pietro Antonio 1605-62
Figlio del notaio di curia Vincenzo, medico fisico di Ceneda doc. nel periodo marzo 1606- giugno 1614 (ASTV Not. I, bb. 1175-1176), nel 1613 (ASTV Not. I, b. 1120)
era gastaldo della Scuola del Santissimo, il 30.1.1613 il Consiglio di Ceneda deliberò la
condotta triennale al Bonaldi, che in quel momento era medico condotto a Motta con stipendio di ducati 70. Ricopriva ancora la stessa carica a Ceneda il 11.4.1616, pur avendo
scritto al Consiglio la lettera di commiato dieci giorni prima (ASVV C b. 63).
Laureato a Padova il 2.04.1605 (Zen Benedetti 1568), Bartolini lo ricorda medico
condotto ad Oderzo dove è ricordato per un acquisto di terre il 24.01.1625 (ASTV Not. I,
b. 1821 sub 27.05.1664), poi a Motta (1630-38) ed infine a Belluno (1638-62) dove fu
primo medico e nel 1662, stante l’età avanzata, chiese di poter tornare in patria; per le
sue benemerenze il Consiglio di Belluno deliberò di donargli una collana d’oro con una
medaglia che portava lo stemma cittadino del valore di scudi 50.
Suo fratello, Sebastiano, citato come chierico il 4.12.1604 e poi come prete il
8.05.1612, quindi mansionario della cattedrale, così il 14.01.1614 (ASTV Not. I, bb.
1175, 1176) sino alla morte, sepolto il 9.09.1631 (AP C anagrafi).
16. Cerioni Tomè, medico da Napoli, il 22.09.1520 ser Bortolamio Scarpogliati
del fu Antonio da Vicenza, abitante a S. Cassiano, ebbe la dote di Lucia sua moglie da
parte di sua suocera, donna Francesca, vedova del medico Tomè Cerioni (ASTV Not. I,
b. 454 sub 16.08.1537).
17. Corte Antonio, medico da Tarzo, dove nacque sua figlia Caterina nel 1627
(AP Tarzo, battezzati).
18. Corte Girolamo, fisico da Tarzo attivo a Portogruaro nel 1631 (Bartolini).
Nel 1619 si ricorda un Geronimo del fu Giovanni Iacobo da Corte già cancelliere di Tarzo (ASTV Not. I, b. 1212), ma non è chiaro se si tratta della stessa persona.
19. Dall'Olmo Angelo 1512-34
Medico fisico salariato a Serravalle, ne fu deliberata la condotta il 20.10.1531 con
stipendio di ducati 100, vincendo la gara con Vito daUrbino e Raffaele da Cortona; accettò poi il 30.10.1531 e in quel momento risiedeva a Venezia. Documentato nell'aprile
del 1533 e il 21.02.1534 (ASVV S bb. 92, 93).
20. Daniele da Forlì 1525-28
170
Si tratta di Daniele di Francesco da Forlì cittadino padovano, studente in Arti e
Medicina nel 1512 (Martellozzo Forin 637, 651). Medico proposto e non accettato il
25.05.1525, ne fu poi deliberata la condotta triennale il seguente 31 settembre e chiese licenza di partire il 11.06.1528. Il 16.08.1536 (ASVV S b. 93) richiese al Consiglio £ 20
dovutegli per la sua precedente condotta. Altre informazioni si trovano nella scheda dell’aromatario Francesco de Bernardis. Dopo di lui la situazione diviene confusa, infatti
furono proposti il 29.06.1528 i medici Angelo da Villalta, il medico di Oderzo, Daniele
da Forlì e Raffaele medico a Conegliano e fu scelto quest'ultimo, ma il seguente 28 agosto fu deliberata la condotta al medico di Chioggia e una successiva condotta fu deliberata il 19.04.1529 (ASVV S bb. 91, 92).
21. Farienti Nicolò, medico condotto a Conegliano, il 28.08.1430 (AMVC b.
396, fasc. 7) chiese al Consiglio cittadino di poter andare ad abitare nei suoi possedimenti a Colle causa la peste che imperversava.
22. Filomena Giovanni Andrea medico fisico di Serravalle attestato tra 14911505 (Tomasi 2002 p. 18, da ASTV Not. I, bb. 272 e 948) e nel 1495-1503 (ivi, b. 334).
23. Franceschino da Oderzo 1375-1425
Fisico salariato a Serravalle nel 1375 (Tomasi 2002, p. 18). Si tratta del celebre
medico e filosofo Franceschino Muttoni figlio del giurisperito Aloisio, laureato in Medicina forse a Bologna, medico a Treviso nel 1369 e 1376, cittadino veneziano dal 1383 e
lì medico condotto per alcuni anni, morì a Treviso nel 1425. La sua fama superò i confini
veneti, talché nel 1400 si recò a visitare il duca d’Austria (Pesce , pp. 130-132),
24. Francesco da Padova del fu Ugo, medico presente a Serravalle il 14.11.1480
(ASTV Not. I, b. 271).
Gandin famiglia notabile di Ceneda proveniente da Gandino (BG).
Il capostipite Angelino da Bergamo ed è documentato per il pagamento della colta a Ceneda nel 1489 (ASVV C b. 81), ebbe due figli: Antonio e Gabriele, quest’ultimo
documentato il 17.04.1535 (ASTV Not. I, b. 451).
Antonio di Angelino Gandin da Gandino (BG) fullone è doc. a Ceneda nel 150107 (ASTV Not. I, b. 395), e ebbe almeno tre figli maschi e tre femmine; fece testamento
il 14.08.1537 (ivi), comandando di essere sepolto nel cimitero della cattedrale e lasciando le sue ricche sostanze ai tre figli maschi, Francesco il maggiore al quale lasciò casa e
numerose terre in zona e £ 842 in mercanzia (panni e tele), poi Angelino e Zanne. Nel
suo testamento sono citati anche la moglie Berta e il cognato pre Lorenzo Moscardini.
Il figlio Zuane Gandin è doc. anche il 28.10.1549 (ASTV Not. I, b. 576) quando assieme al fratello Angelino - è procuratore di sua moglie Libera del fu Zuane Battista
dalle Moneghe, poi il 20.10.1555 (ivi b. 664) rappresenta anche la suocera Augusta vedova dalle Moneghe da Serravalle. Zuane Gandin e Paola vedova del fu Angelino Gandin suo fratello sono doc. 12.05.1573 (ivi, b. 965). Il 2.05.1584 (ivi, b. 1120) viene rogato il contratto dotale di Maria di ser Zuane Gandin che sposa ser Bernardino de Iulianis
da Chions in Friuli con una dote di ducati 100.
Maria di Antonio Gandin è doc. il 30.06.1527 (ASTV Not. I, b. 401) quando fu
rogato il contratto dotale - per £ 710 - con Leonardo del fu ser Antonio “de Modulo” da
S. Fior di sopra. Il 16.02.1545 (ivi, b. 576) fu redatto il contratto dotale di Maddalena fu
Antonio Gandin che sposa Alessandro di Antonio de Artico da Ceneda, con dote di £
635:4, pagata dai fratelli Angelino e Giovanni.
Sembrerebbero esistere due famiglie coeve, entrambe provenienti da Gandino, e
che non paiono direttamente imparentate. Si ricorda infatti un Andrea di Zuane Gandin
171
da Bergamo abitante a Ceneda il 22.10.1503 (ASTV Not. I, b. 401) e suo padre Zuane è
qui doc. il 14.10.1495 (ivi, b. 395). Il 12.12.1522 (ivi) viene redatto il contratto dotale di
Maria di Andrea da Gandino (val Seriana, provincia di Bergamo) che sposa Zuane Battista
di m° Antonio barbiere da Silvella (vedi Barbieri) con una dote di £ 174:9 e l'8.10.1573
(ASTV Not. I, b. 1175) Margarita fu Andrea Gandin “de Ave” (provincia di Trento) dà procura a suo figlio Giovanni Battista per vendere terre ad Ave, in loco Lischia de Fontana.
25. Gandin Antonio 1572-97
Figlio di m° Giovanni, medico fisico di Ceneda doc. il 24.11.1572 (ASTV Not. I,
b. 1119) e nell’arco di tempo 1583-96 (ivi, bb. 1174-1176). Fu medico pagato dalla
Scuola dei Battuti per la sua opera ai degenti dell’ospedale a Meschio, e quindi anche
medico condotto della Comunità perlomeno nel periodo 1583-97 (ADVV b. Meschio,
Massaria). Il 18.12.1597 (ASVV C b. 66) il Consiglio deliberò una ricondotta col solito
salario. Sarebbe nato nel 1537 (Ruzza p. 205) e nel 1600 un Antonio Gandin era consigliere fra i Civili (ASVV C b. 68).
Il 20.01.1584 (ASTV Not. I, b. 1174), poiché suo padre Zuane era indebitato per
£ 190 con due mercanti veneziani chiede alla Comunità di Ceneda di pagare loro lire
150, detraendole dal proprio stipendio di medico della Comunità, il 16.06.1591 (ivi, b.
1120) sempre per pagare i debiti del padre cede alla Scuola del Santissimo una casa valutata £ 343:12; risulta ancora medico salariato il 5.03.1596 (ivi, b. 1198) a ducati 50 annui.
Fu spesso consigliere fra i cittadini a cavallo del secolo. Il 19.02.1583 prende in
affitto dal nobile Giovanni Del Giudice da Conegliano una casa in piazza a Ceneda per
23 ducati l'anno e il 7.07.1583 (ASTV Not. I, b. 969) sua moglie in secondi voti Franceschina e la sorella Elisabetta del fu Santo Locatelli olim aromatarius ad Signum lupi Venetiis in contrada dei santi Filippo e Giacomo, nomina un procuratore per tutelare i suoi
interessi nella causa per l'eredità della nonna materna Benedetta.
Antonio aveva due fratelli, il reverendo Paolo che fu canonico di Conegliano
(1581-90) e che nel 1590 cedette la prebenda all'altro fratello Giovanni Battista, a sua
volta documentato come canonico coneglianese nel periodo 1590-97 e che nel 1597 chiese al Papa il beneficio di Preganziol in diocesi tarvisina (ASTV Not. I, bb. 1174-1176).
172
Suo zio Francesco il 4.09.1540 (ivi, b. 1119 sub 23.09.1578) diede £ 50 alla sorella Maria, e la sua vedova Laura è ricordata per un codicillo testamentario il 2.05.1599
(ivi, b. 1120).
26. Gandin Giuseppe 1582-95
Medico fisico a Ceneda. Il 20.09.1582 (ASTV Not. I, b. 968) il nobile Guido
della Torre, conte di Val Sassina e cavaliere gerosolimitano gli conferì il previlegio del
notariato. Il 2.05.1583 (ivi, b. 969) la madre Paola - vedova del fu Angelino Gandin - è
tutrice del figlio minore Giuseppe (nel doc. si cita anche pre Giuseppe, zio materno del
ragazzo), compare poi il 24.10.1585 (ASTV Not. I, b. 1174) come ser Giuseppe fu Angelino Gandin.
Doc. il 24.01.1589 (ivi, b. 970) e il 16.10.1590 (ivi, b. 1031) quando dà ducati
400 di dote alla sorella Angelina moglie di Valentino fu Battista de Artico. Il 19.12.1594
(ASTV Not. I, b. 1120) affranca dalla Scuola del Santissimo una terra a Meschio in loco
"ai Gandin", poi il 5.02.1595 (ivi, b. 973) dà 200 ducati al socio Geronimo fu Andrea
Gosetto da Ceneda suo cognato da parte di sorella ad exercendum et traficandum in mercatura per tre anni. Sua moglie Felicita fu sepolta il 22.10.1602 (AP C anagrafi).
27. Giovanni da Serravalle, figlio di Andrea, studente in Medicina a Padova nel
1404, medico a Serravalle nel 1424-25, teneva in affitto una casa con un livello al vescovo in piazza a Serravalle (Tomasi 2002, p. 18, da ADVV b. 59/1).
28. Giovanni da Serravalle, figlio di Guecello, laureatosi a Padova nel 1397,
medico a Feltre e Treviso dove lavorò negli anni 1401-39 (Tomasi 2002, p. 18, Pesce p.
136); il 17.11.1407 acquistò casa nel borgo dell’Oliva a Treviso (ASTV Not. II, b. 1126).
Giudice (del -) famiglia notabile di Corbanese passata a Ceneda nella metà del
sec. XIV e di qui poi in parte a Conegliano nella seconda metà del sec. XV, di cui si ricordano almeno tre medici.
29. Giudice (del -) Domenico 1461-1522
Figlio di Nicolò, studente in Arti a Padova nel 1461-69 e poi medico fisico, è documentato nel periodo 1462-1522, figura come straniero alla colta del 1489 (ASVV C b.
81) e come proprietario nell'Estimo di Ceneda del 1502; è ancora cittadino di Ceneda il
26.09.1508 (ASTV Not. I, b. 448) e infatti qui il 3.02.1505 (ADVV C battesimi) fu battezzata sua figlia Laura. Il 26.01.1511(ASTV Not. I, b. 401) fece testamento lasciando
173
fra l’altro anche il denaro per far studiare tre giovani, uno da Ceneda, uno da Conegliano
e il terzo da Serravalle.
30. Giudice (del -) Giovanni Rizzardo 1461-1511
Figlio di Nicolò, studente a Padova dove si laureò in Arti nel 1461 e in Medicina
nel 1464, medico famosissimo, ancora vivo nel 1511; attestato a Ceneda il 7.12.1464
(AMVC b. 2, fasc. 13) risulta straniero alla colta cittadina del 1483 (ASVV C b. 81).
Ebbe la condotta a Conegliano per tre anni il 15.01.1466, rinnovata il 29.09.1471 a partire dal 1.01.1472 (AMVC b. 396), poi la condotta annuale a Belluno dal 29.03.1473
(ACBL LP, I) con stipendio di £ 800.
Con i suoi fratelli teneva in affitto dalla cattedrale un casale a Brusavilla di Ceneda perlomeno dal 1474 (ADVV Massaria). Potrebbe essere quel Giovanni da Ceneda
che il Corbanese p. 422 ricorda medico a Cividale nel 1498.
31. Giudice (del -) Nicolò 1416-82
Figlio di Rizzardo - padre di Domenico e Giovanni e di pre Pietro - notaio, cancelliere episcopale e fisico, aveva case sia a Serravalle che a Conegliano e Ceneda (Tomasi 1998, II p. 265 ).
32. Iacobo, medico a Serravalle dove è citato suo figlio Antonio nel 1449 (BCVV
S b. 626).
Maddalena Giovanni Andrea, vedi chirurghi.
33. Marcatelli Iacobo 1594-1603
Cittadino di Conegliano, medico condotto a Serravalle dal 12.11.1594 con stipendio di ducati 200, arrivò in città il 28.01.1595. Ebbe una successiva ricondotta il
3.11.1597 e il 8.02.1598 gli fu decretato un aumento stipendiale di ducati 30; poi si allontanò e quindi il 20.11.1600 fu deliberato di cercare un nuovo medico (ASVV S b.
102).
Era già medico condotto in città il 29.08.1595 quando si sposò con Aquilina di
Annibale Casoni nel palazzo dei Casoni (AP S anagrafi). La Bartolini lo ricorda condotto
ad Arbe, Traù, Venezia e Castelfranco (1589-92), infine Serravalle e Conegliano (qui
sino al 1603).
34. Minucci Andrea 1512-72
Figlio di Giovanni, laureatosi in Arti e Medicina a Padova il 1.03.1543, abitante a
Serravalle il 14.04.1545 (ASTV Not. I, b. 571) dove fu medico della Comunità nel periodo 1559-64 (Villanova 190), in effetti il Consiglio lo propose il 29.03.1559 e deliberò la
sua condotta il 14.04.1559 per tre anni a ducati 150 l'anno, riconfermandolo per altri tre
anni il 15.12.1561 (ASVV S, b. 97). Fu poi a Venezia presso il cardinale Correr, quindi
fu nominato arcivescovo di Zara (1567-72). Morì a Venezia e fu sepolto nella chiesa di
sant'Andrea di Bigonzo, dove è visibile la lapide tombale.
35. Moscardino, medico, fu teste ad un’infeudazione del vescovo Matteo, concessa il 3 exeunte luglio del 1207, cfr. BSVV ms. Zuliani, VIII, 218. Si tratta della documentazione più antica fra quelle reperite.
36. Natale, medico a Serravalle abitante in Calgranda presso l’ospedale; i suoi
eredi sono proprietari di terre a Rindola nel 1375 (Tomasi 2002 p. 18, da ASVV S, b.
624).
37. Ovio, medico di Sacile figlio del medico Bortolamio condotto a Pordenone, il
22.05.1600 (ASVV C, b. 63) il Consiglio delibera di affidargli la condotta con stipendio
annuale di ducati 50. Forse si tratta di Giulio Ovio, condotto a Pordenone nel 1617 (Bartolini).
38. Panati Giovanni Battista 1625-83
174
Medico a Serravalle nel 1630-33 (ASVV S 598) e sino al 1641 (ASTV CRS, S.
Giustina b. 5). La Bartolini lo ricorda medico a Venezia nel 1625 e poi condotto ad Asolo
sino al 1683. Il 19.03.1641 (ASTV Not. II, b. 1116) vengono sentite testimonianze a Conegliano su richiesta di Giovanni B. Panati medico di Serravalle.
39. Pancetta Sertorio 1571- m. 1612
Figlio di Antonio da Venezia, medico di Serravalle, dove si offrì come condotto il
21.05.1571 e l’11.08.1571 (ASVV S, b. 98) ma non fu accettato. Ebbe poi la condotta
triennale il 11.01.1576 con uno stipendio di ducati 150 l'anno, una ricondotta quinquennale il 24.08.1578 con stipendio di ducati 200. Il Consiglio gli diede licenza per stabilirsi
a Venezia il 10.01.1579 e poi gli conferì una successiva ricondotta il 20.04.1579 per cinque anni allo stesso stipendio, reiterata il 2.01.1584 e nel dicembre 1587. Rinunciò all’incarico ancora il 9.03.1593 e il 17.01.1594 il Consiglio deliberò quindi di cercare un
suo sostituto (ASVV S, bb. 99- 101). Fu medico della Comunità di Serravalle negli anni
1598-1601 (ASTV CRS, S. Giustina b. 9) e nel 1604-09 (BCVV S, b. 598), rinunciò poi
alla condotta medica di Serravalle il 29.11.1610 (ASVV S 104); qui doc. nel 1610-11
(Villanova p. 190). Il 29.05.1579 (ASTV 1174) è procuratore di Sebastiano fu Simone
Andreuzza da Rindola, il 12.09.1583 (ivi, b. 969, c. 147) è procuratore di suo padre Antonio da Venezia [Giustiniani] nobile serravallese. Fu gastaldo della Scuola del Santissimo (27.11.1583, ivi b. 863) e fu spesso compare di battesimo o matrimonio nel periodo
1579-91. Il 30.06.1605 vendette una casa in Serravalle a Francesco Sarmede per ducati
300 (ASTV Not. I, b. 1028). Fece monacare la figlia Corona con una dote di ducati 300
il 22.04.1598 (ASTV CRS, S. Girolamo b. 4). Sertorio morì nell'aprile 1612 (ASVV S,
b. 104).
40. Paulo Gerolamo, ebbe la condotta annuale a Serravalle il 25.07.1511 - preferito ai medici Lorenzo e Bonaventura - e una successiva ricondotta il 31.08.1512, che
non accettò (ASVV S b. 89). Un Paolo Girolamo (alias Mosè Perez ebreo) fu battezzato
a Pordenone nel 1499 (Tomasi 2012, pp. 63-64).
41. Pelizza Ippolito 1617-29
Era da Sacile, medico condotto a Serravalle che il 30.06.1617 fu preferito ai medici Lorenzo di Antonio Sarmede da Serravalle e Giulio Ovio da Pordenone; rispose che
sarebbe arrivato se lo stipendio fosse stato adeguato, cosi che l'8 agosto fu deliberato una
paga di ducati 300 ed ebbe la condotta il 24.08.1617 (ASVV S, b. 104). Ebbe poi una
condotta quinquennale il 7.06.1622 reiterata il 24.05.1627, ma il 21.07.1629 chiese licenza per poter recarsi ad Udine dove era stato scelto come condotto (ivi, bb. 107, 108).
Il 1.08.1621 sua figlia Gabriella si sposò col serravellese Ortensio Maddalena e il
22.02.1626 si sposò suo figlio Cesare con Giulia di Gregorio Sanfior (AP S anagrafi).
175
42. Pellizzari Simone 1550-79
Figlio di Filippo, laureato a Padova il 12.06.1550 (Martellozzo Forin 3836), medico da S. Marino di Romagna, ebbe la condotta dalla Comunità di Serravalle il
11.08.1571, preferito ai candidati Sertorio Pancetta e Nicolò de Angeli delle Marche, per
tre anni a ducati 150 annui e una nuova ricondotta il 27.01.1574 e il 10.05.1574, ottenendo la licenza di partire l'11.01.1576 e dopo la partenza del suo successore, il Pellizzari fu
ancora consultato dal Consiglio il 5.04.1579 (ASVV S, bb. 98, 99). Doc. a Serravalle il
8.12.1575 (ASTV Not. I, b. 1045); la Bartolini lo ricorda condotto a Traù (1565-67) e
poi a Capodistria.
43. Piasentin Nicolò 1494-1505
Fisico a Serravalle citato il 28.10.1494 (ASTV Not. I, b. 272 sub 24.01.1496) e
nel 1505 (Tomasi 2002, p. 18).
La famiglia è originaria di Piacenza, il 1.08.1520 (ASTV Not. I, b. 400) compare
infatti Marco del fu Sebastiano da Piacenza solito abitare a Ceneda ma ora abitante a
Serravalle, detto “Piasentin”.
- Pozzo (dal -), vedi Zaccaria.
44. Rato Pietro 1512-15
Figlio di Cristoforo, veronese, si laureò a Padova in Arti il 4.08.1501 (Martellozzo
Forin 57), fu medico condotto a Serravalle per delibera del 7.09.1512 valevole dal 1°
gennaio prossimo, ebbe una ricondotta annuale il 13.10.1514 e il 6 gennaio successivo
chiese licenza per andare a Sacile (ASVV S, b. 89).
45. Rota Giovanni Battista 1612-m. 1630
Medico da Oderzo, fu deliberata la sua condotta quinquennale a Serravalle il
26.08.1612 con stipendio di ducati 300, ma rispose chiedendone 400 che il Consiglio accettò di pagare con delibera del 6.09.1612, partì poi dalla città il 30 giugno 1617 (ASVV
S, b. 104). Il 5.08.1629 fu ancora scelto come condotto per cinque anni con stipendio annuo di ducati 332, era allora al servizio dei Collalto. Morì nel 1630, così la Bartolini. Un
Giovanni Battista di Valerio Rotta, cittadino bergamasco, si laureò in Filosofia e Medicina a Padova il 26.11.1602 (Zen Benedetti 641).
46. Rota Valerio, fisico citato in una causa al tribunale di Cordignano nel 1646
(ASTV pod. Cordignano, b. 33).
47. Sanfior Giorgio, medico da Serravalle che entrò nella Scuola dei Battuti il
25.03.1632 (ASVV S, b. 650).
48. Sarmede Lorenzo 1617-m. 1629
Figlio di Antonio, medico che nel 1617 partecipò al concorso per la condotta a
Serravalle, ma a lui fu preferito il soprastante Ippolito Pelizza. Fu confratello dei Battuti,
sepolto il 16.06.1629 (ASVV S, b. 650.4).
49. Sigisfredo, medico a Serravalle, la cui vedova Gisla risulta proprietaria di
beni immobili nel 1404 (AP S, Catastico)
50. Solari Lorenzo 1564-71
Medico da Bergamo, condotto a Serravalle nel 1564 (Villanova p. 190), doc. il
3.04.1565 (ASTV Not. I, b. 518, promemoria del notaio che ricorda i figli e varie persone connesse con le loro nascite, levatrice, medico, compari di battesimo, preti, ecc.).
Il 27.11.1568 il Consiglio chiese la ricondotta del medico per tre anni a 150 ducati
annui, deliberata poi il 4.01.1569 a partire dal 13.03.1569; il 30.07.1570 il medico chiese
licenza di partire e il Consiglio non accettò ma alla successiva richiesta deliberò di lasciarlo andare il 21.05.1571 purché rimanesse ancora altri sei mesi (ASVV S, b. 98).
176
Il 12.02.1575 (ASTV Not. I, b. 862) pur abitando a Venezia era a Serravalle per vendere
una terra a Portobuffolè, il 6.01.1579 (ivi, b. 967) lite tra i fratelli Nicolò, Zuane Maria e
Antonio del fu Domenico Levade da Ceneda contro Cecilia vedova del fu Lorenzo Solari
medico.
51. Stefani Giovanni 1624- m. 1653Medico condotto a Ceneda, proprietario terriero nel 1626 (ASVV C, b. 93); già presente in città il Consiglio deliberò di accettarlo
con condotta triennale il 18.06.1625 e stipendio di ducati 50 l’anno (ivi, b. 63). Il medico
rimase qui, diventando cittadino cenedese, sin verso il 1633 e passò poi a Venezia dove
morì nel 1653. A Venezia furono editi alcuni libri suoi, nel 1624 (sulla peste), nel 1627
(di carattere filosofico), nel 1629 (in lode del vescovo di Ceneda), nel 1633 (dove è riportata una lettera laudatoria in vista della sua partenza da Ceneda), nel 1635 (sui vescicanti), nel 1653 (specie sulle febbri). Bellunese, morì a Venezia verso il 1653 o poco
dopo, cfr Ruzza.
52. Villalta (da - ) Angelo 1515-25 Feltrino, condotto a Serravalle dal 9.02.1515
con stipendio di ducati 50, il 15.04.1517 protesta per irregolarità nel pagamento. Ebbe
una ricondotta biennale il 17.04.1517 escludendo dalla sua attività pubblica sacerdoti e
religiosi, ebbe un'altra ricondotta il 6.03.1518 e ancora il 26.12.1519 con lo stesso stipendio. Il 23.06.1520 annunciò che a S. Daniele del Friuli gli offrivano uno stipendio di
ducati 70 più la casa, per cui il Consiglio ne offrì 60 che accettò, avendo ancora una ricondotta annuale il 1.12.1522. Chiese licenza di partire l’8 gennaio 1523 ma il successivo 9 marzo fu scelto ancora lui, in gara con Alessandro condotto ad Oderzo e Domenico
del Giudice da Conegliano. Il 20.07.1524 il Consiglio deliberò di cercare un nuovo medico ma gli offrì ancora la condotta, con stipendio di ducati 60, il 1.01.1525, che egli non
accettò, per cui il 23 dello stesso mese si deliberò di cercare un nuovo medico e il
22.04.1525 si pensò di andare a Padova, parlando prima con Matio Lampardas da Candia, per cercarvi un medico. Il 26.02.1525 Angelo chiese tre mesi di stipendio non ancora
pagati (ASVV S, bb. 89- 91).
53. Villalta (da -) Donato, figlio di messer Andelerio da Feltre, presente al testamento del conte Francesco Brandolini nel 1510, vedi qui di seguito Zaccaria.
54. Viviano da Ceneda, medico a Cividale di Belluno dove fece testamento il
25.01.1376 lasciando al Capitolo di Ceneda una terra a S. Eliseo (Tomasi 1998, I p. 127
che trae da ACVV VIII).
55. Vito, medico presente ad un atto del vescovo di Ceneda nel 1230 (Verci I, n.
LX)
56. Vittore Rizardo 1550- m. 1593
Medico fisico a Cison, doc. il 30.07.1559 (ASTVNot. I, b. 513, not. G. Vuult, f.
sc.). Si tratta del medico Rizzardo Vittore da Feltre, studente in Arti e Medicina a Padova
nel 1550 (Martellozzo Forin 3833), poi condotto ad Asolo (1561-62), a Feltre (1562-80)
ed infine a Lendinara sino alla morte nel 1593 (Bartolini).
57. Zaccaria 1506- m. 1561
Medico condotto a Serravalle doc. il 29.06.1506 e nel 1507 (ASTV CRS, S. Giustina b. 5). Probabilmente si tratta del famoso medico feltrino Zaccaria di Battista dal
Pozzo, presente al testamento del conte Francesco Brandolini a Cison il 16.9.1510 (AS
TV Not. I, b. 448).
Zaccaria dal Pozzo “il vecchio” fu lettore nelle università di Ferrara e di Bologna
e poi condotto a Feltre e Belluno dal 1507 al 1561, anno di morte (Bartolini).
177
58. Zuccato Alvise 1511-25
Figlio del notaio trevisano Antonio, studente nel 1511, compare come dottore in
Arti e Medicina a Padova nel 1516 (Martellozzo Forin 619, 716), in qualità di medico fisico a Treviso è teste a Serravalle il 17.05.1525 (ASTV Not. I, b. 451).
Il 25.05.1525 furono proposti i medici Zaccaria Fonteris da Feltre (condotto a
Belluno con stipendio di ducati 100), Alvise Zuccato, Marco Stega, [Daniele da] Forlì
condotto a Piove di Sacco, e, scelto lo Zuccato gli fu offerta la condotta il 13.06.1525,
cui il medico rispose chiedendo casa, pagamento dei trasporti del bagaglio e stipendio
trimestrale poiché al tempo era in uso la rata semestrale.
Quattro giorni dopo gli fu offerta la condotta annuale a ducati 80 più 5 per la casa
ma il 29 dello stesso mese non accettò con lettera autografa (ASVV S, b. 91).
LEVATRICI
Donne pratiche del parto, che assistevano e aiutavano le partorienti, sono documentate in zona dal tardo Cinquecento e se ne trova notizia negli atti parrocchiali di battesimo, esse infatti potevano battezzare in
periculo mortis e pertanto ne è rimasta traccia documentaria.
Si trattava in genere di levatrici, in dialetto “comari”, approvate
dal locale parroco o curato, e una lista di queste operatrici dal 1584 al
1841, raccolta nella parrocchia di Pinidello, si può trovare in Tomasi
2006, p. 88, mentre una relativa alla parrocchia di Tarzo si trova negli Atti
di questo convegno, a cura di B. Michelon.
VETERINARI
Con questo appellativo sono noti un paio di maniscalchi della
prima metà del Cinquecento e cosa si intendesse non è chiaro, fra l’altro
la prima documentazione italiana di veterinario come “medico degli animali ” data al 1585 (DEI V, p. 4040).
Probabilmente si trattava di maniscalchi esperti in alcune patologie animali, è da supporre quelli che venivano ferrati, cioè bovini ed
equini (cavali e muli).
Va ricordato che sui quasi 800 fabbri e maniscalchi attivi in
zona nei quattro secoli studiati solo questi due sono ricordati anche come
veterinari.
178
Per quanto riguarda le patologie degli animali da allevamento
si ricorreva per i bovini a san Floriano (in zona si confondono il vescovo
di Oderzo e il militare martire a Lorch) e per i suini a sant’Antonio abate
(invocato specie contro il “mal rossino”).
I contadini provvedevano alla cura delle patologie animali con
vari metodi, più o meno empirici, in particolare spicca l’uso, continuato
sino al Novecento inoltrato, della “erba regia” cioè l’elleboro verde, la cui
radice (un revulsivo) veniva inserita praticando un taglio nel derma dei
bovini, e con i salassi.
Bartolomeo da Vercelli, veterinario o feripedator abitante a Cison, detto Bortolo
e documentato il 5.04.1511 (ASTV Not. I, b. 394). Suo figlio Nicolò da Noale abitava a
Mareno nel Contà il 2.07.1534 (ivi, b. 663) e alla data il padre era già morto.
Giovanni 1530-58
Figlio di mastro Paolo [da Cirano in val Seriana] abitante a Serravalle; doc. col
padre nel 1530, poi l'8.05.1551 e il 25.07.1556 (ASTV Not. I, b. 532) come veterinarius
sive marescalcus. Abitava nel Borgo inferiore e fu consigliere dei Battuti nel 1540
(ASVV S b. 637), nel 1551 sua figlia Angelica fu candidata per l’elemosina pro dote di £
50 (ivi).
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180
Medici e chirurghi a Belluno dal 1487 al 1517
Relazione presentata al Convegno da
Dina VIGNAGA
Sui medici più illustri attivi nel territorio veneto nei secoli passati,
in particolare su quelli che si distinsero come docenti e ricercatori dello
Studio di Padova, sono stati pubblicati numerosi saggi e biografie.
Sui medici e sui chirurghi salariati delle comunità della Terraferma
veneta, fino a pochi anni fa non erano stati effettuati studi altrettanto importanti. Il merito di aver fatto emergere dalla marginalità e dall’oblio
queste figure professionali va riconosciuto alla dott.a Donatella Bartolini.
Nel volume pubblicato pochi anni fa, al termine di una ricerca ampia e accurata, l’organizzazione e le strutture sanitarie, in particolare il
ruolo dei medici condotti e dei chirurghi e i loro rapporti con i vari enti
territoriali della Terraferma veneta del ‘500 e ‘600 risultano analizzati dall’autrice in tutta la loro complessità e varietà1.
Una delle comunità esaminate più ampiamente è quella di Belluno
dove, nella prima metà del ‘500, esercitò per molti anni la professione di
medico condotto il feltrino Zaccaria dal Pozzo.
In questa relazione sono presentati tutti quelli che, prima di lui, furono assunti come fisici salariati e i chirurghi che, dal 1487 al 1517 2, assicurarono il servizio sanitario a Belluno e al suo distretto.
Della loro presenza e della loro attività sono rimaste molte tracce,
soprattutto nei documenti pubblici, in particolare nei registri in cui sono
riportate le delibere dei Consigli cittadini. In questi non viene riferito in
che modo esercitavano concretamente la loro professione, né sono indicate notizie sul numero dei malati e sulle malattie più diffuse, con l’eccezione della peste. Sono invece registrati tutti quegli atti amministrativi riguardanti l’assunzione, la conferma o la conclusione del servizio, che riflettono l’importanza attribuita alle loro cure, i rapporti con le autorità cit1 D. BARTOLINI, Medici e Comunità. Esempi dalla Terraferma veneta dei secoli
XVI e XVII, Venezia 2006.
2 Il trentennio 1487-1517 è uno dei più travagliati della storia bellunese: inizia con la
guerra tra Venezia e Sigismondo conte del Tirolo, in cui è coinvolto l’Agordino, e termina con la fase conclusiva della guerra cambraica. Su tutto il territorio si abbattono, assieme ai fatti militari, crisi economica, carestie e pestilenze.
181
tadine e le differenze di ruolo e di trattamento economico di queste categorie professionali.
Modalità di ricerca e di assunzione del medico e dei due chirurghi
Esaminando i testi delle delibere del Consiglio Maggiore, il principale organo amministrativo della Comunità di Belluno, si rileva che, nel
periodo suindicato, così pure negli anni precedenti, la ricerca di un nuovo
medico fisico è compiuta da un consigliere eletto a questo scopo.
Talvolta l’indagine dà un risultato positivo in una delle città più vicine, Feltre o Ceneda, ma nella maggior parte dei casi l’incaricato deve
effettuare un viaggio molto più lungo, fino a Padova, l’unica città dello
Stato veneto in cui, dal 1458, si può conseguire la laurea, o a Venezia. I
medici condotti sono cercati e trovati più facilmente nella capitale per la
possibilità di scegliere tra decine e decine di fisici che risiedono qui perché la città offre migliori prospettive di carriera.
In questa ricerca il consigliere non procede a tentoni, ma conosce
già i nomi dei medici a cui può rivolgersi. Nel 1479, ad esempio, il consigliere Odorico Francesco Persicini, dovendo recarsi a Venezia e a Padova
per cercare un medico fisico, può avvalersi di accurate informazioni su
quelli che saranno interpellati e ai quali saranno proposti il contratto e la
retribuzione (habendo omnes illas bonas et optimas informationes de illis
cum quibus praticaverit et voluerint accipere cum capitulis de quibus habet penes se copiam et cum sallario de quo est informatio a dicta Communitate)3.
Nel suo caso come in altri le informazioni sono state ottenute soprattutto tramite la rete di amicizie e di conoscenze degli amministratori
con rappresentanti di altre comunità e dell’Università di Padova4. Chi si
mostra disponibile a trasferirsi a Belluno e a rimanervi almeno per un
anno forse è invogliato dalla certezza che potrà esercitare la professione
come unico fisico salariato e quindi senza dover continuamente rivaleggiare e confrontarsi con un altro o più colleghi.
3
Comunità di Cividàl di Belluno. Atti e provisioni, Libro K (1474-1517), fondo Museo n. 141 (d’ora in poi Libro K), c. 148r, 24 marzo 1479. Sta in Archivio Storico del Comune di Belluno. Ringrazio di cuore la dott. Orietta Ceiner, direttrice dell’Archivio, per
l’assistenza fornita con grande disponibilità e competenza, in particolare nella trascrizione dei documenti del Libro K e di quelli citati più avanti.
4 D. BARTOLINI, Medici e Comunità…op. cit., p. 83: “Molti indizi lasciano supporre che l’accesso all’impiego pubblico passasse tanto per canali di tipo istituzionale quanto per vie più informali. (…) Venezia e Padova fornivano medici alle città di Terraferma:
i due collegi veneziani e lo Studio erano i primi punti d’informazione e di reclutamento”.
182
Un altro motivo che potrebbe spiegare l’atteggiamento favorevole
del medico interpellato compare negli Statuti5:
Stabiliamo che tutti i medici fisici e i chirurghi della città di Belluno che
ricevano o meno un salario dal comune, siano esentati da oneri, collette,
custodie, guardie e altre fazioni pubbliche da svolgere in favore del comune; e lo stesso valga per ogni maestro che insegni il latino in città, e
tuttavia siano tenuti a pagare i dazi e le mude come gli altri cittadini e distrettuali.
Anche per loro, in quanto salariati del Comune, è però prevista l’esenzione almeno da un dazio6:
Stabiliamo che i rettori o gli ufficiali stranieri del comune, i medici salariati stranieri e gli stipendiati, i cavalieri e gli altri familiari stranieri che
prestino servizio per il nostro signore o altri cittadini di Belluno, quando
abbandonino la città, se volessero portare con sé i cavalli che vi avevano
condotto al tempo del loro arrivo, non debbano pagare alcun dazio.
Nel contratto è previsto un altro privilegio, il trasporto gratuito
mediante dei carri di ciò che vuol trasferire nella casa in cui abiterà7.
Sicuramente la spinta decisiva verso l’ accettazione della condotta
è costituita dal compenso. Al medico viene infatti offerto un salario 8 annuo minimo di 800 lire, ma che può arrivare fino a 200 ducati, corrispondenti a 1240 lire. Esso rappresenta per la Comunità di Cividal di Belluno
uno dei maggiori oneri finanziari, essendo uno dei salari più elevati, ma
che essa è disposta a sborsare pur di assicurarsi la presenza stabile e le
cure di un medico affidabile.
La scelta dei due chirurghi salariati non richiede una ricerca analoga in quanto, almeno nel periodo considerato, riguarda cittadini di Belluno. Sono in genere dei barbieri che hanno imparato l’arte di medicare da
colleghi o dal padre. Il loro salario comporta un esborso massimo di 20
5 Belluno. Statuti del 1392, testi scelti, tradotti e annotati da E. BACCHETTI. Presentazione di G. ORTALLI, Roma 2005, XXXIII, n. 176, p. 223.
6 Ivi, XL, n.218B, p. 247.
7 D. BARTOLINI, Medici e Comunità…op. cit., p. 125: “Al momento della condotta
del medico venivano concordate anche le modalità della sua venuta in città garantendogli
il trasporto gratuito delle masserizie. In molte comunità inoltre era in vigore una consuetudine secondo la quale il medico pubblico godeva dell’esenzione dalle tasse per il corso
del suo incarico. Nata in epoca medievale come mezzo per attrarre medici dall’esterno,
la consuetudine divenne norma codificata dagli statuti”.
8 Ivi, p. 124: “Col termine “salario” si è voluto indicare il compenso annuo destinato
al medico pubblico rispettando la terminologia presente nei verbali delle sedute consiliari del tempo. (…) Il termine che maggiormente si avvicina alla vera sostanza del salario
pubblico è “ingaggio” o “appannaggio”, una cifra elevata che consentiva alle comunità
di legare a sé un professionista”.
183
lire mensili9. Ogni anno è confermato come chirurgo un rappresentante
della famiglia da Salce (de Salcis), una dinastia di cerusici che tramanda
la professione di padre in figlio.
Lettera del medico Giovanni del Giudice
Il 28 gennaio 1487 è convocato il Consiglio Maggiore. Viene letta
dal cancelliere la lettera del fisico salariato Giovanni del Giudice indirizzata al rettore e ai consiglieri per ricordare loro che sta per scadere il contratto stipulato con la magnifica Comunità di Bellun che potrà quindi dargli licencia10. Il medico giustifica la sua richiesta di esonero dal servizio
con motivi di salute. Egli afferma infatti, ricorrendo ad una espressione tipica dei testamenti, di essere infirmus corpore, sed mente tamen per Dei
gratiam sanus. La Comunità avrà tuttavia tutto il tempo necessario per
trovare un altro medico più capace e di maggiore esperienza. Egli aspira a
trasferirsi a Venezia dove, una volta ristabilito, potrà esercitare l’attività di
medico. Probabilmente non avrebbe incontrato troppe difficoltà per inserisi nell’ambiente sanitario della capitale come salariato o libero professionista. Lo avrebbero aiutato in questo la stima e l’esperienza già acquisite e la rete di parentele e di amicizie. Del resto a Ceneda la famiglia del
Giudice risulta una di quelle più antiche e prestigiose11:
“Magnifice et generose domine, domine Dordi Iustiniane huius civitatis
Belluni pretor atque prefecte dignissime vosque spectabiles consules et
honorabiles consiliarii, Io Zuanne de Iudice phisico sallariato da questa
magnifica Comunità de Bellun, infirmus corpore, mente tamen per Dey
gratiam sanus, intendendo che el se apropinqua el tempo in el qual et a
questa magnifica Comunità he in libertade de darmi licencia et a mi a
prefacta magnifica Comunità de domandarla secondo le convention tra
9 Ivi, p. 105: “Il diverso trattamento trovava una delle sue giustificazioni nel principio che distingueva le occupazioni meccaniche da quelle liberali. Chirurgia e medicina
corrispondevano a due livelli professionali ai quali era riservato un diverso peso anche in
ambito sociale. Il medico fisico, grazie alla sua preparazione universitaria, era in grado
di curare attraverso l’uso di facoltà intellettuali. Sua competenza specifica erano i mali
interni e la prescrizione di rimedi tesi a regolare l’equilibrio delle passioni e degli umori
corporei. Il chirurgo, così come lo speziale, operava invece con le mani e, in molti casi,
come imponevano i canoni terapeutici del tempo, seguendo le istruzioni del fisico”.
10 Libro K, c. 380v, 28 gennaio 1487.
11 G. TOMASI, La diocesi di Ceneda. Chiese e uomini dalle origini al 1586, Vittorio
Veneto 1998, II, p. 264: “ Nobile famiglia di Ceneda, originaria di Corbanese, dove è
doc. con Domenico giudice nel 1280 (ASTV PO 4273); di qui passati a Ceneda verso la
metà del sec. XIV, un ramo poi anche a Conegliano dal tardo Quattrocento”.
184
essa magnifica Comunità et mi facte, desideroso che questa magnifica
Comunità habia spacio de condursi (se cusì vorà) un altro fisicho el qual
so certo troverà et più doto in facultade necessarie et de mazor experiencia, non però cusì studioso ala sanitade de tuti de questo luogo. Dimando
per la presente, conzosia che personalmente non possi far questo, licencia a questa magnifica Comunitade ala qual sempre et in ogni luogo serò
dedetissimo per che la intencion mia he, se a Dio piacerà che me risana,
finito el tempo dela mia conducta, andarmene a Veniesia azioché de lì
mediante el mio artificio i possa et viver et substentarmi. La qual licencia
priego questa magnifica Comunità se degni volermi dar offerendomi sempre et de qui et in qualunche luogo prompto et aparechiato a tute quele
cosse che et a questa magnifica Comunità et particulariter a chadaun de
vui cognoserò esser iocunde, utille et honorifice richiedendo ulterius a
prefata magnifica Comunità et a chadaun de voi perdonanza se alguna
cossa havesse fato quod tamen fecisse me nec sero nec credito la qual
cossa fosse stata molesta a questa Comunità over ad alguna altra particular persona”.
Dopo aver discusso a lungo, il Consiglio Maggiore decide…di non
decidere rinviando l’approvazione di una proposta al termine di un’altra
riunione in modo che tutti i consiglieri possano disporre di un tempo sufficiente per riflettere (de mandato et licencia antedicti domini potestatis
et capitanei, conclusum fuit circha ipsam licenciam pro nunc in presenti
consilio ad ulteriora non procedere, sed differe deliberationem istam ad
aliud consilium quod a breve erit et quod isto interim omnes faciant bonum pensamentum super hoc)12.
Riconferma dei due chirurghi
Pochi giorni dopo il Consiglio Maggiore riconferma per un altro
anno i due chirurghi, Zanantonio q. magistri Baptiste barberii e Bernardo
da Salce con il compenso e gli obblighi consueti, il primo con 39 voti favorevoli, 6 negativi, il secondo con 38 voti a favore, 7 contrari13 (Magister Zanantonius q. magistri Baptiste barberii cyroicus confirmatus fuit
per annum cum sallario et obligationibus suis maxime per ballotas 39 affirmativas non obstantibus sex negativis. Magister Bernardus de Salcis
ciroicus confirmatus fuit maxime per ballotas 38 affirmativas non obstantibus septem negativis).
12
13
Libro K, c. 380v, 28 gennaio 1487.
Ivi,c. 382v,11 febbraio 1487.
185
Anche questa volta la maggioranza dei consiglieri assicura ai due
chirurghi un salario, ma forse non ancora soddisfacente per Bernardo da
Salce che negli anni precedenti aveva rivolto almeno due volte una supplica per ottenere un aumento14.
Riconferma per un anno della condotta del medico
Nella nuova seduta del Consiglio Maggiore, il 15 febbraio 1487, il
rettore fa rileggere la lettera del medico Giovanni del Giudice (iterum ad
claram omnium existencium in dicto consilio intelligentiam relecta fuit
dicta licencia). La sua richiesta viene discussa ancora a lungo, ma invece
di soddisfare il desiderio del medico, i consiglieri, considerato che la Comunità ha bisogno di un medico e che Giovanni del Giudice è capace ed
esperto, non gli concedono il permesso di andarsene appena terminata la
sua condotta riconfermandolo per un altro anno con 35 voti a favore, 18
contrari. Al medico è assicurato un salario annuo di 200 ducati15:
Super qua licencia sic ut supra exibita, factis multis et diversis arengis
per quam plures consiliares existentes in dicto consilio super isto negocio, tandem de mandato antedicti magnifici domini potestatis et capitanei
ac dominorum consulum inter ipsos consiliares ad bussulos cum ballotis
positum fuit partitum in scriptis, videlicet quod, attenta necessitate fisici
quam in presentiarum hec Communitas habet et attenta sufficientia et
longa experiencia quam hec Communitas habuit et habet de magistro
Ioanne de Ceneta qui multis annis suum exercuit officium in civitate ipsa
fideliter et legaliter, non detur licencian eidem magistro Ioanni fisico, sed
ymmo confirmetur per unum annum futurum cum sallario ducatorum ducentorum in anno et cum capitulis suis hucusque observatis. Qui volunt
dictam partem capy ponant eorum ballotas in bussulo rubeo affirmativo,
qui non volunt ponant in albo negativo. Placuit autem dictum partitum
triginta quinque ex dictis consiliariis ponentibus eorum ballotas in bussulo rubeo affirmativo et sic fuit obtentum et deliberatum non obstantibus
decem octo repertis in bussulo albo negativo.
Proposta del medico Giovanni del Giudice
Il mese seguente il medico, convocato dal rettore, può esporre direttamente il motivo della sua richiesta e la soluzione per il problema de14
15
186
Ivi, c. 11v, 9 gennaio 1475; c. 258r, 5 novembre 1482.
Ivi, c. 383r, 15 febbraio 1487.
terminato dalla sua partenza. Innanzitutto egli ringrazia i consiglieri per
avergli rinnovato fiducia e benevolenza, tuttavia, anche se gli rincresce,
non può accettare la riconferma per un altro anno per motivi di salute. Se
gli concederanno il permesso di lasciare la città, la condotta potrebbe essere assegnata a suo fratello Domenico. La sua presenza come medico
non sarebbe meno utile rispetto alla propria se egli rimanesse a Belluno16:
In quo quidem consilio sic ut supra congregato, mandato antedicti domini
potestatis et capitanei, vocatus fuit egregius medicine doctor dominus
Ioannes de Iudice fisichus qui his diebus in isto consilio confirmatus fuit
per fisichum huius Communitatis per annum cum capitulis suis consuetis.
Qui magister Ioannes veniens in dicto consilio accessit de mandato ut supra ad arengam et existens in dicta arenga inter alia que dixit naravit et
exposuit in ipso consilio hec verba (quibus) usus fuit et dixit: “Magnifico
Retor et Spectabile Conselio, quelle gratie io non poso a voi refferire et
rendere de la amplissima humanità et benignità verso de mi usata el summo Detor de tuti li beni a voi sì in specie como in generaliter habia refferire de la suma humanità vostra in questo spectabile conselio verso de mi
usata confirmandomi per fisicho vostro per annum, dela qual cossa molto
me dole non poter satisfar ale voluntà vostre et maxime per molte rasoni
le qual sì per la importunitade del acto et ali tempi retrovo esser in la mia
persona como per molte altre mie in convalesencia, mi retrovo che molto
me dolo non poter sì tanta Comunità como xe questa complacere a che
volendo cusì Cului dal quale prociede tuto contra la voluntà del qual non
si può andar; molto seria contento in quanto piacesse alla Magnificentia
et Spectabilità vostre da poi che mi trovandome in tal convalesencia non
posso satisfar ala voluntà de questa magnifica Comunità, saltim piacesse
a quela in quanto volia provederse de fisicho voler condur a vostro sallario maistro Dominico mio fradelo cum quelo sallario serà a piacer a sta
magnifica Comunità per che questo fazendo serà a mi de sumo piacer et
anche a voy de non miga de mancho utillitade quanto seria se la mia persona fosse presente. Si etiam che occorente caso alcuno de suma importancia, sempre aver me poteti et lui”, unde, his dictis, de dicto consilio recessit.
Giovanni del Giudice, assunto come fisico salariato nel 1473, era
stato riconfermato più volte. Nel 1479, quando aveva rinunciato alla condotta, suo fratello Domenico l’aveva sostituito per il tempo mancante alla
scadenza ed aveva supplito per alcuni mesi anche il nuovo fisico salariato,
16
Ivi, c. 386v-387r, 27 marzo 1487.
187
Benedetto da Castello, prima del suo arrivo a Belluno. Nuovamente assunto nel 1483, era riuscito ad ottenere, in occasione del rinnovo della
condotta, un salario annuo di 200 ducati17.
Ora si ripete quanto era già avvenuto nel 1479: Giovanni del
Giudice, avendo deciso di dimettersi, chiede al Consiglio Maggiore la
concessione della licencia, anche se gli è stata riconfermata la condotta, e
propone nuovamente suo fratello Domenico come medico ‘supplente’ .
Il rettore esprime il suo parere favorevole alla proposta di assumere Domenico del Giudice, però con un salario di 150 ducati annui. Si
susseguono gli interventi di alcuni consiglieri: Vittore de Carpedonibus,
Agostino de Grino, Simeone de Doiono, Antonio de Vitulis, Giovanni de
Glamoxa e Odorico Francesco Persicini.
L’ultima arenga riflette il parere già espresso da altri consiglieri:
considerate la capacità e l’esperienza, Domenico del Giudice sia assunto
per un anno con il contratto consueto e con un salario annuo di 800 lire.
Questa scelta risulta preferibile, perché si conosce la capacità di questo
medico, ma non quella di un altro che fosse assunto al suo posto. La proposta viene approvata con una maggioranza risicata: 34 sono i voti favorevoli, 32 quelli contrari.
Il risultato è messo in discussione da alcuni consiglieri i quali
chiedono una nuova votazione in quanto sono state contate 66 ballote, pur
essendo 65 i presenti (in ipsa ballotatione commissus fuit error prout evidenter apparet quia ballote sunt 66 et consiliarii sunt 65, ideo petierunt
dictam partem ballotari debere).
Il rettore, dopo un lungo dibattito, interviene per dichiarare valida
la ballotttazione perché in ogni caso era stata superata la metà dei voti che
il Consiglio Maggiore poteva esprimere (quia excessit in ballotatione medietatem Consilii)18.
17 G. TOMASI, La diocesi di Ceneda…op. cit., pp. 264-265. Sui due fratelli medici
l’autore riferisce importanti dati archivistici relativi alla laurea in arti e poi in medicina,
ad alcune investiture e al testamento di Domenico. Sulla prima condotta di Giovanni del
Giudice a Belluno si veda Comunità di Cividàl di Belluno. Atti e provisioni, Libro I
(1454-1474), fondo Museo n. 140, c. 437r, 29 marzo 1473. Riferendosi alla votazione, il
cancelliere precisa che il medico quam plures ballotas obtinuit quia a quam pluribus civibus prestantiorum ac famossiorum cognitus erat. Le delibere più importanti degli anni
successivi che riguardano i fratelli del Giudice sono presenti nel Libro K. Si vedano in
particolare quelle registrate a cc.145v - 150rv, c. 248r, c. 266rv, c. 267v, c.277v, c. 288v,
290v e c. 342v.
18 Libro K, c. 387v, 23 marzo 1487.
188
Medici e chirurghi a Belluno dal 1488 al 1499
La scomparsa del Libro L contenente i verbali delle provisioni,
cioè delle delibere consiliari del periodo 1487-1499, non consente di offrire notizie dettagliate come quelle appena riferite. Alla mancanza di questa fonte documentaria fondamentale suppliscono in parte le annotazioni
del canonico bellunese Lucio Doglioni19.
Tra i suoi regesti delle delibere del Consiglio Maggiore riportate
nel Libro L si trovano anche quelli relativi ai medici salariati assunti in
tale periodo. Mancano invece notizie sui chirurghi.
Il primo riguardante una condotta medica risulta strettamente correlato con l’ultima delibera sullo stesso argomento del Libro K: probabilmente per chiarire gli aspetti economici della fine anticipata della condotta si richiede anche al Consiglio Minore l’approvazione della proposta
avanzata da Giovanni del Giudice; infatti il regesto informa che al medico
viene concessa licentia e che suo fratello Domenico, assunto per un anno,
potrà sostituirlo (<1487> ultimo maii in Consilio Minori. Magistro Iohanni de Ceneta fisico salariato datur licentia recedendi a Civitate ante
tempus finite conducte sue, sed maneat in Belluno magister Dominicus
eius frater, qui est conductus per annum et suppleat absentie fratris sui)20.
Domenico del Giudice, al termine della condotta, è confermato per
un anno con un salario di 1000 lire (<1488>, 5 februarii in Consilio Maiori magister Dominicus de Ceneta physicus confirmatur pro alio anno
cum salario librarum 1000 in anno)21.
Il fatto che nel 1489 sia ricondotto per altri due anni fa supporre
che il medico abbia esercitato il suo servizio in modo lodevole e soddisfacente. Il salario di 900 lire annue risulta però diminuito. Questa riduzione
induce ad ipotizzare che il medico si accontenti di un salario inferiore, ma
almeno sicuro per due anni (1489, 16 ianuarii, in Consilio Maiori. Magister Dominicus de Ceneta reconducitur in physicum Communis per biennium cum salario librarum 900 pro singulo anno)22.
Al termine del biennio la condotta del magister Domenico del
Giudice non viene più rinnovata, non si sa per quali motivi. E’ lecito sup19
Notulae in libros provisionum Magnificae Communitatis civitatis Belluni ab anno
1378 ad 1710 ordinatim et per tempora collectae ac dispositae a Lucio Doglioni viro
clarissimo ac postea canonico et Decano Capituli Ecclesiae bellunensis (d’ora in poi
Notulae), ms. 412. Conservato nella Biblioteca Civica di Belluno.
20 Ivi, c.71v.
21 Ivi, c.73v.
22 Ivi, c.75v.
189
porre che abbia seguito l’esempio di suo fratello Giovanni e si sia trasferito in una città più importante e più generosa verso i medici. Al suo posto è
assunto un magister appartenente ad una famiglia originaria di Bologna,
ma residente a Treviso, Bernardino de Gozadinis, cioè Bernardo de Bononia (1491, 11 februarii. Magister Bernardinus de Gozadinis de Bononia
electus in phisicum civitatis Belluni stipendio annuo mille librarum parvorum)23.
Figlio del q. ser Ioannis Mathei de Bononia notarii civis Tarvisini, si è laureato a Padova in arti nel 1466 e nel 1469 in medicina24.
Anche in questo caso non è possibile sapere mediante quale consigliere sia stato trovato questo medico, quando come e perché sia stato
scelto tra più candidati. Anche lui, come i suoi predecessori, non è nato in
territorio bellunese. Non sono infatti assunti medici locali da quando,
come per porre un termine a’ gravi dissidi suscitantisi sovente in Belluno
ne’ tempi anteriori sulla elezione del medico primario della città per gelosia di partito, erasi convenuto di nominare, anziché un cittadino, uno
straniero, dotato che fosse di profonda dottrina e matura pratica medica.
E quantunque le ragioni che dato avevano ansa a questo statuto, più non
sussistessero, assopito essendosi già ogni partito cittadinesco, pure lo si
osservava ancora con religioso attaccamento. Per la qual cosa, questo
municipale decreto era ormai divenuto odioso, e grave a’ medici cittadini
che aspirar non potevano a sì lucroso e nobile officio25.
La sua presenza a Belluno come medico salariato è attestata dal
notaio Giovanni Tison: il 10 dicembre 1491 compare davanti al Vicario
come creditore di un cadorino che non gli ha ancora sborsato libras duas
parvorum pro mercede26. Evidentemente questo forestiero non è compreso
tra le persone che, come medico condotto, deve curare gratuitamente27.
23
Ivi, c.78v.
Acta graduum academicorum Gymnasii Patavini ab anno 1461 ad annum 1470, a
cura di G. PENGO, Padova 1992, nn. 514, 837.
25 I. FACEN, Medici illustri di Feltre e Belluno, Milano 1856, p. 49. Queste notizie
sono riportate nella biografia del medico bellunese Girlo da Castello (pp. 48-52), vissuto
nel XV secolo. Dopo aver tentato inutilmente di far annullare la suddetta norma per poter
essere assunto come medico condotto, si trasferisce a Treviso dove ottiene onoratissima
riputazione e larghe clientele. La sua fama supera le Alpi e arriva fino alla corte di Ernesto d’Asburgo, duca d’Austria e del Tirolo, che richiede le sue cure. Girlo da Castello
riesce a guarirlo e rimane presso di lui. Dopo la morte del duca, nel 1450, diventa archiatra di suo figlio Federico III, eletto imperatore.
26 ASBL, Notarile, Notaio Giovanni Tison, b. 6883.2, c. 125r, 10 dicembre 1491.
27 D. BARTOLINI, Medici e Comunità…op. cit., p. 102: “Il medico condotto, anche
se vi erano vincoli più o meno espliciti, portava avanti l’attività privata in parallelo con
quella pubblica. La sua clientela andava cercata tra quella esclusa dalla condotta e tra la
24
190
L’anno seguente gli viene rinnovata la condotta per tre anni. Non è
indicato l’ammontare annuo del salario, ma probabilmente corrisponde a
quello dell’anno precedente (1492, 29 ianuarii. Magister Bernardinus
phisicus confirmatur per triennium)28.
Nel marzo del 1494 è richiesto il suo parere assieme a quello dei
due chirughi salariati e di un barbiere in un caso di morte sospetta, quello
della moglie del capitano della porta Fori. L’esame necroscopico elimina
ogni dubbio sulla causa del decesso: la donna non risulta deceduta per
aver subito violenze , ma solo per volontà e permesso di Dio29:
Ibique, viso et diligenter manibus tacto a capite usque ad pedes cadaver
done Bone uxoris dicti capitanei quod iacebat in quadam camera ipsius
domus, per spectabilem dominum Bernardum de Gozadinis de Bononia
phisicum et per magistrum Bernardum de Salcis et magistrum Martinum
barberium cirurgichos et omnes tres salariatos in civitate Belluni nec non
per magistrum Michaelem Sbaram barbitonsorem, omnes unanimiter et
concorditer per experienciam quam habent retullerunt mihi notario non
invenire nec invenisse aliquod signum verberationis neque aliquam tumefationem vel nigredinem propter quas iudicari posset ipsa dona Bona
mortua esset dicta de causa, solum tantum mortua ex divino consensu.
Lucio Doglioni riferisce che, durante la condotta del medico Bernardo de Gozadinis, sono assegnati 4 ducati mensili al magister Benedetto
da Castello (1493, 9 ianuarii, assignantur ducati quattuor auri in singulos menses et ad beneplacitum Communitatis magistro Benedicto de Castello, qui Belluni medicinam exercebat)30.
La sua residenza a Belluno è documentata dal notaio Giovanni Tison che, nel 1493, registra una Procura magistri Benedicti de Castello
nella sua casa (in contracta de Collo, in domo habitationis exhimii arcium
et medicine doctoris domini magistri Benedicti de Castello de civitate
Belluni)31.
Benedetto da Castello era stato assunto come fisico salariato nel
1479, dopo la rinuncia alla condotta da parte di Giovanni del Giudice32.
popolazione delle comunità con le quali non era legato dall’obbligo di cure gratuite e da
un preciso orario di visita”.
28 Notulae, c. 79v.
29 ASBL, Notarile, Notaio Giovanni Tison, b. 6884, c. 98r, 20 marzo 1494.
30 Notulae, c. 80v.
31 ASBL, Notarile, Notaio Giovanni Tison, b. 6884, c. 69r, 1° luglio 1493.
32 Libro K, c. 149v, 6 aprile 1479.
191
Era forestiero (de Tervisio), al pari degli altri medici candidati a succedergli, ma anche discendente da una famiglia nobile bellunese. Questa origine sicuramente aveva favorito la sua aggregazione al Consiglio Maggiore
(cum eius progenitores et ascendentes fuerunt nobiles istius civitatis et de
Consilio)33. Riconfermato nel 1482, aveva svolto l’attività di fisico salariato fino al 20 maggio 148334.
La sua presenza a Belluno nel 1493 fa supporre che, dopo la mancata riconferma della condotta nel 1483 a causa di una seconda prolungata
assenza ingiustificata (ipse pluribus iam elapsis diebus absens fuit ab hac
civitate et territorio et de reditu suo ignoratur),35 sia rimasto in città come
libero professionista, ma le sue cure siano state poi riconosciute come un
servizio pubblico come quello fornito dal fisico salariato Bernardino de
Gozadinis.
A quest’ultimo il Consiglio Maggiore, il 9 gennaio 1495, non rinnova la condotta al termine del triennio (1495, 9 ianuarii. Pars in Maiori
Consilio non capta de reconducendo et per alium annum confirmando ad
salarium Communitatis magistro Bernardino de Gozadinis phisico)36.
La votazione sfavorevole è ribadita il 19 marzo successivo (1495,
19 martii, in Consilio Maiori soprascritta parte di ricondurre per un
anno col salario solito maestro Bernardo fisico non fu presa)37.
La consueta stringatezza delle due annotazioni fa sorgere vari interrogativi sull’operato sia del medico sia del Consiglio Maggiore, in particolare sulla causa del mancato rinnovo della condotta: il medico si era
assentato senza chiedere l’autorizzazione? Avrà deciso di dimettersi perché era stato richiesto da un’altra comunità? Si era forse affievolita la stima nei suoi confronti?
Queste e altre domande rimarranno senza risposta.
Belluno e il suo distretto nel 1495 riescono ad assicurarsi un medico veronese assunto con un salario di 200 ducati annui (1495, 20 maii.
Magister Cosma Veronensis conductus pro physico cum salario annuo
ducatorum ducentorum)38.
33
Ivi, c. 193r, 30 dicembre 1479.
Ivi, c. 266v, 20 maggio 1483.
35 Ibidem. Figlio di magistri artium et medicine doctoris Iohannis Garlo de Castello
de Tervisio, si era laureato in arti nel 1442 e in medicina nel 1446 (Acta graduum academicorum Gymnasii Patavini ab anno 1406 ad annum 1450, a cura di G. ZONTA e G.
BROTTO, Padova 1970, nn. 1641, 2004, 2025).
36 Notulae, c. 81v.
37 Ivi, c. 82r.
38 Ibidem.
34
192
La sua permanenza a Belluno si prolunga per altri tre anni (1497
(= 1496), indictione XV, 30 decembris. Magister Cosmas Veronensis reconducitur in phisicum per tres annos)39.
Ciò significa che le sue cure e la sua professionalità sono apprezzate e considerate indispensabili in modo particolare in questi ultimi anni
del ‘400 in cui si manifesta il pericolo di un nuova epidemia di peste. Nell’autunno del 1497 il Consiglio Maggiore delibera infatti che nessun abitante dei territori confinanti nei quali è già diffusa l’epidemia possa arrivare a Belluno (Penultimo octobris. In Consilio Maiori quod illi de Sacillo, Canipa, Ceneta et de la Capella nullatenus, vigente peste, venire possint ad hanc civitatem Belluni, sed intelligantur banniti donec d(e)esset
suspicio morbi).
Sono adottati nei giorni successivi altri due provvedimenti urgenti:
il divieto di svolgere la fiera di San Martino (Die nono novembris in Consilio Maiori captum quod nullatenus hoc anno celebrentur nundine Sancti
Martini ob periculum morbi et pestis vigentis in locis circumvicinis) e
l’elezione di quattro consiglieri incaricati di compiere indagini sulla situazione sanitaria (23 novembris in Consilio Maiori eliguntur quatuor deputati inquisitores ad sanitatem tam pro Civitate quam pro territorio, cuius
nomina sunt Christophorus Persicinus, Hippolytus Doionus, Bonus de Alpago, Ioannes Andreas de Ponte)40.
Fortunatamente dopo circa due mesi scompare il pericolo di una
nuova pestilenza e si possono così annullare i controlli sanitari alle porte
della città (1498, 21 ianuarii. Removentur custodie a hostis Civitatis, cum
iam suspitio morbi et pestis cessaverit)41.
Fine della condotta di Cosmo da Verona e ricerca di un altro medico
Altre malattie rimangono però sempre in agguato e possono colpire anche il medico che risulta una delle persone più esposte al pericolo di
contagio. Nel 1499 il fisico salariato Cosmo de Verona, affetto da una malattia definita infirmitate quartana, forse una febbre malarica, chiede il
permesso di assentarsi per 20 giorni.
Il 18 luglio il Consiglio Maggiore, con una larga maggioranza,
glielo concede confidando in una sua rapida guarigione (Deinde autem
concessa fuit licencia excellenti domino magistro Cosmo de Verona phisi39 Ivi, c. 83r. La data è riferita al 1497, anziché al 1496, perché a Belluno in quel periodo l’anno iniziava a Natale.
40 Ibidem.
41 Ivi, c.83v.
193
co et sallariato communis Belluni quod possit stare absens a civitate,
burgis et territorio Belluni per dies viginti pro recuperanda sanitate ab
infirmitate quartane qua in presentiarum detinetur). Il medico, ristabilitosi, ritorna a Belluno, ma, appena inzia il periodo previsto dagli Statuti,
quattro mesi prima della scadenza della condotta, fissata per il 20 giugno
1500, chiede licencia e notifica agli amministratori il suo rifiuto del rinnovo della condotta42. Risulta perciò evidente la necessità di trovare un altro medico.
Il 28 febbraio 1500 il Consiglio Maggiore, dopo un ampio dibattito, accoglie la proposta di affidare ad un consigliere l’incarico di cercarlo.
Viene eletto a questo scopo Andrea Persicini che dovrà recarsi in varie città e, compiuta l’indagine, riferire al Consiglio quali medici sarebbero idonei ad assumere la condotta ( posita fuit pars qod elligatur unum ex Consilio qui se conferre debeat Venetias, Paduam et alias quascumque civitates (…) pro investigatione et inquisitione unius phisici pro hac Communitate et facta inquisitione diligenti exinde refferre huic Consilio debeat ut
maturius per ipsum Consilium procedi possit ad ellectionem et conductionem unius phisici)43.
Andrea Persicini compie la sua indagine a Venezia e a Padova. Ritornato a Belluno, nella seduta del 18 aprile egli può indicare ai colleghi i
nomi di tre medici candidati a prestare il loro servizio, collocati nella lista
in ordine di preferenza: Nicolò de Zenova, Domenico de Vincencia e
Tommaso de Lambertis44:
In quo consilio, intellecta relacione spectabilis domini Andree Persicini
oratoris ut antea ellecti pro inventione unius phisici pro Communitate
hac procedentis ad commendationem quamplurium phisicorum ei commendatorum Venetiis et Padue ubi de eis inquisitionem diligenter fecit et
precipue de domino magistro Nicolao de Zenova pro primo, domino magistro Dominico de Vincencia pro secundo et domino magistro Thomasio
de Lambertis pro tercio aptis ad servendum huic Communitati pro phisicis, aliis ommissis et cetera; et super his audito multorum parere et oppinione, decretum fuit a(b)sque alia parte differre ad aliud consilium deliberationi conductionis unius phisici cum res ipsa sit maximi ponderis et
importantie.
42
Comunità di Cividàl di Belluno. Atti e provisioni, Libro M (1499-1517), fondo
Museo n. 143 (d’ora in poi Libro M), c 9v, 18 luglio 1499. Sta in Archivio Storico del
Comune di Belluno.
43 Ivi, cc. 22v-23r, 28 febbraio 1500..
44 Ivi, c. 28r, 18 aprile 1500..
194
Contratto del nuovo medico condotto Domenico Massaria
Il 4 maggio il Consiglio Maggiore, con un’ampia maggioranza, 44
voti a favore, solo 7 contrari, approva l’assunzione come medico condotto
del magister Domenico de Vincencia, raccomandato non solo da chi ha
compiuto l’ìndagine a Venezia e a Padova, cioè da Andrea Persicini, ma
anche dal consigliere Valerio Doglioni. Diversamente da Nicolò de Zenova che ha rifiutato la condotta, Domenico Massaria ha accolto favorevolmente la proposta di diventare il fisico salariato della Comunità di Belluno45. Originario di Arzignano, uno dei centri più popolosi del territorio vicentino, ha studiato a Padova dove ha ottenuto la laurea in arti e successivamente in medicina46. Al medico è assegnata la condotta per due anni
con un salario annuo di 200 ducati47:
In quo consilio, intellecta comendatione eximii ac preclari domini magistri Dominici de Vincencia phisici ibidem declarata et enarrata non tantum per spectabilem dominum Andream Persiginum qui diebus superioribus se contulit Venetias et Paduam pro inquisitione fienda de uno bono
phisico conducendo ad sallarium huius Communitatis, verum etiam ser
Valerii Doioni qui summopere eundem comendavit pro relacione habita
de eo, ut asseruit. Et super his intellecta oppinione multorum, tandem,
mandato prelibati magnifici domini potestatis et capitanei et dominorum
consulum, posita fuit pars quod idem dominus magister Dominicus conducatur ad sallarium huius Communitatis per annos duos incepturos prima die qua se presentaverit ad serviendum pro phisico completa firma
eximii domini magistri Cosmi de Verona, que finit die vigesimo iunii proxime futuri, cum sallario ducatorum ducentorum in anno et in ratione
anni cum capitulis et condictionibus quibus conductus fuit prefatus dominus magister Cosmus. Que pars capta et approbata fuit per ballotas quadraginta quattuor affirmativas, non obstantibus septem negativis.
La lettera di accettazione della condotta, scritta il 15 maggio 1500
e indirizzata dal magister Domenico Massaria al rettore e ai consoli, viene
45
Ivi, c. 29r, 4 maggio 1500.
Acta graduum academicorum Gymnasii Patavini ab anno 1461 ad annum 1470, a
cura di G. PENGO, Padova 1992, nn. 783, 784, 787. Acta graduum academicorum Gymnasii Patavini ab anno 1471 ad annum 1500, a cura di E. MARTELLOZZO FORIN, Padova 2001, nn. 357, 358, 359, 360.
47 Libro M, c. 29r, 4 maggio 1500..
46
195
letta pubblicamente nella piazza di Belluno davanti a queste autorità dal
consigliere Vittore Pagani che era andato a Venezia per presentare il contratto al medico. Anche questo particolare evidenzia l’importanza attribuita alla missiva e a ciò che essa assicura: Belluno e il suo distretto potranno finalmente avvalersi delle cure di un medico capace ed esperto. Egli
ringrazia per essere stato assunto ed approva tutto il contratto proposto; riguardo ai malati di peste afferma che non visiterebbe i contagiati, ma si limiterebbe all’osservazione delle urine e ai consigli ( Que cum omnia diligentius prius legissem tamquam aequitatis maxime plena acceptanda
subscribendaque omnia censui eo dumtaxat excepto quod de visitandis
peste laborantibus loquitur, cui assentiri nullactenus placet nisi ita intelligatur sicuti per subiunctam illi notacionem exprimitur ut si, quando quidem pestis ingrueret (quod Deus avertat) infectos peste visitare non tenear, sed eorum urinas tantum inspicere et consulere nihilque aliud ita ut
preter urine inspectionem et consilium ad nihil aliud tenear). Sono poi
presentati i capitoli del contratto approvato dal medico in cui sono precisate le condizioni e le modalità di esercizio della sua professione48:
Tenor capitulorum domini phisici
Primo. Quod dominus phisicus teneatur mederi et debeat cuilibet civi et districtuali Bellunensi in civitate Belluni et burgis a quibus nullam habere debeat vel petere solucionem, et inteligatur civis excepti et
privilegiati, et pauperes Christi qui in hospitalibus civitatis ipsius et burgorum sunt et qui in futurum erunt et omnes et singuli presbiteri, sacerdotes et fratres ordinis Minorum et Sancte Marie Servorum, cirugici sallariati ab ipsa Communitate, castellani, comestabiles baroveriorum, capitanei portarum et fortiliciarum et omnes stipendiarii habentes stipendium
ab ipsa Communitate et ipse medicus non teneatur talibus mederi extra
civitatem et burgos ultra primam diem nisi habita solutione.
Item teneatur mederi domino potestati et capitaneo et cuilibet
alteri familiari illustrissimi Ducalis Dominii nostri Venetiarum a quibus
nullam habere debeat solutionem.
Item dicto phisico liceat et teneatur ire per districtum Belluni ad
medendum cuilibet districtuali et civi a quo fuerit requisitus sive ab aliis
de quibus supra fit mentio in primo capitulo et habere debeat ab infirmo
seu ab aliis ad cuius instanciam iverit expensas pro se et famulo et pro
duobus equis non pernoctando. Et si pernoctaverit, habeat solucionem
sibi taxandam per dominum potestatem et dominos consules qui tunc temporis erunt. Et si ultra unam diem steterit ad curam illius talis infirmi,
48
196
Ivi, cc. 30v-31rv, 18 maggio 1500.
habere debeat solucionem prout cum infirmo convenerit et si non convenisset de solucione, stare debeat taxationi domini potestatis et consulum.
Item liceat a forensibus petere et habere solucionem secundum
pacta inter eos conventa. Et si de solucione non convenisset, stare debeat
taxationi domini potestatis et consulum et forenses intelligantur omnes
non substinentes onera et factiones cum commune Belluni preter illos qui
in suprascripto capitulo sunt descripti.
Item dicto phisico non liceat se absentare a civitate Belluni absque licencia domini potestatis et consulum et dictus dominus potestas et
consules ipsi phisico licenciam impartiri possint possendi ire extra districtum Belluni pro diebus quinque ad plus pro qualibet vice si eis visum
fuerit licenciam eidem posse concedi computatis in his quinque diebus itineribus eundi et redeundi in quibus nihil perdat de suo sallario et si licenciam plurium dierum voluerit, illam valeat obtinere a Consilio maiori civitatis Belluni dum tamen perdat solucionem sallarii sui in quibus steterit
extra districtum Belluni elapsis quinque diebus.
Item si licenciam obtinuerit a prefato domino potestate et capitaneo et consulibus per quinque dies ut supra vel pauciores eundi extra districtum Belluni aut a maiori Consilio ipsius civitatis et staret ultra terminum licencie sibi date, tunc perdat sallarium totius temporis quo steterit
extra districtum Belluni et cadat etiam dictus phisicus ad penam librarum
quinquaginta denariorum parvorum applicanda(m) Communi predicto.
De qua pena nulla possit fieri gratia vel remissio per dominum potestatem et capitaneum et consules et Consilium tam maius quam minus dicte
civitatis nisi phisicus gravi infirmitate proprie persone fuerit occupatus et
quod si eo interim tempore dicte licencie aliquis civis infirmaretur, tunc
talis civis possit pro phisico mittere ubicunque reperietur expensis dicti
phisici et casu quo non reddiret ad medendum tali civi, incurrat ad penam
librarum quinquaginta parvorum applicandam ut supra et nihilo minus
teneatur refficere omnia damna, expensas et interesse que vel quas talis
infirmus causa talis mortis pateretur et solvere penam superius specificatam.
Item quod dictus phisicus teneatur ire ad visitandum quamlibet
personam tam pestilenciatam quam non a qua fuerit requisitus et tam
quolibet tempore sub pena denotata superius. Nota quod istud capitulum
fuit limitatum hoc modo, videlicet quod phisicus teneatur videre urinas si
sibi ostense fuerint et consulere infirmo et non aliud.
197
Item quod dictus phisicus, superveniente peste, quod Deus avertat, non possit reccedere a dicta civitate durante tempore sue firme sub
pena superius descripta, damnis et interesse et expensis.
Item quod dictus phisicus per se vel per interpositam personam
nullam facere debeat mercantiam sub pena librarum quinquaginta parvorum tociens applicanda Communi quotiens contrafactum fuerit.
Item quod dictus phisicus habeat et habere debeat a Communitate gratis plaustra sibi necessaria in contulendo res suas et similiter habere debeat finita sua conducta dicta plaustra dummodo non excedat
plaustra octo pro qualibet vice.
Item quod dictus phisicus qui conductus fuerit ad sallarium
huius civitatis teneatur per quattuor menses ante terminum sue firme notificare domino potestati et capitaneo civitatis Belluni et dominis consulibus utrum velit stare per annum futurum ad sallarium huius Communitatis nec ne et similiter ipsa Communitas teneatur notificare ipsi phisico per
menses quattuor ante tempus sue firme utrum velit retinere ad sallarium
per annum subsequentem nec ne, quod si non fecerit, intelligatur dictus
phisicus reconductus et sit obligata dicta Communitas per annum eum retinere.
I primi due capitoli precisano quali sono le persone a cui sono garantite cure mediche gratuite: gli indigenti ricoverati negli ospedali (in
questo periodo sono gestiti dalle confraternite), i preti e i frati dei monasteri di Belluno (Francescani e Servi di Maria) e i salariati comunali. Al
vertice di queste categorie privilegiate sta il rettore con la sua famiglia.
Al pagamento delle cure mediche sono tenuti tutti gli altri, cittadini e distrettuali. Il medico può uscire dal distretto per curare anche i forestieri, che dovranno sborsare il compenso pattuito.
La presenza in tutti i primi quattro capitoli del termine solucio (il
pagamento delle cure mediche) sottolinea l’aspetto economico della professione. Essa garantisce al medico assunto dalla Comunità un introito annuo elevato che però non costituisce l’unica fonte di reddito, infatti gli è
riconosciuta la possibilità di fornire le sue cure come libero professionista
e quindi di incrementare le già cospicue entrate49.
49
D. BARTOLINI, Medici e Comunità…op. cit., p. 125: “Il salario era composto da
una parte monetizzata e da un certo numero di benefici accessori. Esso rappresentava per
il medico una solida base per l’attività che, accanto a quella pubblica, egli esercitava
come libero professionista. L’ingaggio pubblico non costituiva, infatti, l’esclusiva fonte
di reddito del medico che si avvaleva di tutte le opportunità di guadagno offerte dal luogo in cui si era stabilito”.
198
Se esce dalla città per curare i malati del distretto, il medico dev’essere rimborsato per le spese sostenute per sé, un servo e due cavalli
(pro se et famulo et pro duobus equis). Se poi deve pernottare, gli dev’essere assicurato il compenso indicato dal rettore e dai consoli. La retribuzione aumenta, quando le cure si prolungano per più di un giorno.
Uno dei capitoli più minuziosi si riferisce ad una eventuale licencia richiesta dal medico salariato per motivi di salute o di altro genere. Il
permesso di assentarsi da Belluno e dal suo distretto per non più di cinque
giorni, concesso dal rettore e dai consoli, non comporta una decurtazione
del salario. Sono invece previsti ammende, riduzioni del salario e risarcimenti per i malati non curati se l’assenza supera i cinque giorni.
Uno degli obblighi a cui è soggetto il medico emerge quando mancano quattro mesi alla fine della sua condotta: deve far conoscere la sua
intenzione di restare o no ancora a servizio della Comunità, ma anche
questa deve informare il medico, altrimenti sarà costretta a trattenerlo ancora per un anno.
Altri obblighi dei medici e dei chirurghi
Rimane sempre valido, sia per i medici fisici che per i chirurghi,
l’obbligo previsto dagli Statuti di informare i pazienti sul dovere di rivelare la causa della malattia e di fare penitenza, altrimenti non avrebbero più
potuto curarli e avrebbero subito una pena pecuniaria50:
Poiché le anime degli uomini sono da preferire a tutto, volendo
provvedere a quelle dei nostri cittadini e distrettuali, stabiliamo che ogni
medico, fisico o chirurgo, inclusi anche i barbieri, che abiti nella città o
nel distretto di Belluno, quando visiti qualche persona nel distretto o in
città per un’infermità che si teme possa provocare la morte, debba avvisare l’infermo di confessar ciò che ha fatto per fare penitenza, spiegandogli che, se non lo dovesse fare, non lo visiterà più se non un’ ultima volta.
E fatto questo avviso, non lo visiti che una volta in più, se questi
non avrà ancora fatto penitenza, pena per ogni medico trasgressore la
perdita del salario del mese, qualora sia un salariato del comune, e qualora non sia un salariato, paghi venticinque lire di piccoli, senza bisogno
di alcuna sentenza.
E sotto il vincolo del giuramento, il rettore e il vicario siano tenuti a indagare diligentemente sui fatti e chiunque possa denunciare e gli
spetti metà della sudetta pena.
50
Belluno. Statuti…op. cit., XVI, n. 77, pp. 141-142.
199
Anche in questo periodo risultano frequenti le risse che non si limitano alle ingiurie, ma degenerano nelle percosse e in ferimenti non raramente mortali.
Una norma degli Statuti precisa che il feritore deve risarcire le persone danneggiate e pagare il medico e le medicine; il medico che ha curato le ferite è obbligato a denunciare le persone coinvolte nella rissa e a indicare quale parte del corpo è stata curata51:
(…) il reo sia condannato a pagare alla vittima per l’ingiuria
portata tanto quanta è la metà del banno che deve al comune di Belluno.
Ugualmente, debba pagare e risarcire per le medicine e il medico che
avrà avuto cura della persona che avrà subito il danno, qualora costui
abbia richiesto il risarcimento durante il processo prima della sentenza o
entro quaranta giorni dalla sua pubblicazione, anche se in questa non se
ne dice nulla. Oltre i quaranta giorni non si dia più ascolto alle sue richieste. E il delinquente debba attenersi al prezzo pattuito davanti a lui
fra medico e vittima. (…)
Inoltre, ogni volta che un medico che abiti nella città o nel distretto di Belluno, abbia medicato o sia andato a medicare qualcuno del
distretto a causa di qualche ferita o piaga in qualche modo provocata da
un’altra persona o anche da se stesso, sia tenuto e debba, sotto il vincolo
del giuramento e dopo averlo medicato, denunciare al signor rettore chi
sia la persona inferma e in quale parte del corpo abbia la piaga o la ferita e, se avrà potuto saperlo, il nome di chi l’ha inferta. E ciò a rischio
della pena dello spergiuro e di dieci lire di piccoli.
Tra i vari casi documentati di ferimento per i quali risultano applicate le norme previste dagli Statuti si può citare come esempio quello registrato dal notaio Giovanni Tison il 13 dicembre 1492: Bartolomeo de
Bioso, avendo suo figlio Gregorio ferito al braccio sinistro Domenico de
Miso, è obbligato da una sentenza del rettore ad dandum et disbursandum
Communitati Belluni libras quinquaginta et libras quinquaginta ad solvendum ipsi Dominico pro dano et interesse nec non ad solvendum medicum et medicinas52.
51
Ivi, XIII, n.68L, p. 126.
Notarile, Notaio Giovanni Tison, b. 6884, c. 32r, 13 dicembre 1492.
52 ASBL,
200
Risposta del rettore e dei consoli
Prima di aggiungere la sua firma, il medico ribadisce i punti fondamentali del contratto, in particolare l’ammontare della retribuzione annua (200 ducati) e il capitolo sui malati di peste.
Il 19 maggio il rettore e i consoli gli comunicano che tutta la città
è felicissima di accoglierlo come medico condotto e che egli potrà esercitare il suo servizio con le condizioni proposte dal consigliere Vittore Pagani e con quella da lui richiesta nei casi di peste. Lo esortano inoltre a
trasferirsi a Belluno entro il 20 giugno (Quare excellentiam vestram prelibatam hortamur ut ad diem statutam que erit vigesima iunii proxime futuri, ut etiam nunciatum fuit, ad nos se conferre velit)53.
Il nuovo medico salariato non delude le aspettative, infatti la sua
condotta inizia regolarmente il 21 giugno (Die dominico vigesimo primo
iunii 1500 spectabilis et eximius dominus magister Dominicus Massaria
Arcignaneus phisicus ut antea conductus ad sallarium huius Communitatis
ad hanc civitatem Belluni applicuit et tempus sue conducte incohavit)54.
Riconferma dei chirurghi
Il Consiglio Maggiore assicura alla Comunità non solo un medico,
ma anche due chirurghi esperti, riconfermando per un anno, nella seduta
del 6 giugno 1500, magister Martinus barberius e magister Zanantonius
de Salcis con una votazione più favorevole al primo dei due salariati.
L’anno seguente, il 28 maggio 1501, il Consiglio Maggiore è costretto a valutare l’opportunità di riconfermare nuovamente magister
Martinus barberius dopo la sua richiesta di aumento del salario, non potendo vivere con 16 lire mensili.
In caso negativo il cirugicus si trasferirebbe in Cadore dove riceverebbe un compenso più soddisfacente.
La prospettiva della partenza e della conseguente mancanza di un
valido chirurgo induce i consiglieri ad accogliere la richiesta con 49 voti a
favore, 8 contrari: magister Martinus avrà un salario mensile di 20 lire anziché di 16; il chirurgo dovrà però rimanere a servizio della comunità per
tre anni55:
53
Libro M, cc. 31v-32r, 19 maggio 1500.
Ivi, c. 33v, 21 giugno 1500.
55 Ivi, c. 63r, 28 maggio 1500.
54
201
In eodem consilio, intellecta requisitione magistri Martini cirugici et sallariati communis Belluni requirentis sibi augeri sallarium aut
licenciari cum non possit vivere sallario quod habet in presentiarum librarum sexdecim parvorum in mense et requiratur a Cadrubiensis maiori
salario et stipendio, tandem, audito parere multorum et posita parte,
mandato ipsius magnifici domini rectoris et dominorum consulum, captum et obtentum fuit per ballotas quadraginta novem affirmativas, non
obstantibus octo negativis, quod augeatur sallarium ipsius magistri Martini ad libras viginti parvorum in mense et in ratione mensis incohandi
prima die iunii proxime futuri, videlicet quod ubi habuerit usque modo libras sexdecim parvorum in mense de cetero habeat libras viginti parvorum hac tamen condictione, quod idem magister Martinus teneatur et
obligatus sit servire dicto sallario annis tribus continuis et casu quo infra
terminum ipsum dictorum trium annorum nolet servire pro chirugico cum
suis obligationibus solitis et velet reccedere ab hac civitate, quod tunc et
eo casu teneatur et obligatus sit restituere omne et totum id quod habuisset pro ipso quo servisset non completis tribus annis ultra libras sexdecim
parvorum iuxta primum sallarium suum pro singulo mense. Qui quidem
magister Martinus, illico in ipso consilio accersitus et declarata sibi parte ipsa et facta auctoritate cum condictionibus ut supra per ipsum magnificum dominum rectorem ad eius claram intelligentiam, partem ipam cum
obligationibus ut supra in omnibus et per omnia palam approbavit, laudavit et ratificavit.
Mentre il servizio di Martinus barberius può proseguire senza interruzioni almeno fino al 1504, quello del suo collega Zanantonio de Salcis, il 9 gennaio 1503, sembra andare incontro ad una situazione opposta
in seguito ad una votazione sfavorevole del Consiglio Maggiore (Magister Zanantonius de Salcis q. magistri Bernardi cirugicus non fuit approbatus cum solum habuerit ballotas viginti novem affirmativas, negativas
vero triginta tres). Subito però Francesco Persicini segnala un errore nella
ballottazione e chiede che il chirurgo sia votato nuovamente e confermato
cum eius sallario consueto librarum decem parvorum in mense. La stessa
richiesta viene presentata da Bartolomeo Pagani.
Il rettore, sentito il parere di altri consiglieri favorevoli ad un’altra
votazione e considerando la capacità del chirurgo e dei suoi antenati che
avevano fornito un ottimo servizio (qui per quam plures annos conducti
fuerunt ad sallarium huius Communitatis Belluni et bene ac peroptime se
gesserunt versus Communitatem ipsam), nonostante l’opinione contraria
di Giovanni de Grino, autorizza una nuova votazione che dà un risultato
202
positivo per il chirurgo; egli potrà così svolgere la sua attività per un anno
con un salario mensile di 10 lire (idem magister Zanantonius confirmatus
fuit per annum unum cum suo sallario librarum decem in mense per ballotas quadraginta duas affirmativas, non obstantibus viginti quattuor negativis)56.
I due chirurghi salariati non sono gli unici professionisti che assicurano interventi richiesti in casi non gravi.
Vari atti notarili comprovano che a Belluno, tra gli anni ’90 del
‘400 e il primo decennio del ‘500, esercita l’attività di chirurgo magister
Thomasius q. magistri Antonii Brigantini de Enno de Tridento57.
Domenico Massaria riconfermato per un anno
Nella riunione dell’11 febbraio 1503 viene sollevata da alcuni consiglieri la questione del rinnovo della condotta del medico Domenico
Massaria, formalmente nel rispetto degli Statuti e dei capitoli del contratto, essendo ormai vicino il tempo in cui egli deve comunicare la sua intenzione di rimanere o no alle dipendenze della Comunità.
Dopo gli interventi dei consiglieri Antonio Miari, Giovanni de
Glamosa, Giovanni de Grino e Ludovico Persicini, il rettore e i consoli
propongono di confermare per un anno il medico.
Con una maggioranza non molto ampia (38 voti favorevoli, 19
contrari) il Consiglio Maggiore approva la proposta58:
Tandem, predictis omnibus auditis, mandato prelibati magnifici domini
potestatis ac dominorum consulum, posita fuit pars quod pro observatione capitulorum ballotetur idem dominus phisicus et qui voluerit ipsum
haberi pro reconducto ad sallarium ipsius Communitatis consuetum per
annum unum finita eius conducta iuxta formam capitulorum suorum, quibus iterum se manu propria subscribere debeat cum promissione de diservendo ea ad unguem prout iacent et cantant. Que pars, prius audito multorum parere et consilio, capta et approbata fuit per ballotas triginta octo
afirmativas, non obstantibus decem novem negativis.
56
Ivi, c. 96rv, 9 gennaio 1503.
ASBL, Notarile, Notaio Troilo Cavassico, b. 1775, c. 138r, 22 giugno 1490; c.
377, 10 marzo 1505. Libro M, c. 137r, 26 luglio 1504.
58 Libro M, c. 102r, 11febbraio 1503.
57
203
L’epidemia di peste nello Zoldano
La situazione sanitaria si aggrava nell’estate del 1503 per la diffusione della peste nello Zoldano. Per impedire che si estenda anche in altre zone del distretto, le autorità ricorrono ad un provvedimento considerato fondamentale in occasione di epidemie: l’isolamento della valle. Per
evitare che gli abitanti, spinti dalla fame, scendano verso Belluno per rifornirsi di viveri e diffondano l’epidemia nella città e nel distretto, il 9 luglio 1503 il Consiglio delibera l’invio di derrate, con un esborso di 800
lire e un altro sussidio di pari entità il 30 agosto59:
In eodem consilio, dum per ser Antonium Doionum q. ser Ioannis, unum ex deputatis ad conservandam sanitatem, expositum et recordatum fuisset morbum epidimie seu pestis Zaudi valde procedere et in dies
magis accendi ut ex litteris provisionis missi ad custodiam canalis dicti
loci Zaudi, ne ex illo ipsi de Zaudo descendere possent ad hanc civitatem
Belluni et residuum eius territorii cum evidenti periculo infestandi civitatem ipsam cum universo territorio, quod si accideret, quod Deus sinat,
tota civitas ipsa et territorium ad ruinam evidentem totaliter procederet
propter maximam multitudinem et loci ac siti sterilitatem cum maximo
etiam damno illustrissimi dominii nostri Venetiarum quia ab ea per longum tempus consequi non posset censum et creditum suum annuum lancearum. Et cum iam consumpti sint et expositi denarii librarum octingentarum parvorum subsidii positi pro subventione ipsorum de Zaudo in eorum subventione victus sui bladi, vini ac aliorum necessariorum et exinde
necessarium sit immo omnino opportere, providere victui eorum et rebus
eis necessariis ne, coacti a fame, descendant per vim ad universum territorium et civitatem. Et super his omnibus audito consilio, oppinione et
parere multorum, tandem, posita parte mandato prelibati magnifici domini potestatis et capitanei ac dominorum consulum, captum et obtentum
fuit per ballotas triginta sex affirmativas, una tamen negativa non obstante, quod ponatur alterum subsidium librarum octingentarum denariorum
parvorum exponendarum in subsidium et subventionem ipsorum de Zaudo pro victu eorum et exigendarum tam a civitate et burgis quam ab universo territorio in omnibus et per omnia iuxta formam et divisionem alterius precedentis subsidii aliarum librarum octingentarum parvorum.
59
204
Ivi, c. 112r, 9 luglio 1503; c. 114r, 30 agosto 1503.
Per la riscossione del secondo sussidio di 800 lire a favore della
popolazione zoldana viene nominato il consigliere Zanfrancesco, figlio
dell’ex medico condotto Benedetto da Castello.
Nella riunione dell’8 dicembre 1503 il Consiglio Maggiore deve
affrontare un altro problema correlato con quello della peste: Bartolomeo
Campana, provisor in Canale Zaudi ad locum dele Cadene pro custodia
ne illi de Zaudo habeant descendere fino a Belluno e nel territorio del distretto, fa sapere che vuole essere esonerato dall’incarico. Al suo posto
viene scelto come provisor il consigliere Antonio Alpago60.
Sentenza del rettore contraria alla riconferma del medico
L’anno seguente il Consiglio Maggiore è costretto ad affrontare e a
risolvere la vertenza riguardante la riconferma del medico Domenico
Massaria. Essa inizia il 5 febbraio 1504, in occasione della ballottazione
per il rinnovo della condotta. La votazione è effettuata in mancanza del
numero minimo legale di consiglieri richiesto dagli Statuti e quindi non si
sa se il medico può essere considerato riconfermato.
Nel consiglio del 6 marzo viene letta dal cancelliere la sentenza
del rettore Andrea da Riva in merito alla questione. Egli riferisce che, tenendo presenti votazioni simili avvenute in passato e la richiesta di alcuni
consiglieri di non interporre la sua autorità, aveva rinviato la convalida
per esaminare il caso.
Il rettore precisa il punto di vista dei consiglieri che approvano la
riconferma del magister e quello di coloro che invece lo ritengono non riconfermato; spiega poi per quale motivo non ha interposto la sua autorità
ricordando ciò che era accaduto in simili circostanze nel 1424 e nel 1465.
Anche se il medico ha ottenuto la maggioranza dei voti, lo giudica
non riconfermato e, se fosse necessaria l’interposizione della sua autorità
per considerare valido il licenziamento, la userebbe61:
“Nos Andreas de Rippa pro illustrissimo Ducali Dominio Venetiarum et
cetera potestas et capitaneus Belluni, cum die quinto februarii proxime
decursi, facta ballotatione magistri Dominici phisici super eius reconductione, orta fuisset inter consiliarios maxima questio utrum, attento quod
non habuerat partem ballotarum a Statuto requisitam, intelligaretur reconductus nec ne, attenta forma Statuti loquentis de havere Communis et
aliis reformationibus superinde factis multisque ballotationibus antea in
60
61
Ivi, c. 120r, 8 dicembre 1503.
Ivi, c. 128rv, 6 marzo 1504.
205
similibus et cum ad instantiam nonnullorum dicentium auctoritatem nostram illi consilio interponi minime debere, suspendimus per aliquot dies
in quibus omnia hic inde sepius dicta et allegata voluimus dilligentissime
rimari visum nobis fuit pro observatione Statutorum dicto consilio seu
ballotationi nostram auctoritatem non interponere et quia illi qui pretendunt ex dicta ballotatione predictum magistrum Dominicum intelligi debere confirmatum, attenta maiori parte medietatis suffragiorum totius
Consilii pro confirmatione ipsius exactam dicebant quod, attento quod
auctoritatem nostram non exposueramus dictam ballotationem haberi pro
nulla et neutri parti favere ipsumque magistrum Dominicum vigore suorum capitulorum esse confirmatum et ex altera illi qui pretendunt dictum
phisicum haberi pro casso, attento quod non habuerat numerum ballotarum a numero statuto requisitarum et ex eo quod auctoritas nostra non
fuerit interposita, intelligi debere pro casso nullumque terminum coercisse partibus propter suspensionem per nos factam dicto die quinto usque
ad decisionem cause auditisque pluribus civibus, consulibus et doctoribus
circa et coram nobis et inter se calumniose disceptantibus et hanc nostram non interpositionem varie et diversimode interpretantibus ut omnis
discordiarum materia e medio tollatur et occasio et ut mens et sententia
nostra clarius et expressius intelligi possit, declaramus auctoritatem nostram dicte ballotationi ipsius phisici non interposuisse eo quia stante
Statuto de havere Communis stanteque confirmatione Statuti del 1424
facta, stante etiam alia parte habente vim Statuti capta in consilio Bellunensi del 1465 stantibusque pluribus ballotationibus de aliis phisicis factis secundum formam predictorum, qui etiam quod obtinuerunt maiorem
partem suffragiorum tamen habiti sunt pro cassis, iudicavimus et in presenti iudicamus dictum magistrum Dominicum phisicum non fuisse nec
esse ex dicta ballotatione reconductum, sed haberi pro casso et ideo ballotationi predicte tamquam ad reconductionem ipsius non sufficienti auctor(iz)ari noluimus et si pro eius cassatione opus fuisset auctoritatem nostram dicto consilio seu ballotationi interponere ex nunc prout ex nunc,
auctoritatem nostram ipsi cassationi interponimus et interpositam haberi
volumus declarando quod a dicto die quinto usque ad presentem horam
nulli partium sit cursum tempus suspensum ut supra iuxta formam capitulorum suorum et quamvis dictus magister Dominicus phisicus vocatus
fuerit in consilio et presens fuerit omnibus disceptationibus presentis cause coram nobis factis et fuerit requisitus si aliquid allegare seu contradicere sibi obiectis intenderet, tamen, ne possit conqueri quod etiam hec
nostra declaratio ad eius aures non pervenerit et ad hoc ut sibi provideri
possit, volumus in presentiarum sibi hec nostra declaratio intimari et hoc
206
omni meliori modo, via, iure et forma quibus melius de iure fieri potest”.
Et illico iussit.
La sentenza viene poi promulgata dal rettore seduto in tribunale
(ad solitum iuris banchum) alla presenza di molte persone tra le quali
spiccano quattro prestigiosi notai: Dioneo Tison, Pietro Paolo Delaito,
Giorgio Colle e Sebastiano Batti62.
La notifica dell’esonero provoca l’immediata reazione del medico
che si presenta in cancellaria communis Belluni e in presenza di alcuni testimoni afferma di non accettare la sentenza del rettore e di voler appellarsi (antedictus dominus magister Dominicus oretenus dixit ipsis sententie
vise et lecte per eum et ipsi denuntie non consentire, sed ab eis viva voce
appellare presertim cum non fuerit sibi denunciatum debito tempore et
aliis iuribus suis deducendis).
Dal verbale del consiglio del 21 maggio 1504 si apprende che il
medico Domenico Massaria, dopo la notifica della sentenza, ha citato i
consoli e i sindaci del Comune rivolgendosi agli Auditores, i giudici che a
Venezia esaminano le richieste di appello. I consoli, che pochi giorni prima hanno ricevuto la notizia della citazione, chiedono ai consiglieri di votare: chi è disposto a recarsi a Venezia per difendere la sentenza davanti ai
suddetti giudici deve esprimere un voto affermativo, negativo se non vuole difenderla (mandato ipsorum dominorum consulum, posita fuit pars
quod qui vellent sententiam ipsam deffendi contra ipsum dominum magistrum Dominicum Venetiis coram ipsis magnificis dominis Auditoribus
nomine dicte Communitatis ponere deberent eorum ballotas in busullo rubeo affirmativo; qui vero nolent illam deffendi ut supra, ponant in albo
negativo). Quanti si sarebbero sobbarcati il costo del viaggio fino a Venezia, dell’albergo e dell’avvocato per difendere la sentenza? Ben pochi e
infatti, con 40 voti negativi, solo 3 favorevoli, i consiglieri esprimono
adeguatamente la volontà di chiudere la vertenza con il medico63. Domenico Massaria può quindi continuare a svolgere il suo servizio come fisico
salariato.
Domenico Massaria riconfermato per un anno
La vertenza sorta nel 1504 per il rinnovo della condotta medica e
la sua non facile soluzione devono aver costituito per i consiglieri un’esperienza negativa che non intendono ripetere; ne può essere una prova la
reconductio, il rinnovo della condotta del medico Domenico Massaria: nel
62
63
Ibidem.
Ivi, c. 132r, 21 maggio 1504.
207
1505, quando è ormai vicina la scadenza, inizia regolarmente l’iter procedurale previsto dagli Statuti. Nella seduta del 17 febbraio i consoli ricordano che è ormai arrivato il tempo in cui si deve confermare o no il magister Domenico Massaria. Per evitare quanto accaduto l’anno precedente in
seguito alla mancanza del numero minimo legale, si propone che per la riconferma siano necessari i voti favorevoli di due terzi dei consiglieri. La
ballottazione, al termine degli interventi, viene però effettuata nel solito
modo. Il risultato della votazione riflette la volontà e il desiderio di non
incorrere nei disagi burocratici e legali già sperimentati; Domenico Massaria è riconfermato con 42 voti favorevoli contro 15 contrari64:
In antedicto consilio, quum recordatum fuisset per dominos consules tempus reffirmandi vel licenciandi eximium dominum magistrum Dominicum
Massaria phisicum et sallariatum huius Communitatis iam instare et proximum esse et multa dicta fuissent tam in commendatione sue excellentie
quam contra et de suspendendo partes quibus cavetur quod dominus phisicus in eius reconductione habere debeat duas partes ballotarum ad omnes habito respectu ad tres et cetera ut in illis ac etiam de suspendendo
Statutum loquens de non dando de havere Communis, tandem, mandato
magnifici domini rectoris et dominorum consulum, posita parte simpliciter quod qui velent ipsum dominum phisicum haberi pro reconducto per
unum annum finita sua conducta ponerent ballotas suas in bussullo rubeo
affirmativo; qui non velent ipsum haberi pro licenciato ponerent in albo
negativo. Reconductus fuit per annum ut supra cum sallario et capitulis
consuetis quum habuerit ballotas quadraginta duas affirmativas, negativis vero tamen quindecim.
Riconferma dei chirurghi
Anche il rinnovo del servizio per un anno dei due chirurghi salariati avviene il 17 febbraio 1505 senza incontrare ostacoli, a parte l’immancabile numero di voti contrari65:
Magister Martinus cirugicus, posita parte ut supra, et infrascripti fuerunt
confirmati per annum cum suis sallariis et obligationibus consuetis, videlicet idem magister Martinus per ballotas quadraginta duas affirmativas,
non obstantibus quattuordecim negativis. Magister Zanantonius de Salcis
64
65
208
Ivi, c.148v, 17 febbraio 1505.
Ibidem..
cirugicus per ballotas quadraginta duas affirmativas, non obstantibus
tresdecim negativis.
Un caso di “acceptatio excusationis”
La diagnosi del medico, fondamentale per la scelta di cure adeguate per guarire da una determinata malattia, risulta altrettanto necessaria
quando si deve certificare una condizione patologica tale da impedire l’assunzione di un incarico. La persona a cui è stato affidato può rifiutarlo
solo se è in grado di dimostrare che i motivi di salute che non le consentono di assumerlo sono realmente gravi e indiscutibili.
Una sorta di certificato di malattia è richiesto in un caso del genere
nel 1505. Il Consiglio Maggiore deve inviare a Venezia un suo rappresentante perché difenda i diritti della Comunità nella vertenza con i regolieri
della pieve di San Felice.
La scelta dell’orator cade su Zanfrancesco da Castello. Il 3 aprile
egli si presenta in consiglio per riferire che non può effettuare il viaggio
per motivi di salute. Sospettando che la motivazione sia infondata, i consiglieri interpellano il medico condotto.
Domenico Massaria giura che il consigliere, recandosi a Venezia,
si troverebbe in una condizione pericolosa per la sua salute. I consiglieri,
con 35 voti favorevoli e solo 5 contrari, convalidano la certificazione del
medico66:
In quo consilio, audita excussatione parte ser Zanfrancisci de Castello
oratoris ut in precedenti consilio electi Venetiis nomine Communitatis excussantis non posse se ad legationem ipsam constare cum non sit in bona
convalescencia ac audito super hoc parere et oppinione domini Phisici,
iuramento suo ei delato affirmantis ipsum ser Zanfranciscum non posse
ire ad ipsam legationem sine periculo et dubio sue persone ac demum,
posita mandato ipsius magnifici domini Rectoris ac dominorum Consulum, per ballotas triginta quinque affirmativas, non obstantibus quinque
negativis, acceptata fuit excussatio ipsius ser Zanfrancisci ita quod non
teneatur ad ipsam legationem.
Riconferma dei chirurghi
La solita formula usata negli anni precedenti dal cancelliere si ritrova nel 1507 nel verbale per la riconferma dei due chirurghi, magister
66
Ivi, c. 153r, 3 aprile 1505.
209
Martinus barberius e magister Zanantonius de Salcis. Anche questa volta
la votazione risulta meno favorevole a quest’ultimo (Magister Martinus
barberius cirugicus confirmatus fuit per ballotas sexaginta sex affirmativas, non obstantibus quinque negativis. Magister Zanantonius de Salcis
cirugicus confirmatus fuit per ballotas sexaginta duas affirmativas, non
obstantibus novem negativis)67.
Nel 1508 la confirmatio avviene con un numero quasi pari di voti
(Magister Martinus cirugicus confirmatus, admissus et approbatus fuit
per ballotas quadraginta repertas in bussulo rubeo affirmativas, quatuor
negativis in albo dimissis. Et similiter magister Zanantonius de Salcis cirugicus confirmatus et approbatus fuit per ballotas triginta novem affirmativas, quinque negativis non obstantibus)68.
Nel 1509 si rileva, più che la consueta differenza, un aumento dei
voti contrari per entrambi (Magister Martinus cirugicus per ballotas triginta quinque affirmativas, non obstantibus duodecim negativis. Magister
Ioannes Antonius de Salcis cirugicus confirmatus fuit per ballotas triginta unam affirmativas, non obstantibus sexdecim negativis)69.
Un prestito di 90 ducati
La serie di delibere riguardanti il medico condotto in qualche caso
devia dal consueto percorso dell’assunzione o della conferma per presentarlo in un ruolo diverso. Un esempio è registrato il 30 settembre 1507. Il
Consiglio Minore, a cui spetta l’esame preliminare delle questioni finanziarie comunali, su proposta del consigliere Benedetto Persicini si è rivolto al medico Domenico Massaria per chiedergli in prestito 90 ducati; la
Comunità deve restituirli all’ex rettore Priamo de Lege che li aveva prestati poiché questa si era trovata priva di denaro. Il medico si è offerto di
sborsarli a patto che gli siano restituiti entro quattro mesi. La sua proposta
ottiene 13 voti a favore, solo uno contrario. Subito dopo, nella stessa riunione, i 90 ducati sono consegnati dal medico all’ex rettore (Et illico in
eodem consilio predicti ducati nonaginta fuerunt exbursati et traditi eidem magnifico domino Priamo per ipsum dominum magistrum Dominicum dicto nomine in prompta pecunia)70.
67
Ivi, c. 212r, 22 gennaio 1507.
Ivi, c. 240r, 9 marzo 1508.
69 Ivi, c. 262v, 24 febbraio 1509.
70 Ivi, c. 228r, 30 settembre 1507.
68
210
Il fatto rivela che Domenico Massaria si è ormai integrato nel contesto sociale e amministrativo di Belluno anche come cittadino e non solo
come medico. Di fronte ad una situazione di difficoltà finanziaria della
Comunità sente il dovere di intervenire con un prestito di 90 ducati, una
somma corrispondente a poco meno della metà del suo salario annuale.
Un altro indizio di questo radicamento è costituito dall’adesione
ad una delle più importanti associazioni cittadine, la confraternita del Santissimo Sacramento. Il 21 marzo 1502 è infatti attestato come socio anche
magister Dominicus de Vincentia artium et medicine doctor71 che sborsa
12 soldi, il contributo richiesto annualmente a chi intende iscriversi alla
confraternita o rinnovare la propria adesione.
Un capitolo discusso e abrogato
Mentre la conferma dei chirurghi è registrata regolarmente ogni
anno dal cancelliere, quella del medico salariato Giovanni Massaria in
certi periodi viene omessa e solo la ricomparsa di una nuova vertenza che
lo riguarda assicura che egli continua a svolgere la sua attività a beneficio
della Comunità di Belluno.
Quella che emerge dagli interventi dei consiglieri il 24 febbraio
1509 non fa riferimento esplicito a Domenico Massaria, ma fa ipotizzare
che la proposta di annullare un capitolo del contratto sia connessa con la
sua riconferma. Il viceconsole Tullio Pagani propone infatti al Consiglio
Maggiore di abrogare quello che impone ad ogni medico di riferire alla
Comunità, a partire da quattro mesi prima della fine della sua condotta, se
intenda o no rimanere ad sallarium della Comunità e a questa di richiedere al medico la sua intenzione. La proposta suscita un’ampia discussione.
Il più ostile alla cancellazione del capitolo è il consigliere Andrea Persicini, dottore in diritto, che ritiene giusto che entrambe le parti abbiano il
tempo necessario per affrontare la questione. Sono invece favorevoli all’abrogazione in particolare Giovanni de Grino e Giovanni de Glamosa,
perché le denuntie, le dichiarazioni delle due parti, raramente o mai sono
fatte rispettando la forma degli Statuti.
Alla fine della discussione il rettore e i consoli, tranne Tommaso
Alpago, fanno votare la proposta. Con 24 voti affermativi, 16 contrari, il
capitolo viene cancellato. Di conseguenza tanto il medico quanto il Consiglio e la Comunità saranno liberi di porre fine alla condotta a loro piaci71
ASBL, Notarile, Notaio Troilo Cavassico, b. 1778, c. 204r, 21 marzo 1502 (Qui
intraverunt consortium Sacratissimi Corporis Christi cum peccuniis per eos solutis per
annum).
211
mento (tandem, mandato domini rectoris et dominum consulum, discenciente tamen solum ser Thomasio de Alpago consule, posita parte, captum fuit per ballotas viginti quatuor affirmativas, sexdecim negativis non
obstantibus, quod capitulum antedictum cassum, irritum et annullatum sit
ita quod de cetero eo non obstante quandocumque sit in libertate domini
phisici petendi et accipiendi licenciam et similiter ipsius Communitatis et
consilii dandi ei licenciam ipsam ad libitum)72.
Una richiesta del medico
La guerra cambraica all’inizio del 1510 ha già manifestato a Belluno, in tutto il suo distretto e nei territori confinanti le sue nefaste conseguenze. La città è stata riconquistata dalle truppe veneziane da poco tempo (il 28 novembre 1509) e ormai altri gravi problemi si sono aggiunti a
quelli consueti.
L’economia ha subito gravi contraccolpi con una drastica riduzione dell’attività artigianale e mercantile. I dazi sulle merci, le maggiori entrate della Comunità, sono stati riscossi in quantità ridotta rispetto al passato e la diminuita disponibilità di danaro ha determinato difficoltà nella
retribuzione dei salariati.
E’ ciò che emerge dalla richiesta rivolta dal medico Domenico
Massaria il 10 aprile 1510 alle autorità cittadine.
Egli fa notare che doveva haver per tuto fevrar proximo passado
lire circa septecento.
Non potendo ricevere la retribuzione pattuita, chiede in sostituzione i proventi di uno o due dazi.
Se la Comunità non può pagare il medico, gli dia bona licencia73:
Deinde in eodem consilio porecta fuit requisitio in scriptis manu spectabilis et eximii domini Dominici phisici et sallariati huius Communitatis
Belluni huius tenoris, videlicet:
“Davanti vui magnifico misser lo Podestà et Capitanio et cetera et avanti
vui honorandi Consuli comparo io Domenego Massaria phisico et vostro
sallariado et expono cum sit io fosse conducto per questa magnifica Comunità del 1500 cum condiction io dovesse haver la ratta del mio sallario
de mese in mese et cusì habia haber havuto ogni anno excepto questo
anno passado per resto del qual debo haver per tuto fevrar proximo pas72
73
212
Libro M, c. 263v, 24 febbraio 1509.
Ivi, c. 278v, 10 aprile 1510.
sado lire circa septecento et perché è cossa conveniente ogni stipendiario
habi el suo stipendio, ve prego che piacendove el mio servir el qual prometto cum ogni integrità et diligencia prestar como fin qui ho fatto, piacendove dico vogliati ar provision et cum effecto consignarme un datio
over do dal qual possi haver el mio sallario de mese in mese segondo la
promessa et la consuetudine molti anni observada. Comenzando da primo marzo passado fin in cavo del anno presente et fazendo cusì son contento che le lire settecento le qual debo haver per tuto februario passato
1510 romagnono apresso la Comunità da essermi pagate in cavo del
anno presente 1510 et per caso el servir mio non li piacesse, over la Comunità non havesse modo de poder far spesa de medico, me vogli dar
bona licencia offerendome sempre ad omnia paratissimum per questa magnifica Comunità et de questo ve prego ve piaqua darmi presta risposta a
i quali tuti me ricomando”.
Sentito il parere di molti consiglieri e manifestate al medico,
convocato in consiglio, l’indigenza e le sventure della Comunità, il rettore
gli chiede di essere indulgente, data la situazione.
Il suo atteggiamento conciliante è premiato dai consiglieri: la
proposta di retribuirlo per nove mesi a partire da aprile con un salario ridotto e di considerarlo poi confermato per un anno con quello precedente
viene approvata con 47 voti a favore, contrari solo 7.
La delibera è accolta positivamente anche dal medico74:
Super qua requisitione, audito parere et oppinione multorum ac attenta
necessitate ac calamitate ipsius Communitatis et accersito prius in eodem
consilio ipso spectabili domino Dominico phisico ac exposita ei per magnificum dominum rectorem calamitate et indigentia ipsius Communitatis
rogataque excellentia sua quod dignetur compati eidem Communitati
tempore huius indigencie et necessitatis ac demum audita et intellecta benigna responsione eiusdem domini magistri Dominici dicentis se in omnibus et per omnia supponere voluntati ipsius magnifici domini rectoris ac
dicti Consilii, posita parte mandato sue magnificentie ac dominorum consulum, captum fuit per ballotas quadraginta septem affirmativas, non
ostantibus septem negativis, quod dictus spectabilis dominus magister
Dominicus tantum habere debeat ducatos (…) bonni auri in mense et ratione mensis per menses novem proxime futuros incohandos prima die
presentis mensis aprilis; quibus novem mensibus finitis et sequuta pace
inter illustrissimum et eximium Ducalem Dominium Venetiarum et inimi74
Ivi, c. 279r, 10 aprile 1510.
213
cos eius, tunc dictus dominus magister Dominicus phisicus sit et esse intelligatur reconductus per unum annum tunc sequentem ab ipsa Communitate cum pristino sallario suo consueto. Quam partem exinde idem
spectabilis dominus phisicus, in eodem consilio vocatus et declarata ei
parte, ipse laudavit et approbavit.
Tutto ciò avviene in una fase di tregua della guerra.
Essa però divampa nuovamente nell’estate del 1510. Belluno è
rioccupata dalle truppe imperiali e successivamente da quelle veneziane.
“4 agosto: il provveditore di Serravalle Giovanni Diedo arriva improvvisamente a Belluno con milizie veneziane di varia provenienza e inizia l’assedio contro i Tedeschi (circa 400 uomini) asserragliati a Belluno.
La città è difesa tenacemente, sia dalla guarnigione tedesca sia da parte
dei suoi abitanti che temono il saccheggio dei Veneziani come già era avvenuto a Serravalle.
22 agosto: Alvise Mocenigo, arrivato da Treviso al comando di altre truppe, ottiene la resa della città e ne impedisce il sacco. Egli la governerà con saggezza, restaurandola e rimanendovi fino al 28 novembre”75.
Nel mese di settembre 1510 a Domenico Massaria si presenta l’occasione propizia per dimostrare non solo ai bellunesi, ma anche all’esercito della Serenissima la sua capacità ed esperienza curando il comandante
delle milizie veneziane, il provveditore generale Alvise Mocenigo.
Ci informa sul fatto lo storico Giorgio Piloni76:
Et perché era il Mocenigo dalla febre aggravato, causata dalle molte fatiche fatte in queste guerre, stette egli gran parte del mese di Settembre in
letto sotto la cura di Domenico Massaria Fisico, et Cittadino Bellunese,
ancor che fosse d’origine Vicentino: per la diligentia del quale, e per li
devoti preghi di Bellunesi se risanò finalmente.
L’epidemia di peste nel 1512
Gli avvenimenti bellici non sono gli unici ad angustiare Belluno e
il suo distretto, infatti una nuova epidemia produce i suoi sinistri effetti
già nel 1510.
75 G. MAGGIONI- L. MAGGIONI, Cronistoria dei principali avvenimenti accaduti
a Belluno e nel suo territorio dal 1518 al 1516 connessi con la lega di Cambrai (10 dicembre 1508), in “Archivio Storico di Belluno Feltre e Cadore” (ASBFC), LXXX (2009),
339, pp. 12-13.
76 G. PILONI, Historia della città di Belluno, a cura di A. ALPAGO-NOVELLO, A.
DA BORSO, R. PROTTI, Belluno 1929 (ristampa anastatica 1974), pp. 477-478.
214
Essa manifesta tutta la sua virulenza nei primi mesi del 151277:
Era a questi giorni entrata gran pestilenza nel Territorio di Cividale,
causata dalle tante uccisioni, et morti successe per queste crudel guerre,
et per l’inopia della vettovaglia.
Il Consiglio Maggiore, che non si riuniva dal 26 giugno 1510, data
la gravità della situazione viene convocato per deliberare provvedimenti
urgenti. Il 5 luglio 1512 sono eletti quattro consiglieri che, per un periodo
di un mese e mezzo, dovranno agire nel modo più efficace per cercare di
estinguere l’epidemia che si sta aggravando a Belluno e nel distretto78:
Ulterius decretum et deliberatum fuit et posita parte obtentum ut ad extinguendum morbum aut epidimiam que in dies in territorio et districtu Belluni crescit et multiplicatur eligantur quatuor presidentes ad providendum ad dictum morbum pro mense uno cum dimidio ab hinc cum sallario
ducatorum duorum pro quoque. Et illico in executione decreti et partis ellecti fuerunt ad hoc officium: ser Branchaleo de Lippis, ser Bartholomeus
a Campanis, ser Anselminus de Mezanis, ser Antonius de Curia. Qui
quidem ballotati ad plenum singulatim obtinuerunt et remanserunt.
Un compenso inusuale
La guerra nel 1512 non infierisce come negli anni precedenti, però
si manifestano altre calamità: “L’anno trascorre senza eventi bellici importanti nel Bellunese ma è funestato da un inverno di grave carestia,
scarsità di viveri, fame e vessazioni da parte della guarnigione veneziana
rimasta in città”79.
Le conseguenze di questa situazione, marcata da privazioni e sofferenze, si abbattono in particolare sui più poveri, ma anche i cittadini appartenenti ai ceti più abbienti sono costretti a subirle, specie se il loro reddito dipende dalle risorse di cui può disporre la Comunità; ora sono ulteriormente ridotte e quindi insufficienti per il pagamento dei salari.
Quello del medico condotto, a causa di queste difficoltà finanziarie, è corrisposto parzialmente e concedendogli la riscossione del dazio
della liretta80.
77
Ivi, p. 489.
Libro M, c.285r, 5 luglio 1512.
79 G. MAGGIONI- L. MAGGIONI, Cronistoria…op. cit., p. 15.
80 Belluno. Statuti…op. cit., p. 240: “Ultimo dei dazi previsti dal comune è quello
della liretta. La sua esazione avveniva probabilmente in città e i dazieri che ne avevano
assunto in appalto la gestione, nel riscuotere il dovuto per carne, formaggio, olio, lana,
78
215
Così viene deciso all’unanimità dal Consiglio Minore nella seduta
del 3 agosto 151281:
In quo quidem consilio, audita opinione et sententia ac ita superius parere spectabilis domini Andree Persicini dicentis necessarium esse consignare spectabili domino phisico datium librete unde possit consequi saltim mestruale illud sallarium pro parte mercedis sue et possita parte obtentum fuit, nemine discrepante, videlicet quod consignetur dicto domino
phisico dictum datium librete.
L’esenzione concessa ai chirurghi
Anche altri salariati sono costretti a subire gli effetti dello stato di
depressione economica che il persistere della guerra aggrava sempre più.
Il Comune non può erogare un salario sia pur ridotto ai propri dipendenti,
neppure ai chirurghi che prestano un servizio particolarmente necessario.
Il console Tullio Pagani, nella riunione del Consiglio Maggiore del
15 luglio 1514, afferma che è ingiusto non retribuire coloro che svolgono
un pubblico servizio medicando i feriti, perciò propone che i magistri Zanantonio de Salcis e suo fratello Fabiano, così come hanno richiesto, siano compensati almeno con l’esenzione dalle angarie e da tutte le altre imposizioni fiscali ordinarie e straordinarie. La proposta viene approvata con
39 voti a favore, solo 4 quelli contrari82:
Postea, audita proposta ser Tulii Pagani consulis loco ser Ioannis Francisci de Castello asserentis iniquum esse qui quotidie sunt in publico servitio et quotidie serviunt in prestandis medellis vulceratis et vulneratis die
noctuque nullum vel admodum pauculum emolumentum ac salarium consequi et iccirco ut eorum beneficium et precipue magistri Fabiani et magistri Ioannis Antonii eius fratris et filiorum q. magistri Bernardi barbitonsoris de Salcis in aliqua parte cognoscatur deliberandum omnino et
obtinendum esse, sic ipsis requirentibus, ut ad minus exemptentur ab anpanni e miele, sarebbero stati tenuti a consegnare al mercante una bolletta, così come
previsto per tutti i dazi del comune (norma n. 207). A costoro, inoltre, era riconosciuto il
diritto di marcare con il proprio contrassegno i suddetti prodotti venduti a peso; in assenza di tale marchio la merce non avrebbe potuto essere venduta senza la loro approvazione (n. 208)”. Si vedano anche le norme nn. 209 e 214, pp. 241-242.
81 Libro M, c. 286r, 3 agosto 1512. Il medico può riscuotere il dazio solo per alcuni
mesi, infatti il 27 dicembre 1512 esso viene appaltato per 62 lire a ser Leonardo Miari
(Libro M, c. 288v).
82 Ivi, c. 315rv, 15 luglio 1514.
216
gariis, parangariis et facionibus tam realibus quam personalibus et ab
omnibus collectibus tam ordinariis quam extraordinariis et superinde, audito parere et opinione multorum intellecta, mandato magnifici domini
rectoris et dominorum consulum, decretum fuit ac possita parte obtentum
per ballotas triginta novem affirmativas, quatuor negativis non obstantibus, quod ad beneplacitum Communitatis de cetero suprascripti magistri
Fabianus et Ioannes Antonius ciroici exemptentur ab omnibus angariis et
parangariis ac facionibus tam realibus quam personalibus et etiam a collectis ordinariis et non ordinariis intelligendo collectas eorum bonorum
que ipsi possident et de ipsis apparent descripti in estimo et cetera.
Supplica dei chirurghi
Benché i consiglieri abbiano accolto la loro richiesta di esenzione
dai gravami fiscali, nel 1515 i due chirurghi, i fratelli Zanantonio e Fabiano de Salcis, rivolgono una supplica per ottenere un aumento del salario
mensile. Pur avendo offerto un servizio puntuale a chiunque abbia richiesto le loro cure, seguendo l’esempio del padre e del nonno, sono stati
compensati con un salario di 10 lire mensili, insufficiente per loro che
sono cargi de famiglia e non retribuito negli anni turbulenti, quelli della
fase più aspra della guerra83:
“Essendo io Zanantonio q. maistro Bernardo stato in anni 16 vero ciroicho cum sallario de lire 10 qual è poco et a qualche tempo non solamente
mal pagato, ma nulla ho receputo per li tempi turbulenti, tamen mai ho
manchato né dì né nocte a ogni richiesta di cadauno così povero como richo né in el medicar né in altra facenda qual per questa magnifica Comunità sono cadute posponendo ogni mia comodità et guadagno patendo
a me di necessità che sì como li predecessori nostri, zoè nostro avo et nostro padre sempre sono servitori di questa magnifica Comunità et viveteno sotto sua umbra et cum el suo soldo, anchora nui debiamo esser sforciay mantener tal servitii como se fosse la heredità per loro a nui lassata
et niente altro hanno lassato; per la qual cosa considerando io non solo
le fatiche loro, ma etiamdio quella che ne li anni proxime passati continuamente mio fratello et mi havemo sostenuto deliberati al tuto viver sotto umbra de prefata magnifica Comunità la quale per consuetudine antiquissima sempre ha hauto do ciroci provisionati, perhò che imposibel seria a qualche tempo che uno possa supplir. Cognoscendo aduncha prefata
magnifica Comunità za per la gratia de Dio et della Illustrissima Signo83
Ivi, c. 328rv, 13 febbraio 1515.
217
ria nostra et per el bon governo de magnifico nostro dignissimo Potestà
et Capitanio relevarse a miglior fortuna humelmente et cum ogni reverentia supplicamo a vui prelibato magnifico Rettor et spectabili Consoli et
Consiglieri che li piaqua de gratia subvenir alli dicti Zuan Antonio et fratelo cargi de famiglia et soliciti al servicio vostro dividendo fra loro quella provision qual za hebe suo padre solo che fo de ducati cinque al mese
overo come meglio parerà a questa magnifica Comunità alla qual ut dictum est humelmente se recomanda etc. bene valeant”.
Il Consiglio Maggiore, con 53 voti a favore, 6 contrari, approva la
proposta di aumentare il salario dei due fratelli chirurghi: ognuno riceverà
un pagamento mensile di 15 lire e mezza, ma con l’obbligo di medicare
gratuitamente e di rispettare le norme stabilite per i chirurghi84:
Qua supplicatione lecta et audita, auditis superinde multis ex consiliariis
qui omnino faciendum esse quod supplicatum est consulebant ut civitas
Belluni medellam prestantibus vulceratis et vulneratis et id genus ceteris
ne careat, provisum, deliberatum et posita parte mandato magnifici domini rectoris et dominorum consulum, captum fuit per ballotas quinquaginta tres affirmativas, sex negativis non obstantibus, quod concedatur ipsi
supplicanti iuxta eius supplicationem, videlicet quod ipse habere debeat
quoque mense ab ipsa Communitate libras quindecim cum dimidia parvorum et magister Fabianus eius frater totidem in mense ab ipsa Communitate gaudere debeat dummodo uterque eorum obligari sit gratis omnibus
medellam prestare ut antiquitus per alios chiroicos prestabatur et subiaceat condicionibus et capitulis super ipsis chiroicis factis et hoc ad beneplacitum ipsius Communitatis etc.
Ultime informazioni sul medico Giovanni Massaria
Gli ultimi avvenimenti riguardanti la condotta medica di Domenico Massaria risultano riferiti in modo discontinuo e frammentario.
Questo vale in particolare per conferme o dimissioni, non registrate a causa della lunga sospensione delle sedute del Consiglio Maggiore e
del prolungato stato di precarietà anche amministrativa.
L’ultima delibera, in data 21 dicembre 1515, in cui si fa riferimento al medico precisa che solo due cittadini possono ottenere dal Comune il
compenso per la riscossione dei dazi; uno di questi è il notaio Giovanni
Massaria, figlio del quondam spectabilis et eximii utriusque doctoris do84
218
Ibidem.
mini Dominici de Arzignano alias pro physico a magnifica Communitate
Belluni conducti et cetera85.
Egli potrà riscuotere 10 ducati d’oro e successivamente il resto del
danaro che doveva essere versato a suo padre a cui era stata concessa l’esazione del dazio della liretta86. Il quondam riferito al medico non lascia
dubbi sulla sua scomparsa. L’incertezza rimane invece sulla data della
morte. Il decesso può essere avvenuto al più tardi nel 1514, infatti il figlio, per rispettare le ultime volontà del genitore, nel novembre del 1514
arriva ad Arzignano, paese d’origine del medico, per consegnare una somma di 100 lire a favore di una parente.
Il notaio nell’atto di donazione lo definisce discretus iuvenis Ioannes quondam excelentis arthium et medicine doctoris domini Dominici
Massaria de Arzignano87.
Zaccaria dal Pozzo nuovo medico condotto
Il Libro M non riporta notizie relative all’assunzione di un medico
in sostituzione di Domenico Massaria.
E’ però possibile documentare la presenza a Belluno di Zaccaria
dal Pozzo come medico condotto già nel 1513: in un atto rogato dal notaio Pietro Paolo Delaito è registrata la vendita di un campo situato in pertinentiis ville de Puliro a magistro Zacharie fisicho et a Communitate Belluni salariato filio q. nobilis viri domini Baptiste a Putheo Feltrensis88.
Il suo servizio come fisico salariato è confermato da un atto di
compravendita rogato nel 1516 dal notaio G. Battista Cavassico; vi è citato come testimone l’eximio artium et medicine doctore domino Zacharia
q. domini Baptiste a Putheo Feltrensis phisico sallariato in hac urbe Belluni89. Figlio di Battista, vicario dei conti Zorzi a Mel dal 1477 al 1501,
nato a Feltre nel 1459, appartiene ad “una vera e propria dinastia di medici al servizio della comunità feltrina sin dal XV secolo”90.
85
Ivi, cc. 342v-343r, 21 dicembre 1515.
Cfr. note 80 e 81.
87 ASVI, Notarile, Notaio Girolamo Egano, b. 5659, c. 95r, 16 novembre 1514.
88 ASBL, Notarile, Notaio Pietro Paolo Delaito, b. 2640, c. 120v, 8 aprile 1513.
89 Ivi, Notaio G. Battista Cavassico, b.1781, c. 117v. 21 maggio 1516.
90 D. BARTOLINI, Medici e Comunità…op. cit., p. 91. La prima conferma di una
sua condotta è documentata dal regesto (Notulae, c.87r) di una delibera del 1519 registrata nel Libro N (1517- 1538), anche questo scomparso (31 maggio <1519>. Zaccaria
dal Pozzo da Feltre ricondotto per anni cinque in medico della città con lire mille di salario all’anno). Un altro (Notulae, c.96v) informa che il medico termina in anticipo la
sua ultima condotta a Belluno nel 1533, perché richiesto dalla Comunità di Feltre (4 au86
219
Rimarrà a Belluno per circa vent’anni.
Conclusione
La presentazione della serie di medici e chirurghi presenti a Belluno nel trentennio 1487-1517 suggerisce qualche considerazione finale: i
medici fisici erano stimati e retribuiti molto di più dei chirurghi, non solo
per il diverso livello di studi e di preparazione; la loro assunzione e la riconferma dipendevano da un lato da comprovate capacità professionali,
dall’altro dalle amicizie e conoscenze nate e mantenute all’interno dell’ambiente accademico e/o amministrativo locale e statale.
La posizione sociale ed economica dei medici, benché molto elevata, non evitava loro contrasti con gli amministratori locali, emergenti
soprattutto in occasione del rinnovo della condotta.
I chirurghi, pur fornendo un servizio importante, incontrarono
molte difficoltà nel far riconoscere alla loro professione un adeguato rilievo sociale.
gusti <1533>. Da misser Zaccaria dal Pozzo fisico della città vien chiesta licenza per
esser stato condotto dalla città di Feltre sua patria per fisico; e gli viene accordata, ancorché mancassero alcuni mesi al finir della sua condotta). A Feltre era confermato “di
quinquennio in quinquennio per i grandi suoi meriti (medico vecchio, medico sapiente)
finché, raggiunti i 102 anni, coadiuvato nell’ultimissimo tempo dal figlio Gian Giacomo,
e venendo sepolto con grandi onori nella chiesa di Ognissanti” (M. GAGGIA, Medici e
chirurghi della Comunità di Feltre dal secoloXVI al XIX, ASBFC, XVIII (1940), 69, pp.
1183-1184).
220
Il Lazzaretto di Conegliano
Relazione presentata al Convegno da
Luisa BOTTEON
La storia del Lazzaretto di Conegliano intreccia per più di mezzo
millennio le vicende sanitarie, religiose, politiche ed economiche della
città. Nato in epoca medioevale come lebbrosario legato alla chiesa di san
Lazzaro, con l’annessione della città al territorio della Serenissima, sarà
gestito dai Padri Crociferi provenienti da Venezia. Dall’inizio del XVI secolo il Lazzaretto assumerà la funzione di luogo di cura e contumacia per
i malati di peste, sotto la direzione della Congregazione dei Battuti. Era
costituito dalla chiesa di San Lazzaro con annesso l’Ospizio, e posto tra il
Monticano e il cimitero di San Martino.
Nel corso del XIX secolo, in epoca di epidemie di colera, il vecchio Lazzaretto verrà utilizzato come ricovero per famiglie indigenti, per
poi essere abbattuto nella metà del secolo; al suo posto ci sarà il Foro
Boario. Per far fronte alle epidemie di colera saranno allestiti luoghi di ricovero provvisori, ogni volta in parti diverse della città.
Nel 1885 un nuovo Lazzaretto troverà sede stabile in una casa
colonica, sulla strada per Campolongo, dove rimase fino alla metà del XX
secolo.
Il lazzaretto da lebbra e la chiesa di San Lazzaro
Il Lazzaretto di Conegliano ha origini remote.
Già prima dell’anno Mille la città è interessata dal passaggio dei
pellegrini romei e palmieri1 attraverso la vicina via ungarica2.
1
I Romei erano i pellegrini diretti a Roma, mentre i Palmieri erano quelli che si dirigevano in Terra Santa. Il nome sembra derivare dal fatto che a partire dal XI secolo, chi
tornava da Gerusalemme portava con sé la palma, simbolo della fermezza della fede.
Roma, il Santo Sepolcro (fino a tutto il Duecento), Assisi e Vienne rimasero per tutto il
Medioevo al centro dei favori dei pellegrini del Veneto. cfr. A. Rigon, I percorsi della
fede e l’esperienza della carità nel Veneto medievale, Monselice, 2002.
Per quanto riguarda Conegliano, a proposito dei luoghi di ricovero per pellegrini, il Botteon scrive: “da codici cartacei e da pergamene conobbi essere stati aperti istituti pii di
ricovero anche in Conegliano avanti il secolo XIII” e cita l’Ospitale di S. Antonio e di S.
Salvatore, Ca’ di Dio poi Ospitale di S. Caterina, l’Ospizio di San Zuanne (Giovanni), e
appunto il Lazzaretto. Cfr. V. Botteon, A. Barbieri, Congregazioni di Carità ed Istituti pii
riuniti in Conegliano - Studio storico amministrativo, Conegliano 1904, p. 21
221
Con l’arrivo della lebbra, in seguito ai pellegrinaggi in Terra
Santa, si rese necessario trovare un luogo in cui curare e isolare questi
malati3. La malattia più temibile nel Medioevo, in quanto ritenuta inguaribile, era appunto la lebbra che si diffuse con una certa rapidità preoccupando i responsabili della cosa pubblica, vescovi e ufficiali del comune. I
primi a occuparsene furono gli ospedalieri di San Lazzaro, sorti a Gerusalemme dopo la prima crociata e diffusi velocemente in tutto l’occidente.
Nel XIII secolo gli ospizi di san Lazzaro, posti sulle vie di traffico alla periferia delle città, da qualunque autorità dipendessero erano sinonimi di
lebbrosario e iniziarono appunto a chiamarsi lazzaretti4.
Il lazzaretto di Conegliano fu costruito, insieme alla chiesa di
San Lazzaro (ecclesia Sancti Laçari malexanorum, hospitale Domus Santi Laçeri), in un’epoca sconosciuta, posto vicino alla chiesa di San Marti-
Nella raccolta di Ducali del XIV secolo, c’è la trascrizione di un documento del 15
marzo 1368 in cui il Podestà Giacomo Moro ordina che sia soddisfatto ad alcuni pellegrini d’Ungheria, a quali mentre dormivano nell’Ospitale furon rubbati i cavalli. L’Ospitale citato era probabilmente Ca’ di Dio. AMVC busta 562, art. 4 n. 16.
2 L’esistenza della strada Ungarica o Ungaresca, o meglio del suo tratto che attraversava il territorio trevigiano, compare a partire dal 1120: la strada Ungarica costituisce
uno degli elementi del paesaggio nominati per circoscrivere l’insieme delle proprietà che
il 2 Giugno Rambaldo di Treviso, Valfredo di Colfosco, Ermanno di Ceneda e Gabriele
di Guecello da Montaner donano all’ospedale di Santa Maria del Piave, costruito in località Talpone. Il tratto trevigiano era importantissimo, non solo per la meta finale del suo
percorso (raggiungere la laguna ed il mercato di Venezia passando per Treviso), ma perché nel territorio di Conegliano si congiungeva con la strada di Alemagna per poi convergere al guado del Piave e di qui in città. Il tratto cittadino dell’Ungaresca va identificato
con la via regia, ricordata nel diploma di Federico I del 1164 ed in altri documenti trevigiani, che passava accanto alla Loggia dei Cavalieri: quasi tutti i forestieri, si dice in
un’addizione agli Statuti del 1314, transitavano per la via regalis, chiamata in altri contesti documentari via publica Hungaresca. Analogamente a quanto capitava per altre strade, con il nome di ungaresca non si indicava un unico percorso. Nel territorio di Conegliano esistevano almeno due diverse ungaresche una alta o pedemontana che passava
per Sacile, e una più bassa che passava per Mareno e Vazzola.
Cfr. G. Cagnin, Vie di comunicazione tra Veneto Orientale e Friuli, in D. Gallo, F. Rossetto, Per terre e per acque. Vie di comunicazioni nel Veneto dal Medioevo alla prima
età moderna, Monselice 2003, pp.119-164.
Va segnalato anche lo studio di A. Vital, Di un’Ongaresca nel distretto di Conegliano,
«Archivio Veneto» Nuova Serie Anno XXI, 1911, pp. 496-516, ora in: Francesco Scarpis
(a cura di), Adolfo Vital Opere, Conegliano 2009.
3 V. Botteon, A. Barbieri, Congregazioni di Carità ed Istituti pii riuniti in Conegliano
- Studio storico amministrativo, Conegliano 1904, p. 32.
4 L. Pesce, Gli Statuti (1486) del Lazzaretto di Treviso composti dal Rolandello in:
Archivio Veneto, 112, 1979, pp. 36-37.
222
no, al di là del fiume Monticano, in un luogo quindi sufficientemente lontano dal centro della città.
Il lebbrosario5 costituiva uno spazio opposto alla città, un recinto
di individui contagiosi e pericolosi, ma non altamente patogeni, con un
tasso di pericolosità non elevato, però irrecuperabili, e come tali segregati
in permanenza dal consorzio dei sani, nonché organizzati stabilmente in
modo autonomo6.
La prima attestazione di un luogo di cura per lebbrosi, vicino alla
chiesa di San Martino è costituita da un testamento del 4 Agosto 1215,
conservato nell’Archivio di Stato di Treviso, in cui donna Belisor, moglie
di Enrico Rosso lascia 4 soldi per la manutenzione dell’edificio sacro e 20
per i lebbrosi7; la chiesa di san Lazzaro invece viene citata per la prima
volta nel 12778; nelle visite pastorali del Vescovo di Ceneda, si parla della
chiesa soltanto a partire dal 15489.
I lasciti testamentari a favore del lazzaretto prima della peste
La pergamena più antica in cui si cita il Lazzaretto conservata
nell’Archivio Municipale di Conegliano, risale invece al 4 Dicembre
1307 e si riferisce ad un lascito testamentario di Donna Costanza, figlia di
5 Il lebbrosario era uno spazio chiuso, recintato ma non sbarrato, e senza la connotazione di anti-città, anzi dotato di luoghi di lavoro, di vita associata, di culto e di sepoltura
nel quale era possibile vivere un’intera vita da “diversi” ed emarginati. Anche se costituiva un vero e proprio confino, offriva una certa tranquillità di esistenza e di sicurezza, I
lebbrosi potevano passeggiare fuori dal recinto e, sia pure per poche ore, era loro consentito l’accesso in città per la questua o per la spesa, a condizione però di vestire l’insegna
dei lebbrosi e di segnalare continuamente il proprio passaggio col rumore dei campanelli.
Non potevano assolutamente né mangiare né dormire in città, e tantomeno mescolarsi ai
sani in taverne o in altri luoghi. Dovevano accedere in chiesa solo in assenza di funzioni
religiose, e fermarsi sulla porta, in alcuni casi vi erano delle panche speciali per loro. I
lebbrosi che non rispettavano le regole ricevevano pene che andavano dalla berlina al vitto a pane e acqua, e talora rischiavano la pena capitale. L’espulsione dal lebbrosario, era
pari a una condanna a vivere isolatissimo una vita randagia piena di pericoli e stenti in
luoghi irraggiungibili. La vita nei lebbrosari in Italia si estinse praticamente lungo il XVI
secolo, per la graduale scomparsa della malattia in forma endemica.
6 G. Cosmacini, Storia della Medicina e della sanità in Italia Bari, 1987.
7 G. Tomasi, La Diocesi di Ceneda Chiese e uomini dalle origini al 1586, Vittorio
Veneto, 1998, vol.1, p. 214.
8 G. Tomasi, La Diocesi di Ceneda Chiese e uomini dalle origini al 1586, Vittorio
Veneto, 1998, vol.1, p. 207.
9 ADVV busta 1 fasc. II – 6. Atti visita R.do Giovanni Francesco de Rubeis vicario
di Serravalle e del M. Michiele dalla Torre Vescovo di Ceneda dal 14 agosto 1547 al 27
luglio 1548 p. 32. A proposito della chiesa di San Lazzaro si dice solo qui fuit ordinis
cruciferorum.
223
Lazzario e moglie del nobile Rizzardo Coderta in favore dei lebbrosi di
San Lazzaro10. La donna lascia un pezzo di terra in meglarinis rectam per
Ruggerum Benarium de Coneglano, leprosis S. Lazzari de Coneglano.11
Particolare del testamento di Costanza del 1307 in cui si citano i leprosis sancti Lazari de Coneglano - AMVC
busta 532, pacco CXCIV, pergamena 2, (4 dicembre 1307)
Si riporta la lista dei lasciti testamentari a favore del Lazzaretto di Conegliano dal 1307 al 1483 così come risulta nel libro di don Vincenzo Botteon: Congregazioni di Carità ed Istituti pii riuniti in Conegliano - Studio storico amministrativo (Conegliano 1904, pp. 73-110), integrato con informazioni tratte da documenti
d’archivio (AMVC busta 565 tit. gen. C Art. 4 n. 35 - Catalogo e copie delle pergamene esistenti nell’Archivio di Conegliano nel secolo XVIII) segnalati con *
Dopo il 1483 non compaiono più lasciti diretti al Lazzaretto: dal 1519 infatti
il Lazzaretto con tutti i suoi beni sarà gestito della Congregazione di Santa Maria dei
Battuti.
1307 Decembre 4 - Donna Costanza del fu Lazzario, detto Lonatti del Castelvecchio di Conegliano e moglie del nob. Rizzardo Coderta lasciò un pezzo di terra “leprosis Sancti Lazzari de Coneglano”
[1308 maggio 22 - Il Tomasi segnala il testamento di Rubeo da Catania abitante alle Cerche di Conegliano in cui fa un lascito anche agli ammalati di San Lazzaro
in: G. Tomasi La Diocesi di Ceneda Chiese e uomini dalle origini al 1586, Vittorio Veneto 1998, vol.1, p. 217]
1323 Giugno 30 - Giacobino del fu Tiso di Conegliano – nel suo testamento
lasciò un legato in denaro al “Lazzaretto”
1325 Luglio 23 - Don Adalpretto Rettore della Chiesa di San Martino di Colle
– lasciò alla Scuola dei Battuti un pezzo di terra nella Pieve di Feletto e un altro pezzo di
terra posta in Marcorà coll’obbligo di una officiatura anniversaria per l’anima sua, e colla dispensa del rimanente delle rendite ai poveri del “Lazzaretto”
1337 penultimo… - Nicolò falegname di Conegliano – lasciò alcuni legati al
“Lazzaretto”
10 Le località intitolate a S. Lazzaro o a S. Maddalena – spesso in prossimità delle
antiche mura cittadine o degli scali marittimi – ricordano generalmente l’esistenza di lebbrosari. L’ordine ospedaliero e cavalleresco così denominato, originariamente presieduto
da un lebbroso, aveva come principale intento la cura di tali infermi, ma a seguito della
progressiva scomparsa di quel morbo, venne incrementata l’assistenza ospedaliera generica cfr. G. Palmero, Le strutture ospitaliere intemelie nel basso medioevo L’Ordine del
Tempio ed altri fenomeni di religiosità assistenziale in: "Intemelion" - Cultura e
Territorio, Quaderno annuale di Studi Storici, n. 6, 2000.
11 AMVC busta 532, pacco CXCIV, pergamena 2. V. Botteon, A. Barbieri, Congregazioni di Carità ed Istituti pii riuniti in Conegliano - Studio storico amministrativo, Conegliano, 1904, p. 33.
224
1338 Marzo 26 - Francesco del fu Bettino della Fratta del castello di Conegliano – nel suo testamento lasciò al “Lazzaretto” una chiusa in S. Maria di Feletto della
quantità di campi due circa
1338 Luglio 4 - Donna Primavera vedova di Giacomo del Borgo di Conegliano – volendo visitare il santuario di San Francesco d’Assisi fece il suo testamento e dispose vari legati in denaro a beneficio del “Lazzaretto”
1338 Novembre … - Donna Bonaventura del fu Guecello e moglie di Paolo
calzolaio di Conegliano - nel suo testamento lasciò soldi due agl’infermi del “Lazzaretto”
1340 Gennaio 20 - Fulcherio del fu Lorenzo nobile dei Scotti di Conegliano –
nel suo testamento lasciò dieci piccoli agli infermi del “Lazzaretto”
1345 Decembre 16 - Enrico del fu Domenico di Vigonovo del Friuli – lasciò
ai poveri del “Lazzaretto” due soldi
*1346 Febbraio 12 …Zardini di Conegliano, vende a Facio proveniente da
Sacile ed ora sta a san Lazzaro, facente per gli infemi di detto luogo, una pezza di terra
giacente sotto San Martino nel regolato di Campolongo
*1346 marzo 31 - Suddetto Facio per gli infermi di san Lazzaro entra in possesso di detta terra
1347 Settembre 30 - Benvenuto, detto Piter, del fu Ettore notajo di Conegliano – Lasciò agli infermi del “Lazzaretto” cinque soldi
1349 Maggio 10 - Giulia figlia di mastro Giovanni fabbro ferraio di Conegliano – lasciò agli infermi del “Lazzaretto” dieci soldi
*1350 Giugno 25 - Nob. Marco Quirino Podestà di Conegliano lascia una
pezza di terra a Vazzola agli infermi di san Lazzaro
1356 Maggio 15 - Francesca de Scotti di Conegliano – nel suo testamento lasciò un legato in denaro al “Lazzaretto”
1363 Gennaio 16 - Nicolò notajo del fu Domenico Galla sartore di Conegliano – lasciò dieci soldi al “Lazzaretto”
1371 Agosto 9 - Mastro Artico sartore figlio di Giacomo da Collalbrigo – lasciò al “Lazzaretto” dieci soldi
1372 Aprile 28 - Donna Berta del fu Odorico de Portis Tedesco, e vedova di
Pietro de Berta di Conegliano – lasciò al “Lazzaretto” dieci soldi
1373 Ottobre 1 - Mastro Zanusso fabbro figlio del fu Almerico delle Cerche
di S. Antonio – nel suo testamento lasciò al “Lazzaretto” cinque soldi
1374 Agosto 22 - Don Matteo de Berta del fu Pietro da Conegliano, Rettore
della chiesa di San Vendemiano – lasciò cinque soldi al “Lazzaretto”
1378 Luglio 12 - Michele del fu Giovanni da Mareno calzolajo – lascia ai poveri del “Lazzaretto” tre soldi
1378 Novembre 2 - Donna Bianca del fu Bettino da Campolongo e moglie di
Tiziano calzolaio – lasciò cinque soldi al “Lazzaretto”
1386 Gennaio 10 - Donna Luca del fu Daniele Borsatino e moglie di Bartolomeo detto Botte di Conegliano – lasciò soldi quattro al “Lazzaretto”
1408 Maggio 3 - Donna Benedetta moglie di Enrico cappellajo nelle Cerche
di S. Antonio – lasciò al Lazzaretto soldi cinque
1483 Agosto 2 - Francesco di Mariano notajo del fu Pasqualino lasciò erede
della metà dei suoi beni, eccettuati alcuni legati alle Chiese di Conegliano, gli ospitali di
“S. Lazzaro”, di S. Zuanne, della Ca’ di Dio.
225
Nel 1313 un altro documento12 cita il monastero di San Martino
in cui vengono nominati i poveri di San Lazzaro, ovvero l’ospizio-lazzaretto13 con la chiesa annessa.
Ne L’historia di Conegliano di Carlo Marcatelli, in riferimento
all’anno 1317 si parla del trasferimento del Mercà di S. Lazzaro dalla
piazza antistante la chiesa al Mosile,14 come Luoco più spatioso di quello
era il Prà avanti la chiesa di San Lazzaro, ove prima si faceva, et si dice
la Fiera di Lazaro, perché si fa la Domenica di Lazaro […]. Si dice anche
che era stata riservato alla chiesa di San Lazzaro il dazio della muda del
mercato, facendo esplicito riferimento ad un Prior che gestiva il lazzaretto
e agli infermi: essendo Coneglianesi molto pietosi, ordinarono che il Dazio della Muda della Fiera di San Lazzaro fosse dato al Prior della casa
degl’infermi di San Lazzaro [infirmis Sancti Lazari15] di Conegliano per
la Luminaria, et Cere16.
12
AMVC busta 487 art. 9.
Per avere un’idea sulla probabile struttura architettonica del lazzaretto, come scrive Palmero, per il basso medioevo, si deve prendere atto che generalmente l’architettura
ospedaliera non si discosta dai canoni costruttivi dei coevi e corrispondenti edifici religiosi, fino a confondersi con essi, specialmente quanto alle dimensioni. La loro struttura
materiale era affine a quella della cultura architettonica religiosa dominante (romanica o
gotica che fosse): più legata quindi alle tradizioni costruttive locali che ai dettami scaturiti all’interno di un determinato ordine ospitaliero. Tuttavia il tipo più diffuso era quello a
“sala”, per tutto simile a quello delle chiese ad una o tre navate, e che ricorda – nel caso
ad un’unica navata – l’architettura cosiddetta a fienile (adottata dagli ordini mendicanti e
in particolare dai Francescani). Questo modello rispondeva principalmente a due esigenze: l’accoglienza di un alto numero di ospiti e soprattutto la possibilità di beneficiare sia
dell’assistenza materiale che dell’ufficio divino. «Da qui la necessità di una perfetta visibilità dell’altare, in un ambiente dove vivevano esclusivamente i ricoverati addossati alle
pareti e dove lunghe file di giacigli si allineavano lungo le pareti». Nelle costruzioni più
piccole invece non risulta marcata la differenza tra il volume cosiddetto del pellegrinaio
(la sala) e la cappella vera e propria dove veniva officiata la funzione religiosa, la quale,
a partire da una fase successiva, avrebbe subìto un’autonoma evoluzione come spazio a
sé stante. Tanto è vero che di alcuni ospedali appartenenti a questa tipologia, spesso l’unica parte a noi pervenuta è appunto questo secondo volume. Cfr. G. Palmero, Le strutture ospitaliere intemelie nel basso medioevo. L’Ordine del Tempio ed altri fenomeni di religiosità assistenziale, in: "Intemelion" - Cultura e Territorio, Quaderno annuale di Studi
Storici, n. 6, 2000.
14 Si trattava di un appezzamento comunale di 56 campi dove si tenevano ‘da antichissimo tempo’ anche le fiere di Sant’Antonio abate e quelle della fine di Ottobre che
assumevano una grande importanza per tutta la regione. Cfr. A. Vital, Opere a cura di
Francesco Scarpis, Conegliano, 2009, pp. 104, 474.
15 AMVC busta 487 tit. gen. H art. 1 - Copie dei primi libri delle reformazioni del
magnifico Consiglio di Conegliano degli anni 1317 (…) 1378 – Tomo Primo p. 17.
13
226
La gestione dei padri Crociferi
Il 24 Aprile 133917 il sacerdote Aldrighetto, o Endrighetto, cede
San Martino a frà Filippo dell’ordine di Santa Maria dei Crociferi di Venezia, consacrato al servizio dei poveri.
Al beneficio il vescovo di Ceneda lega anche le chiese di San
Lazzaro e di San Lorenzo18 con l’obbligo dell’assistenza ai malesanis e
della cura delle anime.
La collocazione dei Crociferi nel Veneto è sempre esterna alla
cinta muraria cittadina, nelle vicinanze di un ponte o di una porta. I frati
sono impegnati nell’accoglienza temporanea dei pellegrini, nell'assistenza
che doveva essere invece continua, per i poveri e gli infermi ospiti residenti, posti in spazi separati, fino alle capacità ricettive.
L'ospedale è sempre distinto dal convento anche se attiguo e questa caratteristica trova conferma anche nel caso di Conegliano19.
Il Botteon ipotizzava che i Crociferi avessero gestito il Lazzaretto già prima del 1339, visto che un rettore, priore di un ordine ospedaliero, era presente fin dal 1319. Si trattava di fra Giacomo detto “Saraceno”,
priore anche della chiesa di San Martino che il 12 Luglio 1319 diviene priore anche della chiesa di San Lazzaro. Come si è visto, la presenza di un
priore in realtà era testimoniata fin dal 1317.
Nelle copie settecentesche di testamenti del XIV secolo, risulta
che nel 1346 fino al 1350 rivestiva la carica di procurator degli infermi di
san Lazzaro, Facio da Sacile20. Dal 1352 è rettore dell’infermeria fra
Claudio da Sacile, nel 1372 viene citato Castejono come priore e rettore
della casa di San Lazzaro21 e dal 1389 al 1393 diviene priore Martino
16
N. Faldon, L’historia di Conegliano di Carlo Marcatelli, Vittorio Veneto, 1981, pp.
123-124.
17 Il 27 Marzo 1339 Conegliano aveva rinnovato con la Dominante il patto di sudditanza.
18 M. Baldissin, L. Caniato, La chiesa dei Santi Martino e Rosa in Conegliano, Conegliano, 1998, p.11.
19 L’Ordine dei Crociferi venne istituito nel 1160 da papa Alessandro III. La sede veneziana dell’Ordine avrà un ruolo di primo piano nell’attività dei Crociferi. Per quanto riguarda la loro storia e l’attività ospedaliera, si segnala in particolare lo studio di G.P. Pacini, I Crociferi e le comunità ospedaliere lungo le vie dei pellegrinaggi nel Veneto medioevale secoli XII-XIV in A. Rigon, I percorsi della fede e l’esperienza della carità nel
Veneto medievale, Monselice, 2002, p.155-172.
20 AMVC busta 565 tit. gen. C Art. 4 n. 35.
21 AMVC busta 565 tit. gen. C Art. 4 n. 35.
227
Guadalto q. Pasqualino22, mentre nel 1392 era jurato dell’Ospital di San
Lazzaro Paulo da Conegliano23.
A partire dal 1325 i testamenti parlano di infermi o di poveri del
Lazzaretto: scompare il riferimento diretto alla lebbra. Pauperes e infirmi,
senza distinzione erano coloro che vivevano là dove la malattia era prodotta dalle stesse condizioni di vita. L’accoglienza e l’assistenza era data
indistintamente a indigenti, malati o anche a coloro che avevano bisogno
d’aiuto a causa delle ricorrenti carestie24.
Dalla metà del XIV secolo, esaurita la presenza della lebbra, stava emergendo invece l’urgenza della peste25.
Non vi sono molti documenti che ci parlino della gestione del
Lazzaretto durante il periodo in cui era retto dai Crociferi (l’ordine sarà
presente a Conegliano dal 1339 al 165626).
C’è però una pergamena del 20 Agosto 145227 conservata nell’Archivio Municipale di Conegliano, che riporta l’inventario di tutti i
beni immobili, livelli, decime e altri diritti spettanti a longo tempo citra
Ecclesiae Sancti Lazzari.
Sappiamo da questa che il Lazzaretto era diretto da due jurati
scelti dal Consiglio comunale che ne aveva lo juspatronato. Il documento
era stato esteso e fatto pubblicare (et proclamasse alta voce preconia super plateam burgi, quando maior populi adderat multitudo hora, modo et
more solito) da due nobili28, tamquam jurati Sancti Lazzari de Coneglano.
Si nomina una pezza di terra (extimationis duorum jugerum terre) coltivata a vite, prato e arativo vicina alla chiesa di San Lazzaro iacen22
G. Tomasi, La Diocesi di Ceneda Chiese e uomini dalle origini al 1586, Vittorio
Veneto 1998, vol.1, p. 207.
23 AMVC busta 565 tit. gen. C Art. 4 n. 35.
24 G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia. Dalla peste nera ai
nostri giorni, Bari, 2005, pp.50-51.
25 A proposito della peste del 1348 e delle sue conseguenze, in un documento del 22
settembre 1349 si parla di far seminar le terre desolate e di trattener gli abitanti fuggitivi
per la fame (AMVC busta 562 n. 16).
26 La soppressione dell’ordine dei Crociferi fu voluta da papa Alessandro VII (il 28
aprile 1656) a motivo dello scarso numero cui erano ridotti. Per volere del Magnifico
Consiglio di Conegliano il 17 luglio 1665 il Monastero e la Chiesa predetta di San Martino fu affidata a li Molto Reverendi Padri dell’Ordine di san Domenico dell’Osservanza.
27 AMVC Fondo Scuola S. Maria dei Battuti, busta X, pacco LXXVII - Inventario
del Lazzaretto 1452 agosto 20.
28 La prima parte della pergamena risulta di difficile lettura. Il Botteon in proposito
cita i nobili Giorgio De Quadrivio e Clemente Caronelli cfr. V. Botteon, A. Barbieri,
Congregazioni di Carità ed Istituti pii riuniti in Conegliano - Studio storico amministrativo, Conegliano 1904, p.33.
228
tis prope eclesiam Sancti Lazari con casa annessa domo murata et cohoperta, (il Lazzaretto), posta tra la via comune, la terra di un cittadino di
Conegliano, il Monticano e il cimitero del monastero di San Martino.
Inventario di tutti i beni immobili, livelli, decime ed altri diritti spettanti alla chiesa di San Lazzaro - 1452 agosto 20
AMVC Fondo Scuola Santa Maria dei Battuti busta X pacco LXXVII
La pergamena è molto interessante (ha anche una bella miniatura
con l’immagine di San Lazzaro), e descrive i numerosi beni immobili, terreni, decime e livelli posseduti dalla Chiesa di San Lazzaro non solo in
città ma anche nelle ville di Vazzola, Bagnolo, Campolongo, Fossamerlo,
Mareno e Colfosco.
Nell’Archivio Municipale di Conegliano ci sono vari documenti
di epoche diverse, che attestano l’affitto di terre o case della chiesa di San
Lazzaro, tra le quali c’era lo stesso Lazzaretto, dato in locazione nei periodi in cui non c’erano epidemie.
I più antichi si riferiscono al periodo tra il 1469 e la fine del 1480
e riportano, sotto il titolo Hospitalis sancti Lazari, gli affitti delle terre legate all’Ospitale; in alcuni casi il pagamento avveniva in natura, si parla
anche di nove polastri e cento gambari.
Viene citato in più parti Buffonello zurado de San Lazaro e Fili29
po Prior .
29 AMVC
busta 415 n. 1.
229
Elenco fitti Ospedale di San Lazzaro anni 1481-1482 - AMVC busta 415 n. 1
In un documento del 1500 risulta che fu concessa la casa già
della chiesa di S. Lazzaro posta nella terra di Conegliano in Borghetto a
donna Antonia Pasqual vedova con molti figli30.
La prima attestazione del Lazzaretto usato per i malati di peste,
risale al 1485. Nella “Cronachetta di Conegliano dall’anno 1403 al 1594”
Marcatelli scrive che il 26 Lujo 1485 fù eletto Prior all’Hosp. di S. Lazzaro con l’obbligo d’ agiutar a portar gli Appestati31.
26 Lujo 1485: il Prior dell’Ospedal di san Lazzaro ha l’obbligo d’agiutar a portar gli Appestati
AMVC busta 487 art 7
30
AMVC busta 487 art.7. Per l’affitto della casa del Lazzaretto, vedi anche AMVC
busta 426 n.6.
31 AMVC busta 487 art.7.
230
La stessa cronachetta Marcatelli riporta che il 9 Febbraio 1487 è
stata concessa a fra Steffano da Napoli la chiesa di San Lazzaro et la casa32.
La Congregazione dei Battuti e il Lazzaretto tra il XVI e il XIX secolo
Il compito dell’assistenza affidato ai Crociferi fu ad un certo
punto disatteso.
Ne sono prova gli appelli che i numerosi benefattori rivolsero a
più riprese al Consiglio cittadino, in cui traspare la mancata accoglienza
dei bisognosi e il cattivo uso delle rendite e dei lasciti33.
Questo ha comportato la cessione del Lazzaretto alla Congregazione dei Battuti, già ipotizzata dal magnifico Consiglio nella seduta del 1
Marzo 1493 per parte presa del nobile Ercole Sbarra, jurato comunale di
San Lazzaro; la cessione avviene propriamente nel 1519.
Il primo documento si trova nella Conachetta che raccoglie informazioni tratte dai libri delle Reformazioni della Comunità di Conegliano e porta la data del 23 Maggio 151934. Si tratta di una parte presa che
sia dato il governo di San Lazzaro alla scuola dei Battuti. Il motivo di
questa decisione riguarda la gestione economica: e questo per ovviar all’inconvenientia et errori che si fanno o far si possono per li giurati di
San Lazzaro con l’amministration dell’entrade di detta jureria, che vengono spese alcuna volta superfluamente et in fabriche non necessarie. La
Scuola dei Battuti è tenuta a soccorrere i malati in caso di peste o altra
malattia, facendo tutte le spese necessarie secondo delle disposizioni che
saranno decise con condotta che detta scuola sia tenuta et in tutte l’occorrenze di peste et morbo, far tutte le spese occorrenti per detta causa
secondo li Capitoli che saran fatti. Si prevede per il momento che essa
Scuola sia obbligada ogni anno il giorno di San Lazzaro far dir 5 messe
in essa chiesa secondo il consueto che sia tenuta provveder e soccorrer
con tutti li mezzi possibili sì del viver delli maladi, infermi e di stabilire i
luoghi di degenza, di cura e di sepoltura i luoghi da star come farli medegar o pure sepelir, come richiederà il bisogno.
32 Tomasi,
parlando della chiesa di Santa Caterina, cita lo stesso pre Stefano da Napoli, come officiante all’ospedale (quale?) nel gennaio 1525. Probabilmente si tratta invece
del Lazzaretto. in: G. Tomasi, La Diocesi di Ceneda Chiese e uomini dalle origini al
1586, Vittorio Veneto 1998, vol.1, p. 205.
33 A. Barzaghi, M.R. Nevola (a cura di), Le chiese di Conegliano, Conegliano, 2006,
pp. 53-54.
34 AMVC busta 487 art. 7.
231
Il 3 Luglio 151935 la veneranda Scuola dei Battuti, riunita super
sala more solito accetta la proposta fatta dai deputati della Comunità di
Conegliano di rendersi proprietaria e amministratrice della Zureria di San
Lazzaro, ritenendo che la cosa possa essere utilis et valde proficua ipsi
schole, que omnibus temporibus ipsius pestis est refugium et solamen miserabilium personarum patientium morbum ipsum, aut suspectum et temporibus suspectis.
La Scuola può disporre e dispensare in quell’Ospizio le rendite
di cui esso dispone, così come dispensa e dispone delle proprie. Per obviar alli inconvenienti potesse occorrer si stabilì che la Scuola (come già
visto nel documento precedente) era obbligata ogni anno, nel giorno di
San Lazzaro, a far celebrare cinque Messe nella chiesa del Lazzaretto. I
Battuti erano tenuti e obbligati, ogni volta che sarebbe comparso il morbo
pestifero, quod Deus avertat, a provvedere gli infermi con tutti i mezzi
possibili di alloggio, medico, medicine e assistenza, sia corporale che spirituale, facendo quindi confessare e seppellire.
La Scuola doveva, a proprie spese, tenere in conzo e colmo la
chiesa e tutte le fabbriche annesse, e non poteva licenziare dalle case e
dalle terre di proprietà del Lazzaretto gli affittuali, se non al termine delle
locazioni.
Inoltre i Gastaldi della Scuola non dovevano avere facoltà di
vendere o dare a livello i beni stabili della Zureria.
Scrive Giambattista Coderta nel 158836 a proposito dei Battuti di
Conegliano: vi è la Scuola di Santa Maria dei Battudi riccha de ducati
quattro mille d’intrada. Questa fraia retta, et molto ben governata dal numero di XXXI (trentuno) elletti di tutto il numero delli homeni di quella di
circa 400, si po’ veramente chiamar madre de’ poveri, perciochè del continuo aiuta, et sostiene tutti li poveri vecchi, li strupiati, li putti piccoli, li
infermi, le done di parto bisognose, et in summa in ogni occorrente bisogno de’ poveri soviene a loro del tutto, fa sepelir li poveri che morono facendoli far le essequie, marita ogn’anno dodeci donzelle povere della terra, et in tempo de penuria come è stato il presente anno 1588, et il precedente, per mesi sette continui per tre volte in settimana ha dato un gran
pane per testa a tutti li poveri d’ogni sesso della terra.
35 Cfr. V. Botteon, A. Barbieri, Congregazioni di Carità ed Istituti pii riuniti in Conegliano - Studio storico amministrativo, Conegliano 1904, p. 34.
36 Giambattista Coderta, Dell’origine, fatti et antiquità della terra di Coneiano, 1588
in: G. Fossaluzza, Gli affreschi della Scuola dei Battuti di Conegliano, Conegliano, 2005
p. 213. Lo stesso documento risulta presente come manoscritto anonimo del 1588 in
AMVC busta 488, fasc. 1 pp. 7-8.
232
Sulla parete di fondo del sottoportico del Duomo di Conegliano,
già chiesa di Santa Maria Nuova dei Battuti, compaiono varie iscrizioni
dipinte entro incorniciature ovali.
Quella riportata nella foto si trova alla sinistra del portale e sintetizza l’attività della Congregazione dei Battuti così come è stata anche descritta dal Coderta.
Sopra il simbolo dei Battuti si leggono queste parole:
PAUPERIBUS, AEGROTIS,
PEREGRINANTIBUS, ET PESTE
LANGUENTIBUS HOSPITIUM
PIA MATER HAEC PRAEBET
S[ANCTA] M[ARIA]
Questa pia madre, Santa Maria dei Battuti, porge ospitalità ai poveri, agli ammalati, ai pellegrini e ai colpiti dalla peste37.
Sono numerose le epidemie di peste riportate nei documenti d’archivio; nell’Archivio di Stato di Venezia, Fondo Provveditori alla Sanità,
si segnala la sua presenza nel territorio trevigiano fino al primo decennio
del 170038. Bisogna comunque tener presente che la peste non si presenta37 Per la Scuola dei Battuti di Conegliano si segnala Vita e idealità della Scuola dei
Battuti, “laica” e “non sottoposta ad alcun ecclesiastico” in: G. Fossaluzza, Gli affreschi della Scuola dei Battuti di Conegliano, Conegliano, 2005, pp.17-35.
38 A titolo indicativo segnalo queste date che riguardano le epidemie di peste che
hanno colpito Conegliano e/o il suo Territorio, ricavate dai documenti d’Archivio e da diverse pubblicazioni. L’elenco non è certamente esaustivo, tenendo conto anche del fatto
che non sempre le fonti usate sono concordi.
233
va in modo omogeneo neppure all’interno di uno stesso paese o città. Le
professioni più esposte erano quelle a diretto contatto con gli appestati, quali
potevano essere i preti confessori o curanti, i membri delle confraternite, i
becchini e i seppellitori (pizzigamorti), i notai che andavano a raccogliere
i testamenti, gli agenti municipali e naturalmente i medici e i chirurghi.
C’erano però altre professioni che erano invece a diretto contatto
con i topi, soprattutto mugnai, macellatori e macellai, talmente esposti al
morbo che le loro strade erano spesso in quarantena.
Nell’Allegato sono riportate le foto dell’Estimo della Scuola de’
S. Maria de Battudi delli beni posti nella terra, Borghi et Terr.o de Coneian diviso nelle Massarie infr.te […] Massaria dell’Hospedal de S. Lazaro – 156939. Il documento cita tutti i beni immobili della chiesa di San
Lazzaro e del Lazzaretto nella città di Conegliano e nel territorio circostante. Interessante è soprattutto l’ultima pagina del documento, in cui è
elencata la Spesa ordinaria che è obbligata far ogni anno la Scuola in
detta Massaria dell’Hospedal de S. Lazaro ad Honorem Dei40.
Qui si precisa che, in caso di peste, la Scuola dei Battuti è tenuta
al mantenimento del Cappellano, del medico, dei Pizzigamorti e degli appestati, cosa che comporta una spesa notevole, tenendo conto anche che il
Lazzaretto con le terre annesse deve essere immediatamente liberato dall’affittuario, perdendo in tal modo i soldi della locazione.
Oltra la obligation si ha venendo occasion di peste di mantener
Capellan, medico, Pizzigamorti et li apestadi, per il che si spende grossa
summa de dinari41, et sopra ciò si deve haver gran consideratione, e mas1348, 1359, 1360-61, 1363, 1381, 1393, 1423, 1437, 1447, 1464, 1476, 1478-80, 148485, 1489, 1498, 1510-1511, 1527-28, 1532-33, 1536, 1552, 1555-1556-1557, 1564,
1575-77, 1588, 1598, 1630-1631, 1682, 1710.
Per quanto riguarda la peste del XVI secolo in Veneto, si rimanda allo studio di A.
Del Fiume, Medici, medicine e peste nel Veneto durante il secolo XVI, in: ARCHIVIO
VENETO, V serie n. 151, CXVI 1981 pp.33-58.
39 AMVC busta 426 fascicolo 5.
40 Et primo si da a m. pre Batt.a di Munari Cappellan all’hospedal per suo salario
for.to vino orne … Contadi ducati otto oltra la casa della sua habitazion A Noc.o Zoccoler Prior all’Hospedal vino orne... Legna carra vintiquattro, oio lire dodese, sale calura
una, oltra la casa lui abita et doi pezze de terra ch’egli gode una in Costa l’altra in Collalbrigo sopra dette Al Reverendo vicario di Ceneda per solita pensione et censo sol vinti Alli portadori delli bastardi formento stara cinque e mezo vino orne cinque conzoli
dui. Il giorno di S. Lazaro per obligation si fa dir nella chiesa de San Lazaro messe cinque si spende lire doi. Al Massaro delle p.nte Massaria lire cinquanta..
41 A proposito delle spese affrontate in tempo di peste, il 3 Novembre 1630 la città di
Conegliano stabilendo una serie di operazioni per far fronte all’epidemia, chiarisce che
perché le predette operazioni non possono essere ridotte a perfezione senza il principale
instrumento, che è il dinaro; doveranno li Sig.ri Provveditori avere autorità di levar di234
sime che venendo occasion di peste non si traze uttilità alcuna delle case
et terre affittuate a madona Camilla de Rigo, essendo ella in tal caso
obligata a relassarle et no finita la locatione per farsi lì il Lazaretto.
1569: obblighi per la Congregazione dei Battuti in caso di peste - AMVC busta 426 fascicolo 5
Sempre in riferimento al Lazzaretto, si parla anche della chiesa
dell’Hospedal con case cortivo et orto ad uso del Prete dell’Hospedal,
Prior et poveri viandanti42.
Nel Sommario della parti, et ordini Che prescrivono il modo di
governare la Veneranda Scuola de’ Battuti di Conegliano Coll’aggiunta
di un nuovo decreto dell’Illustriss., et Eccellentiss. sig. Girolamo Gradenigo Delegato dell’Eccellentissino Senato43, per quanto riguarda l’affitto
del Lazzaretto nei tempi in cui non c’erano pestilenze, si raccomanda che
sia fatto deposito di Ducati vinticinque all’anno giusta le Leggi d’essa
Veneranda Scuola, e aggiunto al medesimo l’entrata, che si ricaverà annualmente dall’Affittanze del Lazzaretto, quale intendiamo, che resti sempre affittato, quando insorgesse occorrenza de sospetti di male contaggioso, per quali avesse a valersene d’uso Lazzareto per pubblico benefizio,
restando proibito disponer del denaro, come sopra depositato, se non nei
casi espressi dalle Parti 1547. 9. Febraro.
nari del Pubblico, etiam del Fontico, e Donativo, con obbligo di reintegrarlo dotto obbligatione della Magg.re Comunità, e di aver dinaro in qual si voglia maniera o modo
che da essi sia giudicato più espediente, obbligando questo Comune per cauzione di chi
darà prestanza […] AMVC busta 562 n. 18.
42 AMVC busta 426 fascicolo 5.
43 Sommario della parti, et ordini Che prescrivono il modo di governare la Veneranda Scuola de’ Battuti di Conegliano Coll’aggiunta di un nuovo decreto dell’Illustriss., et
Eccellentiss. sig. Girolamo Gradenigo Delegato dell’Eccellentissino Senato, Venezia,
1682, p. 16 – AMVC busta 426.
235
Sommario della parti, et ordini Che prescrivono il modo di governare la Veneranda Scuola de’ Battuti di Conegliano
Coll’aggiunta di un nuovo decreto dell’Illustriss., et Eccellentiss. sig. Girolamo Gradenigo Delegato dell’Eccellentissino
Senato. – Venezia 1682, p. 16 AMVC busta 426
Buona parte dell’archivio della Scuola dei Battuti purtroppo è
andato disperso e distrutto durante il primo conflitto mondiale44.
Non esistono più gli antichi Statuti della Scuola dei Battuti di
Conegliano, ma non esistono neppure gli Statuti del Lazzaretto che diano notizie sulla sua gestione.
Molto importanti sono quindi le informazioni che si ricavano dagli Statuti del Lazzaretto di Treviso del 148645; in alcuni casi si trova riscontro nelle notizie desunte dai documenti sulle pestilenze a Conegliano.
Anche il Lazzaretto di Treviso era gestito dalla Scuola dei Battuti.
Il priore aveva l’obbligo di risiedervi, quindi annotare l’ingresso
e il decesso degli appestati, custodire i beni che portavano con sé, trattenerli a vantaggio del Lazzaretto dopo l’eventuale morte, bruciare gli effetti che non si potevano disinfestare e stendere l’inventario dei beni mobili
dell’ospedale. Anche il Cappellano aveva l’obbligo di residenza, amministrava i sacramenti agli infermi, aiutato da altri nel periodo di pestilenza;
poteva anche custodire l’inventario dei beni trovati in casa dell’appestato.
44
Per i particolari sulle pergamene della Scuola dei Battuti cfr. L. Iaia, C. Ziani,
L’archivio Municipale Vecchio di Conegliano al riscontro dell’anno 2000, Conegliano,
2000 pp. 97-100.
45 L. Pesce, Gli Statuti (1486) del Lazzaretto di Treviso composti dal Rolandello in:
Archivio Veneto, 112, 1979, pp.33-71.
236
I malati o venivano isolati in casa propria, come nel caso di persone facoltose, o erano portati al Lazzaretto46.
A Treviso, sulla casa contagiata era posto un contrassegno.
Anche il cappellano, il priore, gli infermieri del lazzaretto e i pizzigamorti dovevano portare una banderuola e suonare un campanello per
farsi riconoscere. Inoltre doveva essere redatta la lista dei nomi dei morti
da peste, cosa riscontrata anche a Conegliano durante l’epidemia del
1630, quando la città per meglio controllare il contagio era stata divisa in
quartieri.
Per ogni famiglia, di ogni quartiere, era stata stilata una lista dei
morti e dei preservati dalla pestilenza.47 In ogni città c’erano punizioni severe per i pizzigamorti che avessero rubato nelle case degli appestati o rivenduto indumenti infetti.
A proposito dell’isolamento in casa, in un interrogatorio condotto
a Conegliano in occasione dell’epidemia del 1576, dove una famiglia era
46 I documenti qui trascritti, provenienti dall’Archivio Vecchio del Comune di Conegliano busta 562 n. 18, riportano le relazioni di due medici della Città sull’osservazione
del corpo di un uomo e di una donna morti durante la peste del 1576.
1576.13. Lujo - Io Ottavio Graziano Medico in Conegliano visto il corpo di M.r
Zuanne Miani qual mercore passato ad ore quatro di notte ad altra Vita doppo esser stato quatro giorni ammalato di Febre Pestilenziale, come facilmente si comprendeva per
la vista dell’orina et accidenti, che mi erano narratti, da chi lo governava. Hò giudicato
insieme con l’eccellente M.r Fabrizio Vezzato Medico, lui esser morto di male contaggioso, per essere il corpo restato livido, et con infiamazione nelle parti Genitali et così
giudichamo et refferimo.
Idem, qui supra Octavianus Gratianus
1576.14.Luglio - Io Fabrizio Vezzato sud.o visto per me il corpo di M.r Zuanne Miani per li segni sud.i che furono visti in esso et per altri che intesi dall’ecc.e sig.r Ottaviano soprascritto, giudicai et giudico quello esser morto di mal contagioso, il che maggiormente si conferma dal contagio impresso fin ora in doi Donne della sua di casa
come rifferisce M.r Francesco di Salcis Chirurgo et così affermo per mio giudizio essere.
Idem Fabritius
1576.24.Julii - Che Mad.a Dianora moglie di M.r Bortolo de Facchis venetiana,
qual morte questa notte circa le 3 ora, sia morta di mal contagioso di peste, è stà conosciuto chiaramente da molti segni, che si sono scoperti sopra la sua Vita, cioè Petecchie
Carbone sotto la mamella destra, gonfiamento di tutto il corpo, et infiamazione nelle
parti vergognose; oltre l’esser morta in loco sospetto, et servato, et l’aversi vista l’urina, prima, che la morisse, simili all’urine degl’Animali Brutti et così io, Fabrizio Vezzali
medico in Conegliano affermo in mio parere, riportandomi sempre a miglior giudizio.
Idem Fabritius Vezzatus
Io Ottavio Graziano Medico aver visto il sop.to Corpo morto, per li narrati segni, judico il medesmo che dal Sop.to M.r Fabrizio è stato tenuto, et judicato. .
47 AMVC busta 562 n. 18. Nella busta si trova anche copia della lista con i nomi dei
146 morti di peste nell’anno 1630 nella parrocchia di San Leonardo di Conegliano.
237
giunta da Venezia portando la peste, si legge alla data dell’8 Luglio: fù intimado a dover stare in casa serratto con suo Padre ed altri della famiglia
finchè piacerà alla Giustizia senza dar ne robbe ne dinari ad alcuno ne
accettar alcuno in casa ne conversar con alcuno sotto pena della Forca48.
L’ultima grande pestilenza del 1630-31 vede ancora attivo il Lazzaretto come luogo di cura o di contumacia: nel caso di cittadini di riguardo, si rimanda comunque anche alle abitazioni dei privati che vengono
messe sotto sequestro.
Il primo Novembre, per decisione della Scuola dei Battuti, che
viene coinvolta insieme all’Ufficio di Sanità per affrontare la pestilenza
(dovendo per la sua arte concorrere anco la Ven.da Scola de Battudi), è
previsto che la metà dei malati siano condotti al Pubblico Lazzaretto49.
Nel manifesto del Giugno 1631 (riportato nella foto a colori), il
Podestà di Conegliano Marco Soranzo, ordina che cadauno che s’infermerà di qual si voglia sorte d’infirmità niuna eccettuata ò con febre ò
senza, essendo nella Terra debba farsi denonciare nel primo giorno del
male ad’uno delli Signori Medici, e essendo in Villa al Reverendo Piovano ò Curato, poiche questi averanno gl’ordini proprii per esseguire la
pubblica intentione, non dovendo permetter che senza licenza d’essi Signori Medici, ò Piovani e Curati, alcuno entri in casa sua, ne meno esso
infermo uscir di casa, intendendosi incorrer in pena tanto quelli che entreranno nella casa de gl’infermi avanti la licenza come di sopra, quanto
quelli che saranno nella medesima casa, e permetteranno l’ingresso a chi
sarà di fuori, ò non denonciaranno il male d’esso infermo la qual pena
farà 40 giorni di contumacia, ò in casa, ò nel lazareto secondo la conditione delle persone senza la publica sovventione, e ciò ancorche il male
non fosse d’alcun sospetto, ma solo per castigare la loro trasgressione, e
altre ad arbitrio50.
Nell’estate 1632 Bastian Mattiuzzo scrive al Podestà di Conegliano lamentandosi del fatto che è stato rinchiuso da venti giorni al Lazzaretto e per questa causa la mia famiglia riceve grandissimo danno non
avendo con che sostentarsi51.
Nell’Archivio Municipale di Conegliano esistono le raspe dei
Processi in Matteria di Sanità celebrati nel 163252.
48
AMVC busta 562 n. 18.
AMVC busta 562 n. 18.
50 AMVC busta 562 n. 18.
51 AMVC busta 562 n. 18.
52 AMVC busta 562 n. 18.
49
238
Vari processi riguardano le fedi di sanità fasulle esposte ai restelli situati nelle strade di accesso alla città o l’accesso abusivo attraverso
vie secondarie.
In proposito è presente un processo del Giugno 1630 riguardante
una fede di Sanità falsa.
Essendo comparso un giovane al restello delli Reverendi Padri
Capuccini, circa l’ora del vespero, un tale Zuane di Bernardin monaro da
Nervesa, gli venne chiesto come mai presentava una fede di Sanità della
inclita città di Venezia […] sotto il nome d’Antonio di Rossi.
Il custode del restello, ricordando di aver già visto la fede, e sapendo che quello veniva da Nervesa, arrestò subito il giovane che fu mandato a processo53.
Fede di sanità della città di Venezia, intestata ad Antonio Rossi, del 11 Giugno 1630 – AMVC busta 139
La foto nella pagina seguente riguarda una Fede di Sanità in
bianco, della città di Conegliano, presente nell’Archivio Municipale vecchio. Vi è stampato il leone di san Marco con San Rocco a sinistra e a destra lo stemma della città.
Provisores Salutis Coneglani. Gratis. Si parte da questa città, libera, per Iddio grazia d’ogni sospetto di mal contagioso, e però si può
darli libera pratica.
53
AMVC busta 139 Una volta interrogato risponde di venire da Nervesa mandato
dalli servitori dell’Ecc.mo sig. Conte Ruberto Collalto a portar questa lettera all’ecc.
Malvolti . Confessa alla fine di aver avuto la fede dallo stesso Antonio di Rossi dal quale
teniva ordine di venir in Conegliano a portare la lettera all’Ecc.mo Alvise Malvolti.
Il 13 Marzo 1631 viene bandito da questa terra e territorio Triviso, Trivisan, Ceneda
et Cenedese a quindici miglia oltre li confin dintorno alli quali essendo preso abia a esser mandato sopra una galera per anni sette […]
239
C’è lo spazio per compilare il nome, l’età, il colore dei capelli
(pelo) e la statura.
Fede di Sanità, Conegliano - AMVC BUSTA 412 n.3
Altre persone sono state processate per aver nascosto la malattia
o aver avuto contatti con appestati senza averli denunciati. Altri ancora riguardano l’acquisto o la vendita di abiti o stoffe di provenienti da case infette.Viene denunciato anche il caso di Girolamo Corte e Zaccaria Zambenedetti, i quali nonostante provenissero da una città infetta, avevano superato il restello posto presso la chiesa di San Lazzaro e, in sprezzo e vilipendio della Giustizia e dell’Offizio di Sanità erano entrati nella Chiesa di
San Martino dov’era gran quantità di popolo per udir la messa trattenendosi nonostante gli inviti del Priore ad andarsene54.
Nel Giugno 1632 viene processato Agostino Fortico di Conegliano per aver nascosto la malattia di Bartolomea Graziana che poi è deceduta in poco tempo. Per questo motivo, visto lo stato di indigenza del capofamiglia il Magistrato invia al Lazzaretto tutti i congiunti. Fù terminato,
che tutti della casa del Med.mo Agostino ed egli medesimo come poveri,
et che avevano bisogno della Pubblica Sovvenzione, fossero mandati al
Lazzaretto, stimando cosa ragionevole. Inviato il Fante alla Sanità, viene
trattato con disprezzo e arroganza. Anche l’ordine di non uscire dalla casa
viene disatteso il giorno seguente quando il sig. Agostino si reca da Graziani medico Fisico. Per questo viene punito e rinchiuso nel fondo di Tor54
Per quanto riguarda la peste del 1630-31 a Conegliano, si segnalano: G. Galletti,
La fame e la peste del 1629-1631: il caso di Conegliano e N. Faldon, La fame del 1629 e
la peste del 1630-31 in: “Storiadentro”, 5, prima serie, 1989.
240
re in Castello di Conegliano. Durante il processo però, avuto riguardo alli
patimenti da esso sofferti nella lunga prigionia, e nel Lazzaretto, viene
condannato solo alle spese del protocollo55. Questo documento ci conferma che anche a Conegliano venivano inviati al Lazzaretto soprattutto i
poveri che avevano bisogno della Pubblica Sovvenzione, mentre gli altri
facevano la contumacia isolati nelle loro abitazioni.
Dai documenti analizzati risulta che in genere le multe e le pene
inflitte erano molto più gravi. Spesso venivano banditi da Conegliano e
territorio, Treviso Trevisan, Ceneda e Cenedese, a 15 miglia oltre li confini per anni due, in altri casi più gravi, venendo presi entro i suddetti confini siano condotti all’ora solita nel loco di giustizia ove dal ministro di
quella sopra un paro di imminenti Forche siano impiccati per la gola sichè morino. C’è poi il caso curioso di Menego Polon di Lovadina, condannato in dieci carri di crode da essere per lui condotte alla fabrica della chiesa di San Rocco di questa Terra, per benefizio di essa Fabrica56.
In varie città erano stati istituiti Uffici di Sanità dipendenti da
quello di Venezia, che esercitava in tutti i territori della Repubblica la autorità in materia di contagio, avvalendosi della collaborazione dei Rettori.
A Conegliano c’erano sei Residenti Deputati all’Officio della
Sanità, che con la soprintendenza del publico rapresentante nelli tempi
calamitosi di pestilenza provedono alla salute della Patria, prescrivendo
regole di governo per la buona direttiva di così importante interesse57.
Nel Settembre 1556 viene stabilito che s’abbia a elezzer quatro
Deputati alla Sanità et che non posseno refutar, sotto pena di … 50 da essere applicadi alle spese, che per giornata occorrevano et si fanno in
matteria di Sanità, e della Peste58.
55
AMVC busta 562 n. 18.
A Conegliano, le prime testimonianze di dedizione a San Rocco risalgono all’epidemia del 1476. E’ a quella data che si fa risalire la costruzione di una cappella dedicata
al Santo nella chiesa del Convento di San Francesco e la nascita della confraternita di
San Rocco il cui Statuto fu approvato dal Magnifico Consiglio nell’Aprile dello stesso
anno. Nel 1534 viene costruita la gesiola di San Rocco in un terreno sul Refosso, all’incirca sull’area in cui si trova ora la fontana dei Cavalli. E’ con la peste del 1630 che il
Magnifico Consiglio destina la somma di 1000 ducati per costruire una nuova chiesa dedicata a San Rocco. Allo stessa data risale anche un voto cittadino che impegnava Podestà e tutti gli appartenenti al Consiglio di recarsi in visita alla chiesa il 16 Agosto, giorno
della festa del Santo. La costruzione della chiesa si protrae per alcuni anni, tanto che nel
1636 i deputati alla fabbrica ottengono dalla Serenissima il permesso di demolire una torre del Castello e usare il materiale per la costruzione della nuova chiesa che verrà ultimata solo nel 1639. Cfr. AA.VV., Le chiese di Conegliano, Conegliano, 2006, pp. 39-41.
57 AMVC busta 487 art 11.
56
241
Nel 1598 comparve anche la figura del Provveditore generale
per la peste con l’incarico di sorvegliare vaste zone tra le quali rientrava il
coneglianese59. Nel 1757 viene stabilito che l’incarico dei quattro Deputati alla Sanità non durava tutta la vita ma quattro anni e che ogni due anni
due di loro dovevano essere cambiati.
Si riporta (nella sezione delle foto a colori del Convegno) un documento del 27 Settembre 1769 con le Tariffe delle utilità per il Cancelliere dell’Officio di Sanità di Conegliano. Da questo elenco di tariffe si
evincono gli ambiti di azione dell’Ufficio di Sanità della città.
Questi andavano dalla tutela della salute dei cittadini alla salute
degli animali, tra i quali i bovini e suini da macellazione; si occupava delle mercanzie che venivano vendute in altre città, delle licenze per la sepoltura dei morti e dei cimiteri; si occupava anche dell’ambito criminale60.
A Conegliano l’Ufficio di Sanità era situato probabilmente dove
si trova l’attuale
palazzo municipale: risulta infatti
che in loggia Comunis Coneglani,
venivano lette le
sentenze dei processi in Materia di
Sanità, praemisso
sono campana dell’Aringo et tuba61.
Qui, nel
1969, durante dei
lavori di ristrutturazione, è stata rinvenuta una bocca di pietra62 per Denonzie secrete in matteria di Sanita
(mm. 570X375, ora al Museo Civico di Conegliano).
58
AMVC busta 562 n. 18. Il 3 Settembre 1557 furono Deputati alla Sanità per occasione de la Peste: Clemente Marcatelli e Z. Andrea Caronel. Il 27 settembre 1585 per il
sospetto di Peste fù fatto un altro Provveditore alla Sanità.
59 N. E. Vanzan Marchini, I mali e i rimedi della Serenissima, Vicenza, 1995 p. 66.
60 Per avere dettagli importanti sull’azione dei Deputato alla Sanità alla fine del
XVIII secolo, si rimanda al manifesto di Xaverio Da Mosto del 18 settembre 1790, anche
questo presente in: AMVC busta 562 n 18..
61 AMVC busta 562 n. 18.
62 N. Faldon, L’Archivio storico comunale di Conegliano e i vari archivi correlati,
Conegliano, 1985, pp. 88-89.
242
La data scritta a matita (1774) non corrisponde certamente alla
collocazione della pietra. Già dal 1511 i documenti fanno riferimento a
denunce riguardanti la sanità, e in particolare un documento del 1630 cita
anche la ricompensa per il denonziante63.
Nel manifesto di Marco Soranzo, del Giugno 1631, già citato, in
cui vengono emanati gli ordini per la tutela della salute pubblica in occasione della peste, viene previsto che poteva esser denonciato ogni trasgressore anco per vie di secretezza e guadagni il denonciante per ogni
denoncia L. 50 de beni del reo se ne saranno se non delli Proclami che
capitaranno in Offic. di Sanità64.
Manifesto di Daniel Balbi, Podestà e Capitanio di Conegliano, 25 Giugno 1715 – AMVC busta 562, fasc. 18
Nel manifesto di Daniel Balbi del 171565 (data comunque precedente a quella scritta sulla bocca di pietra) parla esplicitamente di denonzie secrete. Per stimolare la collaborazione dei cittadini rispetto alle rigide
norme igienico-sanitarie, Venezia ricorreva spesso a questo sistema, e le
bocche di pietra per denunce in materia di sanità vengono aperte in occasione delle grandi epidemie di peste, sia in città che in terraferma66.
63
AMVC busta 562 n. 18.
AMVC busta 562 n. 18.
65 AMVC busta 562 n. 18.
66 Le bocche di pietra per denunce segrete sono diffuse in tutto il territorio della Serenissima. Potevevano riguardare le denunce contro l’usura, il contrabbando, i trasgressori
64
243
Nel Dicembre 1712 si ripresenta lo spettro della peste, in Austria, ai confini della Serenissima.
Per questo vengono allertati gli Uffici di Sanità, affinchè siano
dirottati verso il Lazzaretto per le Contumancie di giorni quaranta, tutte
le persone provenienti dalle terre oltre i confini della Repubblica di Venezia67.
Analogamente il Podestà e Capitanio di Conegliano Daniel Balbi, il 25 Giugno 1715, vista la pestilenza segnalata in Moravia, Baviera e
Stiria, ordina che coloro che provenivano da paesi banditi o sospetti quali
tutti con le merci se ne havesser, Cavali e altro, doveranno esser mandati
al Lazeretto, per darne conto al sudetto eccelentissimo Magistrato di Venezia68.
Il progetto per un nuovo Lazzaretto
L’ultima grande pestilenza che si verifica in Europa è quella di
Marsiglia del 1720-1722. Ancora non si conoscono le cause del morbo: si
ritiene che l’aria sia il più probabile mezzo di trasmissione dell’epidemia;
non rimane altro mezzo che farla attraversare da aria pura. Il Lazzaretto
costruito nel 1700 dovrà essere dunque il dispositivo, lo spazio strutturato
in modo che questo scontro tra esalazioni e flussi di aria pura possa dissolvere le sostanze corruttrici. Sarà costruito dunque secondo il principio
della circolazione d’aria, come è il caso dei Lazzaretti fondati o ristrutturati tra la metà del XVII e la fine del XVIII secolo69.
Anche a Conegliano intorno al 1730 si pensa di costruire un nuovo Lazzaretto.
L’8 Febbraio 1730 La Scuola dei Battuti prende Parte alla supplica dei Padri Domenicani del Convento di San Martino70 con la quale dimandano di cambiare lo stabile del Lazaretto et terra annessa contigua
di pane e farina, i delinquenti, il dazio del vino, i ministri, curiali, prepotenti, banditi e
loro fautori, i bestemmiatori e irriverenti alle chiese, i danneggiatori dei boschi ecc. A
Serravalle, nel Museo del Cenedese esiste una bocca con epigrafe senza maschera che riporta la scritta: DENONTIE SECRETE PER /VIA D’INQUISITIONE /CONTRO LE
TRASGRESSIONI AL PARTITO DEL TABACCO.
Sull’uso delle bocche di pietra per le denunce segrete nella Repubblica di Venezia cfr.
P. Preto, Persona per hora secreta, Milano, 2006, e P. Preto, I servizi segreti di Venezia,
Milano, 1994; P. Preto, Lo spionaggio sanitario, in: Rotte mediterranee e baluardi di sanità. Venezia e i lazzaretti mediterranei, a c. N. E. Vanzan Marchini, Milano 2004, pp.
69-73.
67 AMVC busta 562 n. 18.
68 AMVC busta 562 n. 18.
69 P. Morachiello, Howard e i Lazzaretti da Marsiglia a Venezia: gli spazi della prevenzione in: Venezia e la peste, Firenze, 1980, pp. 157-164 a.
244
alla chiesa di S. Martino con altro stabile nel colle di S. Lorenzo possesso
da esso monastero supplicante71.
I Domenicani essibiscono il luoco di S. Lorenzo essistente nelle
Cerche di questa città, in cui si obbligano di fabbricare a tutte loro spese
un Lazaretto in conformità del Modello e Dissegno presentato ai Battuti.
S’obligano a dar tanta di terra a pertica, quanta equivaglia la quantità
del recinto del Lazaretto attuale.
Per il campo con Rivali annesso al Lazaretto di ragione dei Battuti non dissentono sia fatta seguire da essa Veneranda Scola una stima
di detto terreno perché a misura della stima stessa fatta, s’obligan essi
Padri di dare altretanta terra in S. Lorenzo.
I Domenicani promettono di circondare di muri il recinto del Lazaretto novo che dovranno construire. I pilastri e cantoni della fabrica
nova doveranno esser fatti ò di pietre cotte ò di pietre vive. La chiesa essistente in detto colle col titolo di S. Lorenzo doverà restare in piena libertà, et dominio della Scola. S’obligano li Padri transferire l’altare di S.
Lazaro essistente nella chiesiola al Lazaretto, in quella di S. Lorenzo con
le ferrate, et Banchi, che si attrovano. Restando espressamente di chiarito
che li Padri Domenicani non possano metter mano à dar principio à demolire il Lazaretto se prima non haveranno intieramente et perfettamente
stabilito il nuovo in S. Lorenzo72.
La supplica dei Padri Domenicani venne approvata dalla Scuola
dei Battuti e dal Consiglio comunale. Il decreto governativo di autorizzazione fu emanato nel Dicembre 173273.
Ma il nuovo Lazzaretto non fu mai costruito.
70 I Domenicani si erano insediati nel convento di san Martino dopo la soppressione
dei Padri Crociferi.
Essendo stato nel 1665 conceduto questo Convento, Chiesa quali erano allora e li due
Oratotii di s. Giovanni e s. Lorenzo alla nostra congregazione con decreto di M. Nunzio
Altoviti e dell’Ecc.mo Senato, entrarono i nostri Padri in possesso de medesimi li 17 Luglio del medesimo anno cum onere et onore.
ASTV, CRS, Santi Martino e Rosa di Conegliano, b. 1.
71 La supplica dei Domenicani viene letta e votata nell’adunanza del magnifico Consiglio il 23 Marzo 1730. In questa era stata presentato un disegno che prevedeva oltre al
Lazzaretto, una casetta separata per l’abitazione di un guardiano. V. Botteon, A. Barbieri, Congregazioni di Carità ed Istituti pii riuniti in Conegliano - Studio storico amministrativo, Conegliano 1904, p. 34.
72 AMVC busta 415 n. 4.
73 Il decreto fu emanato il 13 Dicembre e nella seduta consigliare del 28 Dicembre
1732 vennero eletti tre deputati per stipulare il contratto e sorvegliare i lavori del nuovo
Lazzaretto. cfr. V. Botteon, A. Barbieri, Congregazioni di Carità ed Istituti pii riuniti in
Conegliano - Studio storico amministrativo, Conegliano, 1904, pp. 34-35.
245
Il Lazzaretto alla fine del Settecento
Fino alla metà del XVIII secolo, Conegliano, così come Ceneda,
Serravalle e Oderzo ebbero ospizi e non ospedali.
Ne fa fede una relazione del 1744 indirizzata dal vescovo Lorenzo Da Ponte alla Santa Sede, che riguarda lo “stato della Diocesi di Ceneda”.
Al capitolo VII si legge: Hospitalia cum nulla sint in diocesi pro
infirmis, visitamus hospitia pro Peregrinis (dal momento che in Diocesi
non vi sono ospedali per malati, abbiamo visitato gli ospizi per
pellegrini), in quibus maximam satagimus curari munditiem, maresque
cavemus non lecto tantum, sed loco cubare discreto, et si quis infirmetur
interea, diem tertiam ad infirmi Peregrini accessu mandavimus non excidere, quin Sacramentis Poenitentiae, et Eucharistiae reficiatur. Morbo tamen intra triudum ingravescente spiritualia iussimus praematurari praesidia.
L’ospedale di Conegliano nasce nel 1791, dopo che dal 1783 era
stato deciso di trasformare l’Ospizio di Santa Caterina in “Nosocomio per
i poveri infermi della città.”74
Domenico del Giudice nelle “Memorie di Conegliano. 1771”75
descrivendo la città parla anche del Lazzaretto: Vi sono pure due Ospitali
l’uno di S. Catterina per li Pellegrini eretto già dall’Egregio Uomo Messer Francesco Marcatelli Medico, c’abitava in Firenze nell’anno 1401; e
sottoposto alla Scola de’ Battuti, l’altro di S. Giovanni per Donne povere,
ed un commodo Lazzaretto, ciascuno colla sua Chiesa.
L’edificio, come tutte le terre e i fabbricati che erano ancora gestiti dalla Scuola dei Battuti, continuava ad essere affittato, tanto che nel
1788 risultano presenti nel Lazzaretto circa 20 persone.
Secondo quanto scrive il Botteon, negli anni di passaggio delle
truppe austriache e francesi per concessione della Scuola dei Battuti il
Lazzaretto fu adoperato al servizio militare, come magazzino di legna e
fieno e nel Marzo 1799 sembra fosse servito per gli ammalati dell’arma
Cesarea76.
74 N. Faldon, L’Archivio storico comunale di Conegliano e i vari archivi collaterali,
Conegliano, 1985, p.89.
75 Pubblicato in: L. Baldissin Sonego, Domenico del Giudice: Memorie di Conegliano. 1771 in: STORIADENTRO – Conegliano dal mito alla storia – Nuova serie n. 5,
2008, pp.321-372. Si tratta della trascrizione del manoscritto n. 1061 conservato presso
la Biblioteca Civica di Treviso.
76 V. Botteon, A. Barbieri, Congregazioni di Carità ed Istituti pii riuniti in Conegliano - Studio storico amministrativo, Conegliano 1904, p. 35.
246
Un documento del 12 Dicembre 1796 cita il Lazzaretto a proposito della sepoltura di soldati austriaci morti in seguito agli scontri avvenuti nel territorio intorno a Conegliano.
Essendo le strade piene di neve e di ghiaccio, resosi per gli stessi
riguardi impraticabile la salita al Castello, si ordinò da questo Nobili Signori Provveditori di Salute l’escavazione di buca profonda nel così-detto
Lazzaretto dove si vanno depositando colle debite precauzioni i cadaveri
degli estinti soldati, che compirono nella decorsa settimana il numero di
dugento trenta cinque77.
Il XIX secolo si apre con un passaggio di proprietà del Lazzaretto, dopo tre secoli di gestione da parte della Congregazione dei Battuti.
Nel 1807, per decreto napoleonico, la Scuola di Battuti fu convertita in Congregazione di carità78.
Passarono così sotto la sua proprietà e amministrazione tutti gli
istituti pii cittadini tra i quali il Lazzaretto79.
Il Lazzaretto e gli Ospizi per colerosi nel XIX secolo
Nel corso dell’Ottocento oltre alla gestione del Lazzaretto, cambiano molte altre cose.
Si parla nuovamente della necessità di luoghi di degenza, non
più per la cura e contumacia per le epidemie di peste, ma per una nuova
77
ASVE Provveditori alla Sanità, Lettere ai Provveditori, busta 524.
Nel 1806 Napoleone, con il decreto del 25 Aprile, ordinava che in conformità alle
leggi generali del Regno i beni delle Scuole e delle Confraternite venissero avocati al Demanio e che i legati pii, e in generale tutti i pesi inerenti ai beni incamerati, dei quali
fosse riconosciuta utile e conveniente la conservazione a favore del culto, della beneficenza e della pubblica istruzione, passassero a carico dello Stato. Lo stesso Napoleone il
26 Maggio 1807 firmava il decreto di proibizione in tutto il Regno delle Confraternite,
delle Congregazioni, delle Compagnie e di tutte le società religiose laicali, eccettuate le
Confraternite del Santissimo e le istituzioni finalizzate alla pubblica beneficenza e alla
istruzione. Nel decreto del 18 Giugno 1807 ordinava che fosse riunito in un solo ente
morale chiamato Congregazione di carità, l’amministrazione di tutti gli ospitali, dei luoghi pii, dei lasciti e fondi di beneficenza pubblica di qualunque natura e denominazione.
Con il decreto del 21 Dicembre 1807 gli oggetti di beneficenza pubblica passarono nelle
attribuzioni del Ministro dell’Interno e i Comuni furono chiamati a supplire ai bisogni
degli ospitali, orfanotrofi, conservatori di esposti, istituti elemosinieri. Tutti i beni spettanti agli stabilimenti ed istituti citati furono dati in amministrazione ad un corpo morale,
nuovamente istituito, composto da un certo numero di probiviri e distinti cittadini del relativo Comune, chiamato anch’esso Congregazione di carità.
V. Botteon, A. Barbieri, Congregazioni di Carità ed Istituti pii riuniti in Conegliano Studio storico amministrativo, Conegliano 1904, pp. 3-5.
79 V. Botteon, A. Barbieri, Congregazioni di Carità ed Istituti pii riuniti in Conegliano - Studio storico amministrativo, Conegliano 1904, pp. 3-5.
78
247
malattia che si sta diffondendo velocemente anche grazie ai nuovi mezzi
di trasporto a vapore e ai contatti con l’India.
Intorno al 1831 si presenta infatti la necessità di allestire un Lazzaretto in vista delle epidemie di colera che, provenienti dall’oriente, stanno dilagando nell’Europa centrale e nella capitale dell’Impero.
In due circolari della Regia Delegazione della Provincia di Treviso dell’Ottobre 1831 si prescrive che in tutti i Comuni più popolosi dovessero esistere uno o più Lazzaretti pel ricovero e cura principalmente
de’ miserabili, con capacità ricettiva ragguagliata al 2 per cento della popolazione, raccomandando però di ridurre al minimo le spese per l’allestimento dei Lazzaretti.
Avviso della Commissione di Sanità e di Beneficenza della città di Conegliano, 1831 - AMMC sez. B busta 303
In un manifesto di Conegliano dell’Ottobre 1831 si legge che Le
pubbliche autorità si stanno occupando della riparazione e preparazione
di un Lazzaretto pel ricovero e cura degli infermi, e de’ convalescenti, e
delle tante disposizioni e misure ricordate dai sanitarj Regolamenti e volute dal pubblico bene80. In questo caso non si tratta però del ‘vecchio’
Lazzaretto.
80 AMMC
248
sez. B busta 303 fasc. 2 – 10 ottobre 1831.
La Commissione Politico Sanitaria, facendo riferimento alla circolare citata sopra, decide infatti di disporre lo apprestamento del locale
del Corpus Domini ad uso Lazzaretto per gli ammallati di cholera orientale preparando due sale nell’ex convento colle viste della maggiore economia in quanto alli restauri81. Il ‘vecchio’ Lazzaretto cambia da questo
momento la sua funzione.
Le famiglie povere nel Lazzaretto
Nel Settembre del 1831 viene proposto di concentrare in altro
locale più ampio le miserabili famiglie al tempo ospitate in case di proprietà dell’Istituto Pio, in diverse parti della città, in locali fatiscenti e in
condizioni igieniche, morali e di sicurezza, estremamente precarie. Il locale proposto dal Pio Istituto a ricovero di questi miserabili è il così detto
Lazzaretto di proprietà dell’Ospitale Civico di Conegliano82
Nel frattempo il Regno Lombardo Veneto allerta e informa le autorità cittadine sui pericoli riguardanti il colera e i metodi per affrontarlo.
Sono varie le circolari e il materiale stampato che circolano già dal 1831 e
che saranno sempre più numerosi in occasione di ogni epidemia di colera.
Uno dei primi provvedimenti riguarda la questione dei poveri e
dei questuanti. Ancora ai tempi delle pestilenze, nei territori della Serenissima venivano isolati o cacciati perché erano ritenuti la causa o il veicolo
primo della malattia83.
Di fronte al pericolo del colera, nel 1831, le autorità di Conegliano pensano da una parte di concentrare e controllare le famiglie indigenti
all’interno del Lazzaretto, per rendere meno facile l’invasione del morbo
asiatico, e dall’altra di sorvegliare i mendicanti. Fanno quindi redigere un
elenco dei poveri questuanti veramente bisognosi presenti in ogni parrocchia e residenti da tempo, ai quali viene fornito un apposito segnale da
essere sempre portato in città con cui potranno essi liberamente questuare nel Circondario di questo Comune, mentre tutti gli altri che ne saranno
privi, verranno espulsi a mezzo della pubblica forza, e condotti al Comune cui appartengono84.
81 AMMC
sez. B busta 303 fasc. 2 – circolare n. 1900, 24 ottobre 1831.
L’ex Convento del Corpus Domini si trovava nelle vicinanze della Chiesa di San
Martino, quasi a dirimpetto del Lazzaretto. Il locale era di proprietà del Regio Demanio.
Viene deciso che il luogo di seppellimento sarà dalla Commissione determinato nel luogo più possibilmente prossimo al locale del Corpus Domini..
82 AMMC sez. A busta 410 fasc. 1.
83 Per quanto riguarda la gestione dei medicanti a Venezia, si rimanda in particolare
ai numerosi studi di Nelli Elena Vanzan Marchini.
249
Dall’elenco nomenclativo dei poveri ricoverati nel Lazzaretto di
proprietà del Patrio Ospitale, compilato il 5 Maggio 183285, risultano ospitate 121 persone di cui intere famiglie, composte anche da 6 o 7 persone.
Nel Settembre 1831 viene stabilito che il Lazzaretto verrà sorvegliato da un custode scelto dalla casa Pia con domicilio nel luogo.
Sarà cura dell’autorità politica impiegare le misure di correzione
e rigore che si presenteranno a causa della condotta indisciplinata degli
ospiti; toccherà al parroco di San Martino vegliare sulla condotta morale
dei ricoverati. Gli ospiti sono tenuti a rientrare prima del tramonto e non
potranno uscire prima dell’alba. Inoltre il Direttore e Amministratore del
Pio Ospitale sono tenuti almeno una volta alla settimana a visitare il Lazzaretto e correggere ogni mancanza minacciando i colpevoli da esclusione dal benefizio. In realtà, nel Luglio 1832, a pochi mesi dal trasferimento
delle famiglie, emergono seri problemi di ordine pubblico. Con novità
d’esempio si raccolse indistintamente individui d’ogni età e d’ogni sesso,
mescolando persone di buona condotta a gente rotta ad ogni eccesso vizioso. In ogni ora del giorno e della notte c’è l’ingresso e l’uscita liberi
per chiunque. Ivi il vizio più turpe alligna, germoglia e cresce a dismisura con infinito scandalo di tutti. Nel Lazzaretto le bestemmie e i disordini
dell’ubbriachezza e del ladrocinio sono assidui.
Questi disordini sono destinati ad acuirsi per la vicinanza alla
Caserma in cui, di lì a poco, alloggeranno non più truppe di passaggio, ma
una guarnigione stabile. Necessita quindi un controllo e una cura spirituale, e anche per volontà del Vescovo viene auspicato che ci sia un sacerdote stabilmente presente nel Lazzaretto; il parroco della chiesa San Martino
dovrà limitarsi a tenere il registro delle nascite e delle morti.
Ma la cosa non si risolve e nel Novembre dell’anno successivo si
parla di un elenco di persone che devono essere escluse dal caritatevole
asilo del Lazzaretto86.
84 AMMC sez. B busta 303, ref VII, fasc. 2 - Circolare a tutti i Parrochi del Comune
n. 1729, 27 Settembre 1831.
Il contrassegno che veniva dato si trattava di una Marca di latta che dovranno sempre
tener appesa al petto, o cucita sul vestito in luogo visibile. Questa Marca è di figura ovale con una Croce impresa nel Campo e sopra un numero romano progressivo. Questo numero corrisponde al nome del portatore iscritto nello Elenco appositamente. Veniva
proibita la questua ai non muniti della Marca e ai Forestieri. Nell’elenco dei poveri ammessi alla questua si trovano i nomi e i soprannomi di 144 questuanti, l’età e la parrocchia di provenienza. Molti di loro sono bambini anche di tenera età. AMMC sez. B busta
303, ref VII, fasc. 2.
85 Il trasferimento delle famiglie povere al Lazzaretto avviene proprio in quella data.
86 AMMC sez. A busta 410 - circolare n. 1649 del 9 Novembre 1833. Da altri documenti di evince che si tratta dei coniugi Biondo.
250
Emerge prepotente dal 1834 il caso di Cecilia e Marianna madre
e figlia Zambenedetti, tanto più che la condotta di questa si rese maggiormante turpe, riprovevole, e scandalosa che non era in passato e perciò
immeritevole dell’asilo in quel stabilimento ove per le ree sue abitudini si
è resa oggetto di tanto male e di grandi disordini, gran parte de quali
possono senza esitanza cagionarsi al punibile abbandono di una madre
se non cattiva, almeno imbecille, che lasciò irreflessiva trescare amorosamente la pur anco tenera fanciulla, divenuta in poco tempo maestra di
iniquità87. La sua condotta porta più di una volta alla decisione dell’Autorità di allontanare la ragazza e la madre, seguita dalla promessa di redenzione e dalla supplica di revoca della punizione. Sono numerose le lettere
di denuncia per la sua immoralità88 fino al Settembre 1836, quando passa
a felice connubio e cessa quindi il motivo di occuparsene89.
Ma lo scandalo destato dagli ospiti del Lazzaretto divenne soggetto di maggiore osservazione allora quando si apriva al pubblico transito la nuova strada detta di San Giuseppe e che il locale fino ad allora
isolato a lontano dagli occhi della moltitudine rimaneva esposto alla vista di cittadini e forestieri transeunti e più ancora colla istituzione del
Mercato e con la contemporanea introduzione di un esercizio di Osteria90
resa necessaria dalla frequenza dei concorrenti91. Affacciavasi proficua
contemporaneamente l’idea di utilizzare di quel vasto stabile ed annesso
recinto per ampliare il sempre crescente mercato settimanale dei bovini
87
AMMC sez. A busta 410– circolare n. 332 del 13 Marzo 1834.
In realtà le Zambenedetti non lasciarono il Lazzaretto, come fecero invece Lotti madre e figlia e Sadoch (?) Angela. Biondo dà poca lusinga di conversione alle sue violenze
e bestemmie. Cessa il motivo di allontanamento della famiglia Dal Misier (?) perché il
capo di essa, scandaloso, bestemmiatore ed ubbriaccone è passato all’altra vita. AMMC
sez. A busta 410– 5 Ottobre 1834.
88 Nella lettera inviata dal Cappellano del Lazzaretto al Direttore, viene denunciata
ancora una volta la condotta di Marianna Zambenedetti, abitante in questo Lazzaretto,
troppo nota al pubblico per scandalosa sua morale condotta, porge anche di presente al
giovinetto Cuchet, che vivesi, com’ella sà, nella medesima stanza, occasion prossima di
rovina spirituale, accogliendovi essa particolarmente di notte, chiunque brava sventuratamente dissetarsi al vituperosissimo calice di Babilonia. AMMC sez. A busta 410– lettera senza data firmata da don Antonio Dal Pozzo Cappellano. La lettera di risposta del Direttore dell’Ospitale Civile (29 gennaio 1835) prende atto di quanto letto e delle numerose voci che gli giungono sul conto della ragazza e ordina l’allontanamento immediato
della giovane con una somma di 20 lire per trovare altro alloggio.
89 AMMC sez. A busta 410– circolare n. 181 - 31 Ottobre 1836.
90 Il sig. Antoni Silan prende in affitto (per un anno e mezzo) un angolo del cortile del
Lazzaretto per porre una baracca coperta a coppi con porta e finestra, ad uso osteria fin
dall’ Aprile 1846. Dovrà aprire solo di giorno e durante il mercato.
91 AMMC sez. A busta 537 fasc. 1.
251
che si tiene su quella piazza attigua e per procurare tutti i comodi di stallaggio, osteria, caffetteria, ed altri siti di ritrovo indispensabili per i contratti e destinati a separare le varie classi dei commercianti in luoghi più
o meno adatti alle loro abitudini.
Nel 1850 iniziano le pratiche per l’acquisto del Lazzaretto a canone enfiteutico, da parte del Municipio di Conegliano, dalla Direzione
del Pio Spedale92.
A questa data risultano ricoverati 106 poveri di cui 14 vecchi93.
2 marzo 1850 – Da parecchi anni la casa di beneficenza detta il
Lazzaretto ove stanno a gratuito ricovero molti poveri della città, in forza
di non frenabili abusi e d’intrusioni è divenuta un asilo di turpitudine e di
sudiciume. Dacché inoltre fu trasportato sull’attiguo piazzale il mercato
settimanale dei bovini i disordini, che prima correvano forse inosservati,
ora cadono sotto gli occhi di tutti onde la pubblica moralità e l’igiene reclamano la soppressione di quel ignominioso ricetto. La Direzione dello
Spedale proprietario dello stabile in discorso, più volte in addietro aveva
tentato riparare allo scandalo mediante l’espulsione dei ricoverati più
demeritevoli, e con altri mezzi di repressione ma riusciva inutile, o con
esito incompleto, […] ché senza il continuo soccorso della forza pubblica, e senza un grave dispendio non poteva conseguire certamente l’effetto
desiderato. Gli inconvenienti suesposti tante fiate rimarcati dall’autorità
sanitaria e dai parrochi della città formarono particolarmente l’attenzione del R. Medico Provinciale e della igienica Commissione istituita per
ordine superiore al momento in cui menava stragi il Cholera.
Per questo nel Settembre 1849 fu determinato che i due ricettacoli dei poveri, cioè il Lazzaretto e la Casa del Cristo, esser dovessero
immediatamente soppressi94.
Il 12 Gennaio 1852 vengono sgomberate 33 famiglie dal Lazzaretto; 9 famiglie risultano ancora nei locali. Liberato infine il fabbricato,
nel Maggio 1853 si parla della definitiva demolizione del Lazzaretto e
della casa annessa.
92
Il 15 Giugno 1850 viene stilata la proposta di acquisto da parte del Comune di Conegliano, a canone enfitatico, dalla Direzione del Pio Spedale del locale detto Lazzaretto
al doppio scopo di togliere da quel solo centro tanti poveri ivi ammassati, e di utilizzarlo
a vantaggio del Mercato dei Bovini. AMMC sez. A busta 537 fasc. 1.
93 Per 20 persone viene chiesto un accordo con il sig. Morlenghi di Ceneda per affittare una casa nel ghetto.
94 AMMC sez. A busta 537 fasc. 1.
252
Il primo documento, del 5 Luglio 1851, fu fatto affiggere a Treviso, Ceneda, Serravalle, Oderzo, Motta e Sacile
e si riferisce alla richiesta di progetti, proposte e offerte relativi all’edificio del Lazzaretto. Il secondo, del 16
Luglio 1853, si riferisce all’asta per la demolizione del fabbricato - AMMC sez. A busta 537 fasc. 1
Le descrizioni del Lazzaretto
Non ci sono descrizioni precise del Lazzaretto antico. Le notizie
che si possono desumere dai documenti visti ci danno un’idea non molto
definita. Nel 1300 c’era una piazza o prà antistante la chiesa dove avveniva il mercato di san Lazzaro, che poi è stato spostato al Musile. Nella
metà del 1400 si nomina una pezza di terra (extimationis duorum jugerum
terre) coltivata a vite, prato e arativo vicina alla chiesa con casa annessa
domo murata et cohoperta, (il Lazzaretto), posta tra la via comune, la terra di un privato, il Monticano e il cimitero del monastero di San Martino.
Tra i possedimenti della Scuola dei Battuti, risulta esserci dal
1519 la chiesa di san Lazzaro, con la casa del Lazzaretto e terra annessa.
Nella metà del secolo, l’esigenza costante di avere un ricovero pronto per
le epidemie di peste che continuavano a imperversare e lo stato di degrado
in cui versava l’edificio, portano i Battuti a far costruire un nuovo Lazzaretto nello stesso luogo.
Risulta da una copia del Libro delle Parti della Scuola dei Battuti
che fu considerato che le case renonziate dal Magnifico Consiglio erano
253
in mal stato, e poco atte alle occorrenze; perciò nell’anno 1557, 19 Aprile, fu posta Parte da Vittor Peruzzi e Antonio Amigoni per la Fabrica di
un nuovo Lazzareto il quale è quello, che di presente si attrova, come il
Libro Parti 154995. Questo fu il Lazzaretto usato nei i tre secoli successivi.
Le prime informazioni relative alla facciata esterna si trovano in
un documento del 1658 dove si racconta che in occasione della peste i Restelli furono posti sotto i portici del Lazzaretto96.
Nel documento della Scuola dei Battuti relativo al progetto di
cessione del Lazzaretto in cambio della costruzione di uno nuovo sul colle
San Lorenzo (XVIII secolo), si precisa che era annesso ad un campo con
rivali e che il recinto del Lazzaretto era circondato da muri. Prevedono
anche di trasferire l’altare della chiesa di San Lazzaro, definita “chiesiola”,
portando via i banchi e le inferriate. Non vengono nominati dipinti o altro,
né ci sono descrizioni particolari della chiesa, nelle visite pastorali. Nel
capitolo per la permuta firmato tra i Domenicani e il Comune si prevedeva anche che i Padri avrebbero dovuto lasciare da una parte e dall’altra
della chiesa di san Martino una strada propria e comoda ad uso pubblico
per passare dal ponte a dirimpetto la loro chiesa, all’altra strada pubblica
detta del Lazzaretto che conduce al monastero delle reverende madri terziarie di S. Domenico e a più parti97. Nella Mappa Von Zach relativa a Conegliano98 infatti si nota che la strada passa intorno alle mura che circondano il Lazzaretto con la chiesa di San Lazzaro, la casa del Prior e il terreno dietro ai fabbricati. Dall’elenco nomenclativo dei poveri ricoverati nel
Lazzaretto di proprietà del Patrio Ospitale, compilato il 5 Maggio 1832,
risultavano esserci 24 stanze che ospitavano 121 persone.
Nel Settembre 1831, in occasione del riatto del Lazzaretto per
l’accoglienza delle famiglie indigenti, l’ingegner Gaspare Petrovich fa
una descrizione dettagliata del fabbricato. Il locale proposto dal Pio Istituto a ricovero di questi miserabili, è il così detto Lazzaretto di proprietà
dell’Ospitale Civico di Conegliano che esiste fuori della Città presso la
chiesa di San Martino, e nella strada che conduce al Convento del Corpus Domini da esso poco distante. Il Lazzaretto è una fabbrica regolare
dal lato in quadro di metri 18.70 con cortile ne’ lati di mezzodì, levante e
95
AMVC busta 561 n. 6.
AMVC busta 487 art 9.
97 V. Botteon, A. Barbieri, Congregazioni di Carità ed Istituti pii riuniti in Conegliano - Studio storico amministrativo, Conegliano 1904, p. 119.
98 Kriegskarte 1798-1805. Il Ducato di Venezia nella carta di Anton von Zach, a cura
di M. Rossi, Treviso, Pieve di Soligo 2005. I rilevamenti sul territorio di Conegliano
sono stati fatti nel 1801.
96
254
ponente chiuso da recinto muro. Questa fabbrica a levante tiene un portico largo m. 2.52 e lungo m. 15.42 con quattro arcate in parte sostenute
da pilastri. Vi sono nel pianterreno sei comode stanze bastantemente in
buono stato, che occupano la parte interna della fabbrica, che hanno il
loro ingresso sotto il portico, e ciascuna munita di focolaio. In fondo del
portico a ponente esiste la scala di legno per ascendere al piano superiore. Il piano superiore comprende lo spazio delle stanze del piano terreno,
più quello di due portici un muro di divisione dal pian terreno fino al coperto separa in due parti uguali il fabbricato da levante, e ponente. Sono
disposte in questo primo piano dalla parte di ponente mediante un corridojo diviso con parete di tavole, cinque stanze con le rispettive cucine, e
dalla parte di levante una stanza ed una cucina. […] Il locale in dicorso
offre tutti i vantaggi di una casa di ricovero, e favorisce molto più facilmente per la sua situazione isolata e lontana l’osservanza delle necessarie discipline [...]99
Nel contratto stipulato tra il Municipio e i preposti del Civico
Spedale presso il notaio Giusti il 21 Aprile 1853, relativo alla vendita e
alla demolizione del Lazzaretto, si trova un’altra descrizione fatta dagli
ingegneri C. Dal Fabbro e A. Bernardi l’11 Settembre 1850.100 Si parla di
un Porticale a quattro arcate aperte prospicenti a mezzogiorno ed una pure
aperta verso levante […] al lato di tramontana della fabbrica evvi altro
porticale con 4 arcate aperte ed una verso levante con suolo e soffitto.
Costruzione del piazzale Foro Boario dopo la demolizione del Lazzaretto (1853)
AMMC sez. A busta 537
99
AMMC sez. A busta 410– com. n. 127 del 7 Settembre 1831.
AMMC sez. A busta 537.
100
255
L’edificio conta 35 stanze usate come camera o cucina con focolaio. Viene descritto un altro fabbricato verso Nord, probabilmente la
‘casa del Priore’ citata varie volte nei documenti antichi. Si tratta di un altro edificio di 4 stanze, chiamata ‘Casetta annessa al Lazzaretto’ e precisamente lungo il muro che divide l’ortaglia dal soppresso cimitero della
chiesa di San Martino. Questo piede di fabbrica emerge cinto da muri.
Oltre a questo viene descritto un cortile spazioso coerenziato a levante e
ponente da muro a mezzodì del Lazzaretto e a nord dalla casa e da muro
di questa ragione. Esistono in detto cortile n. 14 gelsi a primo frutto, e un
fico.
Nei documenti vengono anche segnalati i vicini lavori per la costruzione della strada ferrata101.
Va notato che nei documenti della metà del XIX secolo, non viene più citata la Chiesa di San Lazzaro, mentre risulta ancora identificabile
nella citata mappa del barone von Zach realizzata, per quanto riguarda il
territorio di Conegliano, nel 1801. In un documento, si dice anche che la
Piazza innanzi al Ponte San Martino era in origine destinata per il pubblico mercato de’ bestiame102. Dopo la demolizione del Lazzaretto il foro
boario fu spostato proprio nel luogo in cui sorgeva l’ospitale, come si può
notare nell’immagine.
Vi sono diverse ipotesi relative alla posizione del Lazzaretto e
della chiesa di san Lazzaro103. In una mappa della metà del 1800, che si ri101
Il 01 Maggio 1855 si è inaugurato il tronco ferroviario Treviso – Conegliano –
Pordenone. in: A. VITAL Opere, a c. di Francesco Scarpis, Conegliano, 2009, p.207. I lavori per la ferrovia che riducono lo spazio del mercato dei bovini.
Il largo spazio occupato dal fabbricato ed adiacenze nuoce agli usi del Pubblico
Mercato suddetto molto più che l’area sulla quale esso si tiene va ora e restringersi occupandosene una parte pel transito della strada ferrata. Il Municipio avrebbe ritenuto
utile sostituire ad uso di Osteria, e Caffetteria un più adatatto e nuovo locale ma il Consiglio abbandonato per ora il progetto ha veduto meglio […] spese di demolizione e di
conguaglio del terreno nonché della riduzione dei muri di cinta del Mercato. Il deposito
dei materiali per la costruzione della strada ferrata rende sempre più angusto lo spazio
utilizzabile per il commercio dei bovini. AMMC sez. A busta 537– Lettera della Congregazione Municipale della Città di Conegliano n. 1363, 6 Maggio 1853.
102 AMVC busta 562 art 4 n 13.
103 Certamente il riferimento più attendibile è quello della mappa del barone von
Zach, citata più volte e facilmente reperibile perché pubblicata dalla Fondazione Benetton Studi e Ricerche. Precedenti alla sua pubblicazione erano le mappe relative alla chiesa di san Lazzaro che troviamo nei libri: G. Tomasi, La Diocesi di Ceneda Chiese e uomini dalle origini al 1586, Vittorio Veneto, 1998, vol.1, p. 205 e N. Faldon, San Rocco di
256
ferisce alla demolizione del fabbricato, si nota che era posto vicino alla
chiesa nuova di San Martino, non unito ad essa. Infatti nel regolamento redatto nel 1831, quando ospiterà le famiglie indigenti, si raccomanda di evitare schiamazzi soprattutto nel tempo delle sacre funzioni nella vicina chiesa.
Dagli Ospizi per cholerosi al nuovo Lazzaretto di Conegliano
Durante ognuna delle epidemie di colera che hanno colpito la città di Conegliano (1836, 1849, 1855-56, 1867, 1873, 1885-86), mancando
un Lazzaretto (prima perché occupato dalle famiglie indigenti e poi perché demolito), il Comune ha dovuto trovare una sede alternativa al Civico
Spedale, in cui isolare e curare i colerosi.
Come si è visto, già dal 1831 data la presenza del morbo nella
capitale dell’Impero, vengono allertate le autorità cittadine per far fronte
al pericolo incombente. In concomitanza con il ripristino dei locali del
Lazzaretto per ricovero dei poveri, viene allestito un ospizio per colerosi
in due stanze dell’ex convento Corpus Domini, detto delle Moneghette104.
In un documento del 7 Ottobre 1831 diretto alla Deputazione Comunale di Conegliano, la Commissione parziale per il Lazzaretto fa una
relazione dei lavori necessari per il luogo di degenza dei colerosi. Si evince che potrebbe ospitare al massimo 50 colerosi, il medico designato per
l’assistenza sarà il dott. Pietro Gava e sarà provvisto di 14 celle più il luogo per il personale.
Vengono fatti i preventivi di spesa per l’allestimento ed ammobiliatura del Lazzaretto e per il personale sanitari, come si può vedere nei
documenti riportati, ma il colera non arrivò e il luogo di cura in realtà non
fu aperto se non 5 anni dopo, quando l’epidemia colpì anche Conegliano.
L’Ospizio dei cholerosi durante l’epidemia del 1836
Nel 1835 viene segnalata la presenza del colera in alcuni Stati
della penisola italiana. Di nuovo vengono allertate le autorità cittadine per
Conegliano, Vittorio Veneto, 1968.
Presso l’Archivio di Stato di Venezia non mi è stato possibile vedere la mappa del
Catasto Napoleonico relativo a Conegliano, perché ancora non digitalizzata. Presso l’Archivio di Stato di Treviso è presente invece il Catasto Austriaco del 1854, in cui non
compare il Lazzaretto, perché abbattuto l’anno prima, ma la piazza del foro boario.
104 In un documento non datato, Antonio Dal Pozzo, sacrista della chiesa di San Martino chiede un compenso al Comune di Conegliano per aver assunto gratuitamente la
cura spirituale di que’ miseri colerici non solo di giorno ma anche di notte […] dacchè
entrarono per superiore disposizione nell’ex convento detto le Moneghette […], onde
non avessero a passare al numero dei più digiuni dei salutari conforti di nostra sacrosanta ragione. AMMC sez. A busta 382.
257
far fronte all’epidemia105. I primi casi a Conegliano iniziano però tra Giugno e Luglio 1836. Si tratta di militari austriaci presenti nella caserma
vicino alla chiesa di San Martino106 e di un Postiglione al servizio della
Posta cavalli presente in città, alloggiato in contrada del Ghetto107.
Dall’elenco dei ricoverati nell’Ospizio risulta che il morbo ha
imperversato a Conegliano tra il 2 Giugno e il Settembre 1836; su 45 ricoverati 26 erano militari per lo più austroungarici.
La morte è sopraggiunta per 17 di loro, dopo pochi giorni di degenza108.
105 Nel processo verbale del 13 Ottobre 1835 relativo alla visita fatta alle Farmacia
della città, dal segretario municipale Gio Batta Graziani assistito dal medico condotto
Carlo Bruni e dal chirurgo condotto Antonio Berti, per riconoscere se siano o meno provvedute delli seguenti generi ritenuti della più essenziale necessità al caso di bisogno pel
temuto sviluppo del cholera. Segue la distinta de’ generi. Fiori di camomilla, di tiglio,
menta piperitide, melissa, ammoniaca, eteri-solforico-acetico, canfora, muschio, senape,
spirito di vino, cloruro di calce. Vengono esaminate le 3 farmacie della città: la Farmacia
Vascellari in Borgo sant’Antonio, la Farmacia Bruni e la Farmacia Busioli. AMMC sez.
A busta 382.
106 Nella seduta del 4 Ottobre 1835 il parroco Antonio Da Pozzo era stato incaricato
dell’assistenza ai malati dell’ospizio per colerosi. In un documento del Giugno 1836 per
quantunque la provvidenza si sia degnata di ritener immuni dal minacciante flagello
questi abitanti, pure l’ospizio suddetto si dovrà aprire per alcuni individui militari stati
colti dalla malattia nel loro passaggio. Resta il dubbio, trattandosi di militari non italiani,
se sono di religione cristiana oppure no. Anco a questi rendesi necessaria l’assistenza
spirituale se fossero appartenenti alla Religione Cattolica perché al caso di morte non
periscano senza i conforti della religione medesima. AMMC sez. A busta 382.
107 Il 6 Luglio 1836 viene segnalato il rapporto medico in cui un caso di Chollera in
un Postiglione al servizio di questa Posta Cavalli, alloggiato in casa di un altro Postiglione nominato Girolamo Barbaro nella Contrada del Ghetto. AMMC sez. A busta 382.
108 AMMC sez. A busta 383. Nella busta sono presenti anche numerosi elenchi di tutto il materiale acquistato per l’Ospizio, con il nome delle ditte fornitrici. Oltre alle spese
sostenute per il trasporto dei colerosi, gli espurghi e i profumi, il mobilio dell’Ospizio dei
colerosi c’è anche l’elenco degli impiegati e inservienti dell’Ospizio nei tre mesi, da Luglio a Settembre 1836. Tra questi risultano, oltre agli infermieri ed economo, il dottor
Carlo Bruni medico dirigente, don Antonio Dal Pozzo cappellano, Francesco Miller chirurgo. Vi è poi l’elenco delle spese per gli alimentari, dove spicca l’acquavite per uso degli infermieri e il ghiaccio e i sorbetti per uso dei ricoverati cholerosi. C’è anche il sapone e l’aceto usato per il bucato, espurghi e profumi, la calce usate nelle tumulazioni e i
medicinali forniti dalla Farmacia Pietro Busioli. Delle tabelle riportano i movimenti giornalieri dei colerosi ricoverati, le giornate di permanenza dei civili e dei militari, oltre che
degli infermieri. Un fascicolo riporta il Protocollo delle visite medico chirurgiche praticate ai cholerosi dal giorno 16 luglio 1836, ovvero la ‘cartella clinica’ dei ricoverati nell’Ospizio; un altro, l’elenco giornaliero dalla presenza dei malati e del personale in servizio. Nella Tabella dietetica per l’Ospizio dei Cholerosi del 2 Giugno 1836, viene riportata la dieta dei malati e degli infermieri. E’ curioso il fatto che agli infermieri doveva esse-
258
Tra i numerosi documenti che riportano nei particolari le spese
sostenute dal Comune di Conegliano per l’allestimento dell’Ospizio dei
colerosi, spicca la storia del villico Antonio Pavan di Villorba, che risulta
essere il primo caso di colera fulminante arrivato nella città di Conegliano.
La dettagliata relazione redatta da G.B. Graziani nel Dicembre
1836, serve a giustificare un dispendio eccessivo di denaro109 avvenuto
per far fronte al primo caso di colera della città, quando ancora non era
pronta ad affrontare l’epidemia, e a far ricadere la colpa su Villorba, chiedendo a quel Comune di farsi carico di tutte le spese110. Il documento testimonia lo smarrimento della città di fronte al colera.
[…] e in questo tale momento si presentano all’altrui sguardo vistose le
documentate spese che si incontrarono da questa Comune in causa dello
sviluppo del Chollera fulminante nella persona del villico Pavan Antonio
da Villorba che restò vittima del Male non si possono certamente caraterizzarle vistose né nel loro dettaglio ne nel loro ammontare se si richiami
il pensiero alla epoca del triste avvenimento. Conegliano godea la più perfetta pubblica salute. Nessuna caso di Chollera l’aveva alterata. Un altro
spavento sentiasi però dalla popolazione e dalle stragi che riferivansi fatte né paesi infetti, e dalle incessanti provvidenze, che disponevansi per allontanare possibilmente il disastro. Un giorno di Venerdì, giorno di mercato […] nel mezzo di una moltitudine di popolo viene colpito lo infelice
dal male temuto sulla pubblica strada. Desso è straniero ma ha tutti i diritti
agli umani riguardi. L’ospizio non era aperto ne pronto il personale di
servizio. Si cerca il medico. Viene visitato e si dichiara il morbo Chollera,
e fulminante il caso. Allora si allontana ognuno. Il terror si diffonde, e si
ha appena chi caritatevolmente col Medico tragga il paziente alla prossimissima Casa ad uso di Locanda ove si trasporta sul letto. Prodiga il medico le proprie cure e le sua prestazioni ma è pressoche solo tranne il dolente Padre dell’ammalato, che era in città e che sulla sparsa voce del
caso vi accorre. Non basta egli solo ad assisterlo. Domanda il Medico infermieri. Que’ che erano designati per la Parrocchia non si trovano. La
Deputazione avvertita incarica il proprio Cursore di prestarsi a cenni del
Medico. Trova infermieri vi vanno, ma il timore d’incontrare la malattia,
le lamentazioni de loro Famigliari li fanno disertare. Nel maggior uopo
re fornito 1/10 di grappa al mattino (e niente altro) e una boccia di vino puro al giorno,
oltre al vitto. E’ ancora più interessante che nel Prospetto dimostrante il Dinaro, e il Vituario somministrato il giorno 11 giugno 1836 risultano somministrati agli infermieri a
mattina acquavite boccie n. ½.
109 La circolare n. 1685, proveniente da Venezia del 3 Gennaio 1836, raccomandava
proprio che in occasione delle epidemie di colera, si usi ogni possibile risparmio.
110 AMMC sez. A busta 383 - 10 Dicembre 1836.
259
del malato manca di nuovo l’assistenza. Vi accorre il Medico condotto,
conferma il carattere malignante della malattia, vede il bisogno dell’assistenza per eseguire la cura.
Dunque fù duopo colla forza far tradurre alla Locanda gl’infermieri a’
quali fu promesso alimento, giornata e premi, e qualunque altra condizione esigevano purche no abbandonassero lo infermo purche lo assistessero. Ne valeva a rinfrancarli la presenza de Medici, la loro attiva prestazione negli Uffizj più bassi. Tanto era il timore che il primo caso avea sparso in tutti111. […] Lo sviluppo in un giorno in cui la moltitudine de spettatori
rendea più funesto, e terribile lo spettacolo, e rendea più difficile ottenere
li necessarj assistenti: la circostanza che il paziente dovè trasportarsi in
una Locanda in cui eranvi molti Ospiti, che tosto emigrarono: la necessaria prudenza di procurare ogni mezzo di non propagare il germe sviluppato,
tutto esigeva sacrifizj che non sarebbonsi così ingenti incontrati se come in
progresso si avesse avuto pronto l’Ospizio. Cessata l’epidemia del 1836112,
111 Il documento continua: Il male trionfa l’ammalato è la vittoria. Allora si vuol fuggire dalla stanza, dalla casa. Perche vi si fermino è duopo promettere compensi, e d’aumentar trattamento. Trasportato il cadavere, occorrono suffumiggi, disinfettazioni di camera, di effetti. Occorre bucato. Per queste operazioni la mercede deve eccedere l’ordinario. Il Medico prescrive quanto è necessario e si eseguisce. Ma questi infermieri e
questi operaj devono ritornare in società, devono rientrare nelle loro famiglie. Come
dunque si puo permettere l’uso de’ cenci da cui erano coperti? D’altronde avento ottenuto di superare in questi quel timore che li allontanava dalla opera necessaria nel possibile caso che il seme fatale no si estinguesse nel Morto Pavan era necessario di guadagnare la ritrosia di que’ individui con qualche premio. Fù quindi loro promesso e fatto
un vestito. Con esso guarentivasi più sicuramente il contaggio. La Locanda incontrò un
lucro cessante ed un danno emergente. Nessuna spesa dovea accrescere il passivo del
proprietario. Detto tutto questo viene da se, che sotto questi punti di vista non puo presentarsi grande ne nel suo dettaglio, ne nel suo ammontare la spesa. […]
Ciò posto sembra veramente che la Comune di Villorba nel caso della miserabilità della famiglia del Cholleroso Pavan deva rimborsare questa del sostenuto dispendio poiche
alla considerazione dello sviluppo del primo caso di Chollera d’indole fulminante. […].
112 Il 5 Ottobre 1836, la Regia Delegazione nella Provincia di Treviso del Regno
Lombardo Veneto invia una circolare (ADVV aM rubrica VIII busta 2 – Circolare
23104/4977) riportando la preoccupazione del […] Serenissimo Arciduca Vice Re in favore di quei poveri giovanetti che perdettero in causa del cholera i loro genitori e rimasti
quindi senza virtuose guide, senza opportuni esempi di operosità, e senza mezzi di sussistenza. Viene raccomandato di avere un cortese vescovile riscontro che indichi con sollecitudine i più miseri tra i superstiti alla fatale sofferta sciagura.
Fa seguito la circolare del 24 Ottobre 1836 del R. delegato di Treviso. (ADVV aM rubrica VIII busta 2 – Circolare n. 4413/627).
Senza dubbio della fatale malattia che ne’ presenti giorni la mercè dei pietosi celesti
soccorsi è cessata in questa Provincia, la più lagrimabile delle conseguenze dopo la
perdita di tante vite, è quella della condizione infelicissima de’ figli ai quali rapì il mor-
260
l’Ospizio per colerosi viene chiuso e tutto il materiale presente viene trasportato nell’Ospitale Civile113.
L’Ospizio dei cholerosi durante l’epidemia del 1849
Nell’Agosto 1849 si ripresenta in città il colera114.
Il giorno 4 Agosto la Direzione del Civico Spedale aveva segnalato il ricovero e la morte subitanea per colera di un questuante, chiedendo la sollecita istituzione di uno Speciale ospizio pei cholerosi civili115.
bo le consolazioni, gli ajuti, le cure de’ genitori e dei parenti. A questi sciaguratissimi
superstiti la carità di S. A. I. il Serenissimo Arciduca Vice Re, precipuamente e vivamente mirando contemplò e decise […] che fosse d’ogni maniera provveduto. Viene quindi
interessata la coordinazione dei Vescovi onde di concerto con le autorità locali promuovessero ogni più efficace misura atta ad assicurare il nutrimento, la cristiana educazione e la utile operosità de’ figli orfani facendosi precipuamente nelle campagne con buoni appoggi adestrare ad esercizii e lavori di agricoltura in quanto manchi l’opportuna
facilità di altri mestieri.
Nell’Archivio Diocesano sono presenti una serie documenti (ADVV aM rubrica VIII
busta 2) in cui alcuni parroci, in risposta alla circolare del Vescovo, riportano la situazione della loro parrocchia indicando il nome degli orfani, la loro età e complessione (costituzione), il nome e la professione dei genitori defunti e di quelli superstiti che non riescono comunque a mantenere i minori. Per quanto riguarda Conegliano, vengono segnalati alcuni orfani domiciliati nel Lazzaretto. Agostino Villa, militare sergente invalido lascia Angela, Lugrezia, Maria e Augusta di anni 9, 7, 3, 2 rimangono prive di sussistenza
e di custodia con la madre quasi sempre malata priva anche della pensione del marito.
Il padre di Maria e Pietro Feletti, di 11 e 9 anni, è morto nello Spedale di Conegliano.
La madre, Teresa Feletti, questuante di professione, è stata colpita da colera così potente
che in poche ore morì. Prive di parenti, alle bambine non restò per conforto che la sola
pietà dei fedeli.
113 Cessata l’epidemia, l’Ospizio per colerosi, rimane aperto per tutto il mese di Settembre 1836, sotto la sorveglianza di due custodi per poi essere chiuso difinitivamente.
E’ datato 5 Dicembre 1838 l’Inventario e stima degli effetti che servirono ad uso dell’Ospizio de’ colerosi esistenti in deposito presso l’Ospitale Civile di Conegliano. Si tratta di un elenco di 4 pagine che riporta tutti gli oggetti che erano presenti nell’Ospizio e
che, cessata l’epidemia erano stati ammassati presso l’Ospitale Civile.
114 L’epidemia del 1849 sembra sia stata portata dalle truppe austro-ungariche durante l’assedio di Venezia. Cfr. E. Tognotti, Il mostro asiatico Storia del colera in Italia, Editori Laterza, 2000
Un documento del Podestà di Conegliano del 11 agosto 1849 (AMMC sez. A busta
383) riporta la richiesta di 4 casse bene impeciate pegli avvenibili casi di Cholera. Viene
ordinata anche una cassa doppia. Istruzioni verbali vennero date sul sequestro degli effetti dei cholerosi e sulla loro disinfestazione.
115 AMMC sez. A busta 383 - Vengono segnalati vari casi di colera già avvenuti in
città in un documento del 30 Luglio 1849, dove si allertano osti, trattorie, albergatori e
fruttaiuoli, tanto presso le caserme e la casa di trasporto quanto quelli che sono alla località D.a del Lazzaretto.
261
Nel Processo Verbale del 22 Agosto 1849116 si legge: Incalzando
da qualche giorno con maggiore gravità, ed estensione in questo Comune
il Cholera Morby per cui si rende difficile ed inefficace l’assistenza ai poveri nelle loro abitazioni, ne potendosi d’altronde utilizzare all’uopo
qualche infermeria nel Civico Spedale, troppo angusto, e insufficiente,
viene deciso che, non potendo trovare un locale adatto in città, sarà ridotto uno spazioso ambiente all’interno del Nosocomio che serve ad uso di
magazzino, separandolo in due parti, pel collocamento dei cholerosi di
amendue i sessi.
L’Ospizio dei cholerosi durante l’epidemia del 1855-56
Nel Luglio 1855 viene istituita una Commissione speciale composta da distinti cittadini con lo scopo di sorvegliare ogni ramo sanitario
e prescrivere i provvedimenti riputati opportuni117. Il colera si ripresenta
quando manca ancora un lazzaretto e le condizioni dell’edificio dell’ospedale sono diverse rispetto all’epidemia precedente e non può accogliere i
malati in locali separati118.
Il 12 dello stesso mese, vista l’urgenza dei primi casi di colera119
che vengono ricoverati insieme ai malati ‘ordinari’, le autorità cittadine
pensano ad una soluzione urgente. Il Direttore dell’Ospitale domanda il
mezzo di separare traslocando altrove gli individui ammalati ordinari lasciando nel Pio Nosocomio quelli colpiti dal Cholera facendo conoscere
che a causa dei lavori di riattamento dell’Ospitale pei quali convenne
alla demolizione di un’ala non è possibile creare una zona separata per i
116
AMMC sez. A busta 383.
Assumono l’incarico il conte Girolamo di Montalban, i dottori Carlo Fantuzzi e
Pietro Busioli, assistiti dal Commesso Sanitario Protocollista Municipale Osvaldo Zorzato. AMMC sez. A busta 384 - Manifesto n.1484 del 7 Luglio 1855
La relazione della Commissione Sanitaria del Luglio 1855, fornisce un quadro dettagliato e molto interessante per capire le condizioni di vita nelle varie zone Conegliano
poco prima dell’Unità d’Italia. AMMC sez. A busta 384.
118 AMMC sez. A busta 384 - Lettera del Commissario del 2 Luglio 1855
Una lettera del 28 giugno 1855 allertava le autorità municipali di allestire immediatamente un Lazzaretto per colerosi.
Si segnalano le relazioni della Commissione Sanitaria del 5 Luglio e del 1 Agosto
1855, che ancora una volta forniscono un quadro dettagliato della situazione della città di
Conegliano in epoca risorgimentale. AMMC sez. A busta 384.
119 In una lettera indirizzata alla Congregazione Municipale di Conegliano del 18 giugno si parla del colera che ha circondato ormai i Distretti di Valdobbiadene, Ceneda e
Conegliano e lancia l’allarme per istituire al più presto un Lazzaretto in cui ricoverare i
colerosi presenti nel Nosocomio cittadino. Cita anche il caso di un passeggero di Cornuda che giacque abbandonato sulla pubblica via. AMMC sez. A busta 384 sez. A.
117
262
colerosi. Viene concordato di allestire per i malati dell’ospedale alcune
stanze nell’ex caserma presso il Palazzo Amigoni-Malvolti, (dopo aver
considerato come sedi possibili la Caserma di San Martino e un locale posto nella contrada di Santa Teresa)120 mentre i cholerosi resteranno nello
attuale Pio Nosocomio121.
In un documento del 19 Luglio 1855 il Podestà di Conegliano
denuncia che due degli infermieri addetti all’assistenza dei colerosi non
prestano la dovuta assistenza ai malati perché sempre ubriachi. La cosa
non stupisce, dato che nella dieta prevista per gli infermieri c’era, nel
1836, mezza boccia di grappa al mattino122.
La segnalazione veniva dalla Direzione del Civico Spedale: pare
che gl’infermieri adetti ai colerosi non prestino grandi cure ai poveri infermi che li lascino senza bere molte ore, s’inebbrino e cantino tutta notte123.
Dal prospetto dei ricoverati nel Lazzaretto dal 13 Luglio al 22
Settembre 1855, (riportato nella foto) risultano 37 persone provenienti soprattutto dai paesi vicini o come nel caso dei 5 vicentini, di passagio in
città, 21 dei quali morirono di colera grave, gravissimo o fulminante124.
120 AMMC sez. A busta 384 - La lettera del Direttore del Civico Spedale del 14 luglio 1855 prevedeva il trasferimento immediato dei colerosi nella sede di Palazzo Amigoni-Malvolti e per la prima volta, l’utilizzo oltre che degli infermieri, anche delle suore
Dorotee.
121 AMMC busta sez. A 384 Circolare del 12 Luglio 1855.
122 Da un documento del 1867 si evincono i nomi degli infermieri in servizio nel Lazzaretto durante l’epidemia del 1855 e il loro compenso che consisteva nel vitto, due bicchieri di vino e 2 lire austriache al giorno. AMMC sez. A busta 385– 17 Settembre 1867.
123 AMMC sez. A busta 384 - Lettere del 19 Luglio 1855 e del 16 luglio 1855.
124 E’ interessante vedere le professioni dei ricoverati: villico, mugnaio, assistente telegrafico, orefice, questuante, facchino, muratore, industriante, domestico, militare, servente, lavandaia, manovale, sensale - AMMC sez. A busta 384.
Per quanto riguarda il seppellimento dei colerosi, che fino all’epidemia del 1849 doveva avvenire entro le 6 ore dal decesso, con una lettera del 24 Giugno 1855, il Consigliere di Governo Delegato Provinciale, scrive: vengo a rilevare che quasi ogni volta i
morti per cholera morby sono sepolti con soverchia premura, e anche prima che si compiano le 12 ore. Siccome da ciò ne potrebbe con facilità derivare il gravissimo disordine
di seppellire individui apparentemente morti così trovo di disporre che sotto ispeziale responsabilità delle autorità locali dei Reverendi Parrochi e dei Medici condotti non si
possa tumulare alcun cadavere – anche nei casi di morte per malattia contagiosa - prima che sia trascorso il termine di 18 ore. AMMC sez. A busta 384. Un documento del
10 Aprile 1836 (AMMC sez. A busta 382) diretto alla Deputazione Amministrativa di
Conegliano tratta appunto delle sezioni cadaveriche in tempo di colera
Dietro Circolare dalla Deputazione Amministrativa 9 Aprile num.o 470 il sottoscritto
crede bene di mettere a cognizione la rispettabile Deputazione che le sezioni cadaveri-
263
Il dottor Francesco Gera fu medico del Lazzaretto dal 24 Luglio
al 22 Settembre 1855, quando venne chiuso125. Tra i documenti d’archivio
compaiono anche i laureandi Giuseppe Pandolfi e Vittorio Ronzani come
medici incaricati per la cura dei colerosi126.
Alcuni casi di colera vengono segnalati anche nell’anno successivo.
L’Ospizio dei cholerosi durante l’epidemia del 1867
A distanza di dieci anni si ripresenta in città il pericolo di una
nuova epidemia di colera che si era già sviluppata dall’autunno 1866 nel
Friuli e in alcuni paesi della provincia di Treviso (Susegana), Sacile e Pordenone.
La Commissione Sanitaria127 cerca di prevenire la diffusione di
malattie attraverso la denuncia delle situazioni a rischio presenti in città,
che portano esalazioni fetide o che comunque ammorbano l’aria128. L’autorità municipale affronta il problema vietando la vendita di cibi consideche per tal ogetto devono esser eseguite dal chirurgo pubblico che gode l’onorario dalla
Comune, e se mai venisse per aventura ordinata una sezione cadaverica per quanto o
per qualunque altro ogetto dall’Autorità Publica non può rifiutarsi nessuno chirurgo,
ma altro tanto non è in obbligo la somministrazione dei propri strumenti di sezione, e
neppure senza ricompensa pel opera che presta, inoltre gli altri attrezzi necessari e manualità che si rendano indispensabili per tal ogetto di cui finora la Deputazione è totalmente mancante. Indispensabili ogetti necessari inoltre li strumenti chirurgici.
Una tavola lunga 5 o 6 piedi e rispettivi cavalletti, Spungie grande, Una bottiglia di
una libbra spirito di vino, Una aceto buona, Sapone mezza libbra, Due mastelle, Un cadino, Due o tre canevazze, 1 Asciuga le mani, 2 Manuali tanto per spogliare il cadavere
tanto per assistere il Chirurgo. Il locale deve essere diffeso dell’aria dove si fa la sezione. Chiuso con porta sotto chiavi, dovendo spesse volte fare le sezioni nel Inverno fornito con spezie di cantonale per depositare il necessario o qualche pezzo patologico o talvolta che non si potesse eseguire la sezione in una giornata sola e che rimanesse pel
giorno successivo di rintracciare maggiori lumi, per ogetti criminali.
125 AMMC sez. A busta 384 - Lettera del 14 Dicembre 1855.
Gli altri medici distintisi durante l’epidemia del 1855 furono Pietro Bruni, Giuseppe
Pandolfi, Pierto Palatini, Luigi Collodel e Pietro dalla Balla colpito a sua volta dal morbo. Nel documento del 15 Settembre 1855 la Congregazione Municipale decide sui compensi che spettano ai dottori. AMMC sez. A busta 384.
Anche nel caso dell’epidemia di colera del 1855 sono riportate tutte le spese sostenute per far fronte al morbo.
126 Pandolfi prestò servizio dal 3 Agosto al 13 Settembre 1855 AMMC sez. B b. 492.
127 Nell’Agosto 1865 vengono eletti i nuovi membri della Commissione Sanitaria:
Giuseppe Del Giudice, Angelo Malvolti, Nicolò Gerometta a cui sono aggiunti i dottori
Antonio Carpenè e Luigi Dalla Barba, Domenico Lazzaroni, Osvaldo Zorzato, Cesare
Cappelletto. Manifesto n. 2402 del 14 Agosto 1865, [127] AMMC sez. A busta 384.
128 AMMC sez. A busta 384.
264
rati pericolosi, come il vino nuovo, consumato prima del 15 Novembre129
o come le ‘masonette’. Anche la presenza, dal 1855, della stazione ferroviaria, diviene un possibile veicolo di contagio. Per questo vengono previste fumigazioni di passeggeri e bagagli130.
Il 12 Settembre 1866 si considera seriamente di iniziare i lavori
per allestire un luogo di cura per i colerosi. La sede disponibile viene individuata nel convento dei Padri Cappuccini che cedono una parte dello
stabile a uso provvisorio pei Cholerosi131.
La presenza di molte truppe, la collocazione d’infermi cholerosi
nei vicini ospitali militari di Serravalle e Susegana (al Barco della Piave)
reclamavano per urgenza il bisogno di sollecitamente provvedere all’istituzione di questo Lazzaretto132.
Nel Maggio 1867 viene fatto un elenco degli oggetti presenti e
viene chiuso definitivamente133.
L’Ospizio dei cholerosi durante l’epidemia del 1873
Il 15 Novembre 1872 visto il pericolo del colera, viene presa in
via provvisoria la deliberazione di destinare a Lazzaretto alcuni locali dell’Economato del Civico Spedale, in attesa della decisione di destinare altro luogo all’Ospizio dei colerosi134.
Il 4 Dicembre 1872 il Prefetto comunica che la Direzione del Genio Militare di Venezia accorda al municipio di Conegliano di profittare
temporaneamente della Caserma di San Martino ad uso di Lazzaretto135.
129 AMMC sez. A busta 384 - Manifesto del 4 Ottobre 1865. Sono numerosi i documenti nella busta che trattano del vino.
130 AMMC sez. A busta 384
Il 21 luglio 1867 si arriva a tenere un registro dei forestieri che provengono dalla ferrovia e a prevede le visite mediche per quelli che si soffermano nel circondario. AMMC
sez. A busta 385.
131 AMMC sez. A busta 385.
132 AMMC sez. A busta 385. L’Ospedale militare venne allestito nella caserma Amigoni. Da un documento del 9 Settembre 1866, risulta che era in progetto di usare la caserma San Martino per Ospitale Militare. AMMC sez. A busta 385.
133 AMMC sez. A busta 385 lettera del 15 Maggio 1867 firmata da D. Lazzaroni e
G.Batta Gardenal.
134 AMMC sez. A busta 385.
135 AMMC sez. A busta 385 Il 30 Novembre 1872 il Prefetto Botteoni invia una circolare ai Comuni dove impone il trasferimento dei cimiteri lontano dalle chiese. La chiesa è per legge centro d’abitato, ma se i cadaveri dei contagiosi stessi si portano, e si seppelliscono intorno alle Chiese, per cui di tante salme di già inumate, e spesso irregolarmente si possono far strada i maismi cadaverici direttamente alla superficie del suolo,
alterare le condizioni igieniche dell’atmosfera e riescire nocive alla popolazione che ri-
265
Nella Giunta municipale del 27 Giugno 1873 il Sindaco fa presente che a suo vedere una delle cause più influenti allo sviluppo e diffusione del morbo choleroso è attribuirsi al continuo arrivo a questa e vicine stazioni ferroviarie di tanti artigiani reduci dall’Austria, paese ove
serpeggia da lungo tempo il morbo asiatico. Auspica la presenza di un
Lazzaretto ai confini del Regno e una diligente disinfestazione. Vengono
comunque sorvegliati i reduci dell’Impero Austro Ungarico136. Nella stazione ferroviaria di Conegliano sono praticati suffumigi nella sala di III
classe137 e si procede alla disinfezione dei pacchi e delle lettere138.
Il 28 Ottobre 1873 la Congregazione di Carità delibera che i locali dell’Ospitale ad uso di Lazzaretto vengano restituiti definitivamente
al Nosocomio e che al Comune tornerebbe più facile di premunirsi a tempo destinando uno stabile ad hoc che serva ad ogni insorgenza, utilizzandolo ad uso di Magazzino od altro ove il malore se ne stesse lontano.[…]
Delibera d’invitare l’onorevole Municipio a provvedere in tempo uno stabile che all’occorrenza serva di Lazzaretto139.
L’Ospizio dei cholerosi durante l’epidemia del 1885-86: il nuovo Lazzaretto
Il 1 Dicembre 1885 il Commissario Distrettuale di Conegliano,
nel sospetto che si stia ripresentando in città l’epidemia di colera, chiede
al Municipio se no l’ha già fatto, di allestire subito un Lazzaretto in luogo
isolato, e specialmente lontano da corsi d’acqua e da sorgenti avendo
cura d’isolare gli ammalati che volessero venir curati a domicilio ponendo alla casa un guardiano vigile custode del sequestro140.
corre alla Chiesa. AMMC sez. A busta 385.
136 AMMC sez. A busta 385 - 23 Luglio 1873.
137 AMMC sez. A busta 385 lettere del 1 Ottobre, 3 Ottobre, 6 Ottobre e 21 Novembre 1873 si riferiscono alla fumigazioni in stazione per la provenienze dal Friuli. Sono
presenti nella stessa busta vari elenchi di spese sostenute nel periodo dell’epidemia di colera del 1873. Tra questi c’è l’elenco delle spese sostenute per i suffumigi eseguiti alla
stazione ferroviaria, nelle chiese e altri luoghi della città.
138 AMMC sez. A busta 385 - 17 Luglio 1873.
Viene prevista anche la sospensione del mercato il commercio e trasporto di stracci e
del commercio di ‘masonette’. Non vengono sospese per il momento le rappresentazioni
teatrali AMMC sez. A busta 385 - Lettera 6 Settembre 1873.
139 AMMC sez. A busta 386.
140 Il documento continua: Il Comune disporrà una contumacia di cinque giorni almeno per i coabitanti degli ammalati e per coloro che con essi avessero avuto rapporto.
Riporta anche le modalità di espurgo delle case e degli effetti personali dei colerosi e le
modalità di sepoltura dei cadaveri. AMMC sez. A busta 385 - circolare 1 Dicembre 1885.
Un documento dell’8 Dicembre 1885 riporta nei particolari le pratiche di risanamento
dell’abitazione e del cortile della casa di un coleroso. Si tratta del sarto Pietro De Poi,
266
Le Sorelle della Misericordia di Verona si rendono disponibili a
inviare nel Lazzaretto due delle suore che prestano servizio all’ospedale141. Nello stesso mese si segnalano in effetti casi di colera in città;142 per
questo il Commissario Distrettuale si raccomanda di procedere al sequestro immediato e rigoroso non solo dell’ammalato ma eziandio della famiglia o famiglie che coabitano nella casa del colpito e di inviarli per la
contumacia alla Casa di osservazione allestita nel Castello di Conegliano143.
Si ravvisò di attivare i suffumigi all’arrivo dei treni ferroviari, di
istituire in Castello una apposita Casa di osservazione (anche per gli operai del Comune reduci dai luoghi infetti) di provvedere all’impianto di un
Lazzaretto nella località all’uopo indicata come opportuna dalla Commissione di Sanità e come tale poi riconosciuta anche da una Commissione Provinciale dopo il deliberato acquisto dello Stabile. […] Oltre alla
Casa di Osservazione fa duopo pensare prima all’appronto del Lazzaretto ed in via d’urgenza si riordinò e sistemò in modo da corrispondere alle
esigenze non solo del momento ma anche in va stabile.
Vengono effettuati per questo i lavori di riordino e di adattamento della Casa ad uso Lazzaretto permanente144.
che aveva contratto la malattia assistendo la moglie - AMMC sez. A busta 385
Tomaselli Francesca Giovanna del fu Luigi, di 29 anni, morta in sospetto di colera,
viene trasportata in una stanza della Torre del Castello dove rimarrà a faccia libera per
12 ore con suffumiggi di zolfo - AMMC sez. A busta 385.
141 AMMC sez. A busta 385 - lettera del 15 Settembre 1884 e del 23 Dicembre 1885.
142 Nella relazione finale, relativa all’anno 1885, viene dichiarato che il colera si è
manifestato in città nei mesi di Novembre e Dicembre, provocando la morte di 4 persone.
AMMC sez. A busta 385– Sanatoria alla spesa incontrata nella circostanza dello sviluppo del morbo asiatico nel decorso 1885 - 15 Maggio 1886.
143 AMMC sez. A busta 385– 4 Dicembre 1885. Nella stessa busta si trovano vari documenti riguardanti il bruciamento di tutta la biancheria e i vestiti appartenuti ai malati di
colera (gli oggetti invece venivano lavati con una soluzione di sublimato corrosivo al
due per mille).
144 AMMC sez. A busta 385 - Il documento è senza data; si tratta di una importante
relazione di 4 pagine intitolata Gratificazioni sanitarie.
Il documento continua: La Giunta municipale, in accordo con la Commissione di Sanità provvide perché un medico si trovasse all’arrivo dei treni. L’incarico venne svolto
dal 15 Settembre al 14 Ottobre dal medico Filippo Chiarelli e dal 4 al 21 Ottobre dal medico Mercatelli nel riguardo che il sig. Chiarelli occupato e per la sua condotta e come
Segretario della Commissione di Sanità e per la visita dei ricoverati nella Casa di Osservazione non poteva con assiduità sempre disimpegnare anche il mandato alla Stazione ferroviaria. L’attivazione dei suffumigi alla Stazione oltre alla presenza del Medico,
addomandò pure la continua sorveglianza e prestazione delle Guardie Municipali col
servizio di un operaio, per la parte materiale, e difatti dette guardie prestarono il loro
267
Tali provvedimenti erano stati richiesti dalla prefettura di Treviso
con una circolare dell’Agosto 1884 in cui si invitava a rispondere ad un
questionario sui provvedimenti sanitari.
Le prime domande riguardavano proprio la presenza o meno di
un Lazzaretto fornito del necessario e il personale relativo per i malati di
contagio e la richiesta se si osservino rigorosamente le prescrizioni contumaciali contro i reduci da località notoriamente infette145. E’ proprio in
seguito a questa circolare che il Comune di Conegliano, mancando dei locali separati all’interno dell’Ospedale civile per la cura delle malattie contagiose, delibera l’acquisto di un casa colonica della famiglia Carbas in
località Acquette, per farne il Lazzaretto146
Nel documento riportato nella foto, del Dicembre 1885, un vero147
nese , citando un articolo stampato sul quotidiano l’Arena chiede informazioni sulla presenza del colera in città. Si viene a sapere della notizia
pubblicata sul quotidiano che parlava di cinque casi di colera con tre morti e della presenza di sedici individui attaccati da malattia sospetta, in
cura al Lazzaretto.
AMMC sezione A busta 385
servizio nella circostanza dell’invasione del Cholera, non solo alla Ferrovia, ma di assistenza alla Commissione e Sotto Commissioni sanitarie.
145 ASTV Comunale B busta 3596 – circolare n. 12696. D. II del 28 Agosto 1884 La circolare chiedeva anche se esita in Comune una suffciente quantità di materiali per
disinfettazioni-, se abbiano provveduto alle acque stagnati, fogne [...]; se le Commissioni Sanitarie Municipali abbiano visitate le abitazioni dei poveri ed abbiano ispezionato
[…] i pubblici esercizj […]. Si concludeva poi con l’avvertenza del Prefetto C. Pallotta
che manderò un Commissario a carico di quei Comuni i quali non mi avranno dato entro
il termine prescritto risposte categoriche e pienamente rassicuranti.
146 AMMC sez. A busta 386– Lazzaretto ed altri lavori - 16 Aprile 1889.
147 Che jeri passava per Conegliano nulla intese di tanto spaventevole, crede speranzoso sia falsa la notizia e crede che Codesto Municipio farà le sue rimostranze col giornalista La Arena. AMMC sez. A busta 385.
268
E’ citato il Lazzaretto anche in una lettera, firmata da Molti Concittadini e indirizzata al Municipio di Conegliano, in cui viene segnalato
un nuovo caso di colera in contrada Borghetto, nella persona di una ragazza che lavorava in una sartoria. Viene proposto di rinchiudere nel Lazzaretto tutti quelli che lavoravano in quella bottega, nessuno eccettuato e
di bruciarne tutto il contenuto: per gli scriventi è evidente infatti che è
questo il centro d’infezione. Bisogna adunque distruggere subito col fuoco quanto essa contiene, dare la malta ai muri, distruggere il pavimento
di tavole. Bruciare i vestiti: appartengono ai borghesi o militari!148
Da un documento dello stesso periodo desumiamo che nel Lazzaretto erano presenti due guardiani, un inserviente e un incaricato di relazionare costantemente al Municipio ogni cosa succedeva149.
Nella relazione delle spese effettuate per il colera del 1885, si
legge che l’appronto del Lazzaretto, caldamente raccomandato dalla Prefettura, non fu trascurato, e che fu di reale giovamento, allorquando occorse d’isolare gli affetti del morbo dalle persone sane che risiedevano
negli stabili ove seguì lo sviluppo della malattia e che per la loro ristrettezza non permettevano il toglimento di quel contatto che avrebbe potuto
facilmente favorire il diffondersi del morbo150.
L’anno successivo si ripresenta il colera e viene riaperto il Lazzaretto per coloro che non potessero o non volessero essere curati nella loro
casa. Si tratta di un edificio privato (casa colonica) acquistato dal Comune di Conegliano151 che, mancando l’Ospitale civile di locali separati e di148
Il documento continua: Qual borghese si coprirà con quei vestiti? E qual comandante potrà con serena coscienza far indossare quelle uniformi ai poveri soldati? […]
No questi oggetti sono il focolare dell’infezione, non devono disperdersi nel paese o nella truppa!!! Se ciò fosse si diffonderebbe per tutta la città il germe d’infezione […]
AMMC sez. A busta 385– lettera del 5 Dicembre 1885.
149 AMMC sez. A busta 385– lettera del 8 Dicembre 1885. Il documento riporta l’invasione di tre malintenzionati, all’interno del Lazzaretto. Nella busta si trovano vari documenti riguardanti le relazioni dell’incaricato del Lazzaretto al Municipio. Vi si legge la
richiesta di ordini riguardanti l’uscita di persone, oppure il tempo di permanenza dei vestiti nei ‘profumi’.
150 AMMC sez. A busta 385– Sanatoria alla spesa incontrata nella circostanza dello
sviluppo del morbo asiatico nel decorso 1885 - 15 Maggio 1886 Vengono segnalati i sequestri fatti a 4 famiglie e l’isolamento al Lazzaretto di 30 individui. La spesa per l’acquisto di biancheria, coperte, mobili e 3 fogne mobili usati nel Lazzaretto, ammonta a lire
5082.41.
151 Facendo seguito ad un sollecito da parte del Municipio di Conegliano, che aveva
già deliberato l’acquisto nel Settembre 1884, una lettera del Segretariato Generale del
Ministro dell’Interno del 12 Maggio 1885 conferma che il Comune era stato autorizzato
(già dal mese Aprile) a comprare dalla ditta Carbas lo stabile per il Lazzaretto. AMMC
sez. A busta 386.
269
sponibili, fosse destinato in maniera permanente per il ricovero e cura delle malattie contagiose. Agli inizi del 1886 viene nominato un custode per
la opportuna sorveglianza nel periodo di chiusura e perché potesse disimpegnare le incombenze di persona esterna nel non desiderato caso
d’apertura152. Dal Regolamento di servizio del Custode del Lazzaretto
alla località Acquette153 risulta che l’ospizio per infermi d’ogni malattia
contaggiosa era arredato e dotato della biancheria necessaria (della persona e da letto) e la presenza del custode lo rendeva pronto in ogni momento per l’uso.
A Luglio è allertato il Municipio per la fuga di uno dei presenti.
Si tratta del becchino Guerrino Breda di San Fior, che avendo provveduto
al trasporto di cadaveri di colerosi nel suo comune, era stato rinchiuso nel
Lazzaretto per la contumacia154. Come accadeva per il vecchio Lazzaretto,
passata l’epidemia, dal 1888 i terreni del Lazzaretto vengono affittati155.
Il nuovo Lazzaretto di Conegliano si trovava poco distante dal
centro della città, in una zona in cui all’epoca erano presenti pochissimi
edifici, lungo la strada che dalla chiesa di San Martino (dove sorgeva il
vecchio Lazzaretto) porta a Campolongo156.
Attualmente la località Acquette corrisponde a via Vital, e il Lazzaretto sorgeva precisamente tra l’attuale Stadio comunale e l’ansa del
fiume.
Il Lazzaretto nel 1900
Le epidemie di colera cessarono, per Conegliano, con il 1886157.
152 Viene nominato custode Saccon Lodovico di Domenico al quale è concesso l’alloggio gratuito, con una piccola camera e cucina, e breve zona di terreno ortale a ponente
del Lazzaretto. Nei casi di apertura del Lazzaretto ottenga la rimunerazione giornaliera
di £ 2.50 compreso anche il servizio notturno. AMMC sez. A busta 386– Delibera della
Giunta Municipale del 17 Febbraio 1886 .
153 AMMC sez. A busta 386– 23 Gennaio 1886.
154 AMMC sez. A busta 385– documento del Municipio di Conegliano 17 Luglio
1886 – Un documento che riporta la stessa data,timbrato dal Municipio di San Fior, riporta scritto a matita Licenziato l’infermiere Breda Guerrino.
155 Una parte viene affittata allo stesso Custode - AMMC sez. A busta 386.
156 AMC, Archivio di Deposito, Mappa Catastale 1907 sez. E, Conegliano e Campolongo, Fg. VI.
157 Una lettera della Direzione dell’Ospedale Militare di Padova del 1894, si chiede
la disponibilità del Lazzaretto per i militari che eventualmente dovessero cadere malati di
vaiolo, difterite o colera. AMMC sez. A busta 387 - n.752 Il Comune risponde che il
Lazzaretto è a malapena sufficiente per i poveri della città che dovessero cadere in malattie contagiose, e non è certamente adatto per militari di grado superiore. Tuttavia il Comune mette a disposizione il terreno circostante il Lazzaretto per costruirvi eventualmen-
270
Tuttavia permaneva il pericolo rappresentato dalle persone provenienti dall’Italia del sud, o dal resto d’Europa, dove il contagio si ripresenterà fino agli inizi del Novecento.
Ma i tempi sono cambiati, così come gli strumenti di cura o l’impiego della pubblicità per divulgarli. Se durante le epidemie di colera erano comparsi i primi manifesti con la descrizione di rimedi miracolosi, nel
nuovo secolo gli arredi o i metodi di disinfezione da impiegare nei Lazzaretti, sono oggetto di cataloghi pubblicitari molto dettagliati e curiosi (cfr.
foto in appendice)158.
Anche il Lazzaretto di Conegliano nel 1912 avrà il suo Forno
sterilizzatore (col quale molto facilmente verrebbe eseguita la disinfezione della biancheria e degli effetti personali e letterecci delle persone colpite da malattie infettive e diffusive159), così come dall’anno precedente
aveva anche il gas per uso illuminazione, cucina e riscaldamento160.
Nel frattempo erano stati fatti dei lavori di riatto del Lazzaretto161
anche se dal 1810 si progetta pure la costruzione di uno chalet ad uso di
‘nuovo Lazzaretto’162.
Da una lettera del Prefetto di Treviso163 si evince che i lavori nella casa colonica adibita a Lazzaretto servivano per il ricovero dei sospetti
affetti da colera o da altra malattia infettiva e cioè che hanno avuto rapporto di contatto con individui colpiti da infezione, mentre la baracca di
te da parte dell’Esercito della baracche per il ricovero dei militari. AMMC sez. A busta
387– lettere del 4 Aprile 1894 e del 22 Aprile 1894..
158 AMMC sez. A busta 387. Agli inizi del ‘900 cambiano anche i documenti, che ora
sono redatti con la macchina da scrivere.
159 AMMC sez. A busta 387– lettera del Comune di Conegliano del 28 Maggio 1909
n. 2184.
160 AMMC sez. A busta 387– Nella cartolina postale del 23 Marzo 1912 si legge della
consegna del forno sterilizzatore al Comune di Conegliano. Nella lettera 18 Febbraio
1813 si parla dell’accensione del Forno sterilizzatore per la presenza di una persona affetta da malattia infettiva. Vedi anche estratto delibera del Consiglio Comunale del 14
Settembre 1911 n. 4308 in AMMC sez. A busta 387.
Nella Circolare del 16 Dicembre 1911 il Sindaco chiede all’ingegnere comunale un
preventivo per la spesa di allacciamento del gas nel Lazzaretto.
161 AMMC sez. A busta 387 - lettera del 29 Settembre 1911.
Già dal 1908 erano state segnalate la cattive condizioni in cui versava il Lazzaretto e
si era ipotizzata una costruzione ex novo. – AMMC sez. A busta 387 - lettera del Municipio di Conegliano 23 Dicembre 1908 n. 6779.
162 AMMC sez. A busta 387 - lettera del 12 Novembre 1910.
163 AMMC sez. A busta 387 - lettera del 13 Dicembre 1910, n. 17342.
271
legno [chalet per il ‘nuovo Lazzaretto’] dovrà servire per il ricovero dei
contagiosi164.
Nel Giugno 1916, durante la prima guerra mondiale, il comune
di Conegliano delibera una convenzione con l’Autorità Militare165 per l’uso del Lazzaretto, sia quello nuovo che quello vecchio, come ricovero per
i soldati colpiti da malattie infettive,166 cosa che si è verificata di frequente.
Nel Marzo 1920, finita da pochi mesi la guerra, il Prefetto di Treviso dà il suo assenso al progetto di costituire un consorzio per allestire un
locale di isolamento che doveva interessare vari comuni167. Vi è infatti
l’urgenza rappresentata dai soldati in licenza che provengono da zone colpite dal colera168 oltre alla diffusione di vari casi di rabbia e di malaria169.
Tra il 1922 e il 1924 vengono eseguiti i lavori nel Lazzaretto per
riparare i danni subiti durante il primo conflitto mondiale.
Nel Dicembre 1925 si presenta il pericolo di un’epidemia di vaiolo e la necessità quindi di avere la disponibilità del Lazzaretto munito
164 In una lettera del Municipio di Sernaglia si legge: codesto Comune per l’esecuzione delle vigenti disposizioni ministeriali nei riguardi igienici, ha eseguito la costruizione
di un locale, d’isolamento con tavole di legno, rivestite all’esterno con intonaco in muratura, spendendo in tutto lire tremila circa. Il Municipio di Sernaglia chiede copia del
progetto e preventivo per l’esecuzione di un Lazzaretto di questo tipo. AMMC sez. A busta 387 - lettera del 30 Aprile 1911. Il Lazzaretto in legno venne costruito dalla ditta Meneghini-Borga nel Dicembre 1910 e secondo la lettera prefettizia del 13 Dicembre 1910,
deve essere terminato con la massima urgenza, probabilmente a causa della presenza del
colera nel sud della penisola. Il nuovo chalet ad uso Lazzaretto doveva essere costruito
con tutta probabilità vicino a quello ‘vecchio’ a Campolongo, visto che viene chiesto al
custode di segnalare la presenza o meno dei lavoratori nel cantiere.
165 AMMC sez. A busta 387 - delibera della seduta di Giunta del 31 Maggio 1916 n.
3344. Viene autorizzato anche l’impianto dell’apparecchio telefonico e l’illuminazione.
Già nel 1903 era stato al comune di Conegliano richiesto dal Comando del Presidio Militare di occupare in caso di bisogno una parte del terreno in prossimità del Lazzaretto per
l’solamento dei quadrupedi sospetti di malattie infettive. Si parla di morvo farcinosa.
AMMC busta 387 sezione A – lettere del 7° Reggimento Alpini del 7 Ottobre 1902 e del
19 Dicembre 1902 - delibera del Consiglio Comunale del 19 gennaio 1903 n. 493.
166 AMMC sez. A busta 387– lettera del 24 Giugno 1916 n.3519. Si ha notizia del ricovero del soldato Domenico Romano del 20° Reggimento Cavalleggeri di Roma (lettera
15 Giugno 1916).
167 I comuni interessati dovevano essere San Pietro di Feletto, Godega san Urbano,
Orsago, San Fior, San Vendemiano, Susegana, Santa Lucia di Piave, Mareno e Vazzola.
AMMC sez. C busta 163.
168 AMMC sez. C busta 166.
169 AMMC sez. C busta 166.
272
però di elettricità e soprattutto di telefono, in modo da non avere contatti
esterni con il personale del luogo di cura170.
Il Lazzaretto (con il custode) continua ad essere attivo
anche durante il fascismo. In un
documento del Marzo 1930 si
parla di un preventivo per dei
nuovi lavori da eseguire nell’edificio171 e l’anno successivo,
nell’Inventario dei beni mobili
di uso pubblico, risulta dotato di
18 brande di ferro e di tutto il
necessario per far fronte ad una
nuova epidemia172. Come risulta
dalla nota scritta successivamente, nell’Inventario dei beni immobili di uso pubblico per destinazione, del Giugno 1932173, il
Lazzaretto di Conegliano sarà
170 AMMC
sez. A busta 387– lettera dell’Ufficiale Sanitario del 10 Dicembre 1925.
AMMC sez. A busta 387– Preventivo di lavoro da eseguirsi all’azzaretto [sic] di
Conegliano del 8 Marzo 1930.
172 AMC Archivio di Deposito – Inventario dei beni mobili di uso pubblico , 14 Dicembre 1931.
Lista materiale presente nel Lazzaretto di Conegliano nel 1931: coltelli 27, forchette
28, cuchiai 21, coperte di lana 31, materazzi 22, guanciali 31, coperte di lana fuori d’uso 28, lenzuola in buono stato 45, lenzuola imbrattate d’olio 23, asciugamani 3, camiciotti grandi 4, camiciotti medi 16, fodere per guanciali 55, asciugamani nuovi tipo militare 55, camicie per ammalati 24, paia di mutande 9, vasi da notte per ammalati 13, secchia da notte per ammalati 2, pappagalli 3, ,sputacchiere 24, piatti 23, scodelle 21, bottiglie da litro 17, bicchieri 20, pompe per disinfezione vecchie 2, martelli 3, grattugie 1,
passabrodo 1, lavandini 2, mastello per bucato 1, pentole in ferro smaltato 2, forno sterilizzatore 1, caldaia 1, lettiga 1, sedie 6, tavolini in ferro 1, pompa per dsinfezione 1, lavandino 1, vasca da bagno usata 1, vestaglie per facchini 2, vestaglie per il vigile sanitario 2, secchia in ferro rigato 1, attaccapanni 2, carrelli per trasporto indumenti 2 fornelli per disinfezione 4, tavoli 1, tegami per disinfezione 4, camicie 11, lastre per comodini
34, forchette grandi 2, brande di ferro 18, comodini 18, pera per sotrattivi 1, armadio in
abete verniciato per biancheria 1.
173 AMC Archivio di Deposito – Inventario dei beni immobili di uso pubblico per destinazione , 10 Giugno 1932
Iscritto al Catasto come Lazzaretto di piani 3 vani 14 in Comune di Conegliano strada per Campolongo. Nel documento si trova una descrizione dettagliata del fabbricato.
171
273
completamente demolito al 19 gennaio 1963 (la nota riporta la data della
demolizione del Lazzaretto nel 1963 - Inventario dei beni immobili di uso
pubblico per destinazione, 1 Gennaio 1928, per passaggio di amministrazione, 14 dicembre 1931 e 10 giugno 1932, AMC, Archivio di Deposito).
Archivi consultati:
ADVV Archivio Diocesano di Vittorio Veneto
AMC Archivio Municipale di Conegliano
AMMC Archivio Municipale Moderno di Conegliano
AMVC Archivio Municipale Vecchio di Conegliano
ASTV Archivio di Stato di Treviso
ASVE Archivio di Stato di Venezia
Autorizzazione pubblicazione foto
La fotoriproduzione dei documenti dell’Archivio Municipale di Conegliano, è
stata autorizzata su concessione dell’Archivio del Comune di Conegliano, Prot.
20349/Arch. del 10.5.2012. E’ vietata ulteriore riproduzione o duplicazione con
qualsiasi mezzo.
Ringraziamenti
Desidero ringraziare vivamente la dott.ssa Mariarita Sonego e il dott. Giovannibattista Corrocher dell’Archivio del Comune di Conegliano, per la costante disponibilità e l’aiuto che mi hanno dato nei tre anni di ricerca.
Dedica
Questo lavoro è dedicato a tutte quelle persone che in sette secoli hanno prestato soccorso nel Lazzaretto di Conegliano
[AVVERETENZA: Alcune riproduzioni di documenti illustrati nella relazione
di Luisa Botteon sono presenti, oltre che nell'appendice documentale che
segue, anche nella sezione di fotografie a colori presenti negli Atti]
274
Allegato Documentale
Allegato I - AMVC busta 426 fascicolo 5
1569 - Estimo della Scuola de S. Maria de Battudi delli Beni posti nella
terra, Borghi, et Terr.o de Coneian – Massaria dell’Hospedal, et S. Lazaro nella terra, Borghi, et Territ.o de Coneian
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Su concessione dell’Archivio del Comune di Conegliano, Prot. 20349/Arch. del 10.5.2012, è vietata ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo
281
Allegato II - AMMC sezione A busta 385
1885 - PUBBLICITÀ DI RIMEDI CONTRO IL COLERA
282
283
si ri v gli no guariti, Se il malato non consente a be
~!!· Aセゥ@
11polso, egli~ perduto. L'assenzio preso prima della ~azl=
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Nondimeno non. bisogna darne troppo alla voka per nmore""'·"" · •
la ,lo~c セ@ e~ . aria e produrrc u~a reazione troppo fort , naia..aa.o r
per b1,d11cn'.11
da bonlò non v, è nulla da temere, purclu: i
Jcl pois?. B,s?~na stare ben attenti al polso, per,b pe
la sua napparmone, cessa, e la dose di usenzio non essend
a vincere la malattia, benchè abbia potuto arrestarla, .n
pravvcnto se non si dà nuova dose di assenzio J
morire nel periodo di reazione. Dopo il ritorno d
menta di male di testa, bisogna mettergli sopra il c:tpQ
di acqua e aceto.
« Caron dice che il cholera si cambia facilmente m
on nho mai visto questo caso. Ho ben veduto セ@
ii
non potere orinare : questo è per me il sintomo pita
CìSGnon so che fare; tutti i malati che ho veduti in セ@
impotenza di orinare si verifica in coloro che muoiono.
tempo a dare l'assenzio , perchè una malattia che セ@
di forte temperamento in un'ora, cammina prest<i,e~
ficile di produrre la reazione. Vi sono malati ché ìifl
dicono di provare un calore estremo nello stomaco~ V
qua gli altera quasi sempre più e muoiono, lllffltn: che
per lo più il calore e la sete. Se il malato avesse
rizione del polso si potrebbe fargli bere deiracqua, con chiare
la sete sparisce immediatamente.
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284
Tulle le boccette non munite n
è in capo al presente manifesto si
Su concessione dell’Archivio del Comune di Conegliano, Prot. 20349/Arch. del 10.5.2012, è vietata ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo
285
Allegato III - AMMC sezione A busta 387
ESEMPIO DI CATALOGHI DI STRUMENTI SANITARI DEGLI
INIZI DEL NOVECENTO
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ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo
288
Confraternite, Malattia e Morte.
La situazione nei Territori di Mel, Trichiana e Lentiai
Relazione presentata al Convegno da
Miriam CURTI
Nei secoli passati la cura dei malati con la conseguente organizzazione degli ospedali, a cui oggi provvede, in maniera predominante, la
struttura pubblica delle singole Regioni, era sovente in mano della chiesa.
Già verso la fine del primo millennio dopo Cristo sorgono in Francia gli
hotel Dieu, strutture assistenziali situate in genere nei pressi delle cattedrali, che inizialmente destinate a pellegrini e viaggiatori, a poco a poco,
diventano luoghi di cura per malati ed anziani. Alle dipendenze dei locali
vescovi, sono gestite di solito da ordini ospedalieri. A Parigi operano le
suore Agostiniane di Nostra Signora, in altri Paesi invece i Cavalieri dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, in seguito denominati Cavalieri di Malta, l’Ordine militare di S. Lazzaro di Gerusalemme, l’Ordine
di S. Giovanni di Dio, i cui aderenti sono chiamati popolarmente Fatebenefratelli. In Italia, soprattutto nei centri meno importanti, queste funzioni
sono spesso assunte dalle confraternite.
Sono associazioni laiche che propongono un nuovo modo di vivere il cristianesimo non solo con atti di devozione, ma anche di carità;
gli aderenti praticano le sette opere di misericordia: prendersi cura degli
affamati, degli assetati, dei pellegrini, degli ammalati, degli ignudi, dei
carcerati, ma soprattutto seppellire i morti. Si impegnano inoltre a recuperare le persone deviate, ad aiutare gli orfani e le vedove, a procurare una
dote alle giovani povere, a riscattare i cristiani prigionieri dei saraceni e
perfino ad assistere i condannati a morte.
Ogni scuola, oltre che curare le pratiche di pietà e di culto, si
specializza quindi in qualche settore assistenziale. Ecco allora che la confraternita dei Battuti, le cui prime attestazioni risalgono al secolo XIII, organizza e fa funzionare ospizi per pellegrini e viandanti ed ospedali per
ammalati.
Questo avviene, ancora nel Duecento a Perugia e a Padova1.
1
G. G. Meerssemann, Ordo fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo, vol. I, Roma, 1977, pp. 466-67.
289
Nel 1313 per l’hospitium di Sacile il patriarca di Aquileia Pagano concede di costruire una chiesa e di provvedere un sacerdote2.
Anche a Belluno, fin dal Trecento, i confratelli della scuola dei
Battuti gestiscono una sede ospedaliera nella contrada di Madeago e più
tardi una succursale a Longarone con quattro letti3. L’attuale ospedale di
S. Maria del Prato a Feltre continua, anche nel nome, l’antico l’hospitium
fondato dalla locale confraternita di S. Maria dei Battuti4.
Diversa si presenta la situazione nel territorio di Mel, Trichiana e
Lentiai, in provincia di Belluno, ma in diocesi di Vittorio Veneto. Fin dal
1476, annesso alla chiesa di S. Antonio in località Tortal sulla strada che,
attraverso il passo di S. Boldo, collega il Bellunese con il Trevigiano, è
documentato un hospitium che peraltro, secondo un atto di compravendita
del 1512, è posto sotto il giuspatronato del bellunese ser Victore de Scarpis5. Probabilmente si tratta di un ricovero per i viandanti, soprattutto zattieri, che numerosi per questa via ritornano da Venezia ai loro paesi di origine nel Bellunese o in Cadore. Dai documenti pervenutici però non
emerge che le confraternite siano in qualche modo coinvolte nella sua organizzazione o gestione. A Praderadego, nel Contado di Mel, sull’altra via
di collegamento con la pianura veneta, per dove secondo la tradizione
passava l’antica via romana Claudia Augusta Altinate, è documentata invece un’osteria con un letto sempre riservato ai poveri ed ai bisognosi.
Anche in questo caso però non si tratta di un intervento promosso dalle
locali confraternite, ma dell’iniziativa di un privato: Giacomo Gaio, un
abbiente cittadino zumellese6.
Il ruolo delle locali scuole quindi si limita all’aiuto economico ai
confratelli malati, in altri casi al pagamento del medico o delle medicine
per gli indigenti, in altri alle visite di sostegno e conforto.
L’articolo X dello Statuto redatto nel 1445 per la confraternita
dei Battuti di Lentiai recita: Jttem hordenemo che se alchuno dei fradelli
o vero sorelle fosse infermo, et non havesse da sustentarse, i fradelli e so2
3
P. Paschini, Storia del Friuli, Udine, 1975, p. 314.
G. De Bortoli, Statuto della Scuola dei Battuti bellunesi, Belluno, 1978, pp. 64-65
e F. Vendramini, La Pieve e le Regole. Longarone e Lavazzo, una storia secolare, Verona, 2009, pp. 31, 70-71.
4 S. Miscellaneo (a cura di-), L’Archivio della Confraternita e Ospedale di S. Maria
del Prato (1320-1808), Rasai di Seren del Grappa, 2004, p. 46.
5 G. Tomasi, La diocesi di Ceneda. Chiese e uomini dalle origini al 1586, TIPSE,
Vittorio Veneto, 1998, p. 367.
6 Il figlio Orazio nel suo testamento, rogato Il 26 maggio 1620, prescrive che in detto logo di Praderadego sij adempito il legato del q. suo padre di tenir un letto per poveri,
di far elemosine, di far consacrar la locale chiesa, ora dedicata ai santi Fermo e Rustico,
e di farla illuminar le vigilie. ASBL, Notaio Gaio Gaio, b. 3678, c. 35r.
290
relle della dicta Schuolla siano tegnudi di darli adiuttorio in la sua infermitate et visitarlo spesso7.
Di tono diverso è l’articolo contenuto nello statuto della confraternita del Santissimo Sacramento, stilato nel 1905 per la parrocchia di S.
Nicolò di Villa di Villa in comune di Mel. Si scrive: Se alcuno dei Confratelli cade ammalato, il Parroco od altra persona reputata, in compagnia di altro Confratello, si recherà a visitarlo e piamente lo esorterà a
confessare i suoi peccati e a ricevere il Santissimo Viatico8.
Tra la stesura delle due mariegole passano 460 anni, mutano
quindi le situazioni politiche, le condizioni economico-sociali della popolazione, l’organizzazione sanitaria e assistenziale, la mentalità e la visione
della vita, ma soprattutto ha luogo un avvenimento molto importante per
la chiesa cattolica: il concilio di Trento. Con il Decretum de reformatione,
approvato il 17 settembre 1562 durante la XXII sessione conciliare, infatti
viene previsto il controllo dei vescovi sulle confraternite. E’ una svolta
che ha influenze significative pure nella diocesi di Ceneda. Fin dalla seconda metà del Cinquecento, il cardinale Michele Della Torre, durante le
visite pastorali, prende visione dei libri dei conti sui quali fa annotare ordini, suggerimenti e osservazioni9. I successivi vescovi sovente ricevono
ed interrogano i capi delle confraternite e talvolta, come avviene nella pieve di Lentiai, dirimono i contrasti più o meno larvati con il parroco10.
Nel 1737 il vescovo Benedetto De Luca, riprendendo anche le
disposizioni emanate dai suoi predecessori, dà alle stampe gli Ordini e
metodi per il buon governo e direzione delle Scuole laiche con cui stigmatizza e cerca di eliminare gli abusi compiuti da massari e procuratori nella
gestione economica. Prescrive peraltro che a tutte le reduzioni, che si faranno dei Capitoli… debba sempre intervenire in Nostra assenza, o di
Persona che fosse da Noi destinata, il… Parroco indossando Cotta, e Stola, e Veste Talare. Aggiunge che tutte le Parti regolative obbligatorie… di
qualsisia natura, che fossero poste in qualunque Luminaria, Scuola, Fraglia, Oratorio, o altro luogo Pio soggetto alla Nostra Giurisdizione debbano, prima di darsi all’essecuzione, esser a Noi presentate per esser approvate con positivo Nostro Decreto11.
7
8
F. Vergerio, Storia dell’antica Contea di Cesana, Alassio, 1931, p. 420.
M. Curti, Le confraternite a Mel Trichiana Lentiai e Villa di Villa, Rende, 2011, p.
288.
9 AP Mel, Maneggj Altare Beata Vergine- Mel, (1535-1580), c. 149v.
10 ADVV, Visite pastorali, b. 35, f. XIV.
11 F. De Luca, Ordini e metodi per il buon governo e direzione delle Scuole
laiche di
Ceneda, e temporale giurisdizione formati nell’anno 1734 da Mons. Ill.mo e Rev.mo Benedetto De Luca Vescovo di Ceneda, Conte di Tarzo & C. colla rinnovazione d’alcuni
291
Con queste norme quindi il De Luca tenta di imporre uno stretto
controllo del clero anche sul ruolo e sulle stesse finalità delle confraternite. La salus animarum, le celebrazioni religiose, le pratiche devote, la
committenza di altari, dipinti e oggetti da destinare al culto acquistano
sempre maggiore importanza, mentre perdono la loro consistenza anche
economica gli interventi per aiutare i confratelli ed i bisognosi in genere.
Tali cambiamenti si possono cogliere soprattutto scorrendo le pagine dei Libri de conto. Nei cinquecenteschi Maneggj Altare della Beata
Vergine di Mel sono annotati di frequente gli aiuti concessi a singoli confratelli colpiti da malattia, alle loro mogli o ai loro figli a cui viene a mancare il reddito necessario per la sopravvivenza. Si scrive allora: dati per
l’amor di Dio a un infirmo o a un’infirma, oppure contadi per l’amor di
Dio perché sua moier è inferma e de parto o dati alla moier de… per esser suo marido infirmo, oppure lassadi a...12 Non si tratta di cifre rilevanti, soprattutto se messe a confronto con quelle spese per l’esecuzione di
pale o per l’acquisto di argenteria, però riguardano vari campi assistenziali, anche non strettamente sanitari. Nel 1569, ad esempio, si fanno distribuire £ 15 s.16 di pane ai fedeli che partecipano alle rogazioni; nel 1570
si spendono £ 31 per comprar meio… per far una elimosina per esser
l’anno cossi penurioso; nel 1575 si pagano £ 28 di formento fatto in pan
per dar per l’amor di Dio e nell’aprile del 1577 si ordinano delle pagnotte da offrire, sempre gratuitamente, ai bisognosi13.
In altri casi, accanto all’entità delle offerte, sono annotate altre
motivazioni: per maridar una sua fiola, perché vuol menar suo fiol a Venetia per imparar… arte, oppure perché dice di voler andar a Roma, forse in pellegrinaggio14. Gli aiuti continuano anche nel Seicento; nel maggio
1622, su proposta di uno dei castaldi uscenti, la metà dell’avanzo d’amministrazione, cioè £ 200, è devoluta in elemosina alli fratelli bisognosi della scuola et altri no fratelli che fossero in bisogno e necessità. Nel 1628
doi sacchi di biava, del valore di £ 80, sono dati a Pieretto per il fontegho
della fraia15. Anche la confraternita di S. Giovanni Battista di Mel eroga
dei contributi, per lo più si tratta di uno staro di sorgo turco o di formenton; nel 1680, ad esempio, si precisa anche che viene dato a poveri frattelli amalati16.
altri predecessori, Ceneda, 1737, sta in ADVV.
12 AP Mel, Maneggj Altare Beata Vergine- Mel, 1535-1580, cc. 135r, 137r, 168r,
172r, 176r, 179r, 191r.
13 Ivi, cc. 136r, 173r, 180r.
14 Ivi, cc. 135r, 172r, 191r.
15 AP Mel, Maneggj Altare Beata Vergine- Mel, 1580-1642, cc. 157v e 204r.
16 AP Mel, Libro della Scuola di Santo Giovanni Batista di Mel, 1662-1720, c. 42r.
292
Analoghi aiuti sono segnati a Villa di Villa nei seicenteschi registri della scuola dei Battuti, ma scompaiono quasi completamente nel Settecento, anche se continuano ad essere annotate le offerte per calvinisti e
luterani convertiti, per i catecumeni, per un turcho batezado, per un ebreo
fatto cristiano, per i questuanti con le loro fedi17.
Poiché nei secoli passati i cristiani erano convinti che nulla potesse accadere senza il permesso di Dio e che quindi malattie e carestie
derivassero dalla volontà divina spesso come punizione per i peccati commessi, per placarne l’ira e recuperare la sanità spesso questi ricorrevano al
sacramento della penitenza e a cerimonie religiose di vario genere. D’altra
parte lo stesso papa Gregorio IX nelle sue Decretali stabiliva che i medici,
prima di curare il corpo, dovessero spingere il paziente a cercare la salute
dell’anima, ritenendo che le malattie del corpo potessero aver origine da
quelle dell’anima, cioè dal peccato18. Per tali motivi anche le confraternite, al sorgere di epidemie ed altre avversità, si preoccupavano di organizzare processioni e pellegrinaggi, di commissionare chiese, pale, altari e di
ordinare celebrazioni liturgiche per implorare il perdono e ottenere l’aiuto
del Cielo. La scuola zumellese di S. Andrea, quando alla metà del Cinquecento affida l’incarico, probabilmente a Gerolamo Denti, di dipingere la
pala per l’altare maggiore della sua chiesa, gli chiede di raffigurare, accanto all’apostolo, pure i santi Rocco e Sebastiano per invocare la loro
protezione contro la peste che continua a serpeggiare in Valbelluna, mietendo vittime. Da questo momento in poi la confraternita e la sua chiesa
non saranno più intitolate al solo S. Andrea, ma ai tre Santi19.
Anche le scuole di Mel, Villa di Villa e Lentiai20 organizzano
processioni e pellegrinaggi: alcuni con cadenza annuale, altri invece
straordinari per invocare la pioggia o il bel tempo e quindi per scongiurare la carestia con le sue funeste conseguenze. Per il tempo e per implorare
l’intercessione dei santi taumaturghi ordinano pure delle sante messe. Particolarmente significativa, in questo caso, è l’analisi del Libro dei conti redatto dal Pio Suffragio di Villa di Villa. Soprattutto nei primi decenni del
17 AP Villa di Villa, Libro dei conti della Beata Vergine dei Battuti, 1641-1749 e M.
Curti, op. cit., p. 90.
18 B. Nobile, Pratiche religiose in Friuli durante le epidemie del XVI e XVII secolo,
in “Sanità e Società. Friuli-Venezia Giulia. Secoli XVI-XX”, Udine 1986, pp. 117-146.
19 La confraternita di S. Andrea è l’unica tra le scuole zumellesi che in origine era
un’arte o corporazione che riuniva i lavoratori della lana. L’attività nel Cinquecento era
particolarmente fiorente in Valbelluna.
20 Nella pieve di Trichiana sono documentate le processioni, ma non i pellegrinaggi,
come ad esempio, all’abbazia di Follina o al santuario di S. Vittore e Corona ad Anzù di
Feltre.
293
Settecento sono annotate le celebrazioni in onore dei santi Gottardo, Lucia, Apollonia, Valentino, Sebastiano e Rocco. Nel gennaio 1727 sono segnate invece le 46 lire raccolte in una cerca di sorgo turco compiuta per
far celebrare tante messe per le anime del Purgatorio, perché preghino
Dio che ci liberi dalla morte, che tanti morivano in quel tempo. Anche la
salute degli animali per i contadini è spesso importante quanto quella degli esseri umani. Ecco allora che, nello stesso Libro dei conti, i versamenti
per alcune messe cantate portano queste motivazioni: per la salvatione de
nostri animali bovini (1714), a S. Antonio da Padova che ci guardi da
quel bruto mal del bestiame su la lingua (1732), per il malle del bestiame
grosso sive Boino (1758)21.
Nei tre comuni della Sinistra Piave, l’attività confraternale più rilevante, oltre a quella religiosa e di culto, non è tanto la cura dei malati o
la prevenzione dalle malattie, quanto la sepoltura dei defunti che, a seconda del luogo o del periodo, viene chiamata con nomi diversi: elevatione,
levazione o lievo. Infatti, mentre nel XXI secolo le persone cercano di rimuovere l’idea della morte e tentano di rendere la loro vita gioiosa, gratificante e divertente, nei secoli passati è sempre presente la consapevolezza della caducità e precarietà dell’esistenza terrena, considerata preparatoria per quella ultraterrena, l’unica veramente importante. Il decesso, la sepoltura, il giudizio divino e la destinazione nell’Aldilà preoccupano l’uomo delle epoche passate e condizionano i suoi comportamenti e le sue
scelte. Solo partendo da questa visione del mondo e della vita, si possono
comprendere anche il ruolo e il peso assunto dalle confraternite che garantiscono ai confratelli un onorevole funerale, dei suffragi e talvolta anche una tomba in chiesa. Sicuramente sono più apprezzate dal povero che
non può far assegnamento sulle disponibilità economiche dei suoi cari, ma
possono essere una valida alternativa anche per il benestante il quale, tramite un lascito testamentario a una scuola, può sperare che l’esecuzione delle
sue ultime volontà non dipenderà più dall’arbitrio o dalle alterne fortune
economiche dei suoi eredi, ma sarà assicurata da queste associazioni che
si impegnano a far celebrare messe di suffragio e ad elargire elemosine.
Ben tre articoli del già ricordato statuto del 1445 riguardano questa tematica. Nell’ottavo si prescrive che il gastaldo è incaricato di annunciare la morte di un confratello alli altri fradelli et sorelle che, sotto pena
de dinari 5, sono tenuti ad andare a casa del dicto morto per portarlo alla
giesa; nel nono si aggiunge che se alguno di fradelli overo sorelle della dicta Schuolla passasse de questa vitta, et per povertate non podesse esser
21
AP Villa di Villa, Libro dei conti del Pio Suffragio, 1711-1777 e M. Curti, op. cit.,
p. 232.
294
seppellito, i fradelli della dicta Schuolla siano tenuti di seppellirlo a soe
spese. Al suffragio per i defunti è dedicato invece l’articolo XXIV in cui si
scrive: Jttem hordenemo che al dì dei morti se fatia disciplina per lanima
dei fradelli et sorelle, et in quello dì se fattia carittà per le anime predicte, et laltro dì se faci cantare una messa generalle per le anime predicte22.
Analoghi, sotto molti aspetti, sono gli ordinamenti previsti nello
statuto della confraternita del Rosario, redatto a Trichiana nel 1686. Oltre
a sancire l’impegno di avvisare il R.° Prevosto, perché dalla carità di
questi sij meritato per l’anima del deffonto fratello un Rosario, si precisa
che la Congregazione, o Scuola è obbligata a mantenere un paro di candelotti di due lire l’uno con quali accesi si habbi da conpagnare alla sepoltura li poveri fratelli, ò sorelle, che no hano il modo di conprarne,
inoltre si aggiunge che tutti li fratelli, et sorelle devono recitare per una
volta tanto il Rosario della Beata Vergine per l’anima del deffonto. Per la
celebrazione di messe di suffragio saranno invece devoluti i dieci soldi
raccolti tra i nuovi soci e i quattro versati ogni anno dai vecchi23.
Dall’analisi degli ottocenteschi statuti stesi per le confraternite
del Santissimo di Mel e di Trichiana emerge invece un’evidente svolta antidemocratica, insita peraltro nella rigida distinzione tra i confratelli effettivi, che indossano la cappa e possono accedere alle cariche associative, e
i confratelli onorari. Ai funerali degli effettivi dovranno intervenire dodici
confratelli con l’abito di pratica e con la mantellina a lutto, mentre a
quelli degli onorari dodici senza cappa e sei donne. In suffragio dei primi
nel settimo giorno dopo la morte, alla presenza di tutta la Confraternita
generale riunita nella chiesa parrocchiale, si celebrerà un ufficio solenne
con messa de requie; per quello dei secondi invece, senza alcuna prescrizione di data, luogo o partecipanti, sarà detta solo una messa bassa dal
Cappellano della Confraternita24.
I libri dei conti, i verbali delle riunioni, ma anche le annotazioni
nei Defunctorum libri offrono ulteriori notizie che permettono di cogliere
altre sfaccettature di questa realtà. Emerge che alcune scuole possiedono e
mantengono una tomba per i confratelli. A Lentiai e a Villa di Villa servono per tutti gli associati; a Lentiai ne è documentato l’uso anche per qualche persona di passaggio: il 13 aprile 1606, ad esempio, Carlo, figlio degli
22
F. Vergerio, op. cit., pp. 420 e 422.
AP Trichiana, Libro della scuola del Rosario, cc. n. nn.
24 Quattro sono gli statuti ottocenteschi che si sono trovati negli archivi: due per la
confraternita di Trichiana (1821 e 1824) e due per quella di Mel (1824 e 1899). La citazione è tratta dal Regolamento della confraternita del Santissimo in Mel (1899) che sta
in ADVV, Parrocchie, b. 85, Mel.
23
295
zingari Paolino e Margarita, viene inumato in ecclesia Santa Maria de
Lentiaco in sepulcrum fratrum Schola Sanctissimi Sacramenti25. Diversa è
la situazione che si presenta a Trichiana. Il parroco don Domenico Pasini,
donando nel 1720 alla confraternita del Santissimo una sepoltura nella
chiesa parrocchiale davanti all’altare della SS. Trinità, prescrive che in
essa siano inumati esclusivamente i fratelli che al presente vestono la
capa rosa e che pro tempore si vestiranno con la medesima, non gli altri
confratelli e consorelle perché, in tal caso la tomba sarà assegnata alli fratelli della Madonna quelli che indossano la capa bianca solamente26.
Nella pieve di Mel, dove non è documentata l’esistenza di specifiche arche per gli aderenti alle scuole, assume particolare importanza il
momento del funerale. I cittadini zumellesi nei loro testamenti indicano
da quali confraternite desiderano essere accompagnati alla sepoltura, precisano talvolta perfino il numero dei ceri e il tipo dei gonfaloni che debbono essere usati. Nel Libro dei conti della confraternita di S. Giovanni
Battista, redatto nel periodo 1696 – 1716 dal notaio Zuanne Pozzorosso,
sono annotati non solo i nomi dei defunti elevati, ma anche l’uso della
scolla (gonfalone) da morto bella o ordinaria e del crocefisso d’argento.
Sono indicate inoltre le altre confraternite che hanno partecipato al funerale e i compensi erogati per le varie prestazioni. Se per i confratelli, i loro
parenti ed affini l’elevatione infatti è gratuita o a prezzi dimezzati, per tutti gli altri zumellesi dovrebbe essere a quota intera. Molti però, invece di
offrire del denaro, danno: una camisa, un paro di braghesse, qualche brazza di tela di stoppa, un fazzoletto da testa, una traversa, un paro di maneghe, un poco di canevo dalla cui vendita, essendo talvolta tristi, si ricavano solo pochi soldi. Il notaio allora aggiunge alla registrazione la scritta:
resto amore Dei, oppure, quando non viene dato nulla, tutto per carità. Il
rilevante numero di elevazioni a cui partecipano le confraternite di Mel
teoricamente sarebbe potuto diventare una notevole fonte di reddito, spesso però i profitti sono reimpiegati per far dipingere e confezionare nuove
scolle da morto27.
A Trichiana invece solo nel 1702 la confraternita del Rosario delibera di concedere il suo unico gonfalone anche per i funerali, dietro
compenso di £ 4 per cadauno, ma l’iniziativa riscuote poco successo, vista anche la particolare condizione socio-economica dei suoi abitanti28.
Durante il periodo del Dominio Veneto, infatti la pieve di S. Felice non è,
25
M. Curti, op. cit., pp. 91, 152, 158.
AP Trichiana, Registro della Scuola del SS. Sacramento, c. 75v.
27 AP Mel, Libro della Scuola di Santo Giovanni Batista di Mel, 1662-1720 e M.
Curti, op. cit., pp. 102-03.
26
296
come Mel e Lentiai, un Contado che gode di autonomie e franchigie, ma è
una delle dieci pievi del Territorio del Piano dipendenti da Belluno.
Con lo scopo precipuo di promuovere preghiere e celebrazioni
per le anime dei defunti, all’inizio del Settecento, anche in alcune parrocchie della forania zumellese, sorge il Pio Suffragio delle Anime purganti.
A Trichiana ed a Villa di Villa riscuote molto successo; in suo favore i fedeli fanno offerte sia in denaro, sia in prodotti agricoli, compiono donazioni e lasciti testamentari. Il numero delle messe nell’arco degli anni aumenta; a Villa di Villa, una parrocchia che conta circa un migliaio di anime compresi i putti, a metà Settecento se ne celebrano più o meno 500,
mentre nel 1797, alla fine del Dominio Veneto, ben 74929.
Per tutte le altre confraternite, nello stesso periodo, si nota invece una diminuzione dei proventi, fatto peraltro imputabile anche alla diffusione delle nuove idee illuministe e alla crisi produttiva e commerciale
della Serenissima, avviata ormai al suo declino. Ne consegue comunque
un quasi generale impoverimento a cui si aggiunge, in qualche caso, anche una riduzione degli iscritti. I decreti napoleonici 25 aprile 1806 e 26
maggio 1807 mettono fine all’esistenza delle scuole laiche; può continuare l’attività la sola confraternita del Corpus Domini alla quale sono assegnate finalità esclusivamente religiose e di culto.
Dopo il congresso di Vienna, il subentrante Governo asburgico
non impedisce la ricostituzione delle antiche confraternite; peraltro solo
gli Zumellesi, o per meglio dire il loro arciprete don Giovanni Antonio
Businello, sentono l’esigenza di fondare nel 1819 la nuova scuola della
Beata Vergine Addolorata che tra le sue regole non presenta riferimenti al
soccorso e all’aiuto per le consorelle e i confratelli ammalati, ma solo
cenni alle messe di suffragio per i soci defunti30. La sua durata peraltro
non è simile a quella delle precedenti confraternite, già nel secondo cinquantennio del Novecento questa e quella sopravvissuta del Corpus Domini scompaiono.
A Lentiai, nell’aprile del 1899, l’arciprete don Giuseppe Lessi
ottiene dal Priore Generale e Commissario Apostolico dei fratelli della
beata Vergine del Monte Carmelo di ricostituire la confraternita, di benedire gli scapolari, di imporli ai fedeli e di impartire l’assoluzione in arti28
AP Trichiana, Libro della confraternita del Rosario, ASBL, Confraternite e corporazioni soppresse, b. 24 e M. Curti, op. cit., pp. 189,193.
29 AP Trichiana, Libro de conti del Suffragio del Anime Purganti della Pieve di SS.
Felice e Libro degli atti della Scuola del Pio Suffragio delle Anime Purganti. AP Villa di
Villa, Libro dei conti del Pio Suffragio, 1711-1777 e M. Curti, op. cit., pp. 221-236.
30 Confraternita in onore della Beata Vergine Addolorata canonicamente istituita
nella chiesa arcipretale di Mel, Feltre, Tip. Castaldi, 1937, sta in AP Mel.
297
culo mortis. Per questa reintrodotta associazione diventano però importanti la salvezza eterna e la liberazione dell’anima dalle pene del purgatorio; non hanno più rilievo né l’accompagnamento alla sepoltura, né le
messe in suffragio dei defunti e tanto meno l’aiuto alle consorelle e ai
confratelli ammalati. Su questa scuola peraltro non si sono reperiti documenti posteriori al 1947, anche se il 16 luglio, in occasione della Madonna del Carmine, a Lentiai continuano ad essere organizzati molti festeggiamenti31.
L’ingresso sempre più significativo dei poteri pubblici nel campo
dell’assistenza, la perdita delle rendite, derivanti dalle proprietà confiscate, la mutata situazione socio-culturale, la crisi dell’associazionismo, ma
soprattutto il nuovo modo di considerare la religione ed i suoi valori rendono le confraternite anacronistiche, poco rispondenti alle esigenze e ai
bisogni dell’uomo del XX secolo.
31
Instructiones et formulae pro benedictione et imposizione sacri scapolaris B. V. M.
de Monte Carmelo ac pro absolutione in articulo mortis confratribus sacri habitus impartienda, Roma, 1896, sta in AP Lentiai. Cfr. M. Curti, op. cit., pp. 254-255.
298
Arte dai Luoghi della Speranza e della Grazia
Relazione presentata al Convegno da
Giorgio MIES
Introduzione
Donna, se' tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia ed a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar senz'ali.
La celebre terzina del Paradiso, con cui san Bernardo prega la
Vergine affinché Dante possa ottenere la grazia, mai concessa ad uomo
mortale, di contemplare la Trinità divina, sottolinea l'importante ruolo di
mediatrice tra l'uomo e Dio esercitato da Maria, nell'ottica escatologica
della salvezza umana.
La popolarità del suo culto nella chiesa cattolica è confermata da
ben 17 feste mariane, ognuna delle quali aderisce ad una specifica esigenza devozionale da parte dei credenti, motivata da precise risposte che ella
è in grado di dare alle loro attese; tra queste, una grazia che sta particolarmente a cuore a ciascuno di noi è costituita dalla salute, chiesta per sé o
per i propri congiunti, infatti la festa del 21 novembre, dedicata alla “Presentazione al tempio di Maria”, in ricordo della sua totale consacrazione
al Signore, è più nota come “Madonna della Salute”.
Nel corso della storia, il modo di rapportarsi dell’umano con il
divino non ha sostanzialmente mai cambiato registro. Di fronte alle calamità naturali, alle ingiustizie sociali o, semplicemente, alla malasorte,
l’uomo ha sempre cercato di correre ai ripari: su un piano puramente razionale è ricorso alla filosofia ed alla scienza, mentre su quello sentimentale è approdato alla religione che ha costantemente nutrito la speranza,
alimentando la sua pietà.
Per alcuni studiosi di religiosità popolare, la fede della nostra
gente in un aiuto che deve venire dall’alto, in un ”Domineddio” che, in
quanto padre, tutto vede e provvede, è da far risalire ad una concezione
manichea della vita basata sulla contrapposizione tra le forze del bene e
quelle del male, per cui, ad esempio, di fronte al male fisico, imprevisto
ed improvviso, si ricorre all’aiuto provvidenziale divino con riti e credenze assimilabili talora dai popoli più antichi.
Nel mondo pre-cristiano questo rapporto di dipendenza dell'uomo con il divino è testimoniato in modo particolare dai santuari, i cui de299
positi votivi, al di là del loro pur importante interesse archeologico, richiamano ad un aspetto utilitaristico immediato data la loro funzione eminentemente taumaturgica, finalizzata quindi all'ottenimento di un risultato
ben preciso mediante la supplica.
Nei numerosi santuari che costellano l'area pedemontana compresa tra i fiumi Piave e Livenza, dislocati per lo più nei siti cacuminali, si
può riconoscere una specie di stratificazione culturale nella quale si sono
avvicendate presenze paleovenete, celtiche, romane e cristiane che hanno
dato vita ad un “mondo vitale”
in cui il sacro ed il profano si
sono fusi nella quotidianità del
vivere.
In questi luoghi di incontro con la divinità, pur con
tutte le evidenti differenze, il
rapportarsi dell'umano con il divino è sempre lo stesso; infatti
gli oggetti votivi dalle proprietà
sanatoriali dedicati alla dea Reithia, rinvenuti negli anni settanta
del secolo scorso nella stipe paleoveneta (IV sec. a. C. - IV sec.
d. C.) di Villa di Villa, in comune di Cordignano, sono chiaramente in connessione con gli exvoto dedicati alla Vergine o ad
altri santi protettori che tuttora
tappezzano le pareti di molti santuari cristiani, quali pubblica attestazione
di gratitudine “per grazia ricevuta”.
E' il caso delle lamine bronzee rinvenute dal Gruppo Archeologico del Cenedese con su incisi degli arti umani, braccia o gambe, a propiziarne la guarigione proprio come ancora oggi capita di vedere sulle pareti
di alcuni santuari più o meno famosi, con la bizzarra rassegna di “crothole, stanpele, baston, cuor de argento, cuadret co su scrit P.G.R., soade co
drento piture de malore capitadhe a qualchedhuni e co su 'n canton la figura del quadro de la ceseta co la Madona del Persego che la vardhea do”
(. Meneghetti, Riverisco Sior Paron, Vittorio Veneto 2011, p. 104).
Nel passaggio dalla liturgia pagana a quella cristiana la Chiesa
ha ritenuto di dover mitigare quel mondo, fatto spesso di superstizione e
magia, con precise norme dettate dal Concilio di Trento. Sono innegabili
300
comunque delle caratteristiche comuni tra la dea Ana, la Grande Madre
dei Celti e sant’Anna, madre della Vergine, dal momento che entrambe
erano invocate dalle partorienti durante il parto, come protettici della nascita e quindi della vita stessa. Anche il maialino di sant’Antonio abate
trova facile riscontro nel cinghiale con il quale di solito veniva rappresentato il dio celtico delle mandrie Lug, con la differenza che nella tradizione
cristiana l’animale da selvatico è diventato domestico; esso era posto sotto la protezione del santo proprio per preservarne intatta la funzione apotropaica contro il cosiddetto “fogo di sant’Antoni”, curato con il suo grasso, così come le slogature e le contusioni venivano guarite con la sua
“gràmola” e “mégola”.
Iside, la dea egizia che allatta Horus, nella iconografia cristiana
è diventata la Madonna che tiene al seno Gesù Bambino; il Sol invictus
del solstizio d'inverno è passato a celebrare la nascita di Gesù; Marte, il
dio della guerra dei Romani, venne sostituito con san Giorgio, patrono dei
militari, in particolare dei cavalieri; i Lupercali, o feste della fecondità e
della coppia che si svolgevano alle idi di febbraio, vennero sostituiti con
la festa di san Valentino
Madonna della Salute
Di fronte all'esperienza umana del dolore, della malattia e della
morte, il cristiano fin dalle origini è sempre ricorso all'immagine salvifica
della Madonna, come a colei che è veramente in grado di proteggerlo dalla sua disintegrazione terrena, promettendogli l'eternità.
Per questo nell'immaginario individuale la Madonna viene talora
identificata con la propria mamma, infatti non è infrequente sentire nominare la mamma perfino in punto di morte, anche dalle persone in età avanzata.
Toccante è l'episodio di quei due soldati della prima guerra mondiale, uno italiano e l'altro croato, che, caduti nella stessa dolina del Carso
a seguito delle ferite mortali inferte dalle rispettive baionette, presero a lamentarsi per il dolore esclamando: “Mamma mia”, l'italiano, e “Maico
moia”, ossia “mamma mia”, il croato, senza però riuscire a capirsi. Quando il sole era tramontato ed il crepitio della mitraglia si era spento, il croato cominciò a recitare: Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum...”, al che
l'italiano continuò la recita: Benedicta tu in mulieribus....A questo punto si
strinsero la mano piangendo, poi proseguirono insieme: Sancta Maria, …
ora pro nobis, nunc et in hora nostrae mortis. Nominando la loro mamma
301
terrena quei due giovani non si erano capiti; si compresero bene invece
invocando la Madonna. L'indomani, alle prime luci dell'alba, furono trovati morti con le mani che ancora si stringevano; quella dolina ancora
oggi è chiamata: “La dolina della Madonna”. Le guerre, si sa, piuttosto
che dividere i popoli hanno contribuito ad unirli.
Pala d'altare
raffigurante la
Madonna della
Salute
nella Chiesa di
San Pietro di
Barbozza
302
Da sempre le malattie hanno afflitto l'umanità, ma la più temuta,
la più devastante e la più ricorrente è stata certamente quella della peste;
si tratta di una malattia infettiva contagiosa il cui batterio è trasmesso dalle pulci dei vari roditori e può assumere varie forme: bubbonica, con tumefazioni delle linfoghiandole e conseguente necrosi delle cellule, polmonare, con l'insorgenza di una grave broncopolmonite, o sotto forma di
setticemia, dovuta alla penetrazione e riproduzione continua di germi patogeni nel sangue.
Tra le più tristemente note si ricordano la Peste Nera del 1348,
che decimò la popolazione della penisola italiana per più del 50 per cento,
quella del 1576 che a Venezia determinò la morte dello stesso Tiziano, ma
soprattutto quella del 1630, descritta dal Manzoni nei “Promessi Sposi”;
solo a Venezia causò 72.000 morti su 150.000 abitanti, mentre ben
680.000 furono quelli che dovettero soccombere nei territori veneziani.
Nella più totale desolazione causata dalla paura del contagio, tutta Venezia il 26 ottobre 1630, il patriarca Giovanni Tiepolo ed il doge Nicolò Contarini in testa, si recò in processione nella basilica di San Marco
per chiedere, davanti alla venerata immagine della Nicopeja, la grazia della liberazione dalla peste. In quella circostanza il doge fece voto alla Madonna di innalzare in città una chiesa in suo onore, intitolandola a Santa
Maria della Salute, con l'impegno di visitarla solennemente ogni anno, nel
giorno in cui Venezia fosse stata dichiarata libera dal male.
Quasi per miracolo il flagello cessò il 21 novembre ed i Veneziani, fedeli al loro voto, fecero erigere dall'architetto Baldassarre Longhena
quel magnifico tempio che ancora oggi suscita l'ammirazione dei fedeli
che lo vedono rispecchiarsi nelle acque del Canal Grande, davanti al bacino di San Marco.
Sull'esempio di Venezia, anche in terraferma furono edificati numerosi santuari, oratori o semplici capitelli in onore della Madonna della
Salute (in diocesi di Vittorio Veneto se ne contano ben 23), per non parlare dei singoli altari eretti nelle varie chiese parrocchiali.
Nel Vittoriese il più famoso è il Santuario di Sant'Augusta, che
proprio a partire dal 1631 venne ampliato e ristrutturato in adempimento
di un voto fatto dalla Comunità di Serravalle alla protettrice della città per
gli scampati pericoli della peste; infatti dalla iscrizione della lapide murata sulla parete destra della chiesa si legge : (…) CUM LETHIFER MORBUS,
UNDIQUE PROPAGATUS, CIVITATEM HANC CIRCUM CIRCA OBSEDISSET
ADEO, UT IPSA HUMANA SPE DESTITUTA, OMNEM FIDUCIAM IN DEI PRAESIDIO COLLOCASSET, SOLEMNI VOTO EX PUBLICO DECRETO SANCITUM
FUIT, ossia, “poiché questo morbo micidiale, propagatosi ovunque, aveva
come stretta d'assedio tutt'intorno questa città, al punto che i cittadini, per303
duta ogni umana speranza di scampo, avevano riposto tutta la loro fiducia
nella protezione divina, con voto solenne, in base a pubblico decreto fu
stabilito” di recarsi ogni anno il 22 agosto in pellegrinaggio al santuario
per ringraziare con tutto il cuore, per la grazia ricevuta, la martire serravallese “nostra concittadina e protettrice (CONCIVI, ET PROTECTRICI
NOSTRAE)”.
Negli anni immediatamente successivi le famiglie più abbienti
fra i Serravallesi, in segno di riconoscenza e devozione, posero mano alla
costruzione delle sei cappelle lungo il percorso che sale al santuario, tuttora visitate dai pellegrini per pregare e ottenere le stesse Indulgenze delle sette Basiliche romane, concesse nel 1643 per interessamento del card.
Marcantonio Bragadin, già vescovo di Ceneda. Purtroppo del numero
considerevole di ex voto (oltre 150) che fino a qualche decennio fa tappezzavano le pareti interne della chiesa ora restano solo pochi esemplari
fra quelli di maggiori dimensioni, appesi in sacrestia: si tratta di ex voto
riferibili alla categoria dell'”evento”, relativi quindi agli scampati pericoli
in qualche incidente sul lavoro o per strada, della “petizione” per chiedere la grazia della guarigione da una malattia, o degli “oranti”, con gli interessati inginocchiati in preghiera davanti ad un altare o all'immagine di
sant'Augusta.
Contrassegno del panorama vittoriese è anche il Santuario della
Madonna della Salute a Costa, pure esso eretto dopo la peste del 1630 in
cima a un colle sul luogo dove sorgeva un antico “Altariol” dedicato a
San Colombano. L'edificio attuale risale al 1829 per iniziativa del cenedese don Giovanni Palatini, coadiuvato da Giovanni Zanon residente a
Costa, in Borgo Caliero. Nel 1939, centenario della costruzione, il santuario venne decorato da Antonio Raccanelli con le statue di S. Tiziano e S.
Augusta annicchiate nella facciata e da Vittorio Casagrande con la Presentazione di Maria nel Tempio affrescata nel soffitto della chiesa, con
Angeli in adorazione dello Spirito Santo nella cupola del coro e gli Evangelisti nei pennacchi. Nel 1992 il figlio Elio dipinse la pala d'altare, in sostituzione di quella precedente rubata nel 1986 limitatamente alle figure
della Madonna e di santa Lucia. Anche in questo caso notevoli sono alcuni ex voto per grazia ricevuta custoditi in sacrestia, tra cui si segnala quello che ricorda Virgilio Breda rimasto incolume a seguito di un incidente
nella costruzione del campanile, alla presenza dello stesso don Palatini.
Siccome lo scopo di questo intervento non è solo di confermare
la paternità delle opere di pittori che hanno saputo dare dignità artistica al
bisogno liberatorio di raccontare il timore del male e il sollievo della liberazione, ma anche di stabilire degli aggiornamenti ed eventualmente di
304
fare nuove attribuzioni, è il caso di rilevare come alcune chiesette della
Salute del nostro territorio siano decorate da autori che godono di larga
fama nel panorama artistico veneto.
Per non parlare della Madonna della Salute dell'oratorio di Mescolino, da assegnare ad Amedeo Giuseppe De Lorenzi (Soligo 1816-1879),
o alla stupenda tela che orna l'altare della chiesetta della Beata Vergine
della Salute in Contrada Granda a Conegliano, fra i migliori lavori del veneziano Antonio Zanchi, chi scrive di recente ha riconosciuto la paternità
del poco noto pittore Francesco Fedrigazzi, attivo alla fine del Seicento
tra il Friuli occidentale ed il Veneto orientale, relativamente alla pala dell'oratorio della Madonna della Salute a Salvatoronda di Bibano, raffigurante la Madonna col Bambino fra santi (G. Mies, Godega Sant’Urbano
fra arte e cultura, in “Godega di Santt’Urbano fra Storia, Arte e Cultura”,
con Introduzione storico-fotografica a cura di G. Visentin e I. Azzalini,
Godega di Sant’Urbano 2011, p. 103).
Totalmente priva di vicenda critica è anche la pala d'altare che
orna l'oratorio della Beata Vergine della Salute in Villa Zuliani-VerecondiScortecci a Colle Umberto.
Raffigura la Madonna assisa sulle nubi con san Giuseppe, mentre
in basso compaiono i santi Francesco d'Assisi e Vincenzo Ferreri in atteggiamento devoto; per delle affinità tipologiche e compositive riscontrabili
nella pala dell'arcipretale di Codognè, ma ancor più nel disegno della collezione “A. da Borso” del Seminario di Belluno con Madonna tra i santi
Domenico e Caterina (F. Vizzutti, Disegni della collezione “A. da Borso”
del Seminario di Belluno, Belluno 1995, p. 81), è da assegnare al pittore
bellunese Antonio Bettio (Belluno 1722 – 1797) in una fase iniziale della
sua produzione, dopo comunque il 1740, anno segnato sugli eleganti stucchi che decorano la villa stessa.
Oltre al titolo della Salute, particolarmente frequente è quello
della Madonna delle Grazie a motivo della richiesta di qualche grazia
speciale; famoso in tal senso è il Santuario della Madonna delle Grazie di
Colbertaldo, dove i fedeli a partire dal 1520, anno di inizio della sua costruzione, si recano in pellegrinaggio davanti all'affresco della Madonna
col Bambino e Annunciazione, date le proprietà miracolose che gli vengono attribuite. L'opera è di un anonimo frescante di estrazione popolare che
in questa sede ci pare di dover identificare con il pittore bellunese Iseppo
da Cividal, attivo anche nella Pieve di Sant'Andrea di Bigonzo alla fine
del Quattrocento, oltre che a Santa Maria di Lago nel 1505 ; è morto dopo
il 4 febbraio 1523, giorno in cui viene citato in un atto rogato a Belluno
dal notaio Pietrobon Pagani (Cfr. S. Claut – G.Tomasi, Notizie sui pittori
305
bellunesi in “Archivio Storico di Belluno, Feltre e Cadore”, Anno LXXIV,
n. 321, Gennaio-Aprile 2003, pp. 32-33).
Spiace dover rilevare che la
grande formella in terracotta (qui accanto riprodotta) con Santa Maria
della Grazia realizzata nel 1989 da
Luigi Cillo (Cappella Maggiore 1920Campion di Colle Umberto 2011) per
decorare l'abside della parrocchiale
omonima di Conegliano (uno degli
edifici religiosi più rappresentativi
dell'arte sacra contemporanea, costruito nel 1969 su progetto dell'arch. Nerino Meneghello), sia stata di recente
rimossa, sostituita con una riproduzione fotografica della pala del Beccaruzzi esistente nella chiesa vecchia.
Santi Taumaturghi
Se per vincere il dolore, la malattia e la morte il credente ha bisogno di proiettarli nell'immagine salvifica di un corpo incorruttibile,
dopo la Madonna al centro del culto popolare sono i cosiddetti santi taumaturghi; tra questi, in tempo di peste, un posto di rilievo spetta a san Sebastiano, al punto che dal Medio Evo in poi nessun artista ha tralasciato di
raffigurare il corpo del grande taumaturgo trafitto dalle frecce dell'ira divina.
Contraltare cristiano alle avvenenti figure di Apollo e Adone
esaltate dall'arte greca e romana, anche da noi le raffigurazioni di san Sebastiano, a partire dal Rinascimento, diventano sempre più un'occasione
per valorizzare le conoscenze anatomiche; infatti l'ex funzionario dell'impero romano, martirizzato all'inizio del IV secolo, viene presentato giovane e nudo, per lo più imberbe, come appare nella pala dipinta da Jacopo
da Valenza intorno al 1484 per la Cattedrale di Ceneda, eco dei santi omonimi di Antonello da Messina e di Cima da Conegliano che si trovano rispettivamente nei musei di Dresda e di Strasburgo; notevole è anche il
San Sebastiano dipinto da Francesco da Milano nel 1512 per la parrocchiale di Caneva, per non parlare di quello che domina al centro della cap306
pella omonima nella pieve di San Pietro di Feletto, affrescato fra gli episodi salienti della sua vita.
Nel corso del XV secolo, san Sebastiano è soppiantato, come
santo antipeste, da san Rocco da Montpellier, in Francia; questi, rimasto
orfano ancora in tenera età di entrambi i genitori, decise di lasciare la sua
città natale per recarsi in pellegrinaggio a Roma. Lungo il percorso, ad
Acquapendente, si trovò di fronte alla terribile realtà della peste; profondamente colpito, senza alcuna esitazione allora decise di mettersi a disposizione di chi ne era stato colpito imponendogli le mani. Questa cura gli
valse, dopo la morte, di essere venerato dai fedeli come protettore contro
ogni forma di malattia contagiosa. Nelle nostre chiese il santo viene subito riconosciuto per l'inconfondibile iconografia: aspetto vigoroso, per lo
più barbuto in abito da pellegrino con mantello e bordone, con la mano
indica una piaga purulenta lasciata scoperta sulla gamba, mentre l'attributo del cane con una pagnotta in bocca fa riferimento all'episodio secondo
cui l'animale ogni mattina gli portava il cibo come sostentamento durante
la malattia di peste che lui stesso aveva contratto nei pressi di Piacenza,
durante il viaggio di ritorno da Roma. Curioso è il particolare del vasto
affresco con l'apoteosi del santo dipinto da Giovanni De Min nel 1827 sul
soffitto della chiesa di San Rocco a Conegliano, che ci presenta un cane
con le zampe posteriori ben salde per terra nel tentativo di spiccare il salto
per raggiungerlo in Paradiso, trattenuto a forza da due angioletti. Di recente, chi scrive (Mies, 2011, pp. 72-73) ha attribuito ad Agostino Ridolfi
(Belluno 1646 - 1727) la paternità delle due grandi tele inedite che ornano
il coro della parrocchiale di Santa Margherita di Godega Sant'Urbano, raffiguranti rispettivamente San Rocco che cura gli appestati ad Acquapendente e la sua Elemosina ai poveri ed agli ammalati.
A partire dalla fine del XVI secolo la cultura controriformistica
ha proposto nuovi modelli di taumaturghi alla devozione popolare, per cui
il tema della guarigione miracolosa veniva inserito in un orizzonte di significati spesso assai differenti da quelli precedenti.
San Gaetano da Thiene ad esempio diventa il campione delle direttive tridentine volte a diffondere la missione evangelizzatrice soprattutto tra la povera gente, in particolare durante i periodi di carestia che erano
inevitabilmente seguiti dalla diffusione della peste.
San Francesco Saverio, fondatore della Compagnia di Gesù insieme con sant'Ignazio di Loyola, rappresenta in particolare la linea di
conquista missionaria perseguita dalla Chiesa cattolica nei paesi dell'Estremo Oriente, l'India ed il Giappone in testa, nei quali la fama di guaritore andava di pari passo con quella del missionario eroico; erano le sue
307
reliquie a sollecitare la gente a porsi sotto la sua protezione contro il flagello della peste, favorita in ciò anche dalla leggenda agiografica del suo
corpo ritrovato intatto a due anni dalla morte, avvenuta nel 1554.
Tra le immagini di questi due ultimi santi si propongono quella
inedita che compare nella pala d'altare dell'oratorio della Madonna della
Salute a Salvatoronda a Bibano, costruito dopo la peste del 1630 che, secondo la Menegaldo, “suggellò tristemente tre anni di grave e crescente
carestia” (il fondatore dei Teatini compare nella tela della Madonna col
Bambino e santi, di recente attribuita da chi scrive al poco noto pittore locale Francesco Fedrigazzi (Mies 2011, pp. 103-104); san Francesco Saverio invece compare nella pala che ora è custodita nel Museo diocesano di
Vittorio Veneto, proveniente dalla cappella minore del Seminario, firmata
Francesco da Re e datata 1734.
Debellata la peste nel corso del Settecento, nell'Ottocento comparvero altre forme di malattie contagiose, non meno perniciose, tra cui
sono da ricordare il vaiolo, la scarlattina, il tifo, la TBC, la spagnola, subito dopo la Grande Guerra, ma soprattutto il colera, favorito dalla contaminazione dell'acqua e tale da colpire a più riprese la zona prealpina tra il
1835 e il 1887.
Tra i più famosi ex voto relativi a questa malattia si segnala quello tuttora custodito nel Santuario di San Francesco di Paola a Revine che
nei mesi di maggio-giugno 1996 ha avuto l'onore di essere esposto assieme ad altri di tutta Italia nel Museo Nazionale di Castel Sant'Angelo, a
Roma, nel contesto della presentazione del Grande Giubileo del 2000.
Il notevole dipinto ad olio su tela (cm 173 x 173), certamente
opera di Paolo Pajetta, padre del più noto Pietro, illustra in modo spontaneo ed immediato la processione dei Revinesi lungo la strada che conduce
al santuario per ringraziare san Francesco di Paola per gli scampati pericoli durante l'epidemia di colera degli anni 1848-1849.
Il titolare, la cui fama di taumaturgo è ampiamente documentata
da due lapidi a pergamena murate ai lati dell'altare (…VIDENT CAECI,
GRADITURQ: CLAUDUS / LAETUM AUDITUM CAPITATQUE SURDUS /
MORTUI SURGUNT, RECIPITQ: MUTUS / ORGANA VOCIS), nella tela
compare sulla destra tra le nubi, tenendo con la destra l'emblema “CHARITAS”, mentre distende la sinistra come per allontanare la Morte, imperso-
nata da una vecchia con il consueto attributo della falce; in basso una donna affetta da colera è distesa su un pagliericcio, con il crocefisso in mano,
assistita da un'altra donna e benedetta dal parroco don Bartolomeo De
Conti.
308
Interessante la teoria di fedeli che partecipano alla processione
vestiti a festa, con gli abiti tipici del tempo, portando insegne, torce processionali, un Crocifisso, oltre ai gonfaloni delle varie confraternite, mentre alcuni curiosi si affacciano dagli spalti del santuario stesso.
Santi Ausiliatori
Siccome i santi sono parte integrante della nostra umanità (se si
considera la grande venerazione di cui hanno sempre goduto fin dal Medio Evo, potrebbero a giusto titolo essere considerati come la Sicurezza
Sociale o, meglio, il Welfeare dei tempi nostri), il loro ruolo tutelare e fraterno è espletato in particolar modo dai cosiddetti Santi Ausiliatori.
Nella tradizione cattolica sono in numero di quattordici, in ricordo dei quattordici bambini che nel 1445 sarebbero apparsi in Germania al
pastorello Hermann Leicht di Langheim assieme a Gesù Bambino; la loro
festa si celebrava l'8 agosto, almeno fino al 1969, anno in cui venne soppressa con la riforma del calendario dei santi.
Nei nostri territori, il santo dei miracoli per eccellenza è sant'Antonio di Padova; in suo onore a san Giacomo di Veglia nel 1693 è stato
costruito l'attuale oratorio-santuario tuttora molto frequentato dai devoti
del santo che a lui si rivolgono per ottenere grazie e favori, come testimo309
niano i numerosi ex voto ivi custoditi; tra questi se ne segnalano due di
notevoli dimensioni (m 3 x 2 ca.) ai lati dell'altare, raffiguranti il Miracolo del piede riattaccato e Sant'Antonio che intercede presso la Madonna
col Bambino per la famiglia di Bernardin Bertoja.
Secondo una comunicazione scritta che gentilmente mi ha fatto
pervenire Girolamo Michelin, di Motta di Livenza che abita nel palazzo di
un discendente dei Bertoia, ramo di Motta di Livenza, D.no Bernardino
Bertoja qm. Giacomo, di professione negoziante (possedeva a Ceneda una
bottega di “cimador”), arrivando a ricoprire l'incarico di “Fonteghiere della Camera Fiscale di Treviso”, qui si è fatto ritrarre in compagnia della
moglie... e dei figli Giuseppe, Marcolina e Paolina; siccome il figlio Giuseppe, nato a Ceneda nel 1693, mostra un'età di circa 15 anni, ciò consente di datare la tela intorno al 1708, dipinta da un pittore ancora non noto,
ma che andrebbe identificato in qualche pittore attivo a quella data nel territorio, un autore dalla vena popolaresca non privo tuttavia di abilità disegnative e coloristiche, lo stesso che ha dipinto anche l'ex voto, pure di notevoli dimensioni, attualmente addossato alla retrofacciata del Santuario
della Madonna della Salute a Costa di Vittorio Veneto, date le evidenti affinità tipologiche e compositive.
Oltre che dai negozianti, sant'Antonio era invocato soprattutto
dai poveri, dagli affamati e in particolare modo da chi va alla ricerca di
oggetti smarriti. A questo proposito, una delle preghiere più popolari per
ritrovare qualcosa di importante e prezioso, come una chiave, un gioiello,
un portafoglio o dei documenti, è la Tredicina, così detta perché deve essere recitata per ben tredici volte di seguito da una persona diversa da chi
ha perduto l'oggetto; volgarmente è conosciuta anche come Sequeri, dalla
storpiatura dell'espressione latina Si quaeris con la quale la preghiera ha
inizio.
Un singolare esempio di Sequeri lo possiamo ancora oggi leggere su un cartiglio alla base del pannello di sinistra, sotto l'immagine per
l'appunto di Sant'Antonio, del pregevole polittico intagliato nel 1699 dal
cisonese Sante Moretti per la parrocchiale di Tovena in comune di Cison
di Valmarino, come risulta dalla seguente iscrizione posta sulla predella
centrale, dietro il tabernacolo:
SI QUAERIS MIRACULA MORS, ERROR, CALAMITAS, DAEMON,
LEPRA FUGIUNT, AEGRI SURGUNT SANI.
CEDUNT MARE, VINCULA, MEMBRA RESQUE PERDITAS
PETUNT ET ACCIPIUNT IUVENES ET CANI.
PEREUNT PERICULA, CESSAT ET NECESSITAS NARRENT HI QUI
SENTIUNT, DICANT PADUANI.
310
CEDUNT MARE ETC. GLORIA PATRI ET FILIO ETC. CEDUNT MARE
ETC. ORA PRO NOBIS ANTONI B. UT DIGNI EFFICIAMUR ETC.
OREMUS, INTERCEDENS PRO NOBIS QUESUMUS DOMINE
SANCTUS,TUUS CONFESSOR ANTONIUS
QUEM VIRTUTIBUS MIRACULORUM, PRODIGIIS ET SIGNIS
DECORASTI PER CRISTUM DOMINUM NOSTRUM.
AMEN.
Se cerchi miracoli, ecco messi in fuga la morte, l'errore, la calamità, il
demonio, la lebbra; ecco gli ammalati divenir sani.
Il mare si calma, le catene si spezzano; i giovani e i vecchi chiedono
e ritrovano la sanità e le cose perdute.
S'allontanano i pericoli, scompaiono le necessità; lo raccontano quelli
che lo sanno e lo dicono i Padovani.
Il mare si calma ecc.; gloria al Padre e al Figlio. Prega per noi, o Antonio beato, e preghiamo affinché ne diventiamo degni.
Ti preghiamo, o Signore, perché il tuo santo confessore Antonio
interceda per noi; lui che decorasti con le virtù dei miracoli, i prodigi e i
segni, per Cristo nostro Signore. Amen.
Il cartiglio di destra, posto sotto l'immagine di San Valentino, dipinto dall'austriaco Mathias Gremsel, come del resto il sant'Antonio contrapposto, recita:
ISTE SANCTUS PRO LEGE DEI SUI CERTAVIT USQUE AD
MORTEM ET A VERBIS IMPIORUM NON TIMUIT, FUNDATUS ENIM
ERAT SUPRA FIRMAM PETRAM,
CUM GLORIA ET HONORE CORONASTI EUM DOMINE
ET CONSTITUISTI EUM SUPRA OPERA MANUUM TUARUM
0REMUS, PRAESTA QUESUMUS OMNIPOTENS DEUS UT QUI BEATI
VALENTINI MARTJRIS TUI NATALITIA
COLIMUS A CUNCTIS MALIS IMMINENTIBUS EIUS
INTERCESSIONE LIBEREMUR, PER CRISTUM DOMINUM NOSTRUM
AMEN
311
Codesto Santo per volere del Dio suo lottò fino alla morte e di fronte alle
dicerie degli empi non ebbe timore, infatti le sue fondamenta erano sulla
pietra ferma. O Signore, di gloria e onore lo hai coronato,
e lo hai costituito sull'opera delle tue mani.
Ti preghiamo, o Dio onnipotente, di fare in modo che noi, che
celebriamo la nascita del beato Valentino tuo martire,
possiamo essere liberati da tutti i mali improvvisi, per Cristo
nostro Signore. Amen.
Tra i mali improvvisi da cui uno poteva essere colpito vi era senz'altro l'epilessia, malattia contro la quale veniva invocato non solo in
Germania, ma anche da noi, come conferma l'epilettico caduto ai suoi piedi nella tela in questione; non bisogna dimenticare però che san Valentino
è soprattutto patrono degli innamorati, forse perché la sua festa, che cade
il 14 febbraio, coincide con il momento in cui gli uccelli cominciano ad
accoppiarsi. Secondo un detto popolare infatti da San Valentin la gaja la
porta 'i spin ad indicare che mentre il volatile comincia a fare il nido, così
i fidanzatini si scambiano i regali in vista dell'unione prossima..
Altro santo ausiliatore è Francesco di Paola, il santo della povertà e della carità cristiana, oggetto di particolare venerazione nel santuario
omonimo di Revine, fatto costruire dal parroco don Giovanni Domenico
Cumano tra il 1677 e il 1702 su una balza rocciosa sotto il castello di
Monte Frascone.
Il carattere eminentemente popolare di tale devozione è confermato da due iscrizioni incise su lapidi a pergamena murate ai lati dell'altare; infatti dopo la descrizione intessuta di elogi che si può leggere sulla
prima, relativa alla fama di taumaturgo goduta dal fondatore della congregazione dei Minimi, nella seconda assistiamo alla consueta sequela dei
numerosi miracoli ottenuti da chi fa visita alla sua tomba:
AD SUUM DEMUM TUMULUM FREQUENTER
LANGUIDIS CUNCTIS TRIBUIT MELEAM
SAEPIUS CONFERT MISERIS ROGATUS
DONA SALUTIS.
HINC VIDENT CAECI. GRADITURQ: CLAUDUS
LAETUM AUDITUM CAPITATQUE SURDUS.
MORTUI SURGUNT, RECIPITQ: MUTUS
ORGANA VOCIS.
GRATIAS TRINO PERAGANT, ET UNI.
IAM DEO CUNCTI PARITER FIDELES
QUI BEAT IUSTOS HUMILESQ: MENTE
TOLIT AD ASTRA. AMEN.
312
...sulla sua tomba di frequente
dà la guarigione a tutti i malati,
più spesso su richiesta conferisce agli afflitti
i doni della salute.
Da qui i ciechi vedono, lo zoppo cammina
e capita che il sordo riacquisti con gioia l'udito.
I morti risorgono e colui che è muto riceve
la facoltà della parola.
Come tutti i fedeli
rendano grazie a Dio uno e trino,
allo stesso modo colui che consola i giusti e gli umili
li eleva al cielo.
Amen
Di sant'Antonio Abate, protettore degli animali di allevamento
colpiti da afta epizootica, ma invocato in particolare contro l'ergotismo
canceroso, detto anche “fuoco sacro” o “male di Sant'Antonio”, la raffigurazione più completa si trova alla Mattarella di Cappella Maggiore ad
opera di Antonio Zago intorno al 1498; in essa il santo è chiaramente riconoscibile, oltre che dalla tonaca dell’Ordine Ospitaliero degli Antoniniani,
anche dai consueti attributi del bastone con l'impugnatura a “tau”, del
campanello per la questua appeso al collo del maiale, che veniva allevato
dall'intera comunità per sfamare i più poveri.
La devozione a questo santo, talvolta, era inficiata da forme di
superstizione, come quella di tracciare una croce accanto alla lettera
“tau”, proprio per scongiurare una morte improvvisa durante qualche pestilenza; è il senso della preghiera che il notaio Roberto di Salomone ha
scritto sotto tale disegno in un suo quadernetto di imbreviature in occasione della peste del 1348: Omni die in quo hoc signum videbitur a morte subitanea in die illa non morietur” (da G. Cagnin in La Fondazione di Santa Maria Nova di Soligo, Grafiche Antiga 1994, p. 54, nota 132).
Una scritta simile accompagnava anche la figura di san Cristoforo, proprio per indicare che al viandante, che vedesse la sua immagine durante il viaggio, di sicuro capiterà di scampare ad ogni pericolo; è il senso
della scritta che accompagna il San Cristoforo affrescato su un pilastro
della basilica dell'Assunta a Muggia Vecchia, richiamato da vicino in
quello che campeggia all'interno della Pieve di San Pietro di Feletto:
Christofori sancti speciem quicumque tuetur illum quotidie nullo languore tenetur (Chiunque mira l'immagine di san Cristoforo, per quel giorno
sarà immune da ogni malanno – figura pagina seguente).
313
Nel cuore, oltre che
nelle preghiere della gente comune, erano particolarmente
presenti san Biagio, invocato
contro i mali alla gola, san Vito
contro i morsi dei serpenti, san
Pancrazio contro i crampi e i geloni, Osvaldo per ottenere la
protezione dei raccolti, nonché
contro i pericoli a cui andavano
incontro i boscaioli, sant'Urbano
per ottenere la pioggia (nella
pala a Val di Montaner il Moretto nel 1583 l'ha raffigurato appunto con l'attributo di una nuvoletta), san Donato contro i
temporali, san Floriano contro
gli incendi, mentre san Leonardo
è sempre stato considerato come
il patrono dei prigionieri.
Tra le sante ausiliatrici,
sant'Anna veniva invocata dalle
giovani mamme per ottenere la
grazia di rimanere incinte, mentre santa Margherita d'Antiochia perché il parto andasse a buon fine;
quando poi alle donne che avevano appena partorito il latte stentava a
montare, qualcuna non disdegnava di recarsi in cima al colle che sovrasta
la pieve di Sant'Andrea di Bigonzo per invocare san Mamante, facendosi
abluzioni al seno con l'acqua benedetta che sgorgava da una vicina sorgente.
Al santuario di Sant'Augusta ci si recava per ottenere la guarigione dal mal di schiena passando tra le due colonnine che sorreggono l'arca;
oppure dal mal di testa inserendo il capo nelle aperture di una cancellata
in ferro battuto che fa da recinto al luogo in cui il 27 marzo 1450 ne furono rinvenute le ossa in un'urna di pietra.
Alla giovane martire serravallese si ricorreva soprattutto perché
venisse alleviato il mal di denti, anche se era sant'Apollonia deputata a
questo scopo specifico, così come sant'Agata veniva invocata contro i dolori al seno, santa Otilia contro le malattie degli occhi e degli orecchi e infine sant'Orsola per ottenere la buona morte.
314
Di Santa Lucia, protettrice della vista, nell'arcipretale di Santa
Lucia di Piave si conserva una statua dissotterrata tempo fa durante i lavori di sterro per la costruzione di una strada, un manufatto davvero singolare perché, al posto del consueto piatto con posati gli occhi del martirio, tiene con la destra una coppa nella quale viene raccolto il sangue che
esce dal petto; si tratta di un possibile richiamo ad una dea pagana della
fertilità, se non addirittura di una primitiva raffigurazione della Madonna
del latte, in collegamento con la veneratissima Madonna del Sacro Calice
del monastero di Follina, dal momento che il luogo del suo rinvenimento
in origine faceva parte di una grancia alle dipendenze degli stessi monaci
cistercensi di Follina (nella foto il chiostro duecentesco).
Il riferimento alla Leggenda del Santo Graal non pare del tutto
fuori luogo; infatti, secondo la tradizione fatta propria dal ciclo bretone, la
coppa nella quale Giuseppe d'Arimatea ha raccolto il sangue di Cristo morente sulla croce, la stessa utilizzata nell'ultima cena, nell'immaginario
collettivo del mondo cavalleresco è diventata il simbolo della perfezione
spirituale, oltre che di ascesa verso la santità, ciò che si può raggiungere
solo con la purezza del cuore.
Tra le altre sante, Barbara veniva invocata contro i fulmini e la
morte violenta, sant'Agata contro le malattie dei seni, Apollonia contro il
mal di denti, Rita da Cascia, protettrice delle donne infelicemente sposate,
era invocata nelle situazioni disperate patrona dei casi impossibili, Agnese
315
era la protettrice delle vergini, come anche Maria Goretti, Cecilia dei musicisti, Teresa d'Avila degli orfani e delle persone che si erano dedicate
alla vita religiosa; santa Eurosia invocata contro i fulmini e la tempesta,
era la protettrice dei campi, delle messi e dei raccolti.
Conclusione
Nella società odierna, la devozione verso i santi popolari è un po'
passata di moda: bisogna riconoscere che essi hanno trovato dei formidabili concorrenti negli uomini di scienza e nei tecnici, per cui, per esempio, i santi Sebastiano e Rocco, oppure le sante Apollonia, Lucia e Agata,
solo per citarne alcuni, devono fare i conti con gli odierni dentisti, oculisti
e medici in genere.
Per molti studiosi questa eclissi dei buoni santi di una volta suona come un fenomeno deprecabile; essi infatti, per aver saputo far valere
in modo eccezionale le loro specifiche virtù, sono considerati dai cristiani
come parte integrante delle loro comunità, quali espressione dei doni che
ciascuno di noi ha ricevuto e che, indistintamente, è tenuto a far valere,
pur nelle difficoltà del vivere quotidiano.
C'è un detto popolare che dice : “Aiutati che il ciel ti aiuta”, per
cui giustamente, come ha scritto ancora Meneghetti (op. cit., p. 165) i miracoi se podarie inparar a farseli fra de nojaltri, jutandose, anca sol co
'na jotha de sangue, in modo che no 'l manche mai co l'ocore. Inte 'sto
modo se podharia permeterghe a altri, che magari gnanca no i ne conosce, de dir: “anca mi ò 'vu un miracol!”.
E' risaputo che per le genti venete, che vivono nell'area prealpina e che hanno tratto la propria linfa vitale dalla solidità dell'esperienza
religiosa, un punto di forza è costituito proprio dalla solidarietà sociale;
emblematica in questo senso è la raffigurazione delle Opere dell'Amore,ossia delle Opere di misericordia corporale e spirituale, che compare
alla base della tela con la Gloria del Paradiso dipinta verso la metà dell'Ottocento da Giuseppe De Lorenzi per la chiesa di Roverbasso, in comune di Codognè.
316
Foto degli anni '30 con veduta del Praderadego
e della chiesetta dei Santi Fermo e Rustico
La conferma che la psicologia religiosa dei nostri antenati possa
trovare facile riscontro anche nella realtà odierna possiamo averla dalla
seguente iscrizione di una lapide murata sulla facciata dell'antica chiesetta
di Praderadego, intitolata ai Santi Fermo e Rustico:
HIC / INFIRMI FIRMUM / URBANI RUSTICUM / SILVESTREM VALETUDINEM / FIRMITATEMQUE / OREMUS
(Qui, gli infermi pregano Fermo, la gente di città Rustico per ottenere la
sanità silvestre e la salute fisica).
La pala d'altare dipinta da Emilio Toffolatti (Valmareno 1859 –
1947) nel 1930, con i titolari Fermo e Rustico in abiti militari davanti all'Arena di Verona, evidentemente richiama allo stato di salute fisica e
mentale a cui aspirano tutti i villeggianti di montagna, tant'è vero che la
tela è stata eseguita come ex voto dai coniugi Agostino ed Emilia Pierobon nei riguardi di questo luogo che ha favorito il loro incontro; infatti sul
retro si legge la scritta:
Nel luogo che conobbe il sorgere dell'amore / che ci rende felici rappresenti questo quadro / il nostro ringraziamento ed il nostro voto. / 9 Agosto
1930 A. VIII / Praderadego. Emilia e Dottor Agostino Pierobon.
317
Siccome poi ciascuno di noi è parte integrante dell'intero universo, ci pare opportuno chiudere queste note sull'arte dai luoghi della intercessione e della grazia facendo riferimento a quel malato speciale che è il globo
terrestre, gravato da problemi ecologici e sociali d'ogni
tipo, per cui si rende indispensabile, oggi più che mai,
il recupero di un rapporto
più equilibrato fra l'uomo e
la natura, pena la sopravvivenza dell'uomo stesso con
l'inabitabilità del suo pianeta: basterebbe magari prendere spunto dal messaggio
del Poverello d'Assisi, come
bene ci presenta La predica
agli uccelli disegnata da Antonio Boatto nel 2005 (riprodotta qui accanto).
[Diverse riproduzioni di opere illustrate nella relazione di Giorgio Mies
sono presenti anche nella sezione di fotografie a colori presenti negli Atti]
318
Medici a Sacile e Polcenigo nel Settecento
Relazione presentata al Convegno da
Alessandro Fadelli
Le pagine che seguono intendono divulgare qualche informazione archivistica (corredata, quando ciò è stato possibile, di spunti biobibliografici) su alcuni medici – alcuni trattati singolarmente e in maniera
più diffusa, altri citati insieme e con minor dovizia di informazioni – che
hanno operato nel XVIII secolo in due cittadine del Friuli poste presso il
confine con l’attuale Veneto, ossia Sacile, situata in pianura lungo il Livenza, e Polcenigo, posta poco più a nord sulla Pedemontana liventina, ai
piedi del Cansiglio e del Monte Cavallo, oppure originari di questi luoghi,
ma operanti altrove. La scelta di trattare proprio queste due località e non
altre vicine (come Caneva, Aviano oppure Maniago) e proprio quel secolo
piuttosto di altri deriva, molto semplicemente, dall’abbondanza di notizie
sul tema che lo scrivente ha finora accumulato sui due centri per il Settecento, unita alla scarsità (e spesso alla poca precisione) di contributi già
pubblicati al riguardo, tali da rendere l’argomento interessante e ancora
aperto a numerose integrazioni e correzioni1.
Come si avrà modo di spiegare, le due cittadine ebbero tra l’altro
la fortuna di dare i natali o di ospitare proprio in quel secolo, anche se
magari per poco tempo, alcuni medici di notevole interesse, e non solo
per gli studiosi di storia della medicina; inoltre, alcuni di questi professionisti ebbero agganci o riferimenti di qualche tipo con il vicino Veneto
1 Nella vasta bibliografia al riguardo, si segnalano per il Friuli, oltre ad altri testi che
compariranno nelle note successive, almeno i basilari P. Someda de Marco, Medici forojuliensi dal sec. XIII al sec. XVIII, Udine 1963 (soprattutto pp. 105-182) e P. C. Caracci,
Appunti per una storia della medicina in Friuli, «Atti dell’Accademia di Scienze, Lettere
e Arti di Udine», serie VIII, v. II (1973-1975), pp. 1-104 (in particolare, per il Settecento,
pp. 67-86), nonché il volume collettivo Sanità e società. Friuli Venezia Giulia. Secoli
XVI-XX, Udine 1986, e il riassuntivo G. Ellero (a cura di -), I secoli d’oro della medicina. La scuola medica di Padova e il Friuli, Udine 1987. Per l’area veneta cfr. almeno L.
Premuda, La medicina, in G. Arnaldi e M. Pastore Stocchi (a cura di -), Storia della cultura veneta, a cura di, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, pp. 229-269, con cenni anche al
Pujati. In prospettiva generale si rinvia soltanto a F. Della Peruta (a cura di -), Storia d’Italia, Annali, 7: Malattia e medicina, Torino 1984 (soprattutto E. Brambilla, La medicina del Settecento: dal monopolio dogmatico alla professione scientifica, pp. 3-147), di
nuovo con brevissimi cenni qua e là al Pujati, e a G. Cosmacini, Storia della medicina e
della sanità in Italia, Roma-Bari 1987 (in particolare pp. 201-254).
319
orientale, in particolare con il Vittoriese e il Feltrino, il che li lega ulteriormente con il tema del presente convegno.
Tra i medici sacilesi e polcenighesi qui di seguito ricordati – che,
va subito precisato, per ragioni di spazio e di approfondimento delle ricerche sono comunque solo una selezione fra tutti quelli rintracciati e non la
totalità – ci si è soffermati maggiormente su alcuni, ritenuti per qualche
motivo più degni di attenzione degli altri.
Fra loro figurano personaggi già noti (si veda per esempio il Pujati, finito addirittura come prestigioso docente all’università di Padova)
accanto ad altri ingiustamente sottovalutati o dimenticati, oppure ad oggi
del tutto sconosciuti, ma che ebbero tutti una qualche risonanza al di fuori
del ristretto ambito locale per la loro attività medica o per aver dato alle
stampe qualche opera, non necessariamente legata – come si vedrà – alla
professione esercitata.
Nonostante la scrupolosità delle ricerche, non è però da escludere che qualche altro medico, qui frettolosamente citato, meritasse uno spazio maggiore, o che ci si dovesse occupare di altri addirittura non menzionati: come sempre accade, è stato necessario operare delle scelte soggettive, limitate invero dal fatto che chi scrive non si occupa esclusivamente e
professionalmente di storia della medicina ma di storia locale generale.
Abbiamo poi seguito soltanto le figure dei medici fisici, tralasciando invece chirurghi (all’epoca le due professioni erano ancora ben
distinte, con la prima che godeva di molto maggior prestigio rispetto alla
seconda) e farmacisti, pur presenti tanto a Sacile che a Polcenigo, che meriterebbero uno studio a parte per la mole di notizie al riguardo2.
SACILE
GIUSEPPE ANTONIO PUJATI
Un posto preminente nel nostro discorso spetta sicuramente a
Giuseppe Antonio Pujati. Vista la sua assoluta rilevanza e la complessa vicenda biografica e bibliografica, converrà qui limitarsi a pochi e necessariamente incompleti cenni, rinviando a studi più ampi e approfonditi per
ulteriori dettagli sul suo pensiero medico e sulla sua produzione scritta,
2 Per i chirurghi, basti pensare alla lunga “dinastia” dei Pellatis a Sacile e, per i farmacisti, ai Boccardini e ai Puppi di Polcenigo, sui quali si avrà prima o poi modo di ritornare.
320
ma cogliendo comunque l’occasione per rimediare ad alcune sviste e
omissioni compiute da altri in passato, poi pigramente ricopiate da tanti
frettolosi epigoni3.
Giuseppe Antonio Pujati (a volte meno correttamente citato
come Pujatti, con la -t- geminata) nacque a Sacile il 28 maggio 1701 da
Domenico e da Angela Grosso (non Maddalena Angela, come si legge in
alcune biografie, dove l’abbreviazione mad.a, ossia madonna, è stata confusa col nome proprio!), originaria di Conegliano. Fu poi battezzato il 30
dello stesso mese, avendo come padrino il nobile compaesano Antonio
Monte e come madrina, quasi a profetizzare il suo luminoso futuro nel segno di Ippocrate, la signora Giulia, moglie del noto medico fisico e nobile
sacilese Felice Pelizza e madre di Francesco, nato l’anno precedente, che
diventerà poi suo grande amico4. Il padre Domenico, originario di Puja di
Prata (da cui il cognome), era un commerciante di vari generi (sardelle,
sardelloni, tela, cordella ecc.) che evidentemente aveva ben scalato le gerarchie sociali sacilesi.
Giuseppe Antonio studiò dapprima dai Gesuiti e poi filosofia e
medicina all’università di Padova, dove ebbe come maestri illustri docenti
come il toscano Antonio Vallisneri (o Vallisnieri) senior per medicina teorica, il forlivese Giovan Battista Morgagni per anatomia e il padovano
Alessandro Knips Macoppe per medicina pratica5. Laureatosi giovanissimo (aveva appena diciott’anni) a Padova il 19 maggio 1719 6, praticò il tirocinio come assistente del medico di origine sacilese Doro (più probabil3 Nell’ampia bibliografia sul Pujati, si rinvia per brevità alla voce relativa, realizzata
da Bruno Lucci, comparsa in C. Scalon-C. Griggio-U. Rozzo (a cura di -), Nuovo Liruti.
Dizionario biografico dei Friulani, 2. L’età veneta, Udine 2009, 3 voll., III, pp. 20822086, con qualche imprecisione ma buona bibliografia precedente, nella quale si segnalano soltanto l’ormai classico G. Marchesini, Un illustre medico friulano del Settecento:
Giuseppe Antonio Pujati, «Atti dell’Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Udine», s.
VI, vol. IX (1945-48), pp. 319-348 (non esente però da errori e lacune), e la più sintetica
e recente scheda di L. Bonuzzi, Giuseppe Antonio Pujati, in S. Casellato-L. Sitran Rea (a
cura di -), Professori e scienziati a Padova nel Settecento, Treviso 2002, pp. 483-485,
anch’essa con alcune sviste e mancanze bibliografiche.
4 Archivio Parrocchiale di Sacile (d’ora in poi APS), Battesimi 1672-1728, ad annum. Ringrazio la dott.ssa Graziana Modolo, conservatrice dell’archivio sacilese, per la
gentile disponibilità sempre rivelata durante le ricerche ivi compiute. Per le varie famiglie nobili sacilesi più volte citate nel testo (Pelizza, Fabio, Martinelli, Monte, Linardelli,
Vando, Bellavitis, Doro ecc.), si vedano le schede relative in appendice a N. Roman (a
cura di -), Nobili di Sacile (1481-1797). Momenti di vita pubblica e privata tratti da documenti d’archivio, catalogo della mostra, Sacile 1994, e più in generale l’intero volume,
nonché l’ormai classico G. Marchesini, Annali per la storia di Sacile, Sacile 1957, passim.
5 Su questi e altri illustri docenti dell’ateneo patavino qui nominati, cfr. le schede relative in Casellato-Sitran Rea (a cura di -), Professori e scienziati a Padova, op. cit., passim.
321
mente Leonardo, non Daniele, come si è scritto), attivo e ben noto allora a
Venezia7. Poi esercitò in proprio, frequentando nel contempo il vivacissimo ambiente culturale e artistico, e non solo medico, della città lagunare.
Già nel 1726, a soli 25 anni, pubblicava un’opera a stampa, Dissertazioni
fisiche, ed un’egloga intorno l’origine delle fontane (Venezia, Hertz), che
fu tra l’altro in seguito lodata anche dal celebre studioso Lazzaro Spallanzani, e un’altra operetta in latino sul mercurio come medicamento interno
(De hydrargyri interno usu, Venezia, senza note editoriali). Sempre nel
1726 accettò la condotta medica sull’isola di Curzola, nella Dalmazia veneziana, anche per cambiare completamente clima allo scopo di curare
una grave infezione agli occhi che l’aveva allora colpito.
Nel suo soggiorno di tre anni sull’isola, in un ambiente selvaggio
e fra genti quanto mai rozze e ignoranti, compì alcune acute osservazioni
sul cosiddetto morbo narentano,
una forma di malaria che colpiva
coloro che tagliavano alberi lungo
il corso del fiume Narenta, trasmesso dalle numerose zanzare
(all’epoca non si era comunque
riusciti ancora a collegare le due
cose); osservazioni che trovarono
pubblicazione soltanto molti anni
più tardi, nel 1747, nel volumetto
in latino De morbo Naroniano
tractatus (Feltre, Bordoni).
Tornò in Friuli dalla Dalmazia nel 1729 per assumere la
condotta medica di Polcenigo, che
tenne per sette anni. Prima di arrivare nella cittadina sul Gorgazzo
aveva tentato di assumere la condotta della natia Sacile, che gli fu
però “soffiata” dall’amico Francesco Pelizza, figlio del già citato
6
Archivio Storico dell’Università di Padova (d’ora in poi ASUP), Atti ed esami per
licenze e dottorati in Sacro Collegio dei Filosofi e medici, 373, f. 3, 1719-1726. Per questa e per tutte le altre notizie provenienti da tale archivio, ringrazio di cuore il dott. Francesco Piovan e la dott.ssa Maria Grazia Bevilacqua del Centro per la Storia dell’Università di Padova, sempre disponibili a ogni richiesta.
7 Sull’interessante e poco nota figura di Leonardo Doro, che esercitò a lungo e con
notevole successo la professione medica, speriamo di ritornare in future ricerche.
322
Felice, come risulta dal contrastato verbale del consiglio cittadino del 30
aprile 1729, secondo il quale il Pujati ebbe 7 voti favorevoli e 21 contrari,
mentre il Pelizza ne ebbe 25 favorevoli, uno contrario e due astenuti8.
Sulla scelta di Francesco piuttosto che di Giuseppe Antonio avevano indubbiamente giocato un ruolo rilevante la veneratissima memoria
del padre Felice, vera istituzione della sanità sacilese per oltre quarant’anni (vedi più avanti per ulteriori particolari), ma anche il notevole “peso
specifico” sempre avuto dal clan dei Pelizza nel consiglio sacilese. Con il
“rivale” Francesco il Nostro restò comunque sempre in stretta amicizia,
nonostante alcune diversità di opinione su vari temi, e in costante contatto
epistolare, dagli anni Venti del secolo fino alla morte.
Mentre già esercitava a Polcenigo, il 28 novembre 1730 il medico sposò la nobile Teodora Mazzarolli di Sacile. Il matrimonio fu celebrato da don Girolamo Linardelli nell’oratorio privato dei nobili sacilesi Gaiotti, imparentati con i Mazzarolli, a Sarone di Caneva (oggi in realtà in
località Fiaschetti); i testimoni furono il nobile Giacomo Bellavitis e l’amico Francesco Pelizza9. Dall’unione nacquero, secondo quanto finora
conosciuto, ben sei figli, almeno cinque dei quali videro la luce proprio a
Polcenigo, secondo ritmi di gravidanza e parto – come si noterà – davvero
serrati, quasi a un anno di distanza l’uno dall’altro. Vediamone più da vicino i dati biografici, integrando e talvolta correggendo quanto scritto da
altri10. Un primo figlio di nome Domenico nacque il 31 agosto 1731 e fu
battezzato in tutta premura in casa per necessità (dunque in pericolo di
morte) da don Gregorio Nadin, parroco di Polcenigo; il giorno seguente,
sopravvissuto al parto e ai primi difficili momenti, furono completate le
cerimonie battesimali con l’assistenza dei padrini, i nobili sacilesi Alvise
Linardelli e il già più volte ricordato Francesco Pelizza. Il piccolo non
visse però a lungo, visto che morì a poco più di due anni il 21 novembre
8 Archivio storico comunale di Sacile (d’ora in poi ASCS), Libro delle parti 17101729, c. 198 e passim (devo questa e altre indicazioni tratte dai vari Libri delle parti sacilesi all’amico Fabio Metz, che ringrazio per la squisita gentilezza, come ringrazio Nadia Albano per aver facilitato ulteriori ricerche nell’archivio storico comunale, ora custodito presso la biblioteca di Sacile). Cfr. anche le note 23, 24 e 25.
9 APS, Matrimoni 1672-1769, ad annum. Errava dunque doppiamente Marchesini,
Un illustre medico friulano, op. cit., p. 322, quando scriveva che l’oratorio di Sarone apparteneva ai Pujati (!) e che uno dei testimoni era Giovanni Pelizza (in effetti la lettura
del nome di quest’ultimo non è facile).
10 Per quanto segue, cfr. Archivio Parrocchiale di Polcenigo (d’ora in poi APP), Battesimi 1731-1762, ad annum (anche per gli altri battesimi del periodo). Pure in questo
caso mi corre il gradito obbligo di ringraziare il parroco di Polcenigo, don Massimo Carlo, e il prof. Mario Cosmo, diligente custode dell’archivio parrocchiale polcenighese, per
la pazienza e la disponibilità dimostrate durante questa e tante altre ricerche.
323
del 1733, trovando sepoltura nell’arca familiare presente nel duomo sacilese11.
L’anno dopo la sua morte, come si vedrà, i genitori daranno lo
stesso identico nome a un altro figlio, seguendo una pratica allora normale nel caso assai frequente di premorienza di un nato.
Antonio Gaetano nacque invece il 5 agosto 1732 e fu battezzato
il giorno dopo dal prete sacilese don Vincenzo Vando su licenza del parroco polcenighese; ebbe come illustri padrini il conte Ottavio di Polcenigo e
la contessa polcenighese Anna Fullini. Da adulto scelse pure lui la professione medica, esercitando a lungo e con buoni risultati a Spilimbergo e
dando amorevolmente alle stampe, come si avrà modo di dire, due opere
postume del padre. Giovanni Pietro Paolo Pujati nacque il 3 agosto 1733
(e non il 4, giorno invece del battesimo, come più volte appare scritto):
non era dunque il primogenito, come spesso si scrive, ma il terzo nato. Fu
battezzato dal conte don Giovanni Bellavitis, parente della madre, su licenza del parroco polcenighese, e tenuto al sacro fonte dal conte Pietro
Paolo (da cui il suo secondo e terzo nome) di Polcenigo e dalla contessa
Verde Laura, vedova del conte Girolamo pure di Polcenigo.
Da adulto ebbe una luminosissima carriera: divenuto religioso
somasco e poi benedettino col nome di Giuseppe Maria, fu notissimo e
raffinato teologo giansenista, docente all’Università di Padova, fecondo
scrittore e acuto polemista, morendo poi anziano nel 182412.
Il secondo Domenico nacque probabilmente il 15 settembre 1734
(il numero del giorno è poco chiaro) e fu battezzato il 16 da don Marc’
Antonio Fadalti di Sacile, appositamente autorizzato dal parroco polcenighese, avendo come padrini il conte Francesco Fullini e la contessa Verde
Laura, moglie di Pietro Paolo di Polcenigo. Una volta cresciuto, si laureò
a quanto pare in legge ed era ancora vivo nel 1824, quando morì a casa
sua a Venezia l’appena nominato fratello Giovanni-Giuseppe Maria. Carlo
Angelo nacque infine il 19 luglio 1736 – il padre a quella data era dunque
ancora a Polcenigo – e fu battezzato il giorno dopo dal sacilese don Antonio Mazzarolli (parente della madre?), sempre su concessione del parroco
di Polcenigo; padrino fu Giovanni Marigotti, pure lui di Sacile. Da adulto
divenne anch’egli chierico regolare somasco, non raggiungendo però la
celebrità del fratello Giovanni.
Dopo la permanenza a Polcenigo – dove, pur non trascurando gli
amici e i parenti sacilesi, allacciò cordiali rapporti con i giusdicenti e con
11 APS, Morti 1672-1737, ad annum.
12 Su Giovanni-Giuseppe Maria Pujati
cfr. la voce relativa, a cura di Michela Catto,
in Scalon-Griggio-Rozzo (a cura di -), Nuovo Liruti, op. cit., III, pp. 2086-2089.
324
altri nobili e borghesi locali, come dimostrano anche i padrini di alcuni
suoi figli – il Pujati si trasferì a Pordenone, dove assunse una prestigiosa
condotta medica del valore di duecento ducati annui.
Durante la permanenza pordenonese pubblicò un’altra opera in
latino, Decas rariorum medicarum observationum (Venezia, Coletti,
1737), la quale, nonostante alcuni errori di stampa dei quali l’autore si dispiacque molto con l’amico medico Gasparo De Zorzi (se ne parlerà più
avanti), gli diede notevole fama e in breve tempo divenne rara e non facile
da trovarsi.
Manteneva o intesseva intanto numerosi contatti con famosi medici e docenti universitari dell’epoca, come i già citati Morgagni e Knips
Macoppe, e anche con insigni letterati, come il veneziano Gasparo Gozzi
(1713-1786), il quale possedeva una villa di campagna a Visinale di Pasiano frequentata anche dal Nostro.
Gozzi lo ricordò più volte con profonda amicizia e con sincera
ammirazione nei suoi scritti, definendolo di volta in volta bello, giocondo,
glorioso e sereno. Nel 1737 entrò in una lunga polemica a suon di lettere
con il famoso naturalista e letterato Anton Lazzaro Moro di San Vito al
Tagliamento (1687-1764) a proposito dell’ardita per i tempi, ma sostanzialmente corretta, teoria di quest’ultimo sull’origine dei fossili rinvenuti
sulle montagne friulane, che il medico sacilese contestò13.
Dopo sette anni, nel febbraio del 1743, il Pujati lasciò Pordenone
per l’ancor più remunerativa (ben 350 ducati annui, poi divenuti 400)
condotta medica di Feltre, dove operò intensamente e con vasti consensi
per diversi anni, pubblicando nel frattempo, oltre al già citato De morbo
Naroniano tractatus, che ebbe subito buon successo14, altre due importanti opere.
La prima fu Riflessioni sul vitto pitagorico (Feltre, Foglietta,
1751), contro la dieta vegetariana allora propugnata da alcuni come rimedio a molte malattie, che riscosse una positiva accoglienza nel mondo
scientifico e più in generale letterario dell’epoca, anche se suscitò qualche
polemica reazione dei sostenitori dei vegetariani15.
Su taluni punti di questo libro anche l’amico Pelizza dissentiva,
come si evince da una lettera inviatagli dal Pujati il 24 maggio 1752, nella
13 Cfr. P. G. Sclippa (a cura di -), Anton Lazzaro Moro. Epistolario con bibliografia
critica, catalogo dei manoscritti e tre opere inedite, Pordenone 1987, pp. 16, 62 e passim.
14 Si veda ad esempio la positiva recensione in Novelle della Repubblica Letteraria
per l’anno MDCCXLVIII, Venezia 1748, pp. 58-60.
15 Fra i tanti che all’epoca ne parlarono con toni positivi, cfr. almeno F. A. Zaccaria,
Storia letteraria d’Italia, V, Venezia 1753, p. 168 e sgg.
325
quale gli chiedeva di meglio chiarire i motivi del suo disaccordo 16. La seconda opera invece fu la lunga Lettera (...) al figliuolo Anton Gaetano, inserita nella grande Raccolta d’Opuscoli scientifici e filologici dell’abate
Angelo Calogerà (Venezia, Occhi, 1754); in essa prendeva posizione in
una querelle medico-filosofica a livello europeo sui rapporti fra corpo e
anima creatasi tra gli illustri studiosi Stahl e Hoffmann, schierandosi a favore di quest’ultimo.
Nel Feltrino il Pujati notò per primo in Italia il diffondersi fra le
masse contadine di una nuova malattia endemica, la pellagra, originata da
mancanza di vitamina PP dovuta al prevalere nell’alimentazione della polenta che ne era priva.
Il morbo fu da lui provvisoriamente battezzato “scorbuto alpino”
per via di una vaga somiglianza con lo scorbuto da avitaminosi C.
Il sacilese al riguardo
non pubblicò però nulla, ma le
sue osservazioni e considerazioni
ebbero un notevole influsso sul
medico feltrino Iacopo Odoardi
(1725-1784), protomedico a Belluno e suo fedele seguace, considerato
poi
lo
scopritore
“ufficiale” del nuovo morbo in
Italia17. Pur abitando a Feltre,
continuava intanto, come dimostra la sua corrispondenza con il
Pelizza, a seguire le vicende politiche, sociali ed economiche sacilesi, soprattutto la lunga e aspra
contesa apertasi fra il Consiglio
dei nobili e il Popolo18.
Nel 1754, all’apice ormai della notorietà, lasciò Feltre e
16
17
Cfr. Marchesini, Un illustre medico friulano, op. cit., p. 334.
L’Odoardi pubblicò a Venezia nel 1776 l’opera D’una specie particolare di scorbuto, tributando il merito delle prime osservazioni sul morbo al Pujati. In Europa il primo a occuparsi di pellagra fu, a quanto pare, lo spagnolo Casal già nel 1717, ma quasi
certamente il Pujati ne ignorava le ricerche e operò quindi in autonomia le sue osservazioni. Sulla pellagra, cfr. A. De Bernardi, Il mal della rosa. Denutrizione e pellagra nelle
campagne italiane fra ’800 e ’900, Milano 1984, e, per il Friuli e con cenni anche al Pujati, O. Luzzatto, Studi friulani sulla pellagra, «Atti dell’Accademia di Scienze, Lettere e
Arti di Udine», s. VII, vol. I (1957-60), pp. 410-443.
18 Cfr. Marchesini, Un illustre medico friulano, op. cit., p. 337.
326
successe per volere del Senato veneziano – il decreto è datato 18 aprile –
al defunto maestro Knips Macoppe sull’importantissima cattedra di medicina pratica dell’Università di Padova, dove tenne il 20 dicembre un’applaudita orazione d’ingresso intitolata De iis, quae ad praxim medicam
cum laude exercendam necessaria esse videntur. La sua brillante carriera
universitaria fu contraddistinta dall’adesione alla prestigiosa accademia
patavina dei Ricovrati (17 maggio 1755) e da un’altra notevole pubblicazione in latino sull’alimentazione degli ammalati (De victu febricitantium
dissertatio, Padova, Tipografia del Seminario, 1758), ampiamente elogiata da molti in Italia e pure all’estero, dove fu favorevolmente recensita anche in note riviste scientifico-letterarie di Berna e di Lipsia. Fu però sempre più disturbato dalla crescente gotta, finché un’infezione alle vie urinarie lo portò alla morte il 12 giugno 1760 ad appena 59 anni. Fu sepolto
con grandi onori nella chiesa padovana di San Giorgio, poi demolita (così
scomparvero la sua lapide e l’epigrafe dettata dall’abate Giuseppe Gennari, suo primo biografo).
Il figlio Anton Gaetano, anche lui medico come s’è visto, curò
con sincera devozione filiale la stampa di altre sue due interessanti opere
uscite così postume, Della preservazione della salute de’ letterati (Venezia, Zatta, 1762), che ricevette le lodi, fra gli altri, di Giuseppe Baretti nella Frustra letteraria ed ebbe poi una seconda edizione nel 176819, e le
Dissertationum medicae quinque in latino (Venezia, Pasquali, post 1771),
anch’essa accolta assai positivamente. Altre sue opere mediche, rimaste
solo manoscritte, e una Favola pastorale composta a quanto pare nel 1741
non ci sono invece giunte.
Appassionatissimo di caccia e di uccellagione, grande conversatore, affabile e generoso, oltre che di medicina il Pujati si occupava con
ardore e competenza pure di filosofia, di musica (suonava a quanto pare
assai bene il violino, ricevendo le lodi anche dell’amico Gasparo Gozzi) e
di poesia (componeva versi pregevoli, a detta dei contemporanei)20.
Resta, per il suo tempo segnato da un lungo periodo di trapasso e
di incertezze in campo medico, un seguitissimo maestro e un innovatore
nell’interpretazione e nella cura delle malattie, scevro da molti dei pregiu19
L’opera si inserisce in un filone saggistico all’epoca piuttosto fortunato: cfr. G.
Olmi, Salute e malattie della “gente di mondo” al tramonto dell’antico regime, in P.Prodi-A. Wandruszka (a cura di -), Il luogo di cura nel tramonto della monarchia d’Asburgo, Bologna 1995.
20 Una sua poesia è per esempio contenuta nella piccola pubblicazione (una ventina
di pagine) Rime in lode del molto rev. ed ecc. sig. dott. d. Carlo Visconti viniziano, predicatore insigne nel duomo di Pordenone, nella quaresima dell’anno 1742, Venezia, Antonio Mora, 1742, che raccoglie versi – fra gli altri – anche di Gasparo Gozzi e della moglie Luisa Bergalli.
327
dizi e delle superstizioni ancora comunissime fra i suoi colleghi, anche se
il suo magistero fu presto superato dagli ulteriori e rapidi progressi dell’arte medica.
Nel Novecento fu deciso di dedicargli la Scuola Normale (poi
Istituto Magistrale, ora Liceo) sacilese.
Lapide dedicata a Giuseppe Antonio Pujati (a Feltre)
328
FRANCESCO PELIZZA
Figlio del già ricordato nobile e medico Felice Pelizza e della
moglie Giulia (la quale morirà poi il 30 aprile 1760 a 84 anni), Francesco
era nato a Sacile l’11 febbraio 1700, avendo come padrini di battesimo il
nobile compaesano Antonio Vando e Ottavia, moglie dell’altro nobile Belisario Sanfior di Serravalle, e ricevendo come nome completo l’altisonante Francesco Cesareo Ignazio21.
Seguì le orme del padre, il quale praticò per oltre 42 anni – dal
1676 alla morte, avvenuta a 79 anni il 27 luglio 1719 – l’arte di Ippocrate
nella cittadina sul Livenza, lasciando di sé un ottimo ricordo, tanto da essere definito dopo la sua scomparsa di gloriosa memoria22.
Francesco si laureò ancor giovane (aveva solo diciannove anni) a
Padova nel 1719, nello stesso anno dunque del fraterno amico Giuseppe
Antonio Pujati e con gli stessi illustri docenti23.
Membro di un’antica e illustre casata nobiliare, ricoprì diversi
incarichi pubblici di grande prestigio nella comunità sacilese: fu per
esempio più volte Provveditor di Comun (importante carica riservata ai
nobili), dapprima nel 1724, ancora giovanissimo, e poi nel 1726, nel
1728, nel 1740, nel 1748, nel 1750, nel 1752, nel 1756, nel 1758, nel
1760 e nel 1762, nonché Deputato alle affittanze nel 175724.
Assunse la condotta medica di Sacile nell’aprile del 1729, battendo come s’è detto lo stesso Pujati e un altro concorrente, Carlo Castelli
(il già incontrato medico sacilese Leonardo Doro, il quale in Venetia esercita la professione con molto applauso, pur molto corteggiato dal Consiglio, aveva a malincuore subito rifiutato l’offerta per gli impegni che ha
nella Dominante).
Questo avvenne senza alcun problema di “conflitto d’interessi”,
nonostante Francesco facesse parte a pieno titolo del Consiglio cittadino
deputato alla scelta del medico condotto: nella votazione semplicemente
si astenne, come del resto fecero i suoi parenti di secondo grado Girolamo
21 APS, Battesimi 1672-1728, ad annum.
22 Così è ricordato in ASCS, Libro delle
parti 1710-1729, cc. 106r. e 125r. L’atto di
morte di Felice Pelizza è invece in APS, Morti 1672-1737, ad annum.
23 ASUP, Atti ed esami per licenze e dottorati in Sacro Collegio dei Filosofi e medici, 373, f. 3, 1719-1726.
24 Si vedano i vari Libri delle parti del Consiglio cittadino, alcuni dei quali parzialmente riportati in G. Zoccoletto, L’ospitale di S. Gregorio a Sacile nei ricordi di Polidoro del Ben, Sacile 2000, pp. 85-184 Le cariche erano annuali e doveva esserci un anno di
“vacanza” fra una e l’altra, il che spiega la curiosa alternanza biennale verificatasi fra il
1748 e il 1762.
329
Bellavitis e Pietro Vando. Il Pelizza subentrava così nell’incarico all’appena defunto Gio Batta Martinelli, che dopo una decina di anni di onorato
servizio – aveva a sua volta sostituito proprio Felice, padre di Francesco –
retribuiti con 277 ducati annui era stato costretto a rinunciare all’impegnativo incarico per l’avanzata età e le indispositioni di una salute ormai
cagionevole.
Il Martinelli morì infatti a 67 anni d’età il 21 marzo dello stesso
1729, pure lui da tutti rimpianto attesa la virtù e somma carità25. La nomina del Pelizza fu però tutt’altro che tranquilla e lineare, visto che egli
stesso aveva dato origine, ancor prima della scelta definitiva poi caduta su
di lui, a varie altercationi in Consiglio per l’entità dello stipendio, che per
i soverchianti debiti dell’amministrazione cittadina era stato ridotto a soli
180 ducati annui, gli stessi percepiti dal medico Zaghis nella prima condotta del lontanissimo 1591. Sembrava che Francesco volesse aumentare
a proprio esclusivo vantaggio il salario del condotto a ben 277 ducati, ma
alla fine, avuta piena ragione in Consiglio ed eletto, con un colpo di scena
levatosi in piedi ringraziò il Magnifico Consiglio e disse che, essendogli
ben noto lo stato della povera Comunità e luoghi pii, si teneva solo 217
ducati e donava gli altri sessanta come parerà meglio a sollievo della Comunità e luoghi pii26.
Francesco Pelizza si vide più volte rinnovata la condotta per oltre vent’anni, fino al 1751, quando rinunciò e fu sostituito dopo ballottazione del consiglio cittadino dal nobile Francesco Doro, figlio del già citato medico Leonardo, il quale batté nettamente la concorrenza degli altri
tre medici candidatisi all’incarico, ossia i veneziani Osvaldo Rossi e Giovanni Domenico Roberti e il veneto Antonio Turriani.
In un censimento a scopo fiscale condotto nel 1754 dalla Serenissima risultava compreso nella seconda classe di tassazione, come l’altro medico sacilese Michelangelo Caroldi e il chirurgo Gasparo Pellatis,
mentre i colleghi Ermacora Fabio e Francesco Doro figuravano nella ben
più prestigiosa quarta classe di tassazione27.
Il Pelizza aveva intanto pubblicato nel 1741 una lunga e complessa dissertazione in latino sulla dissenteria, De dysenteria, inserita nel25 ASCS, Libro delle parti 1710-1729, cc.198r-199v. L’atto di morte del Martinelli
(1729) si trova in APS, Morti 1672-1737, ad annum. I Martinelli erano diventati nobili
soltanto nel 1720, proprio con il medico Gio Batta e il fratello Angelo: cfr. N. Roman (a
cura di -), Nobili di Sacile, op. cit., p. 162.
26 Cfr. sempre il Libro delle parti 1710-1729, passim, nonché Zoccoletto, L’ospitale
di S. Gregorio, op. cit., pp. 107-113.
27 Biblioteca Civica di Udine, Manoscritti, Fondo principale, ms. 1539, Cattastico
delle persone tutte che esercitano arti liberali o mecaniche nella Patria del Friuli.
330
la Raccolta d’Opuscoli scientifici e filologici del Calogerà, che meriterebbe uno studio approfondito28. Il lavoro, seppur assai tardivamente (nel
1757!, a meno che non si tratti di un’altra, successiva e ignota sua opera
sul tema...), meritò anche un’ampia e argomentata recensione su un’importante rivista francese qual era il parigino Journal œconomique, all’interno della rubrica Extraits des livres, journaux et lettres d’Italie, dimostrazione questa della vasta circolazione dei nuovi testi medici non solo in
Italia, ma anche nell’intera Europa29.
Si dilettò anche di letteratura e fece parte, insieme con Ermagora
Fabio, del quale si dirà più avanti, dell’Accademia degli Invitati di Sacile30.
Non si è trovata per il momento traccia della sua morte nei registri parrocchiali sacilesi: salvo omonimie, tutt’altro che infrequenti in passato, pare comunque che fosse ancora vivo nel 1779.
ERMACORA ANTONIO FABIO
Nacque a Sacile il 16 marzo 1716 (e non nel 1710, come altrove
è stato ipotizzato), figlio del nobile sacilese Giacomo del fu Carlo Fabio,
capitano d’Aviano (poi morto a 73 anni il 20 aprile 1751), e dell’altrettanto nobile Giulia del fu Felice Gaiotti, sua sposa dal 1707, avendo come illustri padrini di battesimo i nobili sacilesi Annibale Vando e Nicolò Monte31.
Si laureò a Padova nel 1739 a ventitrè anni d’età32. Sposatosi con
una certa Maria, di estrazione popolare e non nobile, ebbe vari figli, molti
dei quali però persi in tenera o tenerissima età, come Giulia, morta dopo
cinque giorni dalla nascita nel 1752, Giacomo, morto a undici giorni nel
1753, o un’altra Giulia, deceduta dopo soli quattro giorni di vita nel 1756.
28 La dissertazione occupa le pp. 387-462 del vol. 23, pubblicato a Venezia presso Simone Occhi nel 1741.
29 Journal œconomique, decembre 1757, pp. 123-147. Nel testo si parla di lui come
François Pelizza, medeçin de Sacile, ville de l’Etat de Venise, dans la Marche Trevisane
(p. 123).
30 È quasi sicuramente sua una poesia inserita nell’opera Componimenti poetici per
le faustissime nozze di sua eccellenza la n. d. Faustina Marchese Savorgnan con sua eccellenza il n. h. Lodovico Rezzonico, Venezia, presso Simone Occhi, 1763, dove compare
insieme con rime in italiano e in latino di svariati altri autori più o meno noti, come Eustachio Cabassi, Giacomo (Jacopo) Facciolati, Egidio Foresti, Domenico Maria Manni,
Giovanni Sografi e Antonio Tirabosco.
31 APS, Battesimi 1672-1728, ad annum.
32 ASUP, Atti ed esami per licenze e dottorati in Sacro Collegio dei Filosofi e medici,
375, f. 153, 1732-1743.
331
Gli sopravviverà Carlo, che sarà costretto negli anni Novanta del
secolo a una lunga battaglia per vedersi riconosciuta la possibilità di sedere nel Consiglio dei nobili sacilese, data la non nobiltà della madre.
Come il Pelizza, ebbe anch’egli vari incarichi di prestigio nell’amministrazione cittadina: fu ad esempio Provveditor di Comun negli
anni 1747 e 1749 ed Esattore dell’ospedale di San Gregorio nel 1754.
Dopo essersi dimesso dalla carica di Computista del Consiglio
cittadino, Ermacora assunse nel 1754 la condotta medica di Sacile, subentrando al già ricordato Francesco Doro che s’era dimesso per non voler
continuare in una tale professione per godere della sua libertà33.
Con vari rinnovi, il Fabio tenne la condotta sacilese fino alla
morte, avvenuta il 26 aprile 1766 a soli cinquant’anni34. Gli successe
come medico condotto, già nel giugno dello stesso anno, il dottor Giulio
Antonio Pantaleoni di San Vito al Tagliamento.
Fra le pochissime notizie che lo riguardano, si sa che si dilettò
anch’egli di letteratura, scrivendo poesie e teatro, e che fece parte dell’Accademia degli Invitati, congrega che intorno alla metà del Settecento
riunì a Sacile intellettuali, artisti e musicisti (egli stesso a quanto pare suonava e componeva musica)35.
Si ha poi memoria di una sua esibizione letteraria, avvenuta il 25
maggio 1763, presso il palazzo del conte Ottaviano Montereale Mantica a
Pordenone: così riferisce un cronista coevo, il nobile pordenonese Giovan
Battista Pomo: «fu recitata da’ sig. accademici [dell’accademia pordenonese degli Infiammati] per la seconda volta la solita accademia, con l’agiunta di due altri accademici agregatti di nuovo, cioè il nob. Sig. dott.
Pelizza [con tutta probabilità il già citato Francesco] e nob. Sig. dott. Fabio, ambi di Sacille e professori di medicina, che recitarono anch’essi unitamente a questi di Pordenone con aplauso di tutti e che diede sommo piacere per due ore continue a tutta quella numerosa udienza che intervennero ad udirlo»36. Una sua tragedia d’ambientazione romana, Tito Manlio
Torquato, fu stampata a quanto pare dopo la sua morte, ma risulta al momento irreperibile.
33 ASCS, Libro delle parti 1745-1763, c. 128r.
34 Ivi, Libro delle parti 1763-1786, c. 23r. Nell’atto
di morte si specifica che il Fabio
fu sepolto nell’arca de’ suoi maggiori, collocata nel duomo sacilese: APS, Morti 17371793, ad annum.
35 Era del resto nipote di Paolo Monaco, morto nel 1752 a 73 anni, valido organista
per molti anni a Sacile, che aveva sposato la sorella della madre, Antonia Gaiotti. Forse
un suo discendente (nipote?) era poi quell’Ermagora Fabio, nato nel 1780 o ’90 e morto
nel 1861, che fu un noto e fecondo musicista veneziano (la cosa è comunque ancora tutta
da chiarire).
36 G. B. Pomo, Comentari urbani, a cura di P. Goi, Pordenone 1990, p. 273.
332
Non restano per ora tracce nemmeno di altre sue opere, compresa, secondo quanto riferito dai contemporanei, una commovente elegia in
memoria di Cecilia di Prata, assassinata con una stilettata per gelosia dal
marito Corradino Pelizza, poi subito suicidatosi, componimento che ebbe
all’epoca una sua notorietà37.
GIULIO ANTONIO PANTALEONI e gli altri
Il successore del Fabio fu, come s’è detto, Giulio Antonio Pantaleoni, che era nato nel 1730 a San Vito al Tagliamento, figlio di Alessandro Domenico e fratello del buon pittore Agostino e dell’abile perito e catasticatore Valentino38. Subito prima di ottenere la condotta sacilese, fu
implicato in un controverso e per noi poco chiaro caso di vaiolizzazione
che ebbe risonanza in tutta Italia39.
A Sacile mantenne la condotta per dieci anni; nel 1775, considerato che il medico sanvitese va porgendo sempre nuovi argomenti del suo
zelo e della sua abilità coll’indefessa amorosa assistenza agli ammalati
di qualunque grado e condizione si siano, e constatato inoltre che gli abitanti di Sacile, e dunque i suoi assistiti, erano in pochi anni aumentati, il
Consiglio della città decise eccezionalmente di aumentargli lo stipendio a
230 ducati annui, come segno di sincero aggradimento di questo pubblico
per il di lui zelo e per la di lui diligenza40.
Nel 1776 il Pantaleoni però rinunciò perché da molto tempo aggravato da varie indisposizioni.
Fu presto sostituito dal non più giovane Francesco Doro, figlio
di Leonardo, già medico condotto a Sacile dal 1751 al 1754, che prevalse
37 Cfr. G. A. Moschini, La letteratura veneziana dal sec. XVIII fino a’ nostri giorni, t.
IV, Venezia 1808, pp. 64-65, e Marchesini, Annali per la storia di Sacile, op. cit., pp.
502, 975 e 1003.
38 Sull’importante famiglia sanvitese dei Pantaleoni, cfr. F. Metz, San Vito al Tagliamento: un intaglio, una tela, un pittore, «Sot la nape», XLIX (1997), 3, pp. 73-80: pp.
78-80. In generale sulla sanità sanvitese vedi anche F. Metz, Medici e chirurghi nella
Terra di San Vito tra i secoli XVI e XIX, «Memorie storiche forogiuliesi», LXXXIV
(2004), pp. 55-95.
39 È per questo menzionato nelle Novelle letterarie pubblicate in Firenze, 1757, tomo
XXVIII, coll. 315-317 e 420-423, dove si parla anche del suo trasferimento a Sacile. Sulla vaiolizzazione, anticipatrice della vera e propria vaccinazione poi applicata da Jenner,
cfr. U. Tucci, Il vaiolo, tra epidemia e prevenzione, in F. Della Peruta (a cura di -), Storia
d’Italia, Annali, 7, op. cit., pp. 389-428 (in particolare, per la Repubblica di Venezia, pp.
399-400), oltre che N.-E. Vanzan Marchini, I mali e i rimedi della Serenissima, Vicenza
1995, pp. 261-274.
40 ASCS, Libro delle parti 1763-1786, c. 89v.
333
sull’altro candidato Giovanni Saccomanni, presentato al Consiglio da una
lettera del conte Antonio di Porcia41.
Il Doro ebbe più volte la riconferma della condotta (nel 1785 gli
fu attribuito un aumento di stipendio di 13 ducati per il comune aggradimento del suo operato), fino al 1789, anno della morte (spirò infatti il 13
marzo all’età di 77 anni, colto da un fiero colpo di apoplesia, e fu sepolto
nella tomba di famiglia in duomo)42.
Gli subentrò per un breve periodo – da marzo a giugno – il dottor Giovanni Nardi, originario di Vazzola, che poi rinunciò, sostituito, non
senza contrasti in Consiglio, da Carlo Celotti di Giacomo, che con ripetute conferme rimase nell’incarico ben oltre la caduta della Serenissima.
POLCENIGO
GASPARO DE ZORZI
Il primo medico polcenighese del quale ci occuperemo è Gasparo (Gaspare) De Zorzi, sul quale solo ultimamente si sta facendo un po’ di
luce43. Stando a quanto scritto nel suo atto di morte redatto a Polcenigo
nel 1785, era nato probabilmente nel 1712, figlio di un certo Leonardo, ed
era oriondo di Corfù, isola greca a quel tempo sotto il dominio veneziano.
Aveva studiato a quanto pare a Padova, dove nel 1734 frequentava ancora
il collegio (studium) greco a San Francesco Grande, come si ricava da una
lettera speditagli presso quell’indirizzo, ma stranamente non risultano per
ora tracce di una sua laurea, non conseguita dunque nell’ateneo patavino
ma in qualche altra sede44. Gran parte delle notizie su questo personaggio
si possono ricavare dal suo ricco epistolario, conservato presso la Biblioteca di Vittorio Veneto in un’unica ma voluminosa busta. Si tratta di sedici
fascicoli di varia consistenza che raccolgono diverse centinaia di lettere,
comprese a quanto pare fra il 1728 e il 1770, a lui indirizzate da decine di
personaggi più o meno noti (mancano invece lettere o copie di lettere sue).
Come sia arrivato l’epistolario di De Zorzi a Vittorio Veneto resta per ora un mistero: visto che – come si dirà più avanti – era sicuramente in stretta amicizia con i conti Fullini di Polcenigo, si può forse pen41 Ivi, c. 100r.-v.
42 APS, Morti 1737-1793, ad annum.
43 Una prima segnalazione del personaggio
era stata data in A. Fadelli, Storia di Polcenigo, Pordenone 2009, p. 73.
44 Ringrazio per la cortese segnalazione sempre il dott. Francesco Piovan e la dott.ssa
Maria Grazia Bevilacqua del Centro per la Storia dell’Università di Padova.
334
sare che le sue lettere siano state lasciate nell’Ottocento alla città dal conte monsignor Alessandro Fullini, originario proprio di Polcenigo45.
Sempre a questo religioso ottocentesco dovrebbe essere poi ricondotto il piccolo ma interessantissimo archivio familiare degli stessi
Fullini presente nella biblioteca vittoriese, e fors’anche il lacerto di archivio – un’unica busta – dei conti di Polcenigo, che proprio con i Fullini
s’erano fra l’altro imparentati, pure esso appartenente oggi all’istituzione
vittoriese: ma si tratta per ora solo di ipotesi, non suffragate da documentazione evidente anche se plausibilissime.
L’epistolario di Gasparo De Zorzi meriterebbe uno studio a parte, vista la ricchezza e la complessità della fonte; uno studio che la mancanza di tempo e l’intrinseca difficoltà della ricerca ci hanno impedito per
ora di compiere. In quest’occasione ci limitiamo pertanto a qualche cenno
sporadico e frammentario, riservandoci di ritornare sul tema in futuro, se
e quando ciò sarà possibile.
Colpiscono innanzitutto la quantità dei corrispondenti del De
Zorzi, varie decine s’è detto, e anche la qualità: accanto a nobili veneziani
d’importanti casate (come i Querini, i Marcello, i Canal, i Memmo, gli
Erizzo, i Correr e i Renier, diversi dei quali fra loro imparentati), a nobili
friulani (oltre ai Fullini e ai conti di Polcenigo, anche quelli di Porcia, i
Policreti e i Montereale-Mantica di Pordenone) e a borghesi, spiccano
vari personaggi di rilievo della cultura dell’epoca. Fra tutti, meritano di
esserne ricordati almeno alcuni.
Parecchie lettere al De Zorzi arrivarono per esempio da Antonio
Vallisneri (o Vallisnieri) junior (Padova, 1708-ivi, 1777), che era figlio
del più famoso ed omonimo professore, medico e naturalista (Tressilico in
Garfagnana 1661-Padova, 1730), allievo del grande Marcello Malpighi e
poi, dal 1700 alla morte, stimatissimo docente in più discipline mediche
all’università di Padova46.
Anche il figlio Antonio, corrispondente del De Zorzi, ottenne nel
1734 una cattedra patavina, quella dedicata alle sostanze terapeutiche di
origine non vegetale, per meriti propri ma soprattutto come ringraziamento per aver donato all’ateneo le cospicue collezioni medico-naturalistiche
accumulate in vari decenni dall’illustre padre, divenute così parte fonda45
Manca per ora, almeno a nostra conoscenza, un profilo biografico di monsignor
Alessandro Fullini; sappiamo comunque con certezza che era rettore del Ginnasio Liceo
Convitto di Vittorio nel 1868, quando firmò il Regolamento disciplinare interno pegli
alunni, poi stampato dalla tipografia vittoriese di G. Longo.
46 Sui due Vallisneri cfr. le relative schede in Casellato-Sitran Rea (a cura di -), Professori e scienziati a Padova, op. cit., pp. 533-540 (il padre) e 553-559 (il figlio), curate
rispettivamente da P. Omodeo e S. Casellato.
335
mentale dei vari musei universitari (alla morte di Antonio junior finì all’università patavina anche l’ingente patrimonio librario dei due, ancor oggi
consultabile).
Si può dire che Antonio Vallisneri junior visse l’intera sua vita
all’ombra, o quanto meno, nel riflesso dell’importante e ingombrante figura del padre, del quale curò post mortem l’edizione delle opere nel 1733.
Stelio Mastraca, autore di numerose missive al De Zorzi, era anch’egli originario di Corfù come il nostro medico.
Membro della prestigiosa Accademia dei Ricovrati di Padova, in
amichevole corrispondenza con il grande Metastasio (una lettera fra i due
circolava tempo fa in vendita su internet), Mastraca diventò professore di
diritto presso l’università di Padova e fu ascoltato e apprezzato consultore
in jure della Serenissima, che lo utilizzò più volte per dirimere questioni
scottanti, fra le quali la definizione dei confini orientali della Repubblica,
e pure come diplomatico a Vienna presso gli Asburgo (alcune sue lettere
al De Zorzi vengono proprio dall’attuale capitale austriaca).
Il Mastraca era inoltre vicino di casa e intimo amico di Gasparo
Gozzi, che dovette ospitare e soccorrere in alcuni dei non pochi momenti
difficili nei quali incappò lo scrittore veneziano durante la sua travagliata
vita. Gozzi, che per riconoscenza diede anche lezioni di francese a Luisa,
figlia del Mastraca, scrisse varie lettere all’amico e gli dedicò alcuni componimenti (e, a quanto pare, s’invaghì pure della di lui moglie Marianna...)47.
Un altro corrispondente del Nostro era Carlo Francesco Cogrossi
(Crema, 1682-ivi, 1769), che gli inviò da Padova tra il 1731 e il 1733 varie lettere di diverso genere.
47 Il Mastraca non figura nel grande Dizionario Biografico della Treccani, sicché difettano per il momento più precise notizie biografiche su di lui. Fu comunque autore, col
nome latino di Stylianus Mastraca, del volumetto Orationes quatuor, Venezia, G. B. Pasquali 1759. Qualche notiziola su di lui abbiamo trovato en passant in G. Occioni - Bonaffons, I nostri confini orientali (recensione), «Atti della Accademia di Udine», 18721875, pp. 59-80: p. 75; M. Pitteri, I confini della Repubblica di Venezia. Linee generali
di politica confinaria (1554-1786), in C. Donati (a cura di -), Alle frontiere della Lombardia. Politica, guerra e religione nell’età moderna, Milano 2006, pp. 259-288: p. 274;
C. Carcereri de Prati, Gli studenti greci allo Studium di Padova e la loro formazione
giuridica, in S. Vinciguerra (a cura di -), Codice penale degli Stati Uniti delle Isole Jonie
(1841), Padova 2008, pp. LV-LXVII: p. LVIII. Per gli stretti e prolungati contatti del Mastraca con Gasparo Gozzi, si vedano almeno Opere scelte di Gasparo Gozzi, vol. 3, Milano 1822, passim; Raccolta di prose e lettere scritte nel secolo XVIII, vol. 3, tomo II,
Milano 1830, passim; Lettere familiari del conte Gasparo Gozzi viniziano, Torino 1830,
pp. 74-173; e, da ultimo, il pressoché definitivo G. Gozzi, Lettere, a cura di F. Soldini,
Milano-Parma 1999, passim. Sui rapporti fra il Gozzi e la moglie del Mastraca cfr. anche
T. Plebani, Socialità e protagonismo femminile nel secondo Settecento, in N. M. Filippini
(a cura di -), Donne sulla scena pubblica. Società e politica in Veneto tra Sette e Ottocento, Milano 2006, pp. 25-80: pp. 45-46.
336
Il Cogrossi, laureatosi in filosofia e medicina nell’ateneo patavino nel 1702, fu intimo amico di Morgagni e di Vallisneri senior, scrisse
numerosi libri e articoli (sul chinino e su altri medicamenti, sulle epizoozie del bestiame, sugli effetti malarici delle risaie, su temi generali medico-filosofici...) e fu tra i primi a sostenere la teoria parassitaria delle infezioni, che non ebbe però particolare seguito nonostante la giustezza dell’intuizione.
Insegnò all’università di Padova dal 1721 al 1733 (dal 1728 sulla
prestigiosa prima cattedra di medicina pratica), poi ritornò nella natia Crema, esercitandovi con discontinuità la professione medica48.
Nel corpus epistolario del De Zorzi spiccano poi tre lettere indirizzategli dal già incontrato Giuseppe Antonio Pujati, col quale dimostrava grande confidenza: riservandoci di ritornare su di esse in altra occasione, diremo per ora soltanto che in una del giugno 1735 il medico sacilese
fra le altre cose parla al De Zorzi dello stipendio della condotta a Polcenigo, mentre da una seconda dell’ottobre del 1737 si intuisce che il De Zorzi aveva fatto da tramite con l’editore Coletti di Venezia per la stampa del
libro del Pujati Decas rariorum medicarum observationum.
Ipotesi confermata da una terza lettera del 23 dicembre sempre
del 1737, alla quale il Pujati aveva accluso una copia del volume fresco di
stampa per l’amico, non senza lamentarsi di que’ maledetti correttori che
l’hanno sfigurato con molti errori di stampa, sperando comunque che i
lettori vogliano distinguere le mie dall’altrui sciocchezze.
In molte delle missive inviate al De Zorzi compaiono poi cenni
più o meno lunghi e comprensibili dei suoi corrispondenti relativi ai
“grandi” della medicina dell’epoca, soprattutto a quelli della scuola padovana, come i già citati Morgagni e Knips Macoppe e l’illustre clinico e
naturalista Andrea Comparetti (1745-1802), originario di Visinale di Pasiano, con i quali sia De Zorzi che i suoi amici paiono essere stati in grande confidenza o comunque in rapporti tutt’altro che occasionali.
In altre lettere si parla ovviamente di malattie, di cure e di farmaci: per esempio, in una missiva del 1731 si discute delle varie specie di
China china, usata come febbrifugo e antimalarico, che un amico del De
Zorzi si era fatto mandare da uno de’ più rinomati droghieri d’Olanda.
In un’altra lettera del 1744, il nobile pordenonese Federico Mantica informa il De Zorzi sugli effetti della cura da lui prescrittagli: Conforme V. S. Ill.ma mi prescrisse, vo’ prendendo le pillole dell’ordinazione
n.o 1, e queste le prendo due giorni sì, ed uno no, le quali fino ad ora le
48
Cfr. la scheda relativa di M. De Zan in Casellato-Sitran Rea (a cura di -), Professori e scienziati a Padova, op. cit., pp. 469-477.
337
ho prese otto volte (...) Il benefizio, che ne ho ricavato, la pizza (prurito?)
universale che aveva è svanita (...) l’agravio del testicolo è quasi svanito,
non ho altro se non qualche picciol bruschetta sul viso (...) ed anco, non
sempre però, qualche picciol dolore nella verga (pene), ove era l’ulcera.
Dal che si deduce che il Mantica soffrisse di sifilide, all’epoca
ben diffusa, e che avesse seguito con un certo successo le prescrizioni terapeutiche del De Zorzi.
In un’altra lettera, forse risalente al 1751 (l’anno non è chiarissimo), il conte Camillo di Polcenigo chiede al medico di procurargli un
poco di spirito di cranio umano (sic!) con bozza di cristal da poterla tenere in scarsela, poiché gli era stato consigliato essere giovevole per la
mia ottusità di capo, che si suol credere cagionata dal continuo uso d’anni scorsi del laudano, ossia un medicamento liquido a base di estratto di
oppio e tintura di zafferano, molto usato nel Settecento per calmare vari
disturbi, fra i quali quelli viscerali. In altre lettere si discute invece di salassi e di purghe, ossia delle pratiche curative allora più diffuse.
Non mancano poi persone che chiedono con brevi e concitate
missive il pronto intervento del medico di Corfù per risolvere gravi e urgenti problemi di salute dei familiari, come Nicolò Avanzo, che nel 1741
da Pordenone chiede al De Zorzi di venire al più presto a visitare la madre
con febbre e difficoltà di respirazione, o Antonio Comin, sempre di Pordenone, che nel 1743 chiede aiuto per il padre che s’era aggravato, o ancora la
sacilese Isabella Bellavitis Piovesana, che nel 1744 vuole un consulto per
il marito ammalato, oppure don Giacomo Poli, che nello stesso anno da Montereale invoca il suo parere per la madre in cattive condizioni di salute.
Nelle lettere si parla poi più volte di libri, soprattutto di medicina
ma non solo, che erano prestati, comprati o cercati dal De Zorzi e dalla
sua cerchia amicale. Si trovano poi cenni anche ad affari privati, come varie compravendite di frumento e di seta e pure di alcune perle, effettuate
queste ultime dal medico per conto dei Fullini nel 1767, nonché menzioni
di parrucche, vestiti e tessuti di pregio.
Nel 1735, stando al contenuto di una lettera speditagli, il De Zorzi aspirava a quanto pare a un posto di medico a Chioggia, probabilmente
non ottenuto. La presenza del De Zorzi a Polcenigo risale almeno al 1737,
quando un suo corrispondente, il bergamasco Lorenzo Maria Zanchi, gli
scrive: godetti al sommo nel sentir che feci il dilei ritorno in Italia, e non
poco ancora nel sentirla poi stabilita in Polcenigo del Friuli medico di
condotta49.
49
Tracce sicure di una condotta medica a Polcenigo si trovano solo nel XVIII secolo, ma essa potrebbe risalire anche al secolo precedente. A quanto pare, i conti giusdicen338
Assunta dunque con tutta probabilità in quell’anno la condotta
polcenighese come successore del Pujati passato intanto a Pordenone, vi
rimase per un periodo di quasi cinquant’anni, testimoniato qua e là da sue
“comparse” in documenti locali di vario genere, tanto civili quanto religiosi.
Solo per citare un paio di esempi fra i tanti possibili, lo troviamo
testimone di un atto notarile stipulato nell’aprile del 1740 nel palazzo polcenighese del conte Giuseppe Fullini, mentre quattro anni più tardi figura
come acquirente di una responsione livellaria del vicentino Lorenzo Ferrari (nell’occasione è definito al presente medico condotto di Polcienigo)50.
Il 30 giugno 1756 fa poi da padrino, insieme con la contessa Andriana di Polcenigo, al battesimo della piccola Francesca, figlia di Gio
Batta Melchiori, membro di una ricca famiglia locale, impartito da don
Giuseppe Mascadro, nobile sacilese a ciò autorizzato dal parroco polcenighese51.
La presenza del De Zorzi nella cittadina altoliventina non fu però
continuativa: nel 1747 e nel 1758 era per esempio tornato nella natia Corfù, dove venne raggiunto da lettere conservate nel suo epistolario. Interruppe dunque la sua condotta in più d’una occasione, come dimostra la
presenza in paese dell’altro medico Daniele Colonna, del quale si riferirà
più avanti.
Un elemento che emerge da una rapida analisi della corrispondenza indirizzatagli è del resto proprio la mobilità del De Zorzi, che troviamo ad esempio ora a Padova, ora a Firenze nei primi anni Trenta, presso la famiglia Carlieri in Pinti, spesso a Venezia in più luoghi (ad esempio, sempre negli anni Trenta è più volte presso la spezieria in Campo di
S. Giovanni e Paolo, mentre nel 1745 stava in Cale larga san Moisè dagli
Zuccato e nel 1762 era invece ospite dei Querini a Santa Giustina), ora
addirittura in Romagna, come nel 1764.
Senza contare le sue visite ai Querini presso la loro villa di campagna a Visinale di Pasiano – poco lontano tra l’altro dalla villa di Gasparo Gozzi – dove il De Zorzi era richiesto dalla nobildonna Laura Correr
Querini perché favorisse la sua compagnia ed assistenza nelle mie occorrenze in villeggiatura.
ti stipendiavano un medico condotto che veniva mantenuto con la cosiddetta goccia del
vino, ossia una sorta di tassa ad hoc pagata per ogni quantità di vino venduta nelle molte
osterie e bettole locali: così almeno riferisce l’anonimo testo Sacile e suo distretto, Udine
1868, p. 74.
50 I due documenti sono in Archivio di Stato di Pordenone (d’ora in poi ASPn), Notarile antico, rispettivamente alle filze nn. 4585 e 4588.
51 APP, Battesimi 1731-1762, ad annum.
339
Non sappiamo per ora se fra i suoi amici o conoscenti ci fossero
anche i fratelli letterati Gozzi, Gasparo e il più giovane commediografo
Carlo (1722-1806): mancano a quanto pare nella loro opera e nell’epistolario riferimenti chiari e diretti al nostro medico, ma la buona amicizia del
De Zorzi con i comuni conoscenti Pujati, Mastraca e Querini, questi ultimi poi “vicini di casa” come s’è detto dei letterati veneziani, potrebbero
farcelo ipotizzare senza troppa fatica.
Il De Zorzi era poi particolarmente amico dei Fullini, una famiglia borghese originaria di Tambre stabilitasi a Polcenigo già nel ’500 e
che nel 1694 era stata insignita del titolo di conti di Zucco, Cucagna e
Partistagno grazie all’acquisto, avvenuto all’asta già nel 1673, del piccolo
feudo friulano già appartenente agli Zucco52. Il medico si trova infatti varie volte testimone ad atti notarili riguardanti la famiglia (ne abbiano visto
prima un esempio relativo al 1740), stipulati in genere nel bel palazzo edificato dai “neonobili” nella piazza principale di Polcenigo tra fine Seicento e inizi Settecento.
Gasparo De Zorzi, da molti anni dimorante in Polcenigo, morì a
72 anni il 4 gennaio 1785 alle ore due circa di notte (...) non munito de’
Sacramenti perché sorpreso improvvisamente. Fu sepolto il giorno dopo
nell’avello sepolcrale della già incontrata famiglia Melchiori che era contiguo alla sacrestia53.
DANIELE COLONNA
Altro medico di un certo interesse che tenne la condotta di Polcenigo fu senz’altro Daniele Colonna54. Figlio di Alvise, era nato probabilmente nel 1721 o giù di lì, se alla morte, avvenuta come si dirà nel
1807, aveva 86 anni. Era originario a quanto sembra di Latisana, ma la
cosa non è ancora sicura.
52 Sulla curiosa vicenda della tardiva nobilitazione dei Fullini, ricchi mercanti e faccendieri provenienti da Tambre, cfr. M. Grattoni D’Arcano, L’incanto di un feudo all’incanto: i Fullini consignori di Cucagna, in A. Fadelli (a cura di -), Polcenigo. Studi e documenti in memoria di Luigi Bazzi, Polcenigo 2002, pp. 101-112.
53 APP, Morti 1763-1812, ad annum.
54 Sul Colonna, fatta eccezione per i brevissimi cenni nell’opera più volte citata del
Someda de Marco (a p. 125, dov’è erroneamente citato come Stilita dott. Criterio!) e in
Fadelli, Storia di Polcenigo, op. cit., pp. 73-74, vedi finora la voce relativa in ScalonGriggio-Rozzo (a cura di -), Nuovo Liruti, op. cit., I, pp. 773-774, realizzata da Giorgio
Ferigo con l’aiuto anche di alcune indicazioni dello scrivente. L’improvvisa scomparsa
dello studioso carnico gli ha purtroppo impedito di portare a termine la voce con altre informazioni, fornitegli sempre da chi scrive e qui riportate, sicché nell’opera citata il contributo appare forzatamente incompleto e provvisorio. Cogliamo l’occasione per ricordare con rimpianto e ammirazione l’amico Ferigo, troppo presto rapito agli studi storici
friulani.
340
Nei registri parrocchiali dei battezzati latisanesi non compare infatti la nascita di nessun Daniele nel periodo in questione, e non c’è nemmeno traccia del padre Alvise.
Si rinvengono invece un Lorenzo Colonna, nato nel 1688 e morto nel 1761 (aveva sposato nel 1739 la contessa Elisabetta Altan di San
Vito al Tagliamento), un Gio Domenico Colonna, nato nel 1698 e morto
nel 1766, e un Gio Antonio Colonna, nato nel 1700 e deceduto nel 1757.
Tutti questi tre erano sicuramente figli di un altro Daniele del fu Alvise
Colonna, a sua volta morto a Latisana nel 1716 all’età di sessant’anni e
dunque nato verso il 1656 (ma non a Latisana, dove manca il suo battesimo!), e della di lui moglie, tal Anzola Paganoni (?), sposata nel 1675.
Questo Daniele Colonna era forse il nonno omonimo del nostro medico?
E Alvise un altro suo figlio nato chissà dove? Domande per il momento
senza risposta certa. Gio Antonio Colonna fu comunque abate-pievano di
Latisana dal 1739 alla morte nel 1757 ed era qualificato come dottore. Il
nostro medico a quanto pare aveva almeno una sorella, Barbara Francesca
Teresia, nata nel 1719 a Latisana, dunque poco più vecchia di lui. La famiglia, di cui non si sa molto altro, forse proveniva da Venezia ed era sicuramente nobile e benestante, dato che aveva un’arca sepolcrale propria
nella chiesa plebanale latisanese55.
Daniele non si laureò a Padova, visto che nell’archivio universitario patavino mancano completamente sue tracce, ma altrove, forse a Bologna oppure in Toscana.
Fu difatti allievo del noto medico, botanico, naturalista e letterato Giovanni Bianchi, nato a Rimini nel 1693 e morto nel 1775, segretario
della locale Accademia dei Lincei (o Planchiana, da Jano Planco, traduzione in latino del suo nome e cognome) e, dal 1741 al 1744, celebrato
professore di anatomia presso l’università di Siena, coinvolto in numerose
polemiche scientifico-letterarie con altri dotti del tempo e autore di moltissime e acclamate pubblicazioni a partire dal 1720. Il Bianchi, nella sua
opera De monstris ac monstrosis quibusdam (Venezia, 1749), definisce il
Colonna audiutor noster in re anatomica. Nel 1750, insieme a una decina
di altri medici, scienziati e filosofi, il latisanese fu aggregato alla predetta
Accademia riminese, dove il 15 luglio tenne una dissertazione dal titolo
De hydrope ascite.
Sempre il Bianchi lo raccomandò ad Anton Lazzaro Moro di San
Vito al Tagliamento, con il quale era in amichevole corrispondenza. Il
55 Ringrazio il prof. Vinicio Galasso di Latisana, nonché il dottor Valerio Formentini,
latisanese d’origine, per le prontissime, cortesi e precise informazioni reperite in loco
nell’archivio parrocchiale.
341
Moro rispose il 3 settembre 1750 con una lettera al medico riminese, promettendogli di tener conto della raccomandazione ma schernendosi sulle
sue reali possibilità di aiuto verso il medico latisanese, che aveva intanto
fatto da tramite per uno scambio di lettere e libri fra i due studiosi56.
Nel 1749 il Colonna, utilizzando lo pseudonimo di Crisiteo Stilita (dove Crisiteo è una sorta di traduzione greca dell’ebraico Daniele e
Stilita di Colonna), aveva intanto pubblicato un’operetta intitolata Riflessioni sopra alcuni sonniferi, e sopra altri rimedi per una colica nefritica,
stampata a Milano57. In essa si criticava apertamente – pur senza farne il
nome, ma solo le facilmente intelligibili iniziali P. A. D. – il giovane medico riminese Paolo Andrea Draghi, anch’egli discepolo del Bianchi, per
aver fatto eccessivo e improprio uso in due sue ricette di sonniferi, col rischio di far morire un paziente.
Come si riassumeva in una favorevole recensione del tempo, il
libricciuolo, benché piccolo di mole, conteneva alcune osservazioni assai
utili al genere umano, acciocché ci possiamo guardare da certi medici
giovani, tacciati di imprudenza e di scarsa pratica.
Il Draghi, secondo il volumetto, aveva prescritto a un suo ammalato colpito da colica nefritica due potentissime lattate sonnifere con laudano e semi di papaveri bianchi dopo il desinare, sostanze che tutte insieme avrebbero fatto dormire in sempiterno un elefante, non che un povero
cristiano, risultando così micidiali al malato.
Per fortuna, sostiene l’autore, le ricette per essere esorbitanti
non furono pienamente eseguite dallo speziale e il paziente non perì.
Il Draghi aveva poi infierito sullo stesso con altre ricette strane e
pericolose, a base di sangue d’irco e spermaceti, e con abbondanti clisteri
di triaca che gli bloccarono le orine, finché un altro medico (il Bianchi?)
non gli aveva prescritto olio di mandorle dolci per bocca e altre più azzeccate cure che l’avevano ristabilito58.
Il Draghi, evidentemente piccato, replicò alle critiche con una
fiera Risposta sotto lo pseudonimo di Geruncio (Gerunzio) Maladucci; il
Colonna non lasciò comunque cadere la questione, rispondendo a sua volta con una breve Lettera di Crisiteo Stilita friulano ad un amico, ovvero
riflessioni seconde in risposta alla Lettera di Geruncio Maladucci sopra
alcuni sonniferi. Il libretto uscì nel 1750 senza luogo di stampa né stampatore, segnato però con la curiosa indicazione Di barca andando a Vene56 Cfr. Sclippa (a cura di -), Anton Lazzaro Moro, op. cit., p. 125 (e pag. 128 per la
successiva lettera del 5 novembre 1750).
57 Accenna all’opera in questione anche F. A. Zaccaria, Storia letteraria d’Italia, II,
Venezia 1751, pp. 124-125.
58 Novelle letterarie pubblicate in Firenze, 1749, tomo X, coll. 632-634.
342
zia a dì 9 agosto 1750. Una di queste opere, o forse tutte e due, finirono in
mano anche al già citato Anton Lazzaro Moro, che ne diede notizia al
Bianchi in una sua lettera del 5 novembre 1750, nella quale affermava inoltre di non aver avuto più notizie del Colonna dai primi di settembre, quando il riminese, come s’è già detto, gliel’aveva caldamente raccomandato.
L’attribuzione delle due opere sopra citate al Colonna è però fermamente negata da vari studiosi sette e ottocenteschi, che le attribuiscono
invece al suo maestro Giovanni Bianchi, che si sarebbe dunque “nascosto”
dietro l’allievo, per di più a sua volta mascherato dallo pseudonimo Crisiteo Stilita, per attaccare pesantemente il discepolo, collega e concittadino
Draghi59.
L’ipotesi non è di per sé impossibile, viste le abitudini del tempo
e altre prove del genere realizzate dal Bianchi, che evidentemente amava
celarsi dietro pseudonimi per le sue acri polemiche; ma non è nemmeno
escluso che le due opere siano davvero del Colonna, come potrebbe far
intendere l’accenno del viaggio in barca verso Venezia del 1750 (che però
avrebbe potuto compiere, pur se meno facilmente, anche lo stesso Bianchi, che del resto proprio nella città lagunare stampò, come s’è visto, la
sua opera De monstris ac monstrosis quibusdam nel 1749).
Al di là dell’incerta attribuzione di questi due scrittarelli, vediamo qualche notizia concreta sulla permanenza a Polcenigo del medico latisanese. Daniele Colonna assunse per un quinquennio la condotta medica
di Polcenigo (o più probabilmente ne ottenne la riconferma: vedi più
avanti) il 14 maggio 1752 – in realtà la condotta decorreva già dal primo
maggio – in seguito ad accordo con il conte Gaspare di Polcenigo, attual
rettore del contado, registrato in un atto notarile, il cui inizio così recita:
Deliberata dagli Ill(ustrissi)mi Sig(no)ri Co(nti) consorti abitanti in Polcenigo come da parte prisa il p(ri)mo maggio corrente la confermatione
[dunque una riconferma?] per un quinquennio, che s’intenderà aver avuto
il suo principio il dì pr(imo) mense corr(en)te, un medico fisico di questo
Castello nella p(er)sona dell’Ecc(ellentissi)mo Signor Daniele Colonna
(seguono le diverse clausole dell’accordo). Al Colonna sono corrisposte
di mesi quattro in mesi quattro posticipati L. 60060.
59 È di questa opinione ad esempio il contemporaneo G. Mazzuchelli, Gli scrittori
d’Italia, Brescia 1760, II, 2, p. 1144, nonché gli autori francesi A. J. L. Jourdan, Dictionaire des sciences médicales. Biographie médicale, II, Parigi 1820, p. 228, e J.-E. Dezeimeris, Dictionnaire historique de la médecine ancienne et moderne, I, 1, Parigi 1828, p.
384, che però dipendono probabilmente dal Mazzuchelli.
60 ASPn, Notarile antico, f. 4587. Il documento è riportato in T. Perfetti, Il notariato
a Sacile e nel suo territorio dalle origini al XX secolo, «Il Noncello», 47 (1978), pp.
179-227: p. 199, nota 26.
343
Due anni più tardi, nel già incontrato censimento fiscale veneziano del 1754, figurava, insieme con il farmacista polcenighese Francesco
Boccardini, nella quarta classe di tassazione, segno di indubbia ricchezza
personale61.
Il 28 novembre (davvero novembre? Il mese non è facilmente
decifrabile...) del 1756, il Colonna, insieme con la contessa Elisabetta di
Polcenigo, è padrino di battesimo del piccolo Pietro, figlio del polcenighese Antonio Curioni, ricco possidente, e della veneziana Antonia Fontana, figlia dell’orefice Gaetano62. Il 23 aprile 1757 Daniele, medico in ora
di questo loco di Polcenigo, è nuovamente padrino, questa volta di Giuseppe Maria, figlio del conte Minuccio Filippo di Polcenigo e della contessa Contarina pure di Polcenigo.
Appena un mese più tardi, il 27 maggio, il Colonna fa ancora da
padrino, questa volta a Giancarlo Filippo, figlio di Gio Batta Melchiori
(padre anche di Francesca, battezzata l’anno prima con Gasparo De Zorzi
come padrino) e dell’udinese Giovanna Oliva.
Il Colonna si era intanto sposato con Caterina Ferrari, figlia di
Lorenzo del fu Girolamo vicentino (lo avevamo già incontrato in affari
sempre col De Zorzi nel 1744) e della polcenighese Anna Della Giustina;
Caterina era nata nel gennaio del 1738 e presto battezzata con due illustrissimi padrini, la contessa Verde Laura di Polcenigo e il conte Germanico di Porcia. Lo sposalizio tra il medico e la giovane avvenne con tutta
probabilità dopo il 1755 e prima dell’estate del 1758: poiché manca dall’archivio parrocchiale di Polcenigo il registro dei matrimoni avvenuti fra
il 1756 e il 1762, non ne abbiamo la prova certa. Il 3 ottobre 1758 viene
battezzata Barbara Elisabetta (con i nomi dunque della sorella del padre,
Barbara, e della zia Elisabetta Altan!), figlia di Daniele del fu Alvise Colonna, ecc.mo sig.r dottor, e dell’appena ventenne Caterina di Lorenzo
Ferrari di questo loco, il che fa presumere un loro recente matrimonio. Padrini della piccola Barbara Colonna sono il conte Gio Batta Fullini e la
contessa Ludovica, figlia di Ottavio di Polcenigo, a conferma dei buoni
rapporti che ormai legavano il medico con la nobiltà locale.
L’unione è però breve e infelice: il 28 agosto 1764 muore infatti
Caterina Ferrari Colonna, moglie dell’Ill.mo Daniele Colonna medico di
questo luogo63. La citazione conferma che il Colonna era in quell’anno
ancora medico a Polcenigo, e dunque da almeno dodici anni (se non addi61 Biblioteca Civica di Udine, Manoscritti, Fondo principale, ms. 1539, Cattastico
delle persone tutte che esercitano arti liberali o mecaniche nella Patria del Friuli.
62 APP, Battesimi 1731-1762, ad annum (anche per i seguenti battesimi).
63 Ivi, Morti 1763-1812, ad annum.
344
rittura da diciassette, qualora la prima condotta risalisse già al 1747). Altre notizie polcenighesi su di lui dopo quest’ultima tragica annotazione
per il momento non ne abbiamo, e perciò ignoriamo quanto sia rimasto
ancora nella cittadina altoliventina.
Nel 1771 è comunque sicuramente a Cordovado come medico
condotto, visto che lo troviamo padrino di battesimo di Maria, figlia di
Osvaldo Quirin, insieme con la contessa Elena di Zucco, moglie del nobile cordovadese Ottaviano Ridolfi. Rimarrà a lungo – almeno 35 anni, forse di più – nella cittadina sede del castello vescovile concordiese come
medico fisico, rivestendo numerose volte i panni di santolo in altri battesimi, sia di nobili e borghesi, sia di popolani, quasi sempre insieme con madrine prestigiose, nobili o della ricca borghesia locale, come Anna del fu
Girolamo d’Attimis, Marianna moglie di Giulio Ridolfi, Caterina Pascutti
o Perina Nonis. Era ancora vivo e attivo, anche se anziano, nel febbraio
del 1798, quando la Serenissima ormai non esisteva più, impegnato per
l’ennesima volta a portare al sacro fonte di Cordovado un neonato64.
Il 27 settembre 1807 il signor Daniele dr. Colonna medico fisico
di qui in età d’anni 86 colpito d’una cascata (caduta?) passò all’eternità
e fu sepolto nel cimitero cordovadese: si chiude con quest’annotazione la
lunga e per alcuni tratti ancora enigmatica esistenza del nostro medico65.
CARLO CARINI
Un altro medico polcenighese di indubbio interesse fu Carlo Carini, sul quale si hanno però notizie frammentarie, incerte e non sempre
concordanti66.
Secondo uno Stato d’anime della parrocchia polcenighese dei
primissimi dell’Ottocento, era nato il 29 maggio 1738, figlio di Lorenzo e
di Teresa Salimbeni, a Castelguglielmo, che a prima vista parrebbe essere
l’omonimo paesino in provincia di Rovigo; e di Rovigo lo dicono anche
un paio di documenti redatti dopo il suo trasferimento a Polcenigo67.
64 La documentazione al riguardo è nel registro dei battesimi della parrocchia di Cordovado dal 1769 al 1794 (che in realtà prosegue però anche oltre tale anno), ora conservato presso l’Archivio Storico Diocesano di Pordenone, b. 70.
65 L’atto di morte è nell’apposito registro, compreso fra il 1769 e il 1821, conservato
sempre nell’Archivio Storico Diocesano pordenonese, b. 77.
66 Qualche notizia sul personaggio era già in Fadelli, Storia di Polcenigo, op. cit., p.
74.
67 Non è stato finora possibile rinvenire l’eventuale suo battesimo presso la parrocchia di Castelguglielmo per la precaria situazione di quell’archivio. Per la gentile e volonterosa collaborazione prestata in loco ringrazio il sig. Emiliano Ferlin di Castelguglielmo, che mi segnala che i cognomi Carini e Salimbeni non paiono comunque comparire nella zona, indizio questo che ci spinge a ritenere che Carlo Carini provenisse davve-
345
Altre fonti, fra le quali la laurea a Padova e l’atto di matrimonio,
dei quali si dirà poco innanzi, lo danno invece originario, come il De Zorzi già citato, dell’isola ora greca di Corfù, dove non sembra esserci però
stata una località chiamata Castelguglielmo (ma il toponimo può anche
essersi perso nelle successive dominazioni e nella profonda opera di cancellazione delle tracce veneziane, e più largamente italiane, portata poi
avanti fra Otto e Novecento).
Il Carini si laureò a pieni voti in Collegio Veneto in utraque, ossia filosofia e medicina – peraltro piuttosto tardivamente, a 28 anni o giù
di lì – il 14 marzo 1766, promotore il noto professore Omobono Pisoni:
nella documentazione patavina risulta chiaramente originario di Corfù68.
A quanto pare, aveva poi svolto la professione di medico a bordo
di alcune navi veneziane, confrontandosi di certo con una realtà assai
dura, fatta di privazioni, sofferenze e malattie d’ogni tipo69. Secondo un
testo ottocentesco, aveva «in sua giovinezza assistito sulla nave capitanata
da Angelo Emo al bombardamento di Sfax, di Tunisi e di Susa», avvenuto
fra il 1784 e il 178570.
Il che non pare invero possibile, perché il Carini in quegli anni
sarebbe stato tutt’altro che giovane (aveva allora ben più di quarant’anni),
era già sposato da tempo, come si dirà subito dopo, e in più risiedeva ormai da diversi anni a Polcenigo: a meno che non si fosse temporaneamente reimbarcato per l’impresa bellica magistralmente condotta a termine
dall’Emo, l’affermazione sembra dunque errata, frutto forse di ricordi
confusi di qualche vecchio Polcenighese che l’aveva conosciuto. Può invece darsi che il Carini fosse stato in realtà imbarcato durante la precedente spedizione veneziana navale contro quelle zone nordafricane, guidata dall’ammiraglio Jacopo Nani nel 1766, proprio l’anno della sua laurea.
Comunque sia, il Carini ad un certo punto della sua vita era approdato a fare il medico condotto in terraferma, arrivando non si sa come
a Polcenigo, forse intorno al 1768 o poco dopo (nel 1770 era comunque
già sicuramente presente), succedendo con molta probabilità al Colonna
trasferitosi alla condotta di Cordovado. Si può poi ipotizzare che sia arrivato in riva al Livenza forse per qualche contatto con il più anziano conro da Corfù (e magari ebbe una breve permanenza nel paese rodigino?).
68 ASUP, Dottorati artisti in collegio veneto, 1762-1773, vol. 293, f. 48; Guanti Eccellentissimi Rettori 1698-1792, vol. 296, f. 82, 14 marzo 1766.
69 Cfr. G. Zoccoletto, I Sei Comuni. L’accordo di Polcenigo approvato dalla Serenissima nel 1793, Polcenigo-Budoia 1995, p. 35.
70 Sacile e suo distretto, op. cit., p. 47. Il bombardamento colpì le città che davano rifugio ai terribili pirati barbareschi che infestavano il Mediterraneo e danneggiavano
grandemente i commerci veneziani. Cfr. A. Zorzi, La Repubblica del Leone. Storia di
Venezia, Milano 2001, pp. 475-476.
346
terraneo De Zorzi, se accettiamo la sua provenienza corcirese. Il 20 ottobre 1787, ormai alle soglie dei cinquant’anni, si sposò con la nobile Maria
Benvenuta Gaspari, figlia di Daniele e sorella dell’avvocato Pietro, di
quasi trent’anni più giovane di lui (era infatti nata il 10 aprile 1767 a Padova), abitante a Ronche di Fontanafredda; il matrimonio fu celebrato da
don Francesco Gaspari, parente della sposa, nell’oratorio della famiglia
annesso al palazzo, ora divenuto Villa Zanussi. Tramite fra i due sposi
erano stati forse i conti di Polcenigo, che in quel periodo contavano vari
possedimenti e affari anche a Fontanafredda oltre che nel centro pedemontano.
Dal matrimonio i due ebbero vari figli, alcuni dei quali morti in
tenera età (la piccola Maria Elisabetta era ad esempio deceduta ad appena
un anno e quattro mesi nel marzo del 1790). Sopravvissero solo Teresa,
nata nel 1791, e Giovanni Daniele, nato l’anno seguente e poi morto improvvisamente a 56 anni nel 1848 da uno scopio aneorismatico di petto71.
Il Carini non lasciò a quanto pare nulla di stampato, ma fu comunque in contatto con vari importanti personaggi del suo tempo, e lunghe e fortunate ricerche in biblioteche e in archivi pubblici e privati in
giro per l’Italia probabilmente potrebbero confermarlo.
Secondo il testo ottocentesco già citato, il Nostro, «di fama estesa e distinta», era infatti «in epistolare corrispondenza con parecchi uomini insigni del suo tempo, quali Tissot, L. M. A. Caldani, Marsilli, Pasta»,
tutti notissimi medici o comunque persone collegate al campo medico72.
Sempre lo stesso testo ricorda che il Carini fu «tra i primi a ribattere il sistema di Brown» (quale?) durante i già menzionati bombarda71 APP,
Morti 1846-1885, ad annum. Teresa Carini aveva poi sposato un suo parente,
Gasparo Gaspari, e ne aveva avuto almeno un figlio, Carlo Francesco, nato nel 1817. A
titolo di curiosità, ricordiamo che il fratello Daniele risultava proprietario nel 1828 di un
raro e prezioso libro di medicina (De comitiali morbo, di Gerolamo Gabuccini da Fano),
stampato dal famoso tipografo Paolo Manuzio a Venezia nel 1561 e, dato l’argomento,
appartenente con tutta probabilità al padre Carlo da poco defunto: cfr. A.-A. Renouard,
Annales de l’imprimerie des Alde (...), Parigi 1834, p. 182.
72 Per quanto riguarda i personaggi citati, basterà ricordare, senza ulteriori e gravosi
rinvii bibliografici, che Simon-Andrè Tissot (Grancy, 1728-Losanna, 1797) fu un illustrissimo medico che ottenne nel 1780 la cattedra di clinica medica all’università di Pavia; Leopoldo Marco Antonio Caldani (Bologna, 1725-Padova, 1813) fu un celebre fisiologo, anatomista e scienziato, docente all’università di Padova dal 1764 fino al 1806;
Andrea Pasta (Bergamo, 1706-ivi, 1782: a meno che non si tratti del cugino Giuseppe
Pasta, anch’egli medico di rilievo) fu pure lui un notissimo medico, che rifiutò però importanti cattedre universitarie per continuare a operare fra la gente, come prediligeva, e
si occupò con competenza anche di arte bergamasca. Per Marsilli crediamo s’intendesse
in realtà Giovanni Marsili (Pontebba, 1727-Padova, 1795), famosissimo botanico, docente della disciplina all’università di Padova e attivissimo direttore dell’orto botanico
patavino dal 1760 al 1794.
347
menti veneziani sulle coste della Tunisia fra il 1784 e il 1785, ai quali
però, come già s’è sostenuto, non aveva forse partecipato davvero73.
Nel 1814 il medico polcenighese figurava poi fra i membri corrispondenti del neonato Ateneo Veneto, prestigiosissima istituzione culturale veneziana che riuniva le migliori menti dell’epoca74.
I suoi interessi uscivano comunque dal campo strettamente medico per allargarsi a questioni naturalistiche, sociali ed economiche.
Nel 1776 il Carini inviò ad esempio al conte friulano Fabio
Asquini alcuni pezzi di carbone, trovati probabilmente nei dintorni di Polcenigo75. Si era in un periodo nel quale le menti più acute e progredite,
come appunto l’Asquini e il Carini, cercavano e sperimentavano nuove
fonti energetiche (la torba e i vari tipi di carbon fossile) per avviare o potenziare attività protoindustriali, prima fra tutte la lavorazione della seta,
vero motore trainante dell’economia veneta e friulana del tempo.
A questo riguardo, nel 1793 il Carini presentò alla Serenissima, a
quanto pare appositamente invitato a farlo dagli Inquisitori alle Arti,
un’approfondita memoria sullo stato dell’industria serica veneziana e sui
suoi attuali problemi76.
Secondo il Carini, la Repubblica non aveva curato a dovere
l’ammodernamento dell’importantissimo settore serico, tanto che si lavorava a suo parere tale e quale come trenta o quarant’anni prima, senza alcuna evoluzione; questo perché erano disponibili soltanto telai e macchinari quanto mai obsoleti, non in grado di assicurare produttività e qualità
del filato pari a quelle delle regioni straniere e italiane più progredite nel
settore. E proprio a queste zone – soprattutto Milano, Genova e Torino – il
Carini consigliava allora di rivolgersi per trovare esperti aggiornati e per
poter finalmente produrre macchine moderne ed efficienti, in grado di rinnovare l’arretrata strumentazione esistente.
73 Si tratta con tutta probabilità dell’insigne medico John Brown (Scozia, 1736-Londra, 1788), autore di una particolarissima teoria medica, detta “eccitabilismo” o “teoria
brunoniana”, che ebbe per un certo tempo vasta diffusione e grande successo in tutta Europa.
74 F. Mutinelli, Annali delle Province Venete dall’anno 1801 al 1840, Venezia 1843,
p. 192.
75 Sacile e suo distretto, op. cit., p. 75. Fabio Asquini (1726-1818) fu possidente “illuminato” e filantropo, illustre agronomo e rinnovatore (iniziò nelle sue terre la coltura
del pregiatissimo vino picolit e capeggiò nel 1762 la nuova Società di agricoltura pratica udinese), industriale d’avanguardia ma non sempre fortunato (le sue fabbriche di Fagagna produssero calcina, laterizi e terraglie), appassionato di meteorologia, in contatto
con molti intellettuali dentro e fuori lo stato veneto. Cfr. la voce relativa, stesa da Liliana
Cargnelutti, in Scalon-Griggio-Rozzo (a cura di -), Nuovo Liruti, op. cit., I, pp. 313-320.
76 Archivio di Stato di Venezia, Inquisitorato alle Arti, b. 79.
348
La lucida analisi, confermata del resto da altra documentazione
del tempo, dimostra che il medico polcenighese era a perfetta conoscenza
delle problematiche non solo locali della bachisericoltura.
Dopo il 1797 e fino almeno al 1802, durante gli sconvolgimenti
dell’epoca napoleonica, il Carini si distinse per i suoi risoluti tentativi di
affrontare l’emergenza economica e soprattutto alimentare della popolazione polcenighese, colpita da una dura carestia.
A tal fine il medico-filantropo guidò un consiglio distrettuale di
dodici membri che cercò di creare un fondaco per le granaglie da distribuire a sollievo della povera gente all’epoca ancor più bisognosa77.
In questo periodo entrò a quanto pare in contrasto con alcuni
conti di Polcenigo per le sue posizioni probabilmente filofrancesi e antifeudali, ma con tutta probabilità i rapporti in seguito si rasserenarono, tanto che intorno al 1810 troviamo il Carini compartecipe con il conte Francesco di Polcenigo nella gestione del fiorente e modernissimo filatoio per
la seta operante fra le attuali Via Coltura e Via Roma78.
Va tenuto presente che anche i suoceri del Carini, i Gaspari, amministravano un’avviata filanda da seta nei pressi del loro palazzo a Ronche di Fontanafredda, e dunque l’attività era ben conosciuta in famiglia.
Dopo una vita lunga e operosa, Carlo Carini chiuse i suoi giorni
a Polcenigo il 4 giugno 1826 per tabe senile: nell’atto di morte il parroco
scrisse che aveva 87 anni ed era da circa 58 anni in qualità di medico fisico in questo Comune, quindi all’incirca dal 1768.
Fu sepolto nell’arca sepolcrale dei claustri di questa chiesa parrocchiale di San Giacomo, annessa all’ex convento francescano soppresso
da Venezia nel 1769, che s’incontra da prima delle tre consecutive che ritrovasi andando alla sacrestia e che apparteneva alla ricca famiglia locale
dei Mainardi. L’anno dopo moriva a 78 anni anche il fratello minore di
Carlo, Pietro, ufficiale (maggiore) in pensione dell’esercito austriaco, anch’esso residente da due anni a Polcenigo nella locanda di Pietro Puppi
gestita da Andrea Marini.
PER CHIUDERE
Fin qui abbiamo fatto vari nomi e fornito molte notizie spicciole,
ma che medici fossero realmente i personaggi citati non lo sappiamo quasi mai, fatta eccezione per il Pujati: non conosciamo bene la profondità
77
78
Cfr. Zoccoletto, I Sei Comuni, op. cit., p. 35.
Sull’opificio polcenighese, attivo tra l’ultimo quarto del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, e sulla sua produzione di finissime calzette di seta, largamente esportate, cfr.
i cenni dello scrivente in A. Fadelli (a cura di -), Girava un tempo la ruota… Opifici
idraulici a Polcenigo dal Medioevo al Novecento, Polcenigo 2001, pp. 33-34.
349
della loro preparazione, come curassero – se curavano – il loro “aggiornamento professionale”, quali fossero i loro “sistemi di cura”...
Sappiamo invece abbastanza bene contro cosa dovevano lottare:
innanzitutto, le malattie infettive, molto diffuse all’epoca (soprattutto
quelle esantematiche infantili, che mietevano periodicamente strage fra i
più piccoli, e poi il terribile vaiolo, vera piaga del secolo, senza scordare
però il tifo e in alcune realtà, come Polcenigo, la malaria); morbi ai quali
non potevano opporre praticamente nulla, né antibiotici né vaccinazioni,
tutti di là da venire, e nemmeno pratiche preventive di vera efficacia.
Salassi, applicazione di sanguisughe, purghe, decotti d’erbe, strani balsami, intrugli stregoneschi (grande successo aveva ovunque la famosa e misteriosa triaca o teriaca veneziana) e ben poco d’altro erano le
loro armi pressoché universali, a volte dotate di un qualche minimo e forse casuale effetto, altre volte del tutto inefficaci, se non addirittura ulteriormente nocive agli ammalati.
E poi i nostri medici avrebbero dovuto fronteggiare la sottoalimentazione o malnutrizione di gran parte della popolazione, soprattutto di
quella dedita all’agricoltura (oltre il novanta per cento degli abitanti), che
risultava in perenne affanno con il quotidiano rito dell’approntamento della mensa, sempre troppo povera, ripetitiva e mal equilibrata, e che proprio
in questo secolo doveva affrontare un nuovo e tremendo morbo, la pellagra.
Ma questo aspetto ci porterebbe lontano dal tema prefissato, a interrogarci
su un mondo, quello del Settecento nostrano, ancora basato su un’economia prevalentemente rurale, il più possibile autarchica, sempre soggetta a
crisi produttive, e quindi alimentari, e quindi di sopravvivenza; un mondo
quanto mai fragile e precario nel quale le carestie, pur meno frequenti e
violente del passato, erano ancora pronte a manifestarsi con cadenza irregolare ma non troppo distante l’una dall’altra e a chiedere un triste contributo di vite umane, sia direttamente nei momenti di picco estremo (morti
per inedia, languore e cachessia, come talvolta scrivono i parroci), sia nei
mesi successivi per gli effetti a più lungo termine della fame.
Ma su tutto questo i nostri medici potevano fare ben poco, per
non dire assolutamente nulla.
350
L'Epidemia bovina del 1761: Proclami e Lettere
Relazione presentata al Convegno da
Giorgio ZOCCOLETTO
PRESENTAZIONE
Il contagio dell’afta epizootica, partito dai paesi balcanici verso il
1759, aggredì i territori della Repubblica Veneta attraversando i confini a
Gorizia e Cividale e la diffusione dell’epidemia provocò in breve tempo
lo sterminio del patrimonio zootecnico nel Friuli. Infatti nel giro di pochi
mesi ben quindicimila furono le morti degli animali nelle stalle e nei pascoli. Le maggiori difficoltà per l’arresto del male incontrate dal Luogotenente di Udine furono rappresentate dall’intreccio dei confini fra possedimenti arciducali e veneti e dalla frammentazione delle giurisdizioni feudali, ognuna gelosa della propria autonomia anche per argomenti d’igiene
pubblica. Superati i primi momenti di sconcerto e di sorpresa, il Magistrato alla Sanità del governo centrale intervenne in sostegno di quel pubblico
rappresentante locale.
1. Proclama e regole del Magistrato alla Sanità
Il 19 settembre 1759 il Magistrato emanò un proclama di ventuno articoli, che stabiliva le competenze dei vari uffici sanitari locali, coinvolgendo anche i parroci dei villaggi. Furono vietati, fra l’altro, i mercati
di bestiame e le corride solite farsi nelle sagre paesane. Furono date disposizioni per l’abbattimento degli animali infetti, per la loro autopsia,
per l’eliminazione delle carcasse. Furono diffidati i vagabondi ed i questuanti che pernottavano nei fienili. Assieme al proclama furono distribuiti dei fogli con le regole pratiche per l’eliminazione del bestiame colpito
dal morbo e per la salvaguardia di quello sano.
Qualche freno alla diffusione dell’epidemia fu dato dai rigori dell’inverno, ma nell’estate del 1760 la moria delle bestie riprese in forma
terribile e quindi il Magistrato decise in questo nuovo frangente di sostenere l’opera del Luogotenente col mandargli al fianco un suo proprio
membro con l’incarico di Provveditore alla Sanità in Terra Ferma.
351
2. Proclami e ordini del Provveditor Andrea Donà
Il Provveditore, che fu Andrea Donà, si stabilì a Portogruaro con
l’intento di frenare l’ingresso dell’epidemia sul territorio trevisano. Subito
emanò un proclama in data 24 settembre 1760 articolato in nove paragrafi
ed integrato da diciotto regole specifiche per le varie situazioni e competenze. Nel successivo 8 ottobre emanò un secondo proclama diviso in dodici punti. Altro proclama fu emesso il 6 novembre di altri cinque articoli.
In quest’ultimo documento furono dati ordini precisi per i vari responsabili dell’igiene pubblica e per i militari assegnati a supporto degli interventi. Andrea Donà fu ben presto sostituito dal Provveditor Giacomo da
Riva che si adoperò per l’organizzazione degli uffici di sanità dei feudi
della Sinistra Piave, area considerata di sbarramento fra il Friuli ed il resto
dello Stato. L’epidemia sembrò così isolata, ma nell’estate del 1761 si manifestò all’interno del territorio trevisano.
3. Incarico al Provveditor Alessandro Almorò Tiepolo
La presenza del contagio nella Marca fu segnalata dal protomedico Girolamo Istrana, che per conto dell’Ufficio di Sanità di Treviso visitò
moltissime stalle della Destra Piave. Il Magistrato accompagnò la sua relazione all’autorità del Senato e del Serenissimo Principe cosicché il 12
agosto l’assemblea legislativa decretò con una lettere ducale l’invio di un
nuovo Provveditore nella persona di Alessandro Almorò Tiepolo.
4. Lettere del Provveditor Alessandro Almorò Tiepolo
Per dare maggior efficacia al suo intervento, il Provveditore fu
accompagnato da un folto gruppo di funzionari, da adeguate scorte militari e da medici condotti, ma soprattutto fu assistito dai Deputati dell’Ufficio di Sanità di Treviso Fiorino Antonio d’Onigo, Bonifacio Bonifacio,
Cesare Rossi e Giacomo Coghetto. Tutte le operazioni eseguite da Tiepolo
furono segnalate al Magistrato da una successione di lettere con cadenza
settimanale finché l’epidemia si esaurì verso la fine di settembre, tanto
che Tiepolo fu richiamato a Venezia.
5. Fine dell’epidemia in Trevisana
Mentre si poteva giustamente sperare sull’esaurirsi del pericolo,
le preoccupazioni ripresero con il rientro alle stalle invernali delle man352
drie mandate nei pascoli estivi del Bellunese. Fu perciò incombenza del
Podestà e Capitano di Treviso Domenico Pisani di parare l’emergenza con
una serie di norme riepilogate in un proclama in data 25 novembre 1761.
Il rispetto delle norme assicurò così la salvezza per il territorio
trevisano del patrimonio zootecnico, a differenza del catastrofico sterminio successo nel vicino Friuli ed anche nei territori del Polesine e del Veronese, dove si verificò la definitiva scomparsa delle razze bovine autoctone.
353
DOCUMENTI
1. Proclama e regole del Magistrato alla Sanità
Proclama emesso il 19 settembre 1759
Nelle presenti emergenze bovine che si vanno spargendo particolarmente nella Patria del Friuli e nel
Territorio di Treviso crede necessario lo zelo degli Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Sopraprovveditori e Provveditori alla Sanità di pubblicare i
provvedimenti infrascritti da essere da ognuno immancabilmente eseguiti.
I. Alla prima scoperta di ogni animale attaccato da epidemia, o da male
sospetto, avrà debito il Capo della famiglia render avvisato prontamente il Meriga, o alcuno dei Deputati della Villa per dover questo subito tradursi a sequestrare la stalla e le persone tutte di quella casa, indi nello stesso giorno, o al più nella
mattina seguente portar la notizia all’Ufficio di Sanità. Alla notizia suddetta unirà il numero delle persone che compongono quella famiglia perché nel caso delle
visite possa praticarsi il necessario riscontro.
II. Accolta la riferta, spedirà l’Ufficio in diligenza persona perita assieme col Fante a riconoscere la qualità del male, stando nelle debite forme e con
ordine che l’ammalato animale resti nella stalla e commerciato colla stalla infetta. Sarà nel tempo stesso confermato il sequestro, che dovrà sussistere per giorni
ventuno così alle stalle, che a tutte le persone della famiglia, proibito ad ognuno
l’entrare stessa degli altri della casa, con pena della vita a chiunque avesse coraggio di violare i sequestri ordinati.
III. S’intenderanno sequestrate le Ville quando siano arrivate al numero
di un terzo le stalle attaccate, dovendo perciò l’Ufficio avere d’ogni Villa il numero preciso delle stalle degli animali bovini. Dopo sequestrate le Ville, riuscendo colla divina benedizione che si vadano risanando le stalle e ritornate queste al
minor numero di un terzo, sia levato alle Ville il sequestro e ritornate al grado di
sospette.
IV. Dalle Ville sequestrate non potrà uscire alcuno se non due, o quattro persone destinate dall’Ufficio per provvedere alle occorrenze delle Ville,
avutasi l’avvertenza di prescegliere di quelli che non abbiano bovini, o la meno
ingerenza possibile in essi. Queste persone deputate saranno munite di una fede
a stampa, che gli rilascerà il proprio Parroco.
V. Non convenendo poi che uomini di Ville infette, o sequestrate custodiscano i rastrelli che riguardano Ville ancora sane, quando impegno ed interesse
di questi egli è di garantirsi dalle vicine contaminate, sia preso e resti nella più
risoluta forma prescritto che abbiano le Ville sane a custodire colla propria gente
354
le stangate e rastrelli di separazione colle vicine dal corrente morbo colpite onde
togliere qualunque comunicazione pericolosa.
VI. Non si avrà a consegnare la custodia dei rastrelli a donne, o a fanciulli, dichiarando che sarà proceduto contro quei Degani, Masseri ed altri che
facessero, o assentissero una tale destinazione.
VII. Nei Territori ove si risente della disgrazia tutte le persone di campagna viaggiando con animali, o senza, debbano essere munite delle fedi a stampa che verranno rilasciate dai propri Parroci a misura della condizione della Villa.
VIII. Siano e s’intendano sospesi i mercati e le fiere degli animali, non
essendo nemmeno lecito di permettere, o lasciar correre in qual si sia sito fuori
di essi mercati concorso alcuno di tali animali tanto in pubblici, che in privati
luoghi, dovendo tutti quelli quali fossero trovati in qual si sia luogo, o mercato,
intendersi fiscati ed il tratto dei medesimi applicato all’Ufficio di Sanità di quel
luogo in risarcimento delle spese alle quali incomber devono gli Uffici, partecipata prima la provata contraffazione a questo nostro Magistrato.
IX. Restano pur sospese ed inibite le cacce da toro per tutta la Terra
Ferma, non essendo conveniente formar spettacoli sopra questa specie di animali
soggetta in presente alle ben note disgrazie.
X. Perché poi non debba essere impedita la medicatura degli animali
infetti con l’uso di quei rimedi che non possono essere somministrati se non che
da marescalchi, o altre persone perite, potranno e quelli e queste esercitare l’arte
loro senza andar soggetti al sequestro, servendosi però di una sopraveste di tela
incatramata, o sia incerata, da capo a piedi, che venga ad essere chiusa in vicinanza alla mano ed usata nella visita e nella medicatura, dopo la quale dovrà il
Perito lavarsi le mani ed il volto con acqua ed aceto caldo.
XI. Gli escrementi degli animali infetti siano seppelliti secondo il solito in buche assai profonde dalle persone inservienti ai medesimi onde il fetore di
aliti, certamente nocivi, non sia di pregiudizio ai sani.
XII. Morto alcun animale di male epidemico, o che sia sospetto di tale,
abbia ad essere sepolto con la sua pelle tagliata in varie parti in una fossa profonda almeno dieci piedi e coperto di calce viva bagnata con acqua acciò ne segua
una più pronta consumazione, e dove mancasse copia sufficiente di calce, sarà la
fossa riempita di sola terra soprabattutavi in eminenza ed imboschita di spini,
avendosi l’avvertenza di praticar queste sotterrazioni in luoghi remoti e lontani
dalle strade pubbliche e dai siti frequentati.
XIII. Tali animali dovranno essere seppelliti dagli uomini soliti di governarli, se nelle Città, alla presenza di un Provveditore di Sanità, e nelle Ville
coll’assistenza del Massaro, o sia Deputato, e dove vi fosse del Vicario ancora,
trattenendosi quelli nelle dovute distanze per non partecipare di quei semi pestiferi che seco traggono indispensabilmente cadaveri morti di tale infezione ed impedendo risolutamente il concorso di persone all’incontro di queste tumulazioni.
XIV. Le stalle ove dimorato avessero animali infetti, o sospetti, rese libere che siano dopo la prescritta contumacia dovranno essere ben mondate e
profumate, consegnandosi alle fiamme tutte le paglie, o strami, scrostando le pa355
reti e lasciando che l’aria campeggiar possa per qualche tempo nelle medesime
onde spurgar le reliquie di ogni sospetto.
XV. Resta risolutamente proibito in pena di vita a macellai delle Città,
Castella, Terre e Ville il contrattare, vendere, o far vendere carne di animali morti naturalmente, o ammazzati in tempo di loro malattia, noto facendosi a documento universale che durante l’epidemia del 1714 molti, i quali si sono incautamente cibati di tal carne, sorpresi furono di stravaganti infermità e parecchi vi
perdettero la vita. Per il metodo poi con cui dovranno regolarsi i macellai per
provvedere gli animali di questa specie, sarà ordinato il bisogno in un altro proclama che verrà pubblicato.
XVI. Riconosciutasi in simili incontri profittevole la destinazione di
una persona benestante e della miglior condizione per ogni Villa per abbia ad invigilare alla più esatta osservanza di quanto viene in questo proclama prescritto,
avanzando a notizia dei Superiori ciò che reputasse conveniente alla miglior custodia di cadauna Villa, resta perciò eccitata l’attenzione di cadaun Ufficio in
quel Territorio ove intrusa fosse l’epidemia a deputare in ogni Villa un benestante pratico per l’effetto suddetto, escludendo però i macellai, i beccari e gli altri
che fossero a sequestro soggetti. Questa elezione però non dovrà esentare i Massari, Degani, o siano Deputati ed altri Uomini di Comune dall’invigilare essi
pure all’osservanza degli ordini e delle regole prescritte, ma sarà anzi principalmente loro cura di visitare giornalmente le stalle infette, o sospette, senza però
introdursi in esse, e di far separare i sani dagli ammalati e portar in diligenza le
notizie alla Cancelleria di Sanità sotto cui fossero soggetti, partecipando nel tempo stesso tutte le trasgressioni e mancanze che venissero di rilevare.
XVII. Perché le prescrizioni presenti non vengano alterate, trascurate,
o neglette, dovrà di tempo in tempo tradursi alla visita delle Ville a queste disgrazie soggette alcuno dei Provveditori dell’Ufficio per assicurarsi con l’occhio
proprio della dovuta obbedienza. A freno delle trasgressioni procederanno gli
Uffici alle formazioni di processo anche sopra denunzie secrete, noto facendosi
ai denuncianti che, oltre l’essere tenuti secreti, convinti che siano i rei conseguiranno ducati 50 per cadauna sentenza, da essere scorporati dai beni del reo ed in
difetto pagati dalla Cassa del Magistrato. Formati però essi processi fino ad offesa, siano di volta in volta avanzate le notizie al Magistrato nostro per le ulteriori
deliberazioni.
XVIII. Avendosi in riflesso i pessimi effetti che derivar possono nelle
contingenze presenti da radunanza solita farsi nella vicina fredda stagione per lo
più in tempo di notte dai villici nelle stalle, che si chiama volgarmente filò, ove
si uniscono persone di più famiglie, vengono queste riduzioni, o filò espressamente proibiti, in pena d’essere castigati severamente così i padroni delle stalle,
che gli altri che vi fossero intervenuti, incaricati i Merighi e Deputati a far le visite per rilevare le contraffazioni e riferirle all’Ufficio.
XIX. Non sia dato ricetto, né alloggio a pitocchi e birbanti soliti a pernottare sopra i fienili, essendo purtroppo pericoloso che col giro di costoro si
possa spargere la rea infezione.
356
XX. Per la facilità poi di rilevare al possibile se vi sono persone tanto
ardite, che in sprezzo di queste risolute prescrizioni introducano animali bovini
clandestinamente da Villa a Villa con espresso pericolo di gravi disgrazie, resta
terminato che, pubblicato il presente proclama e reso noto dai rispettivi Uffici a
tutte e cadaune Ville ad essi soggette, debbano i Parroci unitamente al Meriga, o
pure al Deputato, prontamente portarsi per tutta la Villa e a casa per casa e stalla
per stalla, con quelle riserve però che richiedesse il bisogno, prender in nota tutti
e cadauni animali bovini che in esse esistessero, denotando distintamente ad uno
ad uno il pelo, sesso, qualità ed il loro padrone, tenendo appresso di essi detta
nota, una copia della quale sottoscritta col loro giuramento sarà dai Merighi, o
Deputati, rassegnata ben tosto all’Ufficio di Sanità dove sono soggetti, dal quale
dovranno essere dette note con diligenza custodite col rilasciare una ricevuta a
chi gliela consegnerà. Se dalla Villa non interdetta e stalle sane uscisse alcuno
dei descritti animali, non potrà essere tradotto in altra vicina, o lontana, o pure al
macello se non sarà accompagnato dalla fede giurata del Parroco, quale dichiari
il pelo d’esso animale, la stalla da dove parte, il luogo ove è diretto ed il proprietario, dovendo il Parroco sopra le sue note far una notazione a fronte di quella
stalla da dove parte, ed all’incontro non potrà entrare in alcuna Villa per ivi fermarsi alcun animale di detta specie se all’entrar di esso non sia dato in nota dai
proprietari al proprio Parroco colla distinzione come sopra, qual animale sarà aggiunto alla detta nota che dovrà custodire, e ciò perché possa sempre essere fatto
quell’incontro che fosse creduto secondo i casi necessario per rilevare le furtive
e clandestine introduzioni e traduzioni di animali, che saranno severamente punite. Di queste note ed aggiunte, così per le introduzioni, che per le estrazioni, sarà
debito del Parroco di presentar di mese in mese la copia all’Ufficio di Sanità per
essere aggiunta alle prime note e fedelmente custodita.
XXI. Ma come poco valer possono le sopraddette diligenze e cautele
se benedette e presidiate non sono dall’Onnipotenza Divina, così dovrà ognuno
rivolgersi ad essa con preci ed orazioni particolari per impetrare che cessi una
così fatale insorgenza, che minaccia una specie di animali tanto proficua e necessaria alle umane occorrenze.
Regole stabilite il 19 settembre 1759
Della cura dei buoi ammalati
Prima giornata. Subito che cade infermo l’animale, che facilmente si
conosce perché più non ciba, né rumina, gli si farà cavar sangue a proporzione
delle sue forze dalla vena del collo, o da quella del fianco. Dopo questa operazione, se gli farà inghiottire una libbra di olio di lino. Poi gli si apriranno col
fuoco due larghi vescicanti o sopra le spalle, o nelle cosce, e si conserveranno
per il corso del male nel modo dai Periti solitamente praticato. In luogo dei vescicanti può adattarsi il taglio sopra la pelle, nel quale si fa entrare un poco di radice di elleboro, mentre col mezzo di questo elleboro stilla dalla ferita materia
357
quanto più abbondante, tanto maggiormente utile all’animale medesimo. Finalmente nelle ore prime della notte si farà che prenda il solito beverone composto
di farina d’orzo, o di formento, o di segala in acqua tiepida sufficiente.
Seconda giornata. Il rimedio che si deve far prendere per bocca all’animale in questa seconda giornata è questo. Si fa in polvere dell’erba centaurea
minore e del cardo santo e di questa polvere cavata da tutte le erbe su nominate
se ne prende due once sole ed a queste due once di polvere vi si uniscono perfettamente quindici grani di canfora raspata. Fatto ciò, si getta questa polvere in
vino bianco che sia quanto basta perché l’animale possa prendere il rimedio comodamente e questo rimedio si deve replicare quattro volte al giorno, cioè alle
ore dieci, alle quindici, alle venti ed alle ventiquattro. Il beverone poi alle ore
tredici ed alle due della notte.
Terza giornata. Col metodo medesimo oggi si pratichi il sopraddetto rimedio ed il beverone ancora.
Quarta giornata. Anche in questo dì facciasi lo stesso.
Quinta giornata. Si sospenda l’uso delle polveri ed invece di queste
prenderà l’animale l’olio di lino al peso medesimo di libbre una. Se l’animale
avrà il ventre sciolto oltre misura, si moderi questo disordine ricorrendo alla triaca, o piuttosto in questo caso al diascordeo. Di questo diascordeo, o di questa
triaca, se ne stemperi diligentemente un’oncia nel vino generoso e si farà che l’animale la prenda due volte. Se l’animale mostra di inclinare al fieno, se gli accordi, ma sia questo fieno ben secco e perfetto e ricusandolo si replichino i soliti
beveroni mattina e sera.
Sesta giornata. Si torni da capo all’uso della polvere suddetta nel modo
di sopra accennato e si osservi lo stesso in ordine al cibo.
Settima giornata. Quando per divina clemenza si scopra miglioramento
nell’animale, o in tal giorno non segua peggioramento, si minorino le prese di
questa polvere nei giorni successivi, riducendole alle tre, poi alle due a seconda
degli effetti. E quanto al cibo convien riportarsi a quanto si è detto poco avanti.
Così anche nelle operazioni del ventre fa d’uopo regolarsi in seguito a tenor del
bisogno. Peraltro somministrandosi acqua all’animale infermo per saziargli la
sete (che sarà bene, potendo, farne bere abbondantemente) sia sempre di buona
qualità e tiepida e dovrà entrare in ogni secchio di misura due once di nitro. I
profumi frequenti alle stalle con catrame in particolare, con bacche di ginepro, o
con erbe odorose campestri, e parimenti i bagni di caldo aceto con aglio fatti alle
narici ed alla lingua dell’animale sì infermo, che sano, sono sempre in queste occasioni utili grandemente.
A preservazione dei sani
Ai primi avvisi del male vicino si farà cacciar sangue da qualunque
vena si voglia agli animali tutti, facendone perdere quella quantità che è a proporzione delle loro forze. Si cibino di buon pascolo più scarsamente in questo
tempo dell’usato. L’acqua con cui si abbeverano non sia troppo fredda, né essi
troppo caldi dalle fatiche allor che la usano. Se sono condotti in giro per affari di
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campagna, o per altro, prendano frequenti respiri e siano muniti delle cestelle
dette musoliere con erbe odorose. Dei bagni e dei profumi si è detto di sopra. Altri poi molti salutari provvedimenti per la preservazione dei sani e per il buon
governo in questa funesta occasione necessari ha voluto la provvida e singolare
vigilanza di questa gravissima Magistratura che siano pubblicati a lume universale nei proclami in questi ultimi giorni firmati.
2. Proclami ed ordini del Provveditor Andrea Donà
Proclama emesso il 24 settembre 1760
Nei primordi dell’arrivo nostro in questa Provincia, ove in obbedienza
a positive rispettabili commissioni del Magistrato Eccellentissimo alla Sanità abbiamo dovuto condurci, veniamo a rilevare con molto senso dell’animo nostro
che nel breve frattempo da che è stata allontanata la pubblica milizia si suscitò in
questi sudditi uno smoderato spirito di libertà tanto pericoloso nelle correnti gelosissime circostanze.
Scossa temerariamente ogni soggezione e ritegno, essi ardiscono diportarsi con la più correggibile contumacia verso i rispetti di sanità in vari proclami ingiunti dalle sapientissime e zelanti cure dell’Eccellentissimo Magistrato
onde possibilmente ostare alle micidiali insidie della corrente epidemia nei bovini, col qual flagello piace alla volontà del Signor Iddio punire le umane colpe.
Non tollerabile così scandaloso contegno, crediamo opportuno di accorrere con adattati compensi a freno di ogni ulteriore dannosa licenza e corruttela e perciò, richiamando ognuno alla esatta osservanza delle pubbliche salutari
ordinazioni e provvidenze sinora promulgate, troviamo necessario di particolarmente riassumere nei seguenti articoli alcune prescrizioni che, apertamente obsolete, viene a restar grandemente esposta la gelosa materia, come ormai se ne
esperimentano i tristi effetti per qualche maligna riproduzione di questi ultimi
giorni con delusione delle instancabili sollecitudini del N.H. Luogotenente di
Udine che, nonostante le pesanti mansioni della sua Reggenza, ha con impegno
così assiduo e fruttuoso diretta l’importantissima travagli osa ispezione che,
dopo Dio, a merito della singolare vigilanza sua si trova ora fugato e ristretto il
venefico influsso solamente in alcuni villaggi in Concordia, dopo di aver con più
lugubre incendio invasa e desolata la maggior parte della Provincia.
Facciamo pertanto col presente proclama pubblicamente intendere e
sapere quanto segue.
I. Inerendo al capitolo I dello statutario proclama 19 settembre dell’anno decorso dell’Eccellentissimo Magistrato alla Sanità, non vi sia chi ardisca
neppur per momenti tener occulti gli indizi della malefica infezione ovunque venisse scoperta, ma debbano i rispettivi proprietari così di boarie, che di pascoli, o
di altri siti ove esistessero animali bovini, sull’istante di qualunque benché minima apparenza di attacco, ancorché dubbioso, avanzarne immediate la riferta al
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rispettivo Ufficio di Sanità ed all’Ufficiale Capoposto, se per avventura si trovasse più prossimo al luogo dell’insorgenza, onde possano essere prontamente
eseguiti i sequestri e le cautele che sono prescritte, dovendo però sul fatto essere
dai proprietari asportati e disgiunti gli animali sani dagli infermi acciò il male
non si diffonda.
II. Gli animali che perissero siano immediate tumulati in pelle, che in
diverse parti dovrà essere recisa, in carne ed ossa in fosse profonde piedi 10, coperti di calce viva bagnata onde ne succeda pronta la consumazione, le quali sotterrazioni dovranno effettuarsi in luoghi remoti dalle strade pubbliche e da ogni
concorso e con tutte quelle assistenze, modi e cautele che prescrivono i capitoli
XII e XIII del predetto proclama 19 settembre 1759.
III. Non vi sia chi ardisca sotto alcun colore, o pretesto sommuovere e
manomettere i letami, strami ed escrementi degli animali ed altre immondizie
che, dopo i praticati espurghi di alcuna stalla, o altro luogo, fossero stati interrati
perché, risorgendo il fetore, potrebbe facilmente riaccendersi quel fuoco che con
tali sotterrazioni si fosse estinto.
IV. Sia e s’intenda rinnovato il bando dei vagabondi, pezzenti, questuanti e di ogni altro genere di simili persone solite girar per le Ville e ricoverarsi nelle teze e fienili e perciò non dovrà da chi si sia esser loro accordato ricetto,
né ammessi nelle teze, fienili e stalle giacché più dalle persone con le impressioni che ricevono nei vestiti, che dagli stessi animali viene portato e diffuso il pericolo.
V. Siano con la maggior gelosia tenuti rinserrati nei cortili e nei recinti
delle rispettive abitazioni i cani, gatti e quell’altro bestiame che solito vagar solo
può facilmente penetrar nelle situazioni sospette e dilatar l’infezione, altrimenti
saranno tutti indistintamente ammazzati, essendo perciò rilasciati gli ordini conferenti.
VI. Non possa alcuno che fosse destinato alla custodia dei caselli e restelli abbandonar il proprio ufficio, al quale dovranno essere sempre elette persone le più benestanti e probe che sappiano leggere e scrivere per il necessario riscontro delle fedi di sanità e per ben dirigere l’importante incombenza, esclusi
sempre da così gelosa ispezione gli uomini di Ville infette, i beccari, macellai,
donne e fanciulli in conformità del sentimento del suddetto proclama 19 settembre espresso negli articoli V e VI e sia debito dei rispettivi Ufficiali di Sanità tener nota distinta delle persone che a tali custodie fossero state destinate onde essere ad ogni cenno rassegnata a questa Carica per le opportune verificazioni e
confronti.
VII. E perché varie esperienze da noi anche ocularmente conosciute
hanno comprovato quanto sia dannoso lasciar esposti gli animali medesimi agli
oltraggi della pioggia e dell’intemperanza dell’aria, né altro potendo attendersi
nella stagione cui si va incontro per lo più rigida e sconvolta, perciò ordiniamo
che in avvenire, cadendo alcun bovino con indizi di male epidemico (il che tolga
Iddio!), l’intero corpo di quegli animali ove si fosse intrusa la disgrazia dovrà es-
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sere prontamente raccolto, ritirato in stalla ed eseguite le diligenti separazioni
dei sani dagli ammalati, come si è detto di sopra.
VIII. Siano da ognuno cui incombe puntualmente eseguite le presenti
ordinazioni sotto pena della morte e di altre corporali ad arbitrio della Carica,
alle quali procederà a misura della trasgressione in cui per avventura qualcuno
incorresse e particolarmente chiunque osasse d’infrangere i sequestri che fossero
imposti a persone ed animali, nel qual vincolo consiste il punto della maggior difesa dalla corrente calamità, s’intenderà irremissibilmente soggetto alla pena della vita a senso del II articolo del prelodato proclama 19 settembre 1759.
IX. A freno di così perniciosa licenziosità, che non lascia senza sospetto questa Carica che sia in passato purtroppo succeduta, mentre sarà per l’Ufficio
della Cancelleria nostra tenuto aperto processo di continua inquisizione onde rilevare e punire i rei di delinquenza così enorme, dovranno inoltre i Massari, Deputati e Merighi dei Comuni liberi e massime confinanti con la Ville infette e sospette far pattugliare giorno e notte le strade, praticando coi dovuti riguardi l’arresto di persone, o animali che clandestinamente provenissero da alcuna Villa infetta, o sospetta, facendo irremissibilmente fuoco addosso a chiunque tentasse di
isolarsi con la fuga, di tutto avanzando pronta notizia al N.H. Pubblico Rappresentante, Giurisdicente e Collegio più vicino, per essere poi partecipata a questa
Carica per le convenienti deliberazioni. tanto dovrà essere eseguito anche dagli
Ufficiali Capiposto direttori della milizia che opportunamente sarà disposta in
presidio dei siti della maggior osservazione a misura delle occorrenze.
Regole stabilite il 4 ottobre 1760
Regole che servir dovranno di metodo a tutti i Governatori, Capitani,
Vicari ed altri Deputati agli Uffici delle rispettive Giurisdizioni, come pure agli
Ufficiali Soprintendenti, Direttori, Capiposto, Soldati e ad ogni altra persona impiegata nella corrente gelosa materia dell’epidemia dei bovini e queste inerenti
già a pubblici proclami ed in aggiunta alle commissioni già rilasciate.
I. Sia per primario obbligo l’avvertenza di tener nel più vigile ufficio il
Meriga di Comun e Deputati alla Sanità perché ad ogni minimo inizio di morboso attacco facciano immediatamente separare col mezzo dei boari e di altre persone ai bovini inservienti gli animali sani dai malati e debbano tutti indistintamente restar assoggettati a rigoroso sequestro, come pure le persone, onde sia
loro interdetto ogni commercio con gli altri ed al governo degli animali siano destinate persone non sospette.
II. A questo grande effetto, tendente che il male non si propaghi, dovranno essere diligentemente guardati tutti i luoghi infetti e sospetti e frequentemente visitati acciò le Custodie siano in continua vigilanza, né manchino agli
animali le necessarie assistenze onde l’immondizia, o il difetto di nutrimento
non dilatino la disgrazia, né sia di un momento ritardata la tumulazione dei morti.
IV. Gli animali malati siano diligentemente nutriti con bevaroni particolarmente di farine e tenuti ben mondi e governati, cambiando loro le paglie
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sotto almeno due volte al giorno, purgando con la stessa frequenza le stalle e
boarie dai letami e da ogni altra immondizia, dovendo ogni cosa essere sotterrata
in profonda buca, pur questa lontana dall’abitato.
V. In quanto ai rimedi, trovatosi per la moltitudine di quelli che si sono
sperimentati che niente riesce più atto ed efficace contro la contumacia della corrente infezione quanto l’uso di forar la pelle, ciò si faccia praticare prontamente
tanto agli animali che dimostrassero di essere colpiti, come a tutti gli altri di
quella boaria, o pascolo, dovendosi già computare egualmente contaminati.
VI. I sequestri dovranno sussistere con ogni rigore in cadaun luogo sospetto per sette giorni onde depurarsi l’indole dell’insorgenza, se innocente, o
morbosa, e spirata questa prima stretta osservazione, si dilati il sequestro ai recinti delle campagne per l’effetto della coltura a condizione che né le persone, né
gli animali sequestrati abbiano a commerciar con chi che sia, in pena della vita, e
decorrendo felicemente altri sette giorni senza mali successi, si rimettano alla
primiera pratica, ma se in tal frattempo accadesse qualche nuovo accidente, siano confermati con le accennate ristrettezze e cautele i sequestri, né dovranno essere rimessi che dopo gli indicati esperimenti.
VII. Sempre che il proprietario degli animali sequestrati volesse anche
durante il primo sequestro far lavorare le proprie campagne da gente e animali
sani e liberi da ogni sospetto, a ciò si acconsenta purché non possano comunicare con le persone, con gli animali e con il luogo sequestrato, al qual effetto si
facciano custodire a vista ed anzi per assicurare ogni pericolo dovrà tanto la mattina nell’entrare al travaglio, come la sera al recedere, esattamente avvertirsi che
tali ingressi e regressi succeder abbiano unitamente persone ed animali in un
tempo solo.
VIII. In quanto ai luoghi infetti, terminato il corso della vicenda che si
intenderà consumata con l’ultimo animale che morisse, cominciar dovrà la contumacia di giorni ventuno ed altri sette di osservazione tanto per gli animali superstiti, come per le persone che fossero state assoggettate al sequestro.
IX. Alle stalle e ad ogni altro luogo infetto si facciano praticare gli
espurghi con l’ultimo rigore nel modo dai proclami prescritto, facendo sotterrar
ogni escremento ed immondizia, scrostar ed imbiancar le muraglie, sommuover
il terreno, incendiar gli strami, evaporar e metter sottosopra il fieno, usar gagliardi e replicati profumi ai luoghi degli animali ed a tutti gli strumenti rurali e con
la medesima diligenza si facciano purificar le persone, particolarmente i loro vestiti.
X. E perché si rileva il reo abuso di ammontarsi i letami freschi sopra i
letami vecchi, sia perciò cura di visitar cadaun luogo ove si fosse così praticato,
facendo ivi incendiar gli strami e profondamente seppellir i letami freschi ed il
monte dei letami vecchi sia fatto coprir di paglia, cui attaccato il fuoco possa ad
un tratto di fiamma essere consumata ogni particola venefica che nei medesimi
si conservasse ancora concentrata.
XI. In mira di conciliare con gli oggetti importanti di salute quelli non
meno essenziali del commercio, non debba con importune angustie impedirsi la
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libertà del passaggio alle persone e cavalli che da Ville sane fossero di semplice
transito da un luogo all’altro, previo però il requisito di sanità e non altrimenti, e
se necessità portasse alcun passaggio per Villa infetta, ciò segua sotto scorta delle Custodie che dovranno accompagnar tanto le persone, che gli animali fuori dei
confini di essa Villa interdetta.
XII. Nel caso che ai proprietari piacesse d’introdur gente in luoghi sottoposti al sequestro per far supplire ai propri interessi, si accordi a condizione
che tale gente sottostar debba allo stesso sequestro per quel tempo che dovesse
sussistere.
XIII. Le persone destinate per le giornaliere occorrenze della gente
delle Ville interdette dimorar debbano nelle Ville sane più vicine e siano attente a
somministrar il bisogno onde gli angustiati non manchino della quotidiana sussistenza.
XIV. Occorrendo d’introdur in Ville segregate raccolti di uve, formenti
ed altri prodotti, sia ogni cosa condotta sino ai rastrelli, ove eseguiti gli scarichi
sotto l’osservazione delle Guardie, siano subito fatte retrocedere tanto le persone, come i carri e gli animali, indi possa la gente sequestrata ricever le robe a cadauno spettanti.
XV. La stessa avvertenza si usi nel caso di dover estrarsi da Ville interdette prodotti si simile genere, o altri effetti non suscettibili, dovendo ogni cosa
esser condotta sino ai rastrelli dove dalle persone libere, dopo il regresso delle
persone ed animali sequestrati, sia ricevuta, ciò pure sotto l’occhio delle Guardie.
XVI. Se mai si trovasse alcuno così temerario che osasse di rendersi
contumace agli ordini che venissero rilasciati dai rispettivi Uffici di Sanità, o di
altri a cui incombe la presente gelosa materia, dovranno dagli Ufficiali Capiposto esser fatti arrestare e tradurre all’obbedienza della Carica per le opportune
deliberazioni.
XVII. Se mai ad alcun proprietario nascesse il bisogno d’introdur gente nei luoghi infetti per governo dei propri animali e che, nonostante il pagamento dell’opera, o sia giornata, non si trovasse chi volesse concorrervi, siano obbligati i Merighi e Degani dei Comuni di provvedere di quel numero di persone che
fossero ricercate per tanta esigenza, onde gli animali non abbiano a miseramente
perire più dal disagio e dal mal governo, che dai travagli del morbo.
XVIII. Eseguito che sia con quella gelosa e puntuale osservanza che è
necessaria cadaun articolo nelle presenti regole contenuto sotto pena di responsabilità di chiunque è incaricato a promuovere la osservanza e di vita di chiunque ardisse di contravvenire, giova confidare che mediante la divina misericordia possa una volta estirparsi affatto così micidiale epidemia, che da tanto tempo
luttuosamente stringe la benemerita specie dei bovini in questa Provincia.
Proclama emesso l’8 ottobre 1760
Il metodo molto disordinato con cui procede la tanto importante materia delle fedi di sanità chiama lo zelo e la sollecitudine nostra ad emendarlo con
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opportune regolazioni e compensi a scanso di quelle confusioni e gravissime irregolari direzioni, con le quali si tratta il delicato argomento da gente villica ed
ignorante, che per lo più esclude con rigore ciò che non conviene ed incautamente ammette ciò che escluder dovrebbe.
Riputiamo perciò opportuno di fissare col presente proclama, che dovrà essere universalmente diffuso, una norma determinata a reciproca intelligenza dei rispettivi Collegietti ed Uffici di Sanità, dei Deputati e Parroci di tutti i
Comuni e di ogni altra pubblica persona destinata a soprintendere all’importante
materia onde, cospirando essi alla sua puntuale osservanza, promuovano in
ognuno l’esempio della dovuta obbedienza.
I. In qualunque luogo ove non esistessero Collegietti, o Uffici di Sanità, resta espressamente rinnovato l’ordine che le fedi siano rilasciate gratis e firmate soltanto da Parroci e Cappellani ed in loro mancanza dal Deputato alla Sanità, che dovrà essere persona benestante, fedele e proba, che sappia leggere e
scrivere onde riconoscere con le necessarie avvertenze le fedi medesime, esclusi
perciò dappertutto i beccari e macellai, e la medesima precauzione dovrà usarsi
nella scelta dei Custodi ai rastrelli di cadauna Villa che cadesse sotto la soggezione del sequestro.
II. Le fedi dovranno essere tutte in stampa e perciò sia debito dei Collegietti dei Giurisdicenti ed altri Uffici di Sanità di renderne di tempo in tempo
provveduti di sufficiente quantità i Parroci e Deputati rispettivi, abolendosi affatto l’uso delle fedi in scritto, non dovendo, come irrite e di niun valore, essere
ammesse da chi si sia.
III. Dovrà in cadauna fede diligentemente spiegarsi il nome, cognome,
età, pelo e statura di chiunque vi fosse descritto ed il luogo per dove è diretto, individuando se parte da Villa libera, o interdetta, e da casa libera, se con robe, o
senza, ed insomma con tutte le chiarezze maggiori, dovendo essere rigettata qualunque fede che fosse alterata da cassatura, o da alcun’altra viziatura, e che non
corrispondesse in tutte le parti alle note in essa contenute.
IV. Nelle Città, Terre e Ville debbano sul momento del recapito essere
esse fedi prodotte a chi avesse l’incombenza di riconoscerle, da cui dovranno essere trattenute sempre che si fermasse la persona, o persone, dalle quali fossero
state esibite, e queste dovranno essere muniti di nuove fedi al caso della loro partenza, ma se proseguissero, dovranno di luogo in luogo essere riconosciute e rimesse nelle solite forme e firmate dalla sottoscrizione del rispettivo Parroco, Deputato, o altro Soprintendente alla Sanità, e dove vi fossero Collegietti, Uffici,
Parroci e Cappellani siano munite anche del sigillo a scanso dei perniciosi abusi
che sono succeduti, massime di enorme alterazione di caratteri ed illecite ammissioni di fedi praticate da figure affatto incompetenti.
V. A tutte le persone, animali ed effetti che procedessero da luoghi sani
dovrà essere accordato il transito per i luoghi liberi, sempre che siano muniti di
fedi di sanità con le dichiarazioni indicate.
VI. Tra i medesimi luoghi sani neppure sia impedito il commercio agli
stessi animali bovini che travagliassero nel trasporto delle vendemmie, o che
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fossero destinati ad uso di beccaria, sempre che fossero accompagnati dal requisito della fede che indichi il luogo donde procedono, il numero e qualità dei loro
conduttori ed il pelo degli animali medesimi.
VII. In questo caso sarà sempre parte dei Deputati ai rastrelli di confrontare con particolar attenzione esse fedi con gli animali e persone che descrivessero ed esattamente assicurarsi, prima di introdurli, che negli animali non apparisca alcun segno di morbo, nel qual caso dovranno essere fermati e sequestrati insieme con le persone sino ad altre disposizioni della Carica, cui dovranno essere prontamente avanzate le debite notizie.
VIII. Parlando delle Ville interdette, non dovrà essere permessa l’uscita, né accordata fede di sanità a boari, casari, scorzeri, pitocchi, vagabondi, osti,
maniscalchi, macellai ed a simile genere di gente inserviente ai bovini, o soliti
praticar in boarie, e neppure a Parroci e Cappellani, stante che per i doveri del
loro religioso ministero sono tenuti a trattare con tutte le persone della Villa interdetta ed entrare in ogni occorrenza nelle medesime case infette.
IX. Ma come non è che un eccedente stancheggio il costringere alla
medesima strettezza le persone nobili, civili e di altro stato non solite commerciar con animali bovini, così a queste non dovrà essere negata nemmeno dalle
Ville interdette la fede di sanità, purché in essa sia specificata la vera condizione
di cadauna persona, il che dovrà però negarsi nel solo caso che constasse di pratica in alcun luogo infetto.
X. Molto meno poi dovrà essere impedito il semplice transito per Ville
infette, o interdette, a simile genere di persone provenienti da qualunque luogo,
previo sempre il requisito delle fedi e non altrimenti, e ciò con l’essenziale mira
di non restringere senza urgenti motivi la necessaria comunicazione con grave
danno dei particolari interessi.
XI. Per gli Ufficiali e soldati sia e s’intenda libero l’accesso ed il transito in ogni luogo anche senza le fedi di sanità, come quelli che destinati alla direzione e servizio della materia devono con gli occorrenti suffragi speditamente
accorrere ovunque il bisogno ricercasse.
XII. E siccome l’ispezione delle fedi regolate nel modo dichiarato
nel presente proclama incombe peculiarmente ed unicamente ai soli Collegietti,
Uffici e Deputati di Sanità, Parroci, Cappellani ed altri Soprintendenti e Custodi,
i quali si intenderanno strettamente responsabili di alcuno benché minimo ulteriore sconcerto, disordine, omissione e facilità che per avventura accadesse contro la forma di questo sistema emanato a caritatevole impulso di sollevare i sudditi dalla frequente necessità di ricorrere alla carità per il permesso dei transiti da
luogo a luogo, con grave incomodo e pregiudizio dei propri affari, così gli Ufficiali Capiposto ed ogni altra militare figura e custodia non avranno altra parte in
questa incombenza che di opporsi ed impedire il passaggio a tutti quelli che
mancassero dei requisiti come sopra ingiunti, e così a quelle persone che si sono
onninamente eccepite, il che dovranno praticar ad ogni richiesta dei Collegietti,
Uffici, Deputati di Sanità, Parroci, Cappellani e di altri Soprintendenti e Custodi,
praticando anche l’arresto di chiunque osasse di temerariamente resistere come
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prescrivono i proclami da noi antecedentemente promulgati nel proposito, ai
quali si dovrà sempre aver intera relazione, dovendo altresì invigilarsi da ognuno
a misura degli incarichi rispettivamente addossati che riportino la loro inviolabile osservanza le regole da noi recentemente divulgate per la maggior direzione
della materia e per conciliare coi rispetti della medesima le possibili condiscendenze onde non risenta pregiudizio il commercio e la coltura della campagna.
Proclama emesso il 6 novembre 1760
Quell’epidemico influsso nella specie dei bovini che con lugubre eccidio ha funestato la Superiore Provincia del Friuli si è ridotto ora a percuotere con
impetuoso sfogo la parte Bassa della Provincia medesima ed atterriscono più di
tutto le espansioni con le quali per una banda si va producendo verso l’Alto Friuli e per l’altra verso il confine trevigiano.
Chiamate perciò le vigili sollecitudini nostre da così vicine e stringenti
apprensioni con l’impegno di seriamente meditare ed accorrere coi più validi ripari onde, per quanto si può dall’umana previdenza, non prorompano fatali recidive nelle accennate pertinenze e per celeste grazia si mantengano nella prosperità della propria redenzione, con questa mira abbiamo creduto necessaria la segregazione di questa parte soggetta al morboso insulto dal rimanente della vasta
Provincia e dal libero commercio con l’altra vicina di Treviso.
Facciamo perciò col presente proclama universalmente intendere ed
espressamente comandiamo.
I. Tutto ciò che si contiene entro i seguenti confini (che saranno: a tramontana, o sia verso monti, la strada maestra che da San Vito a retta linea prosegue per Pordenone e si estende sino a Sacile, a levante il Tagliamento, a ponente
la Livenza, a mezzodì il mare) sia e s’intenda segregato dal rimanente della Provincia del Friuli e da tutto il Trevigiano, che restano in qualità di liberi ed aperti
senza impedimento alcuno di commercio fra sé medesimi cosicché, facendosi
per ogni parte una valida linea mediante la pronta erezione di caselli e rastrelli di
divisione, taglio e barricazione di strade, destinazione di guardie e custodie di
sanità ovunque occorresse, resti impedita ogni uscita dall’interdetta situazione ad
animali bovini, carnami di tale specie, pelli fresche e conce, ed a persone rustiche, cioè quelle inservienti ai bovini e specificate nel precedente proclama nostro 8 ottobre decorso ancorché munite fossero di legittime fedi di sanità, dovendo alle persone nobili, civili e di ogni altra condizione non solita commerciare in
qualunque tempo colla sopraddetta specie di animali, essere accordato libero il
transito, previo il requisito delle fedi suddette, e così ai corrieri, staffette, postiglioni, vetturini ed ogni altro noleggiante.
II. Per vietare ogni furtiva sortita dalla parte sospesa di animali, persone e di ogni altro come sopra bandito, sarà positivo incarico dei Deputati, Merighi e con altro titolo Capi di Comuni più vicini alle stabilite confinazioni, e particolarmente alla parte superiore della suddetta strada maestra a tramontana ed
alle linee dei predetti fiumi Tagliamento e Livenza per quanto si estendono i ter366
mini stabiliti, far erigere i caselli e rastrelli come sopra ordinati e somministrar
quel numero di persone che sarà creduto necessario e che venisse ordinato dai
N.N.H.H. Rappresentanti e Spettabili Giurisdicenti ed Uffici di Sanità, nelle quali persone s’intenderanno sempre così le privilegiate, che non privilegiate ed
anco le descritte per cernide acciocché indifferentemente debbano attendere
giorno e notte con tutta la fedeltà alla custodia di quei caselli e rastrelli ed altri
posti ai quali fossero destinate, da cui non dovranno mai partire se prima non
sarà loro recapitata la muta, facendo altresì pattugliare le rispettive loro strade e
praticando l’arresto anche a tocco di campana a martello coi debiti riguardi di sanità così delle persone, che degli animali ed altro che eccepito e che contro il
presente divieto fosse sortito dall’interdetto recinto, portandone immediate la notizia al rispettivo N.H. Rappresentante, Giurisdicente ed Ufficio di Sanità, dai
quali sarà passata a questa Carica per quelle deliberazioni e rigorose pene, oltre
la perdita degli animali, che saranno credute corrispondenti alla delinquenza ed
ai medesimi castighi andranno pur soggetti quei Comuni che si rileveranno mancanti ai doveri loro come sopra ingiunti, anche per denunce segrete.
III. E per meglio assicurare l’osservanza della presente sospensione, re
restano incaricati i Parroci tutti dimoranti nella parte segregata di non rilascia
fedi per alcuno dei luoghi non compresi nella segregazione a quelle condizioni
di persone, animali ed altro come sopra onninamente eccettuate, osservando nel
resto in quanto alle altre persone ed al metodo da tenersi nel rilascio delle fedi
medesime ciò che nell’antecedente proclama 8 ottobre passato abbiamo prescritto.
IV. Restano egualmente incaricati gli Ufficiali Capiposto che si attrovassero a portata dei confini suddetti di usare e far usare dai loro Distaccamenti
tutta la maggior attenzione onde non sia in parte alcuna violata la determinazione presente, facendo praticar gli arresti di ogni contumace nel modo di sopra ingiunto e far pervenire sollecito avviso alla carica onde procedere al rigore dei
comminati castighi.
V.
Ed il presente dovrà essere trasmesso ai N.N.H.H. Rappresentanti di Pordenone, Sacile, Motta e Porto Buffolè, al Capitano di San Vito e ad
ogni altro Giurisdicente che tenesse Giurisdizione nella parte segregata, o immediatamente confinante con la medesima, onde in conformità del prescritto debbano rilasciar gli ordini corrispondenti ed invigilare perché sia puntualmente eseguito quanto si incombe, dovendo pure essere per la sua osservanza intimato ai
Passadori che si comprendessero nel tratto dei confini stabiliti sulla Livenza e
Tagliamento, ed inoltre sia avanzato all’Eccellentissimo Signor Luogotenente di
Udine acciò dal suo zelo sia fatto stampare ed affiggere nei luoghi più cospicui e
consueti di quella Città e passato a lume di quell’Ufficio di Sanità, indi circolarmente diffuso a tutte le Giurisdizioni della Provincia a regola universale.
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3. Incarico al Provveditor Alessandro Almorò Tiepolo
Relazione presentata il 4 agosto 1761 dal Protomedico Girolamo Istrana
Servendo io questi Illustrissimi Provveditori alla Sanità di Treviso che
a motivo delle molteplici relazioni riportate dai villici Deputati dei vari luoghi
intono gli animali bovini, che espongono che di questi ne furono periti molti in
pochi giorni e che altri ancora sono ammalati gravemente, decretarono di fare gli
opportuni riscontri onde rilevare con l’apertura dei bovi medesimi e colle rimarche ed osservazioni che si rendono necessarie la vera indole ed il certo carattere
di un morbo pernicioso e tanto pregiudiziale alla società e di riparare al possibile
al suo avanzamento, documentati dagli avvenimenti dell’epidemia di recente
passata col ricordo di tutte le maggiori precauzioni e dei più validi ed opportuni
rimedi. Portatici insieme pertanto il primo giorno nella Villa di Vascon alla stalla
di Pietro Simion abbiamo ritrovato quattro manzi di fresca età, uno dei quali vivace e sano, un altro mancato di vita la notte scorsa dopo giorni tre circa di male
e gli altri due attaccati da febbre forte, malinconici, con le orecchie e testa pesante e bassa, con lacrimazione agli occhi, senza voglia alcuna di prender cibo e
senza rumego, con forze spossate e che a fatica camminavano e si reggevano in
piedi, con respirazione gravosa e frequente.
Ad uno dei due sul fatto feci cacciar sangue ed applicare altri suggeriti
rimedi ed all’altro da tali fenomeni maggiormente e con più forza aggravato, siccome era inevitabile la di lui morte, così in anticipazione ho suggerito di ammazzarlo e sventrarlo per avere un più esatto lume. Aperto il bue col mezzo di un
colpo di mazza a bella posta condotto ed esaminati i visceri, furono ritrovati nella seguente maniera.
Le mandibole ed i barboni riscaldati, rossi e gonfi, la lingua arida e con
un taglio nella parte superiore cicatrizzata, le narici fredde, l’omaso duro e pieno
di erbe e di cibo mal triturato ed intasato per modo che passar non avrebbe potuto nell’altro ventricolo, le tuniche del medesimo alterate e pregiudicate nello stato suo naturale, il polmone oltre misura accresciuto e dilatato e ripieno di sangue
quagliato ed in qualche parte fracido nella sua sostanza vescicosa, la milza grossa oltre modo rossa e riscaldata, ripiena di sangue grumoso e stagnante, o corroso, la vescica riempita da copiose urine sanguinolenti, il fegato poi, cuore, cervella e gli altri visceri tutti sani.
Proseguendo la visita ci siamo condotti da poi alla Villa di Maserada,
ove arrivati alla stalla di Francesco Broit, mi furono fatti vedere quattro manzi di
età consistente di pelo diverso: uno dimostrava e dava pieni segni di salute, altri
due con febbre gagliarda e con sintomi pari a quelli prima registrati e visitati nella Villa di Vascon. Per questi due furono suggeriti i convenienti rimedi e la replicata cacciata di sangue. Il quarto finalmente era morto poche ore prima dopo due
giorni di male contrassegnato con gli stessi e medesimi caratteri.
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Fatte perciò anche sopra di questo le diligenti anatomiche osservazioni
e perquisizioni con la di lui apertura, sono venuto di rilevare tutto e quanto fu osservato da me nel bue ammazzato in anticipazione del sopraddetto Pietro Simion
da Vascon, con questa differenza che i sopra nominati fatali difetti dei visceri in
questo bue erano in grado maggiore e più forti come di fatto si vede che in breve
spazio ha dovuto soccombere.
Da tali necessarie osservazioni dunque altro giudizio non può formarsi
se non che il male dei suddetti bovini altro non sia che una febbre infiammatoria
maligna prodotta da sanguinis coagulatione dipendente da qualche materia venefica che mette in orgasmo ed agitazione il sangue medesimo e promuove la febbre della qualità sopraddetta.
Che questo male sia comunicabile e maligno lo dà a dividere che quando attacca una stalla si comunica l’una con l’altra e quando le stalle sono vicine i
miasmi, o sia veleni, facilmente si comunicano anco alle vicine.
Arrivati poi alla Villa di Camalò nella stalla di Domenico Buran, ivi ho
ritrovato con febbre un bue che tristo e malinconico né mangiava, né rumegava
ed era teso e gonfio tutto il ventre ed era in stato pericoloso di vita ad onta dei
praticati rimedi e questo a motivo di un pasto preso sovrabbondantemente, né
ancora digerito, malori che spesso nascono per incuria di chi assiste ai buoi. Infatti talora per procurarsi i villici il loro sostentamento, non hanno riguardo di
adoperarli giorno e notte con carichi superiori alle loro forze e potere ed in una
stagione così calda vedendoli logori e sfiniti procurano di rimetterli in breve e
senza altro pensiero appena levati dal lavoro ed ancora riscaldati li fanno bere e
li lasciano magiare con ingordigia ed a sazietà in luoghi anche i più paludosi.
Questo dunque di Camalò è di uno stato diverso di quelli di prima.
Questo è quanto può suggerire la mia insufficienza e tutto ciò che posso umiliare dalle raccolte mia osservazioni in attestato del dover mio e con mio
giuramento.
Allegato piedilista per il periodo dal 28 luglio al 3 agosto
Vascon, stalle sequestrate 2, buoi malati 1, buoi morti 3
Maserada, stalle 1, malati 2, morti 1
Povegian, stalle 1, morti 1
Arcade, stalle 2, malati 1, morti 1
Candelù, stalle 1, morti 2
Camalò, stalle 1, malati 1
Levada, stalle 1, malati 1
Salettuol, stalle 1, malati 1
Soligo, stalle 1, morti 1
Colbertaldo, stalle 1, morti 1
Caerano, stalle 2, malati 1, morti 1
Visnà di Pederobba, stalle 2, malati 1
Pederobba stalle 1, malati 1, morti 1
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Caonada, stalle 1, morti 1
Totali Ville 14, stalle 18, malati 10, morti 14
Scrittura presentata al Senato il 7 agosto 1761 dal Magistrato
Serenissimo Principe. Dopo le superate moleste vicende alle quali
andò soggetta per il corso di quasi due anni la specie degli animali bovini, come
è ben noto a Vostra Serenità, se ne compiaceva questo Magistrato di veder ripristinata una perfetta calma in ogni parte dei Pubblici Stati, quando le notizie sopraggiunte nei giorni passati, ed in ieri particolarmente dal Friuli e dal Trevigiano, fanno risorgere delle nuove gelosie e dei timori di una qualche recidiva.
Partecipa il N.H. Luogotenente di Udine vari accidenti sparsi in quella
Provincia colla lusinga peraltro che siano di semplice riscaldazione e derivati
dall’indiscreto lavoro in questa così fervida stagione, ma siccome è troppo recente la memoria delle perdite sofferte, così anche dagli accidenti, sebbene naturali, ce ne deriva il timore di nuove riproduzioni.
Si accrescono le gelosie in quella Provincia per la insistenza con cui
l’epidemia si va mantenendo nei Territori di Gorizia e di Gradisca ed in tre villaggi del Carso Austriaco poco discosti dal pubblico confine di Monfalcone. Purtroppo furono sempre fatali alla suddetta Provincia quelle confinazioni, da dove
per lo più sono derivate le disgrazie delle passate epidemie. Poco pratici quei vicini e niente solleciti di loro natura, piuttosto che impedirli, fomentano i progressi. Da questo abbandono così pericoloso ne deriva un impegno maggiore di buona difesa, che sebbene sia malagevole, come è noto all’Eccellentissimo Senato,
in riguardo alle estere Ville che sono intersecate nel suddito Stato, con tutto ciò
colle milizie che restano tuttavia a quella parte speriamo, per quanto ci accenna
quel N.H. Luogotenente, che sia almeno per ora provveduto alla buona custodia
della linea. Oltre queste provvidenze dirette ad impedire gli accenni pericolosi di
gente villica e degli animali bovini, fu creduto opportuno di togliere l’occasione
di tentare le vie clandestine col sospendere di nuovo i mercati tutti al di là del
Tagliamento e sino alla fiera vicina di San Lorenzo.
Reso conto a Vostra Serenità di quanto emerge nel Friuli e delle disposizioni fatte sollecitamente così per garantirsi dai pericoli dei confinanti, che per
far argine ai primi sospetti sparsi nella Provincia, passeremo in adesso in questa
seconda parte a formare una breve relazione del Territorio Trevigiano, che sarà
più interessante della prima.
Scrive quel Pubblico Rappresentante che quattordici si contano le Ville
e diciotto le stalle che hanno somministrati accidenti nella specie suddetta, ma
tra queste sono da rimarcarsi particolarmente due stalle in Vascon ed una in Maserada. Nella visita generale che fece quell’Ufficio di Sanità assistito dal proprio
Protomedico come non fu fatto molto conto degli accidenti sparsi nelle altre Ville perché creduti naturali e di indole non sospetta, rilevati al numero di dieci
morti e sette ammalati, così di molta gelosia furono considerate le tre stalle nelle
due indicate Ville di Vascon e di Maserada, ove quattro furono i morti e tre gli
370
ammalati. Sopra questi si trova diffusa la relazione di quel Protomedico, che fatte tutte le osservazioni migliori degli accennati attaccati ed anche ad un altro fatto accoppare, descrive i caratteri come i più sospetti e quasi interamente simili
alla decorsa epidemia. Per verità leggendo questa relazione, non possiamo dissimulare quanta fu la nostra costernazione, dubitando molto che possa quel Territorio e la Provincia tutta ricadere nelle passate disgrazie.
Usando perciò di quella diligenza che conviene in queste circostanze,
si è in ieri straordinariamente ridotto il Magistrato e fatta una espressa spedizione a Treviso si ordinò che sia tosto sospesa la prossima fiera di San Lorenzo di
Callalta e così tutti i mercati dei bovini di qua di Piave e per quanto si estende il
Trevigiano. Si eccitò quell’Ufficio di Sanità a dover accudire con tutta la maggior attenzione all’osservanza rigorosa dei sequestri e ad una pronta separazione
degli animali sani dagli ammalati, con tutte quelle avvertenze maggiori già
espressamente prescritte da replicati proclami che hanno assai bene provveduto
alla materia. In oggi abbiamo inoltrato a Treviso nuove commissioni, ordinando
che alle tre sospette stalle ed a tutte le altre che fossero con gli stessi maligni caratteri venga assegnata la custodia di milizia con debito di vigilare sopra la rigorosa esecuzione dei sequestri, ma come ci è noto che poca truppa può aver alle
sue disposizioni quel Pubblico Rappresentante e questa anche in gran parte occupata in altre pubbliche occorrenze, così ci siamo rivolti all’Eccellentissimo Signor Savio alla Scrittura, che prontamente ci somministrò un distaccamento di
fanteria di sedici soldati con un Caporale diretti dal Capitano Tenente Filaretto.
Si è diretta subito questa milizia a Treviso perché sia impiegata a rinserrare nel
suo principio il male e ad impedire colla dovuta assistenza che non abbia a prorompere in dolorosi progressi, aggiungendo inoltre di destinare Ispettori che siano di capacità ed esperienza atti ad assistere validamente la materia.
Supplito in questo modo ai nostri doveri con l’esatta partecipazione
delle sparse gelosie nell’una e nell’altra Provincia e delle provvidenze con sollecitudine disposte, possiamo assicurare l’Eccellentissimo Senato della maggior
vigilanza sopra quanto andrà emergendo per dare quelle ulteriori disposizioni
proporzionate al bisogno. Piaccia a Dio che siano vani ed abortiscano i nostri timori e che ci riesca di superare queste prime gelose sopravvenienze acciò possiamo essere in grado di riprodurci a Vostra Serenità con riscontri che siano di
consolazione e di conforto, che lo faremo assai volentieri. Grazie.
Scrittura presentata al Senato il 12 agosto 1761 dal Magistrato
Serenissimo Principe. Alle recenti partecipazioni rassegnate all’Eccellentissimo Senato nella nostra scrittura dei 7 corrente che fossero di nuovo insorti nel Trevigiano vari accidenti scoperti tra gli animali bovini dobbiamo con nostro dolore aggiungere le sopraggiunte ingrate notizie che il male si mantenga
ancora nelle due Ville di Vascon e Maserada, diramatosi nel solo periodo di quattro giorni in altre sette Ville con l’attacco di tredici stalle. E’ vero che non è di
gran conto il numero degli accidenti, che nell’ultimo piedilista non ascendono
371
che a sette morti ed a sei ammalati, ma osservabile si rende la sulfurea dilatazione ed il volo che fece nell’attaccare alcuna Villa al di là della Piave. L’esperienza
delle vicende passate, di cui in quel Territorio appena sono rimarginate le ferite,
ci fa ragionevolmente temere che possa il male in breve spargere ancora maggiori i suoi progressi.
Siccome in questi casi l’utile migliore nelle provvidenze si raccoglie
dalla sollecitudine con cui vengono praticate, così sul momento ci siamo determinati, valendoci di una espressa spedizione, di sospendere a buon conto i mercati anche al di là della Piave per quanto si estende tutto quel tratto di paese sino
al Tagliamento.
Conoscendosi inoltre necessaria una qualche maggiore assistenza di
milizie, abbiamo ricercato nel tempo stesso l’Eccellentissimo Signor Savio alla
Scrittura, che sebbene sia nelle note ristrettezze è concorso con merito a secondare prontamente le nostre premure somministrandoci quel numero che per ora
può essere sufficiente a presidiare le presenti insorgenze.
Ma con tutte queste misure che abbiamo prese non siamo tranquilli abbastanza nell’animo nostro, addottrinati dalla passata esperienza di quanto languide riescano tutte le migliori disposizioni quando non siano assicurate da una
soprintendenza che sia autorevole per la sua figura e che con autorità corrispondente alla materia imprima soggezione nei sudditi e tanga tutti rassegnati gli Uffici ad eseguire colla necessaria esattezza quelle provvidenze che possono impedire al male i dolorosi progressi. In questo modo, dimostrando a Vostra Serenità
qual sia il mezzo più valido per far fronte alle prime manifestazioni del male, abbiamo palesati i nostri desideri per l’elezione di una Carica Estraordinaria da
eleggere sul piano stesso delle altre due che ebbero in questi ultimi tempi una
eguale deputazione.
Ma come si è detto di sopra che l’utile migliore si ritrae dalla sollecitudine con cui vengono usati questi vigorosi provvedimenti, così perché il male
non abbia ad avanzarsi in quel tratto di tempo che indispensabile si richiede per
tutti i riguardi della Carica, quando l’Eccellentissimo Senato vi concorra ad eleggerla, il Magistrato va disponendo la pronta partenza di uno dei N.N.H.H. suoi
Provveditori col solito giornaliero assegnamento in altre recenti spedizioni dei
N.N.H.H. Provveditori. Istruito ed informato delle migliori commissioni il N.H.
che sarà destinato, riuscirà certamente utile alla materia ed assistito inoltre dalla
distinzione del Colonnello Marcovich, Ufficiale pratico per il lungo tempo che
trattò simili insorgenze nella Patria del Friuli, siamo certi di ritrarne tutto il miglior profitto.
Non ci da il cuore di lasciare alla discrezione una parte così essenziale
delle nostre ispezioni, che occupa il secondo passo della materia. Troppo veloci
sono i progressi che appunto col suo principio va facendo questa natura di mali
per dovervi andar incontro colle provvidenze più pronte e vigorose.
L’ultima epidemia, che derivata dalle conterminanti Provincie ha sparso i suoi primi semi nel Friuli, somministra al Magistrato troppo dolorosa memoria. Dodicimila furono in tutto gli animali periti e di questi diecimila prima del372
l’arrivo della Carica che sollecita avrebbe al certo risparmiata una buona parte di
questa perdita così rovinosa alla Provincia e sensibile alla Nazione.
Una prova più chiara e convincente ancora viene a dedursi dalle insorgenze di Loreo e di alcuni semi sparsi nel Polesine dove, sebbene sia così abbondante la specie, pure inoltrata prontamente la Carica, che trovò il fuoco acceso
in più parti, ha potuto estinguerlo con la sola perdita in pieno di mille animali in
circa. Più individue ancora potremmo produrre le prove dell’utilità di questa
Estraordinarie Deputazioni se non le vedessimo superflue in vista delle recenti
esperienze, ma soprattutto risulta evidente che il profitto maggiore deriva dall’accorrere con questo che è il più valido mezzo al primo spuntare di tali moleste
insorgenze.
Supplito al dovere del nostro zelo, saremo sempre rassegnati a rispettare, quali che siano per essere, le pubbliche deliberazioni. Grazie.
Territorio della Sinistra Piave
(ASVe, Provveditori alla Sanità b. 423, dis. 1)
373
Proclama di sanità del 19 settembre 1759
(ASVe, Provveditori alla Sanità, b. 157)
374
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Ntentc le fer\'idc, e zelanti qofircapplicazioni
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P_rçmeffoun tale rifconrro, dol'tanno g.11Offi.cj di Sanità col vi fo!fe aie.una limitazione , dovr.1 effcr dercnuinata dall.a rctt irilafcio di nuo,,e .fedi indi1•idp.are iJ 11.u_mcro,
il pello, la patudiue dc N. N. H.H. Rapprcfcntanri, -onde non fieno ultrone.1-
~u:'l1~
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~e3!\1e~l~{i \ ·c~~(f~r~
g~~nfor~{ui folfcro diretti ' e le cr- ~~fbi~i;,~:a~h~i /oie'1~~~t~r;i:n~~~ra~~~til~rtf;:Jcad:
In cad:iun Juogo, per dove fcguiflè il Joro"paffaggio e dove li fl.i:nza del cammino .
trovaf(ero Officj di Sanità, o Parrochi, dovranno clfere diligeaDietro quello fermo fiilcma diretto a rimmo1'ere le confufioremente riconofciute _le Fedi fudcttc , dalle <juaJi fofferofcort:itc ~1i, e le male intelligenz.e, cd a rendere piu age,•ole .1.' Sudditi
le Perfonc , e gli An11nali, indi, o rinnm'~te, o rimmcifc colle 11 modo di cfe<,1uìr
lo, fopra di che hanno con particola~ fludio
folire /ercJcr itt e forme; a,•verrc::nza, cl~ di luogo in luor,o do- verfato le applicazion i della Caric1, donanno tanto li refpct11
10
r:!ì'r!atJ~i e~~~a-;fci~":h: . d~;;r~;~ojflo":r:~~\Oc~ffcr~crt tv~ir'r~ :geD!ga~i
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bf ciati gratis , fono fcm:a diflj.colrit riccvuri 2! luogo dc! loro j rìggere la propria condotta _; e così ogni uno, cui occorrefse di
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Carica per le conveniçnti deliberazion i .
c/11i~ :,1:~e J;1t ~fftaco:~~zi:~i u~
di rra{srcdire; al _qualoggetto farà per l'Offici.o dell_al:anccll~ria d1 queila Canea tenuto aperto Procdfo d1 continua l nqu 1fizione .
Ed il }iefcnte fia fiampato, publicaro, e circolarmente dilfofo
Depu-
:a~ · ~i· o;:~n~aJicJ~fc/i ;~~:; 'ir~!;~c~br1: ~~;t1~a;:~~hi, e DcDi ~azzorno dall'Officio Pro,,iforio di S:init.à in Terra Ferma
i~d!i'i
~a~~~~;ii'ar~i l~i;~r:\~~:q~tt
refofpctto,
l!if~re:\er~~;!n~~j!i~~ap~~t/,i ~urrs: c#ic,JセZ@
dtl ii:r~'. セ[イョ@
Villagi:;i, ed immedia.te precorfa notizia :d Collegctto,
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~,d;bb~t!ffe~/'~f:!f:m~!};°;i~~n'or~fi:~
f;i1~:odtf!c;e
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1.Giugno ,
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~~~~rr:~;op:r~~~~/j/~~d11o;r:ionvfit:ì, f~tr;;r dfl'°Mi1ciil~I. riic;~;
altre occorrenze, alle quali folfero diretti.
St;impato per li Fi5liuoli del ciu:
(
0
11
760.
A11dre11 Du11ÌJ 'Prntdirur
z. Antonio
1
111/tt S1t11i1à in Tr rr • Fmna.
Il Cane. di Sua Eccellenza;
Pin elli , Stampatori Ducali.
Proclama di sanità del 19 settembre 1759
(ASVe, Provveditori alla Sanità, b. 157)
375
Proclama di sanità del 25 novembre 1761
(ASVe, Provveditori alla Sanità, b. 528)
376
Decreto emesso dal Senato il 12 agosto 1761
Sia preso che il primo giorno che si ridurrà questo Consiglio sia fatta
elezione di un onorevole Nobile nostro di virtù e di esperienza del Corpo di esso
con titolo di Provveditor alla Sanità in Terra Ferma. Possa essere tolto da ogni
luogo ed ufficio solito darsi dal Senato, eccettuati quelli del Collegio nostro, e rifiutando e non accettando nel termine prescritto s’intenda incorso nelle pene stabilite contro rifiutanti ambascerie a Teste Coronate.
Debba accettar nel termine di giorni tre e partire immancabilmente in
quello di giorni otto, né possa essere accettata supplica per dispensa se non con i
tre quinti del Collegio ridotto al suo intero numero, ballottata poi la parte nello
stesso con le dette strettezze e nel Senato da 150 in su.
Debba aver per mettersi all’ordine ducati mille per una volta tanto e
ducati trecentosessanta al mese e gli siano dati di tre mesi anticipati con questo
che non possa pretendere qualunque somministrazione né dai Comuni, né dai
Territori, né da qualunque persona sotto qual si voglia pretesto.
Dovrà il detto presentarsi al Magistrato alla Sanità per aver da esso le
commissioni che saranno credute utili alla sua esperienza per provvedere alla
grave emergenza.
Dovrà trasferirsi nel Territorio Trevigiano per usare ogni maggior diligenza onde il male non progredisca e resti rinserrato con la divina benedizione
nei luoghi in ora fatalmente invasi.
E perché per rendere operativa con buon successo una tale Carica si fa
indispensabile che essa non manchi delle necessarie assistenze di milizia, perciò
l’eletto dovrà ben intendersi col Savio alla Scrittura così per il numero, che per
la qualità, dal quale nei possibili modi saranno secondate le di lui ricerche per le
disposizioni necessarie.
4. Proclami e lettere del Provveditor Alessandro Almorò Tiepolo
Lettera inviata il 13 agosto 1761 dal Provveditor al Magistrato
Alla rassegnazione con che ho incontrato l’ossequiato comando di Vostre Eccellenze andò congiunta la riverente premura onde prontamente condurmi
ad assumere la travagli osa ispezione di cui piacque aggravare la mia insufficienza. Eccomi pertanto dove mi hanno diretto le autorevoli e sempre venerate commissioni dell’Eccellenze Vostre, ma con l’animo altamente ingombrato di quel
giusto sgomento che mi ispira la totale inesperienza e la naturale tenuità di talento affatto sproporzionata alla grave e delicata qualità del geloso argomento. Piaccia a Dio Signore avallare la retta intenzione ed infondermi vigore e spirito corrispondente alla volontà onde poter, se non corrispondere all’aspettazione beni377
gnissima di Vostre Eccellenze, riuscire almeno con la possibile minor imperfezione.
A questo essenzialissimo oggetto sarà unicamente diretto il fervore dei
miei studi e delle indefesse sollecitudini mie per conciliarmi il loro clementissimo compatimento, che invoco con tanta maggior premura quanta sarà la deficienza che rimarcheranno a confronto degli illustri Soggetti che mi hanno preceduto, i quali forniti di facoltà di presidii e di singolari talenti hanno con sommo
onore di se stessi redento dalla grave calamità le Provincie alla loro esimia cura
raccomandate.
Prefissa pertanto l’idea di così virtuose direzioni in soccorso della mia
debolezza, ho fermato la provvisionale residenza mia a questa parte come più a
portata delle situazioni che esigono la maggior gelosia e la prontezza dei provvedimenti. Non ad altro servendo le presenti riverentissime che per adempiere, subito qua pervenuto, al primo impulso di ossequio e di debito, mi riservo di riprodurmi con quella precisione che al decoro dell’Eccellenze Vostre ed all’impegno
mio si conviene, entrato che io sia nella necessaria conoscenza della materia e
per intercedere i suffragi delle loro sapientissime istruzioni, dietro le quali regolar la propria condotta.
Bacio a Vostre Eccellenze devotamente le mani.
Lettera inviata il 15 agosto 1761 dal Provveditor al Magistrato
Non ebbi appena supplito all’obbligo di umiliare a Vostre Eccellenze
l’ossequioso riscontro del mio giungere a questa parte, che con pubbliche lettere
ne resi inteso anche il N.H. Signor Podestà e Capitano di Treviso e ricercato
d’ingiungere ai componenti di quell’Ufficio di Sanità di trasferirsi immediate
presso la Carica unitamente al Medico Fisico onde ritrarre i lumi e le informazioni occorrenti sulle insorte ingratissime emergenze.
Incontrato prontamente il cenno dalla lodevole rassegnazione dell’Ufficio medesimo, trovai ognuno alquanto indeterminato nel giudizio se gli accaduti
accidenti debbano attribuirsi ad espressa influente epidemica invasione, o soltanto a maligne affezioni prodotte da veemente riscaldazione per l’eccessivo e quotidiano travaglio cui vengono gli animali indistintamente assoggettati.
Questa così equivoca e dubbiosa decisione fomentò in me vivamente il
desiderio di condurmi sopralluogo onde ocularmente verificare lo stato e la qualità delle insorgenze. Mi sono perciò immediate trasferito nei villaggi di Maserada e di Vascon, nel primo dei quali due e tre nell’altro sono le stalle assoggettate
alle riserve sotto la ripartita custodia del distaccamento diretto dal Capitano Tenente Filaretto. Toltone qualche animale quasi rimesso in salute dal sofferto travaglio per le ritratte notizie da questi boari non del tutto analogo alla decorsa
epidemica influenza, ebbi insieme la consolazione di non trovarne alcuno né perito, né infermo.
378
Due sono le stalle che ho visitato a Maserada e nei seguenti termini è
scorsa la loro vicenda. Di quattro animali che componevano una stalla, due ne
sono periti li 2 e li 5 del corrente, uno è quasi recuperato ed il quarto illeso. Nell’altra stalla, che conteneva otto bovini, non è perita che una armenta, conservandosi gli altri tutti in perfetta saluteParlando poi delle tre stalle di Vascon, rilevai che in una, composta di
sei capi, disperata la guarigione di uno degli animali, prima che naturalmente perisse è stato accoppato sotto li 12 dello spirato luglio e tumulato con tutte le avvertenze dal provvido proclama di Vostre Eccellenze 19 settembre 1759 statuite.
Un altro, che si era estremamente gonfiato, ha continuato sin dai 3 del corrente a
dar segni di miglioramento tanto che ora si conta perfettamente rimesso. Gli altri
quattro si sono mantenuti sempre illesi. Nella seconda stalla, che era formata di
quattro animali, uno solo si conservò sano, due avendo dovuto cedere sotto li 2
corrente alla violenza del male, come pure il terzo sotto il dì 9 dopo un travaglio
di nove giorni. Otto erano gli animali componenti la terza stalla e di questi uno è
perito sotto il dì 12 dopo un’infermità di cinque giorni. Un altro, che si era infermato sotto li 8, si è del tutto rimesso senza che gli altri abbiano risentito alcuna
lesione.
Questo è il dettaglio delle stalle che l’urgenza del tempo e la distanza
dei luoghi mi hanno permesso di poter rivedere, con riserva di andar proseguendo domani ovunque insorgesse qualche gelosia.
Se si considera ai lenti moti di queste urgenze, giacché dal giorno 13
non è (Dio lodato!) accaduta veruna novità e senza che in suffragio degli animali
risanati sia stato usato altro rimedio che quello delle cacciate di sangue e dei bevaroni di orzo per nutrimento, mi trovo veramente con l’animo assai fluttuante
tra la speranza ed i timori.
Piaccia alla divina misericordia che prevalgano le lusinghe a consolazione di Vostre Eccellenze, a beneficio degli afflitti sudditi ed a sollievo di uno
zelante, ma troppo fiacco Cittadino per sostenere e dirigere il peso di una materia tanto delicata e superiore alle mie debolissime forze.
Intanto sin che dall’uso dei più certi esperimenti sia delucidata l’incertezza presente non convenendo lasciar inosservata alcuna delle più scrupolose
avvertenze e cautele, ho inculcato che ad ogni indizio sia prontamente cacciato il
sangue ed eseguite le separazioni, avendo dalla milizia da Vostre Eccellenze disposta a queste esigenze rinforzato le custodie per l’esatta osservanza dei sequestri.
Del più serio riflesso per la gelosa situazione del Friuli reputando le
gelosie indicatemi in alcune Ville oltre la Piave, né potendo io ad un tratto accorrere personalmente per tutto, ho perciò inoltrato il Capitani dei Crovati Filiberi,
oggi opportunamente recapitato con quella porzione di compagnia che rileva l’unito piedilista, acciò con l’esperienza acquistata nel tempo che con merito ha servito alla materia riconosca e provveda a misura delle occorrenze e diligentemente mi renda inteso per trovarmi anche in persona quando il bisogno lo richiedesse.
379
Mentre mi riservo di sottoporre alle ossequiate osservazioni di Vostre
Eccellenze opportunamente il piedilista delle occorse vicende, chiedendo umilmente perdono se trasportato dallo stimolo di esporre i termini dell’affare nel
possibile miglior prospetto mi fossi soverchiamente diffuso e loro bacio umilmente le mani.
Piedilista allegato alla lettera precedente
Compagnia del Capitano Michel Angiolo Filiberi dei Crovati a cavallo Reggimento Colonnello Bucchia: 1 capitano, 1 caporale, 1 trombetta, 1 furiere, 19
soldati
Distaccamento dei Fanti Oltremarini diretto dal Capitano Tenente Filaretto
della Compagnia Colonnello Allocevich: 1 capitano tenente, 1 sergente, 15 soldati
Distaccamento dei Fanti Oltremarini diretto da un Sergente della Compagnia
Sergente Maggiore Gellich: 1 sergente, 1 caporale, 19 soldati
In tutto: 1 capitano, 1 capitano tenente, 2 sergenti, 2 caporali, 1 trombetta, 1
furiere, 53 soldati, in summa 61.
Lettera inviata il 16 agosto 1761 dal Provveditor al Magistrato
Appena ritornato dalla seconda visita, ho l’onore di replicare a Vostre
Eccellenze il presente riverentissimo riscontro.
Ho riveduto altre tre stalle che da questo Ufficio di Sanità si calcolano
infette: una in Villa di Nerbon, l’altra in Biancade e la terza in Roncade, e da tutte trassi motivo onde ricrear sempre meglio l’animo di Vostre Eccellenze, come
io altresì ebbi occasione di confortare maggiormente le mie apprensioni.
Nella Villa di Roncade già venticinque giorni è accaduta la morte di
una armenta per male di polmonera, cui da tre giorni andava soggetta, quale anzi
in disperazione di recupero fu dai proprietari accoppata e per ordine di questo
Ufficio interrata a tenor del proclama di Vostre Eccellenze 19 settembre 1759,
senza che nessun altro accidente abbia poi intorbidata la perfetta salute in che si
conservavano altri tredici animali componenti la medesima stalla.
Infermatosi da qualche tempo un animale nella stalla di Nerbon, lo ravvisai quasi perfettamente rimesso, conservandosi in ottima salute quella piccola
partita di altri tre bovi.
Così nella terza stalla in Biancade ove, toltone un animale perito già
otto giorni fa dopo quindici di travaglio infiammatorio per eccedenza di fatica,
gli altri otto animali si mantengono perfettamente sani.
Quando da queste non appariscano diverse le risultanze degli altri luoghi verso il Bosco del Montello, verso i quali domani proseguirò a riconoscere,
io non posso che avallare la fiducia che questi non siano più che mali naturali
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violentati dall’eccessivo giornaliero disagio cui dagli indiscreti villici si sottopongono ed esenti da ogni vicino epidemico influsso.
E tanto maggiormente cresce la mia speranza in quanto che nessun mal
evento (lode a Dio!) insorse da che sono uscito all’onore di servire Vostre Eccellenze in questa pesante e molesta ispezione, sicché ho pur ragione di confidare
vicino, come umilmente imploro, il mio sollievo, sempre peraltro rassegnato ai
loro riveriti comandi.
Niente ancora posso rassegnare rispetto alle gelosie oltre la Piave, non
essendomi dalla diligenza del Capitano Filiberi pervenuto alcun riscontro, che
peraltro non può non recapitare a momenti. Ad ogni modo non lascio di rinforzare in tali luoghi i più validi presidi e cautele acciò mediante le riserve del sequestro siano meglio liquidati gli equivoci, sempre peraltro computabili in così delicata materia.
Con l’ordinario di ieri sera mi sono pervenuti gli ossequiati fogli di Vostre Eccellenze 14 e 15 espressi in sensi di clementissimo compatimento per la
sollecita rassegnazione con che ho procurato di sottopormi a questa laboriosa incombenza.
Perché il passaggio dei bovini dall’una all’altra parte della Piave succeder abbia con quelle precauzioni che ben convengono alle correnti gelosie, ho
stimato di rendere eseguito con l’inserto proclama il rispettabili incarico di Vostre Eccellenze nel proposito demandatomi,con la fiducia che sia per meritare
l’autorevolissima approvazione ed il compatimento loro umanissimo, e bacio le
mani.
Proclama allegato alla lettera precedente
Noi Alessandro Almorò Tiepolo Provveditor alla Sanità in Terra Ferma
In vista delle gelosie insorte nella specie bovina in questa Provincia
Trevisana, nonché nell’una e nell’altra parte del fiume Piave, trova l’esimia maturità e previdenza del Magistrato Eccellentissimo alla Sanità di conciliare, senza
intercisa del commercio, i riguardi egualmente essenzialissimi di salute. Eseguendo noi pertanto l’autorevole comando dello stesso Eccellentissimo Magistrato in ossequiate sue lettere 14 del corrente, facciamo col presente proclama
universalmente intendere e sapere.
Come resta accordata la libertà del commercio degli animali bovini di
qua e di là del fiume Piave a condizione che il transito degli uni e degli altri succeder abbia con la scorta delle fedi di sanità che dai rispettivi Uffici dovranno essere rilasciate gratis e dai Parroci dei Comuni ove non vi fossero Uffici, dovrà in
tali fedi essere individuato il numero ed il pelo degli animali, il luogo donde procedono e per dove diretti, come pure il nome ed il numero dei loro conduttori,
purché il luogo dal quale essi animali si estraessero sia sano ed esente da qualsivoglia gelosia, altrimenti sia e s’intenda vietato il muoverli ed inibito il rilascio
delle fedi, e tutto ciò sotto le più severe pene corporali, etiam della vita, nelle
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quali pure incorreranno tutti i Passadori se mai osassero di transitar animali bovini provenienti dall’una, o dall’altra parte del fiume, i quali mancassero del requisito della fede come sopra prescritto.
Lettera inviata il 17 agosto 1761 dal Capitano Michel Angiolo Filiberi al
Provveditor
In adempimento della venerata commissione da Vostra Eccellenza pervenutami non ho mancato di subito portarmi alle Ville che dalla stessa mi sono
state indicate di dover visitare ed ho trovato che nella Villa di Pieve di Soligo
cinque stalle erano sotto contumacia, in due delle quali sono periti due animali
bovini e sequestrate li 4 corrente, ed in queste sequestrato il solo boaro, ed in due
altre due animali interamente risanati, e nella quinta una armenta che cominciava
a dar segni di salute. Due di queste hanno tutta la casa in contumacia e l’altra il
solo boaro, nelle quali contumace sono cadute una li 7, l’altra li 12 e la quinta li
14 corrente.
Da questa sono passato nella Villa di Soligo, ove ho ritrovato due stalle
sotto sequestro, nelle quali vi sono periti due animali ed il solo boaro in questa
fu posto in contumacia, l’una delle quali è stata sequestrata li 28 luglio e l’altra
sotto li 7 corrente.
Passai poi a Posmon di San Martino e trovai due stalle in contumacia
con tutte le famiglie di queste sequestrate, cadute anche sotto li 14 corrente, in
una per essere perito un animale e nell’altra per uno che andava poco di bene.
Passai a quella di Colbertaldo, ove trovai altre due sequestri, uno dato
sotto il primo agosto e l’altro sotto li 14 detto, essendo periti ambi gli animali
che nelle due stalle si erano ammalati, e sequestrate di queste tutte le famiglie.
Finalmente passai a quella di Vidor, ove trovai altre due stalle sequestrate anche sotto li 8 corrente con le loro case in contumacia, in una di queste
perito un bue e nell’altra risanata un’armenta.
Per quanto la mia inesperta opinione ha ocularmente osservato in quegli animali che sono attualmente ammalati ed in quelli che stanno quasi bene,
nessuno ha segni di epidemico male e così pure, per interpellazione fatta ai boari
ove trovai periti gli animali, neppure questi ebbero verun segno di epidemia reale, ma attaccati tutti da un male detto versamento di sangue, mentre dopo essersi
gli animali riscaldati al travaglio delle campagne, furono fatti incautamente abbeverare e poche ore dopo tutti sono stati attaccati da febbre gagliarda ed in seguito le loro urine divenute di color nero cosicché con la emissione di sangue
fatta a tempo tutti si sono recuperati e gli altri, cui con prontezza non fecero l’uso del sangue, sono periti.
Nelle case sequestrate, al capo di queste fu permesso di sortire dalle
medesime, ma questi si fecero lecito di andar fuori del sequestro a suo talento
con anco dormire fuori delle proprie case.
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Oltre di ciò ho ritrovato un altro rimarcabile disordine, che nella Villa
di Vidor nella stalla di Bernardin Pilon alla visita che feci in questa trovai assente il boaro che era in custodia dell’animale ammalato e, fattolo ricercare, mi riuscì dopo una mezzora di vederlo a comparire.
I maniscalchi che furono a levar sangue ai predetti animali non hanno
usato nessun espurgo, né alcuna debita cautela, cose queste che pur fanno sempre più confermare non esservi nessun male epidemico come si temeva.
Nella stalla di Mattio Colabretto in Vidor, dopo che fu sequestrata tutta
la di lui casa e permesso al capo di questa di non soggiacere alla contumacia,
quattro giorni dopo furono licenziati un uomo ed una donna di detta famiglia.
Tutto in adempimento del mio dovere umilio sotto i venerati riflesso di
Vostra Eccellenza e col più profondo ossequio mi dono l’onore di segnarmi.
Lettera inviata il 18 agosto 1761 dal Provveditor al Podestà e Capitano
di Treviso
Meditando la Carica di far alla sua presenza eseguire una anatomica
perizia sul primo animale che per avventura morisse, o fosse veniente, Vostra Signoria si compiacerà di rilevare a codesto Ufficio di Sanità il mio divisamento
perché al primo caso ne sia sospesa la tumulazione e pronto ne venga alla mia
Carica recato l’avviso.
Lettera inviata il 19 agosto 1761 dal Provveditor al Magistrato
Sollecitato dai doveri della deputazione che alla venerata autorità di
Vostre Eccellenze è piaciuto di conferire alla mia debolezza, mi trovo in possesso, onde poter loro umiliarmi, dell’intero ragguaglio non solo delle gelosie di
qua, ma insieme di quelle che insorsero al di là del fiume Piave mediante la puntuale diligenza con che dal Capitano Filiberi sono stato adempite le mie commissioni. Sono però tali (lode a Dio!) gli avvenimenti dell’una e dell’altra parte che,
invece di porgermi verun argomento a disgustosi rapporti, mi porgono anzi motivo sempre più forte e lieto onde sgombrare dagli animi dell’Eccellenze Vostre
quelle giuste apprensioni che le prime troppo sulfuree e pavide notizie ebbero
assai ragionevolmente suscitato.
Quei caratteri pertanto che sulle emergenti infermità nella specie bovina ho desunte sul momento delle due prime visite, delle quali colle precedenti riverentissime mie ho reso a Vostre Eccellenze i debiti riscontri e che susseguentemente apparvero in ogni altro luogo per me riveduto unitamente all’esperto benemerito Colonnello Marcovich, gli stessi caratteri altresì liquidati dalla esattezza del Capitano Filiberi ovunque si è trasferito, come nell’acclusa sua relazione
che umilio in copia esattamente riferisce.
383
Concorda pure l’universale concetto accreditato dalla frequenza dei
successi esser questo un male non insolito, ma in questa Provincia anzi familiare
denominato di sangue, il qual male ogni anno si insinua massime nella stagione
corrente, né altro propriamente sia che un effetto infiammatorio causato dalle eccedenti fatiche e dalla repentina repressione cui sono gli animali aggrediti per
l’avidità con che, affaticati ed veementemente riscaldati, si abbandonano a dissetarsi in acque di sostanza fatalmente assai cruda e per conseguenza altrettanto
perniciosa. Ed infatti varie sono le considerazioni che dimostrano non essere che
innocenti le cause di questi malori poiché (guardi Iddio!) se fossero in alcun
modo relativi a contagiosa epidemica influenza andrebbe a quest’ora gran parte
se non tutto il Trevigiano. Molto facilmente sarebbe pur ricaduto nel flagello il
Friuli tanto contermine se si considera alla corsa libertà di commercio, alle trascurate cautele dei marescalchi ed alla violazione dei sequestri che solo verbalmente imposti e dipendenti nell’osservanza della fede delle persone interdette
tanto meno era sperabile che si rispettassero, quando che spesso sogliono infrangersi sebbene sostenuti dalla forza e dalla vigilanza delle custodie.
Anche la qualità degli applicati rimedi dovrebbe persuadere non essere
diversa dalla indicata l’indole di questo male, che non ha peggior sintomo dello
scarico di orine piuttosto nere, se il semplice uso dei beveroni e le emissioni di
sangue eseguite a tempo sono riuscite con tutto il successo.
Né esige minor riflesso la lentezza troppo singolare con che procede,
non essendo periti dal dì 8 sino al dì 16 del corrente che due soli buoi in due diverse stalle di due diverse Ville e che, toltone pochi animali che si sono quasi
perfettamente recuperati, non vi sia cosa che perturbi la più perfetta calma, tanto
che i periodi delle contumace di rispetto parte sono maturate e parte sono prossime a maturarsi.
Per tutti questi ben chiari riflessi, quando non si cangi l’aspetto presente (il che tolga la Divina Misericordia!), scorgo a mio umilissimo giudizio che
tutto cospiri onde svanisca il sospetto della funesta calamità ed alla viva speranza succeda quanto prima la certezza di una imperturbabile tranquillità.
Uguale, anzi ferma, è la fiducia del Colonnello Marcovich e del Capitano Filiberi, l’opinione dei quali non dovrebbe agevolmente riuscir fallace in
una materia che ebbero occasione di lungamente trattare servendo le Eccellentissime Cariche in Terra Ferma nelle recenti lugubri invasioni dell’epidemia, come
all’Eccellenze Vostre è ben noto. Quanto sollecito ed esatto il Filiberi nell’adempimento degli addossatigli incarichi, altrettanto utile e fruttuosa mi viene la continua assistenza del Marcovich, che ottimamente corrisponde alla benigna intercessione con cui Vostre Eccellenze lo hanno destinato presso questa carica.
A me frattanto non resta, dopo di aver con verità e zelo debolmente
adempito ai premurosi oggetti della mia ispezione, che dipendere dagli ulteriori
ossequiati arbitrii dell’Eccellenze Vostre, sempre che dai consigli della loro sublime maturità si riputasse opportuno il sospirato momento del mio richiamo, e
loro bacio umilmente le mani.
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Lettera inviata il 20 agosto 1761 dal Provveditor al Magistrato
In termini propri dell’animo sempre generoso e benigno di Vostre Eccellenze ebbi il conforto di venerare espresso nell’ossequiato foglio 18 del corrente il clementissimo compatimento di cui onorano le mie devote sollecitudini
nell’adempiere agli obblighi importantissimi della mia deputazione.
L’anatomica perizia, che l’esimia maturità dell’Eccellenze Vostre mi
prescrive di far praticare alla mia presenza sopra un animale morto, o che fosse
vicino a perire onde più utilmente seguirla come esperimento che può condurre
all’ultima conoscenza dell’indole delle presenti emergenze, io pure l’avevo anticipatamente meditata, servendo di prova il foglio che umilio in copia, e perciò
subito che succeda il caso sarà prontamente effettuato l’essenziale divisamento.
Relazione presentata il 21 agosto 1761 dal Protomedico Girolamo Istrana al Provveditor
Recte judica proximum tuum
In obbedienza ai venerati comandi di Sua Eccellenza Alessandro Almorò Tiepolo Provveditor alla Sanità in Terra Ferma mi sono conferito in Villa
di Castagnole alla casa di Francesco Zanatta, ove ho veduto un bue ammalato da
più giorni ad onta di vari rimedi frustraneamente suggeriti e praticati, quale malinconico persistendo nel male né mangiava, né ruminava, tossiva spesso ed era
con respiro grave, frequente e aneloso.
Persuaso io pertanto, come pure il proprietario del medesimo bue, di
rendersi difficile, non che impossibile la sua guarigione, perciò fu permesso da
Sua Eccellenza il poter ammazzarlo alla di lui presenza e col di lui intervento
onde rilevare la causa del suo male, già in prevenzione indicata.
Aperto dunque il bue col mezzo di Agostin Zenesin pubblico mazolagio di questa Città, non mancai subito di fare le opportune anatomiche osservazioni. Rimarcati i visceri tutti, cioè lingua, cervelle, cuore, omaso, fegato, cistifellea, rognoni, vescica urinaria, intestini tenui e grassi e persino le midolla dei
corni, ho ritrovato tutto senza alterazione, o lesione alcuna ed in stato sano e naturale, come fu presentato e rassegnato sotto lo stesso occhio di Sua Eccellenza.
Il polmone poi, che secondo i fenomeni ed i sintomi del male cadeva in
sospetto e si giudicava offeso, questo di fatto lo fu e si scoperse attaccato nei lobi
della parte sinistra da un tumore acquoso e duro, che non solo interdiceva l’ufficio di questa viscera sì nobile e necessaria, quale è quella della respirazione, ma
premendo anche con la sua mole le pareti delle parti vescicose vicine faceva sì
che, ingorgati e ristagnati i sieri crassi e sanguigni nei vasi minimi ed impedito
in tal modo il suo giro a motivo dei diametri compressi dei vasi medesimi, acquistò questi gradi di corruzione, quale comunicata e diffusa in tutta la propria so385
stanza del polmone medesimo, incerto lo rese nella sua azione e reazione ed in
conseguenza sarebbe stata causa legittima e certa di privarlo di vita.
Questo è quanto possono rassegnare sotto i riflessi di Vostre Eccellenze
le mie osservazioni, assicurando peraltro che il male del suddetto bue cade chiaramente sotto la categoria dei mali naturali ed anche dei più frequenti, né può apportare ombra di sospetto, o di gelosia, che tanto con giuramento affermo con fede.
Lettera inviata il 23 agosto 1761 dal Provveditor al Magistrato
Continuano (lode a Dio!) a decorrere senza alterazione, ma nelle semplici misure a Vostre Eccellenze umiliate colle precedenti mia umilissime, le gelosie nella specie bovina in questa Provincia. Solo due stalle, una in Lancenigo e
l’altra in Nervesa, esigono qualche maggior osservazione per essersi l’altro ieri
in cadauna di esse infermati due animali. Sebbene il loro travaglio si riconosca
non esser di indole diversa dalle malattie che si sono altrove insinuate, ad ogni
modo ho stimato cauto consiglio di rinforzare le attenzioni, avendo immediate
disposte le occorrenti custodie onde siano con ogni precauzione ed avvertenza
osservati gli imposti sequestri sinché col periodo di giorni quattordici si deprimano gli invalsi sospetti.
Nella viva premura di adempiere quanto più presto l’ossequiato comando di Vostre Eccellenze ed il preventivo mio divisamento, essendomi pervenuta relazione che fosse disperato il recupero di un animale che da alcuni giorni
travagliava nella stalla di Castagnole di ragion di Francesco Zanatta, mi sono a
quella parte subito trasferito unitamente al Protomedico dell’Ufficio di Sanità di
Treviso onde far praticare l’incisione e la perizia dell’animale medesimo. Concorso spontaneamente il proprietario che ben conosceva quanto era vicino a soccombere prima di divenire al macello, fu accuratamente esaminato, me presente,
dal suddetto Protomedico, né apparve alcuno dei sintomi che sogliono indicare il
veleno dell’epidemico influsso.
Io però penso di non voler affidarmi a questo solo esperimento, bensì
di replicarlo quando qualche altro caso (che però non desidero!) ne somministri
l’opportunità onde sul fondamento di un altro confronto possano Vostre Eccellenze più sodamente regolare la maturità delle loro sempre ossequiate determinazioni. Intanto molti luoghi si vanno felicemente depurando dai sospetti, ma perché dal trattamento un poco più discreto, dal miglior governo e dalla cautela degli abbeveraggi, massime nel fervor della corrente stagione, molto dipende la difesa della maggior parte dei correnti malori e la preservazione della specie, ho
perciò meditato di insinuare con l’accluso proclama tutti questi essenziali riguardi e di suggerire quella semplicità di rimedi dai quali, usati opportunamente, ne è
risultato notabile beneficio.
Mentre da Vostre Eccellenze spero benignamente approvato e compatito il fiacco pensiero suggerito dal fervido zelo di non mancare a tutto ciò che alla
mia ispezione si inferisce, rimango con l’onore di baciar loro umilmente le mani.
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Proclama allegato alla lettera precedente
Noi Alessandro Almorò Tiepolo Provveditor alla Sanità in Terra Ferma
Esercitando con quello zelo e fervore che ci ispirano i doveri d’ufficio
le applicazioni e le sollecitudini nostre in questa Provincia, dove in obbedienza
agli ossequiati comandi del Magistrato Eccellentissimo alla Sanità abbiamo dovuto condurci onde sopra luogo riconoscere la precisa qualità delle gelosie insorte negli animali bovini, ci siamo con vera consolazione dell’animo nostro mediante varie oculari osservazioni ed anatomici esperimenti abbastanza certificati
che da niente altro proviene la causa produttrice della maggior parte delle correnti infermità, alle quali va presentemente soggetta così benemerita specie, che
da un gagliardo accesso febbrile infiammatorio detto comunemente mal di sangue, assai familiare, anzi solito annualmente insinuarsi nel Trevisano, causato da
violenta riscaldazione per l’eccedente struscio e fatica, cui senza veruna moderazione dalla ingorda indiscretezza dei paesani giornalmente si sottomettono gli
animali stessi, al che e al malgoverno andando pur congiunta la rimarcabile inavvertenza di lasciar che, così affaticati ed eccessivamente riscaldati, si abbandonino a dissetarsi in acque assai crude e per conseguenza perniciose, per tutto ciò
fatalmente prorompono poi tali ed altri consimili micidiali malori.
Ma essendosi insieme sperimentato che dalla opportunità di applicare
la sola emissione di sangue e l’alimento dei beveroni d’orzo e di segala è venuta
a dipendere la guarigione di quegli animali che si sono risanati, perciò nella premura di universalmente divulgare questi tanto utili ed insieme facilissimi rimedi
onde ovunque accadesse il bisogno (che Dio non permetta!) possano immediate
essere posti in pratica, facciamo pubblicamente intendere ed espressamente ordiniamo.
I. Che ad ogni minimo indizio di travaglio in alcun animale sia per
buona cautela e riguardo eseguita prontamente la separazione degli animali stessi ed all’infetto debba subito essergli cacciato sangue ed occorrendo anche replicatamente in quantità alle sue forze proporzionata, e con somma accuratezza sia
nutrito di beveroni di orzo e segala sinché succeda il suo perfetto recupero, dovendo pure essergli frequentemente cambiata la paglia sotto e contribuita ogni
altra attenzione acciò niente manchi in linea di mondezza e buon governo.
II. Durante i consueti sospetti e le riserve del sequestro, quando per
l’imperizia dei rispettivi boari si rendesse necessario l’intervento dei maniscalchi
per le cavate di sangue, dovranno essi eseguirle con le prescritte cautele, indi
praticarsi esattamente gli espurghi tutto a senso dell’articolo X del proclama del
Magistrato Eccellentissimo 19 settembre 1759 sotto le più severe pene afflittive
ad arbitrio contro chiunque osasse di contravvenire e negligere così importanti
ordinazioni.
III. Dovrà parimenti usarsi in ogni tempo la molto necessaria avvertenza di impedire agli animali l’incauta libertà che si accostino alle acque, a quelle
particolarmente che sono di natura frigida e cruda, sinché sono accesi dal bollore
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del disagio e della fatica, ma solo dopo ben riposati potranno essere condotti agli
abbeveraggi, essendosi conosciuto che da tanta trascuratezza nasce la maggior
parte delle correnti malattie, le quali è sperabile che agevolmente svaniscano
quando mediante le suggerite sollecitudini e prescrizioni vengano a mancare i
perniciosi fomenti.
IV. Dovranno nel posto essere inalterabilmente eseguite le pubbliche
ordinazioni e proclami che dalla sapienza dell’Eccellentissimo Magistrato alla
Sanità, nonché dalla singolare virtù delle Eccellentissime Cariche in Terra Ferma
sono stati in vari tempi nel geloso argomento promulgati ogni volta che (Dio non
voglia!) il bisogno lo ricercasse e che la vigilanza dell’Ufficio alla sanità di Treviso conoscesse necessario di richiamare la puntuale osservanza onde senza ritardo accorrendosi con quelle salutari cautele, che sono provvidamente statuite,
possa sortirsi l’importantissimo oggetto di difendere e perpetuare con la celeste
benedizione sempre immune questa Provincia, come ogni altra parte del Pubblico Stato da qualunque sospetto di contagioso epidemico influsso.
Relazione presentata il 23 agosto 1761 dal Protomedico
Deus illuminatio mea
In obbedienza delle mie incombenze servendo ed obbedendo ai venerati comandi di Sua Eccellenza Alessandro Almorò Tiepolo Provveditor alla Sanità, mi sono portato in Villa di Paese alla casa di Batta Tonetto, ove mi fu fatto
vedere un bue di fresca età, quale dopo aver nel giorno antecedente sofferto gran
lavoro se gli sospese l’orina per modo che neppur ne distillava una goccia, né
dava segno alcuno di tumescenza per il corso di ventotto ore passate.
In tale stato dunque resasi inutile la cacciata di sangue e qualche altro
rimedio praticato e giudicata estemporanea qualunque altra operazione, fu permesso da Sua Eccellenza per istanze fattegli dai proprietari medesimi di poterlo
ammazzare, resi certi che da tal male doveva soccombere.
Aperto pertanto il bue per mezzo di Agostin Zenesin beccaro perito ed
esaminati con diligenza i visceri, furono ritrovati questi tutti in stato sano e naturale, ma come che ubi morbus ibi dolor, così ansioso passai a rimarcare i difetti
della vescica, quale di fatto fu ritrovata oltre misura dilatata e rarefatta a motivo
di copiose orine colà sequestrate e raccolte e nel suo orifizio pregna di minute
arene e prossima al suo laceramento.
Nella verga poi otto dita traversi di sopra lo scroto gli fu estratta una
pietra di non mediocre grandezza rassegnata a Sua Eccellenza che onorava le
mie osservazioni, qual pietra come corpo straniero otturava ed impediva tutto il
diametro inserviente al passaggio delle orine medesime, tanto necessario in
quanto che, non separandosi, era di necessità il suddetto bue di dolersi, gonfiarsi
e lasciar di vivere.
Che questo male sia naturale ed ordinario è purtroppo noto a Vostre Eccellenze, nonché ai poveri villici, i quali ben spesso ne risentono il grave peso e
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come tale perciò è lontano da qualunque sospetto e gelosia. Il tutto resta rassegnato al Tribunale Eccellentissimo, che tanto con giuramento affermo in fede
Relazione presentata il 24 agosto 1761 dal Protomedico
Domine ne advertas faciem tuam a me
Incaricato dall’onore degli ossequiati comandi di Sua Eccellenza Alessandro Almorò Tiepolo Provveditor alla Sanità di continuare le mie osservazioni
intorno al male corrente degli animali bovini, in pronta e dovuta obbedienza non
ho mancato di portarmi nella Villa di Spresian nella casa di Andrea Battagion,
ove ho ritrovato un bue mancato di vita alle ore quattro della notte scorsa senza
alcun praticato rimedio.
Animato pertanto dalla presenza di Sua Eccellenza, che onora e riguarda benignamente le mie fatiche, feci subito col mezzo di Agostin Zenesin solito
mazzolaggio perito aprire il suddetto bue onde rilevare (previe le informazioni
raccolte dal bovaro intorno ai sintomi che accompagnavano il male) la causa della sua morte.
Presi dunque in esame i visceri, ho ritrovato il polmone rarefatto, ripieno di sangue quagliato e fracido nella maggior parte della sua sostanza vescicosa, la milza dilatata e grossa di color rosso nericcio e pregna di sangue grumoso,
stagnante e corrotto, il primo ventricolo poi duro e ripieno di erbe e di cibo mal
triturato ed ingessato di maniera che non gli era permesso fare il giro all’altro
ventricolo, le tuniche del medesimo alterate e pregiudicate dallo stato suo naturale, la vescica con orine rosse e semisanguigne con qualche procedenza dell’intestino retto tinto di sangue e con gonfiezza e rarefazione di tutto il corpo. Il fegato, cuore, cervella e gli altri visceri tutti furono ritrovati sani.
Se dal bovaro assistente fu raccolto che nel tempo precedente alla morte del suddetto bue era questo con febbre, con respiro gravoso e frequente, con
lacrimazione agli occhi, malinconico, con orecchie cascanti e senza voglia di
cibo, e se i visceri del bue stesso da me riscontrati furono del tutto simili ai rimarcati buoi delle Ville di Vascon e Maserada rassegnati sotto li 4 agosto con
mia relazione, per conseguenza legittima ne deduco che il sopraddetto bue sia
stato attaccato da un male a quelli consimile, cioè da febbre infiammatoria prodotta da qualche sugo venefico, eterogeneo e diverso dalla sua naturale sostanza,
che ponendo in agitazione il sangue medesimo produsse la febbre della qualità
suddetta.
Per concausa poi del male suddetto si rifletterà e all’incostanza delle
stagioni e a tante altre occulte influenze, nonché all’incauto governo dei bovari, i
quali dopo aver affaticati gli animali giorno e notte con pesi incompetenti ai loro
omeri, riscaldati e spossati così senza riguardo alcuno e senza intervallo di mezzo li lasciano pascolare erbe recenti ed aguzze ed abbeverare a fonti fredde con
libertà. Che tali mali dunque scoperti con questi sopraddetti speciali caratteri si
possano comunicare ed essere di gelosia, non dubito di costantemente asserirlo.
389
Tanto resta umilmente umiliato a Vostre Eccellenze con giuramento in
fede.
Lettera inviata il 27 agosto 1761 dal Provveditor al Magistrato
Anche le gelosie di Lancenigo e Nervesa, alle quali più che altrove si
restringevano le mie attenzioni come a Vostre Eccellenze ho umiliato colle precedenti ossequiosissime mie, si sono (lode a Dio!) interamente dileguate mediante il recupero dei rispettivi animali che erano caduti infermi.
Le vicinanze dei luoghi e l’opportunità degli avvenimenti hanno acconsentito di moltiplicare con maggior facilità le perizie dalla rispettabile maturità di Vostre Eccellenze comandate. Due mi onoro di assoggettarne ai loro sapientissimi riflessi.
Una praticata sopra un bue di Batta Tonetto del Comun di Paese, cui
essendosi per mal di pietra sospeso lo scarico delle orine, avendolo il Protomedico giudicato mal incurabile e l’animale vicino a soccombere, ho permesso, in
grazia anche delle istanze del proprietario, che fosse accoppato. Aperto ed esaminate le sue interne parti, risultarono perfettamente sane e si verificò che l’accennata dovesse essere la causa della prossima sua morte. Avendogli l’ispezione
estratta una pietra di non mediocre grandezza, che gli otturava ed impediva il
passaggio delle orine e l’orifizio della vescica, che per la copia delle orine sequestrate era vicina a lacerarsi, si ritrovò pregna di insinuate arene, come più accuratamente esprime il Medico nell’inserta sua relazione. Questa tanto visibile
risultanza avendomi persuaso e convinto di esser d’indole innocentissima quel
peraltro micidiale travaglio, ho con l’opinione anche del Medico creduto di poter
liberamente ammettere i carnami e di rimuovere il sequestro che a dovuta cautela era stato prima della perizia salutarmente precorso.
L’altra pur acclusa relazione contiene l’esame di un manzo che era perito nella Villa di Spresiano di ragione di Andrea Battagion, il quale per quanto
dimostrarono gli interni attacchi giudicò il Medico esser la sua morte provenuta
da febbre infiammatoria, che è quella più comune e più generica malattia che
presentemente insulta la specie in questa Provincia, prodotta già dalla perniciosa
causa colle precedenti mie riverentissime riscontrata.
A tali visioni sono stato sollecito di intervenire onde col fondamento
della propria oculare testimonianza rendere a Vostre Eccellenze questi rimarcabili riscontri.
Come però somiglianti mali infiammatori insinuano qualche maggior
gelosia tra i differenti generi delle correnti infermità, così da questi casi ho determinato il periodo di quattordici giorni di sequestro alla di sui alterazione, o diminuzione servono poi di regola i gradi dei sospetti che si distinguono della qualità
delle malattie più, o meno gelose, toltone i casi accidentali ai quali considero
inopportuno verun esperimento di riserva.
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Con ciò riverentemente supplito per quanto appartiene all’ossequio
mio, il di più è infervorato dalla sapienza ed autorità sempre venerata dell’Eccellenze Vostre, alle quali bacio riverentemente le mani.
Lettera inviata il 31 agosto 1761 dal Provveditor al Magistrato
Dopo di essere stata liberata la stalla in Nervesa, come l’Eccellenze
Vostre avranno desunto dalle precedenti mie, è accaduta nella stalla medesima
l’infermità di un altro animale. Mi sono subito trasferito sopralluogo ed esaminata l’indole della sua malattia, la conobbi assai visibilmente derivare da semplice,
ma irrimediabile attacco nei polmoni. Lontano perciò tale emergente da ogni mal
sospetto, ciò nonostante a titolo di precauzione, dopo aver fatto suffragare l’animale con tutti quei curativi che furono risultati confacenti alla qualità del suo
male, sebben giudicati estemporanei ed affatto inutili, ho rinnovato il sequestro
al luogo stesso, previa la pronta separazione degli animali sani, onde sotto l’occhio di militari custodie sia osservato colle prescritte riserve.
Lettera inviata il 3 settembre 1761 dal Podestà di Oderzo al Podestà e
Capitano di Treviso
In una stalla della Villa di Visnà di Sopra di questa mia Giurisdizione si
sono scoperti infetti nel dì primo corrente due animali ed un altro nel dì 2 suddetto. Premessa la separazione, è stato immediate praticato il sequestro e si sono
poste in uso le emissioni di sangue ed i beveroni prescritti, ma con tutto ciò non
si vede, massime dei due primi, quel totale vantaggio che si sperava. Tanto per
ora significo all’Eccellenza Vostra per effetto dello zelo mio e del dovere di questo mio Ufficio con riserva di farle tenere in seguito le notizie di quanto andrà
emergendo nel proposito, con che bacio a Vostra Eccellenza devotamente le
mani.
Ordini dati il 5 settembre 1761 dal Provveditor
Desuntosi dalle giornaliere relazioni dei Deputati alla Sanità di Nervesa e dal Caporale da noi destinato in custodia della stalla Tonetto che possa degenerare in peggio il male di polmoni era cui è certamente travagliato uno di quei
buoi ed essendo informati della sua natura esente da ogni benché minimo sospetto di epidemia e di qualsivoglia maligno carattere, come dai Pratici siamo stati
assicurati in occasione delle oculari visite da noi praticate per riconoscere la qualità di detto male, riputiamo perciò superfluo l’uso di quelle precauzioni che da
dieci giorni sono state messe in pratica mediante il solito sequestro, tanto più che
391
in tal frattempo non è stata (a Dio grazia!) sconcertata da verun accidente la perfetta salute in cui si sono sempre mantenuti gli altri animali della stalla medesima.
Veniamo perciò alla deliberazione, annuendo anche alle lacrimevoli
istanze di quella famiglia, di revocare il sequestro medesimo, al qual fine comandiamo al suddetto Caporale di rimettere essa stalla con le persone ed animali
alla primiera pratica, restando incaricati quei bovari ad attendere con ogni diligenza alla cura dell’animale ammalato e di custodirlo per ogni buon riguardo disgiunto dai buoi sani e con obbligo ai Deputati alla Sanità della suddetta Villa di
portare all’Ufficio di Treviso la pronta notizia nel caso che esso bue soccombesse.
Dovrà lui Caporale col picchetto dei soldati restituirsi al proprio quartiere di Treviso, pronto ad ulteriori disposizioni.
Lettera inviata il 6 settembre 1761 dal Provveditor al Magistrato
In questo momento delle ore una di notte il N.H. Podestà e Capitano di
Treviso mi accompagna le lettere che unisco in copia del N.H. Podestà di Oderzo con l’ingrata relazione di essersi infermati nel primo e 2 del corrente tre animali in una stalla di Visnà di Sopra. Troppo succinto il cenno per cui mi risulti
l’indole del male e troppo considerabili i replicati accidenti ai quali, per quanto
rilevano esse lettere, non hanno molto giovato le emissioni di sangue, né l’uso
dei beveroni, sono riflessi che risvegliano non indifferente sospetto.
Per questo faccio prontamente precedere un picchetto di sei soldati oltremarini diretto da un Basso Ufficiale con le istruzioni occorrenti, in riserva di
accorrere domani io stesso onde con l’occhio proprio meglio accertarmi del carattere dell’insorta gelosia e per aggiungere quelle maggiori provvidenze e presidi che sul fatto mi fossero dall’occorrenza suggeriti.
Piaccia alla Divina Misericordia di rendere superflue le mie sollecitudini sicché nel ritorno abbia il grato motivo di sgombrare dall’animo dell’Eccellenze Vostre, come confido, quelle apprensioni che non può non insinuare lo
spiacevole dubbio presente e bacio loro devotamente le mani.
8 settembre – Lettera inviata l’8 settembre 1761 dal Provveditor al Magistrato
Dal mio giungere qui a Oderzo al mio proseguire verso Visnà di Sopra,
ove sono state chiamate le mie sollecitudini come a Vostre Eccellenze umiliai
nelle riverentissime mie precedenti, non si frappose altro momento che quello
che richiese il bisogno di qualche lume da questo Ufficio di Sanità, il quale ebbe
anche a riferirmi un altro emergente repentinamente avvenuto in Villa di Cimadolmo, pur di questo Distretto.
392
Trovai pertanto nella stalla di Visnà che di quattro buoi, che erano gli
animali ammalati, uno era perito ed era stato prima del mio recapito interrato
con le cautele prescritte dal provvido proclama dell’Eccellentissimo Magistrato
19 settembre 1759, ed un altro, che ho veduto dopo, sono stato in tempo di farlo
incidere e peritare alla mia presenza, altri due, ai quali hanno giovato l’uso dei
beveroni e le cacciate di sangue, danno indizi di miglioramento, mantenendosi
illesi altri due che compongono l’intero corpo della stalla.
Da tale perizia e dalle concorsi relazioni di questo Ufficio di Sanità e di
questi medesimi bovari mi risultò che le cause e gli effetti di questi malori sono
interamente simili all’origine ed agli insulti che ha sofferto la specie nel Territorio di Treviso.Un avvenimento così molesto fu sollecitato dall’incauta inavvertenza di essere detti animali, dopo affaticati e gravemente riscaldati, introdotti in
una stalla costruita di fresco. Le malattie infiammatorie ancora possono qui più
che altrove succedere, ove gli animali non essendo che dei padroni, l’indiscreto
contadino, che non è trattenuto dal riguardo di salvare il capitale proprio, senza
intermissione li maltratta e tralascia ogni riguardo indi miseramente li lascia in
abbandono di ogni governo.
Da consimili cause è pur derivato ieri sera il repentino eccidio di un
bue infermatosi la mattina in una stalla di Cimadolmo, come risulta dalla perizia
eseguita alla presenza di questi Deputati alla Sanità e del Caporale con due soldati staccati colò da quel picchetto che, come rassegnai, avevo in anticipazione
della mia venuta a questa parte inoltrati.
I sequestri di essi due luoghi restano assicurati dalla vigilanza di custodie militari e lascio anche questo Ufficio di Sanità munito delle istruzioni necessarie ed alle sue occorrenze due soldati a cavallo onde possano farmi avere il
giornaliero riscontro di questi sospetti, giacché il difetto di regolari occasioni
porta il ritardo che le lettere di Oderzo passano a Venezia prima di recapitare a
Treviso. Avanti di recedere a Carbonera ho voluto appagare la doverosa premura
di porgere a Vostre Eccellenze queste devotissime notizie onde colla possibile
prontezza ricercare il loro animo, siccome ebbi motivo di conformare sommamente il procedere mio ed avere in piena lusinga che siano per allontanarsi colla
celeste benedizione ulteriori sconcerti.
Ed a Vostre Eccellenze bacio devotamente le mani.
Lettera inviata il 17 settembre 1761 dal Provveditor al Magistrato
Dopo le ultime mie umiliate lettere non è accaduta cosa che abbia turbata quella remissione, cui pienamente inclinano le gelosie che insorsero in questa Provincia. I due animali di Visnà si sono perfettamente recuperati onde tutto
concilia a promettere la più imperturbabile calma. Mentre in tal modo anche i
semplici sospetti si sono nel Trevisano quasi interamente dileguati, l’inchinato
foglio dell’Eccellenze Vostre 12 del corrente mi porge il doloroso riscontro della
lugubre epidemica riproduzione in cinque villaggi del Friuli.
393
Questa lacrimevole recidiva chiama lo zelo ed il debito mio a riflettere
sulla libertà del transito accordato ai bovini di qua e di là di Piave col requisito
delle fedi di sanità. Ora però che è risorta la fatale calamità in quella conterminante Provincia, mi sembra che l’importante articolo esiga di essere ponderato
dalla sapienza di Vostre Eccellenze, alle quali bacio devotamente le mani.
Proclama emesso il 21 settembre 1761 dal Provveditor
Noi Alessandro Almorò Tiepolo Provveditor alla Sanità Terra Ferma
Nel tempo stesso che le gelosie che tra gli animali bovini andarono
fluttuando in questa Provincia e che si sono (lode a Dio!) liquidati semplici accidentali effetti nella corsa finita stagione, come ce ne hanno visibilmente assicurato gli esperimenti di tutti i casi che sono occorsi da che ci troviamo in questa
deputazione, ci toglie ora da sì gran conforto la fatalissima recidiva del conterminante Friuli, ove in poco tempo ed in vari villaggi si riprodusse nella specie il
doloroso insulto dell’epidemia.
Sollecito perciò lo zelo vigilantissimo dell’Eccellentissimo Magistrato
nell’accorrere colla maturità delle sue provvidenze e col presidio dei più validi
suffragi onde mantenere incontaminata dalla grave disavventura la tranquillità
del Trevisano, trovò opportuno, in riflesso alla sua vicinanza con quella afflitta
Provincia, di approvare il nostro raccordo per la ritrattazione del passaggio degli
animali bovini dall’una all’altra parte della Piave, che era stato accordato col
proclama nostro 16 del decorso agosto.
Eseguendo perciò noi prontamente l’ossequiato comando espresso in
sue venerate lettere 19 del corrente, facciamo col tenor del presente proclama
universalmente intendere e sapere quanto segue.
I. Stante l’accennata revocazione ed interdetto, sia e s’intenda espressamente inibito agli Uffici di Sanità, Parroci, Deputati e ad ogni altra persona
che di là della Piave è destinata al rilascio delle fedi di sanità, di accordarne ai
conduttori di animali bovini che volessero passare di qua dalla Piave per introdursi nel Trevisano.
II. Resta pure vietato ai Passadori del fiume stesso, niuno eccettuato, di
accordare il traghetto dalla parte di là per di qua della Piave ad animali di tal
specie, ancorché accompagnati fossero da legittime fedi di sanità, in pena, oltre
la perdita degli animali, di essere afflittivamente punito chiunque osasse di furtivamente tentare il passaggio della Piave per introdursi in questo Territorio con
animali bovini, o in qualsivoglia modo venisse da qualcuno contravvenuto al
presente risoluto divieto.
Lettera inviata il 27 settembre 1761 dal Provveditor al Magistrato
Con quella matura circospezione che è propria dei consigli prudentissimi di Vostre Eccellenze e dopo che la caparra di moltiplicati riscontri e di numerosi esperimenti hanno accreditato la purità delle gelosie che tra la specie bovina
394
fruttarono in questa Provincia, Vostre Eccellenze sono benignamente concorse a
determinare il mio sospirato sollievo.
Appena perciò ha l’ossequio mio venerata nell’inchinato foglio dell’Eccellenze Vostre 25 del cadente la sospirata grazia ed insieme le espressioni
loro clementissime in generoso compatimento delle sollecitudini che nella addossatami ispezione ho debolmente contribuito dietro la norma dei loro sapientissimi documenti, mi sono applicato a disporre la mia partenza.
Tale momento sarà con tanta maggior premura sollecitato quanto è
vivo lo stimolo di restituirmi all’onore di riassumere con l’insufficienza mia le
incombenze pregevolissime nell’Eccellentissimo Magistrato, per mia gran sorte
illustrato dalla molto cospicua e rispettabile colleganza di Vostre Eccellenze e
dalla loro sublime intelligenza mirabilmente diretto.
I due distaccamenti di Milizia Oltremarina coperti dal Capitano Tenente Mattio Filaretto e l’altro dei Crovati della Compagnia Filiberi diretto dal medesimo Capitano saranno indirizzati, come mi impongono, al N.H. Signor Podestà e Capitano di Treviso onde sotto i suoi ordini attender abbiano le ulteriori
commissioni di Vostre Eccellenze.
In virtù della facoltà che mi hanno benignamente impartita ha servito
la Carica in qualità di Cancelliere il Fedel Iseppo Papadopulo. Addottrinato di
quei lumi e cognizioni che seppe apprendere sotto le virtuose direzioni dell’Eccellentissimo Signor Provveditor in Terra Ferma Donà, mi ha pur servito nella
materia, siccome perfettamente corrispose agli oggetti tutti che mi proposi nella
sua destinazione ed adempiti per lui solo gli obblighi del laborioso impiego e
così ossequiosamente confida nelle retribuzioni sempre generose di Vostre Eccellenze. Umilio la spesa occorsa nel fabbisogno per l’ufficio della Cancelleria
acciò si degnino di ordinarne la bonificazione a rimborso del detto Ministro, che
ne è creditore, e le bacio devotamente le mani.
5. Fine dell’epidemia in Trevisana
Proclama emesso il 25 novembre 1761 dal Podestà e Capitano di Treviso
Sussistendo una perfetta e costante salute tra gli animali bovini in questa parte al di qua del Tagliamento, avendo prodotto l’ottimo desiderato effetto la
linea formata sul fiume stesso, e che il male nel Friuli piega ad una notabile declinazione, sono divenuti gli Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Sopraprovveditori e Provveditori alla Sanità in risoluzione a buon conto di ripristinare i
mercati degli animali di detta specie in ogni situazione al di qua della Piave, con
condizione espressa però che per ora resti inibito il concorso di detti animali da
tutto il Friuli non solamente di quelli che sono al di là del Tagliamento, ai quali
già dalla suddetta linea viene interdetto il passo, ma agli altri ancora di detta Pro395
vincia che si estende al di qua del fiume suddetto per tutti i riguardi ben noti al
predetto venerato Tribunale.
Per questo, eseguendo l’Eccellenza Sua e gli Illustrissimi Signori Provveditori alla Sanità gli stimatissimi ordini di quelle Eccellenze, hanno ordinato
l’estesa del presente pubblico proclama perché con questo si faccia pubblicamente intendere e sapere.
I. In avvenire a tutti e cadauni villici e ad ogni altra persona che tenesse
animali bovini, attesa la già detta graziosa risoluzione, sia e s’intenda permesso
il concorso dei medesimi ai mercati soliti farsi in ogni situazione al di qua della
Piave, colla riserva però sempre che siano scortati dalle solite fedi a stampa, che
comprovino la salute ed il luogo della loro derivazione, per il che saranno spedite esse fedi col mezzo dei soliti Fanti dell’Ufficio ai Reverendi Parroci di tutte le
Ville di questo Territorio con l’obbligo di rilasciarle gratis, sopra le quali avranno a segnare il nome, cognome, Villa del proprietario, a quale mercato diretti, il
numero dei bovi, vacche, vitelli ed il pelo con distinzione, senza il qual requisito
non saranno, né dovranno essere ammessi ai mercati.
II. Per riscontro delle fedi al Posto di cadaun mercato saranno e dovranno essere dai rispettivi Comuni di quelle Ville, ai quali sono soggetti i già
detti mercati, destinate persone di abilità e fede per Custodi dei luoghi soliti giusto il praticato, la di cui incombenza sarà di rivedere le fedi stesse ed incontrare
con queste gli animali tutti da cadauno condotti.
III. Ai Custodi e Posti dovranno i conduttori con cieca rassegnazione e
prontezza esibire le fedi medesime e dagli stessi Deputati e Custodi avranno ad
essere trattenute per poi di tempo in tempo rassegnarle all’Ufficio nostro di Sanità, ed in caso di qualunque recredenza, o violenza che fosse praticata da chi si sia
agli stessi Custodi (come quello che sarebbe un massimo fra i delitti), così irremissibilmente sarà proceduto contro tali trasgressori del presente al lievo della
pena di ducati 50 per cadauno e per cadauna volta, oltre la perdita degli animali,
ed altre maggiori ad arbitrio, ac etiam della vita.
IV. Se poi fraudolentemente qualcuno per strade indirette tanto in questa Città, che nel Territorio, o cogliendo qualche accorta anticipazione al giorno
solito dei mercati, si introducesse sopra alcuno dei medesimi tanto in questa Città, che nel Territorio, con animali bovini senza essere munito delle prescritte
fedi, scoperti che siano incorreranno nelle pene suddette senza speranza di grazia.
V. E neppure alcuna persona, sia di che condizione esser si voglia, che
si azzardasse anco affacciarsi ad alcun Posto per introdursi ad essi mercati pure
senza fedi a stampa, o con fedi manoscritte (che queste in tali incontri si intenderanno affatto proibite) tanto con il giogo al collo sotto carri, quanto in altra maniera, dovranno essere fermati e ridotti in luogo separato sotto rigoroso sequestro anco con i conduttori e cautamente guardati e senza ritardo partecipare all’Ufficio nostro di Sanità per quelle deliberazioni che saranno credute opportune
in materia di tanta importanza.
396
VI. E perché, particolarmente per quegli animali che saranno sotto carri, non nasca un tale disordine, rispetto a che vi fosse il progetto di non essere
alla vendita, ma soltanto in questa Città, o altri luoghi nell’incontro dei mercati
per l’effetto di condurre mercanzie, biave, o proventi dei loro padroni, resta
ognuno avvertito che anco in questa forma dovranno essere muniti delle solite
fedi dei Parroci, dai quali verrà sopra le stesse descritto specificatamente essere
sotto carri, onde in tal forma sia levato ogni sospetto e possano essere liberamente introdotti, senza di che soggiacerebbero alle rubriche come sopra nominate.
VII. Ed il presente dovrà essere stampato nelle sue solite forme e
pubblicato nei luoghi soliti anco sopra i soliti mercati e diffuso ai Reverendi Parroci delle Ville di questo Territorio per essere anco dai medesimi pubblicato nelle loro Chiese parrocchiali in giorno festivo e consegnato ai Deputati delle medesime Ville e così a quelli che saranno destinati ai Posti di mercato per la revisione delle fedi ed inoltrato colle forme solite alle Giurisdizioni unite e separate
e ciò ad universale notizia e per la sua inalterabile esecuzione.
397
Fonti presso l’Archivio di Stato di Venezia (ASVe):
1)
2)
3)
4)
5)
Sopraprovveditori e Provveditori alla Sanità b. 157.
Ibidem b. 423. 3)
Senato Terra f. 2342.
Sopraprovveditori e Provveditori alla Sanità b. 423.
Ibidem b. 528.
Le fotoriproduzioni delle illustrazioni sono state eseguite dalla
Sezione di Fotoriproduzione dell’Archivio di Stato di Venezia e la loro
pubblicazione è stata autorizzata con atto n. 10/2012 prot.
1598/28.13.07.
398
I primordi della vaccinazione antivaiolosa a Ceneda e Serravalle
Relazione presentata al Convegno da
Carla PIZZOL
Attualmente per vaccinazione s’intende l’inoculazione di un vaccino a scopo profilattico ma, in origine, il termine si riferiva unicamente
al vaiolo. Tale malattia, conosciuta già nell’antichità, provocava nei secoli
passati la morte di un numero elevatissimo di persone, soprattutto bambini e giovani; chi sopravviveva rimaneva più o meno sfigurato e spesso
l’infezione portava alla cecità.
L’agente causale era il virus Variola vera di cui la forma major
provocava la morte in circa il 30% dei soggetti contagiati mentre la minor
era responsabile solo dell’1% di mortalità. Il virus del vaiolo umano appartiene alla famiglia dei Poxviridae come pure quello del vaiolo bovino
o cowpoxvirus.
Nel Settecento era già noto che i sopravvissuti al vaiolo presentavano immunità dalle epidemie successive, tanto che si cominciò una
metodica di immunizzazione chiamata variolizzazione1 o variolazione (da
variola il nome con cui era chiamato il vaiolo). Iniziata a Londra nel
1722, essa prevedeva il trasferimento di materiale purulento prelevato da
malati di vaiolo in forma lieve a soggetti sani, ma con grandi svantaggi
poiché era pericolosa per la salute del paziente il quale, fino alla sua guarigione, risultava portatore del vaiolo mettendo a rischio anche quanti intorno a lui non fossero già immuni.
1 La tecnica era anche detta con metodo circasso perché praticata già in Turchia,
dove si usava pungere con aghi sporchi di pus di vaiolo le schiave destinate agli harem
per preservarle dalla malattia. Il merito dell’introduzione di tale pratica in Inghilterra, nel
1718, spetta a lady Mary Montague, moglie dell’ambasciatore inglese in Turchia.
Sulla variolazione vedi anche: I. Lotti, Cura del vajuolo, Venezia 1794. Storia e diario
dell’innesto nei lattanti eseguito in febbrajo del 1794 nel Pubblico Albergo della Inoculazione in Contrada di Santa Margarita. Ignazio Lotti, protomedico dell’Eccellentissimo
Magistrato alla Sanità di Venezia, innestò 30 lattanti di ambo i sessi, da 2 a 20 mesi, accolti insieme alle madri nutrici, col recente miasma di un vajuolo discreto e benigno
raccolto fortunatamente nella prossima Terra della Mira. Questa invenzione ( l’innesto)
si attribuisce … alla industria delle avvenenti Circasse e alle Giorgiane onde preservare
la bellezza nativa delle lor Figlie delle quali fanno commercio per li Carem della Persia
e dell’Ottomano.
399
Un grande passo avanti per sconfiggere la malattia avvenne grazie al medico Edward Jenner. Egli aveva ricevuto dal governo inglese
l’incarico di effettuare la variolazione nella contea di Gloucester, dove
poté constatare che i contadini contagiati dal cow-pox, cioè il vaiolo bovino, risultavano immuni dall’infezione del vaiolo umano, tanto che in questi casi l’innesto non attecchiva. Dopo molte osservazioni, il 14 maggio
1796, Jenner innestò nel braccio di un bambino di 8 anni materiale purulento prelevato dalle lesioni cutanee di una contadina che, mungendo,
aveva contratto il vaiolo bovino. Quando, in seguito, il ragazzino fu messo a contatto con il vaiolo umano, egli risultò immune.
Il lavoro di Jenner però trovò l’opposizione preconcetta della comunità scientifica e del clero, tanto che egli fu costretto a pubblicare nel
1798 a sue spese i risultati delle proprie ricerche. Comunque la pratica da
lui introdotta si diffuse rapidamente in tutto il mondo occidentale e, poiché veniva utilizzato il vaiolo vaccino, venne chiamata vaccinazione, termine che sarà poi esteso alle altre pratiche di immunizzazione.
Nei primi anni dell’Ottocento si poteva eseguire la vaccinazione
solo con materiali provenienti dall’Inghilterra in apposite provette poiché
il vaiolo bovino, molto diffuso nelle campagne inglesi, era raro altrove e
quindi c’era il problema di reperire e conservare la linfa vaccina senza
che perdesse efficacia. Il dr. Luigi Sacco2, sostenitore convinto della vaccinazione jenneriana, nel 1801 venne nominato direttore della vaccinazione nella Repubblica Cisalpina con il compito di diffondere il nuovo vajolo
ed individuò alcuni casi di cow-pox in Lombardia aumentando la quantità
di materia a disposizione.
Il 9 maggio 1804, il Governo della Repubblica Italiana emanò un
decreto3 che regolamentava la vaccinazione; essa era gratuita e non obbli2 Il dr. Sacco fu Primario dell’Ospedale Maggiore di Milano e mantenne l’incarico di
direttore generale della vaccinazione fino al 1808, quindi anche durante il Regno d’Italia.
Inoltre egli scrisse il Trattato di vaccinazione con osservazioni sul giavardo e vajuolo
pecorino, Milano 1809, dove si legge:
(p. 6) Io stesso ho vaccinato più di cinquecentomila individui, ed altri novecentomila sono gl’innestati dai professori a ciò deputati.
(p. 20) Dai varj calcoli istituiti per rilevare il numero delle vittime del vajuolo, risulta per adeguato, che più della decima parte dei nati perisce; cosicchè l’annua mortalità per esse supera la mortalità della peste, considerata anche in quel tempo in cui vie
più infierisce…
Nel 1810 il Trattato di vaccinazione… fu acquistato anche dai comuni di Ceneda
e Serravalle (ASVV, S, Serie 38 b. 211.1 e C, Serie 20 b. 162.1 circolare N 8021) dietro
sollecitazione del Prefetto del Tagliamento. … Il prezzo del libro è di £ 15 d’Italia ed è
vendibile dallo Stampatore Mussi a Milano nel locale della Passione.
400
gatoria ma era prevista per i non vaccinati l’esclusione da certe attività,
collegi, convitti, monasteri e dalla pubblica beneficenza.
Durante la dominazione francese i principali fornitori di materia
inoculabile furono gli orfanotrofi. Gli esposti4 via via vaccinati garantivano la necessaria produzione di pus per vaccinare da braccio a braccio
senza commistione di linfa fra uomo e animale; così però si riduceva a
volte l’attività del virus tanto che, in molti casi, l’innesto non attecchiva.
Inoltre con tale tecnica si presentò anche il problema della trasmissione di
altre gravi malattie, come la sifilide.
In Italia l’obbligo di vaccinazione fu istituito nel 1888. Per giungere brevemente ai tempi recenti, nel 1967 l’OMS5 lanciò un massiccio
programma di vaccinazione di massa, talmente su larga scala che l’ultimo
caso di vaiolo si verificò in Somalia nel 1977.
Nel 1980, l’OMS dichiarò ufficialmente vinto il vaiolo decretando che la vaccinazione non era più necessaria e facendo confluire tutti i
ceppi virali in due unici laboratori, uno negli Stati Uniti e uno in Russia.
Dopo questa breve introduzione per conoscere il vaiolo e la relativa vaccinazione, cosa necessaria proprio perché parliamo di una malattia che le giovani generazioni fortunatamente ignorano, analizziamo come
al riguardo reagirono le comunità di Ceneda e Serravalle6.
L’impresa non è facile perché, oltre al fatto che i due comuni
erano sì contigui ma con amministrazioni diverse, l’introduzione del vaccino avvenne in un periodo in cui si avvicendarono le dominazioni, napoleonica e austriaca, con proprie disposizioni anche riguardo alla sanità.
3
L. Sacco, Trattato di vaccinazione…, Milano 1809. (p. 212) Disposizione del Ministro dell’Interno … 5 novembre 1802. Divieto di inoculazione del vajuolo umano senza
licenza del Prefetto del rispettivo Dipartimento.( p. 213) Decreto sulla vaccinazione 9
Maggio 1804… Tra le altre disposizioni, si rendeva obbligatoria ai medici, alle municipalità e ai parroci, la denuncia di ogni caso di vaiolo, si prescriveva l’isolamento rigoroso dei vaiolosi e la disinfezione delle case infette a guarigione avvenuta.
Vedi anche: L. Belloni, Luigi Sacco e la diffusione del vaccino in Italia , in Annales
Cisalpines d’histoire sociale, Serie I, N 4 1973, pp. 39-48
4 Gli esposti erano i bambini abbandonati negli istituti di carità. Nella nostra zona, la
struttura principale era S. Maria della Pietà di Venezia, che provvedeva a far allevare gli
infanti, dietro compenso, a baliatico nelle campagne. A Ceneda e Serravalle fu accolto un
gran numero di tali bambini come testimoniato dall’utilizzo dei cognomi dalla Pietà, dal
Pio Luogo e Casagrande.
5 Organizzazione Mondiale della Sanità.
6 In veneziano, per vaiolo si usava il termine ammalà de variole, de varuole, varola.
In dialetto vittoriese ancora oggi viene chiamata “varola” la cicatrice lasciata sul braccio
dalla vaccinazione antivaiolosa.
401
Ho preso in considerazione l’arco di tempo di una decina d’anni per
dimostrare come la pratica fosse diventata in poco tempo una prassi comune accettata, più o meno con convinzione, dalle rispettive popolazioni.
Nei comuni di Ceneda e Serravalle si cominciò a parlare di vaccinazione agli inizi del 1804, durante la prima dominazione austriaca, allorché fu consegnato ai rispettivi uffici di sanità7 un certo numero di opuscoli da distribuirsi gratis ai medici e chirurghi della zona, contenenti le
istruzioni per l’esecuzione della vaccinazione.
Gli opuscoli in questione8 erano datati 16 ottobre 1803 e rappresentavano proprio una Istruzione sopra l’innesto, sopra i sintomi, e sopra
il metodo di trattar la vaccina affinchè riesca un sicuro preservativo contro il vajuolo; distribuita gratuitamente per ordine dell’Imperial Regio
Governo Generale a tutti li Medici, e Chirurghi Maggiori di Venezia, e di
tutte le Austro-Venete Provincie. Oltre alla descrizione dei fenomeni che si
manifestavano se l’innesto attecchiva, si precisava che si poteva vaccinare
a tutte le età egualmente al bambino appena nato, che al vecchio decrepito e che non esistevano controindicazioni, come il periodo della dentizione o la gravidanza. La miglior maniera di praticare l’innesto era per puntura, e con materia fresca da braccio a braccio; in mancanza di formazione della pustola vaccina classica, essa si intendeva come spuria, falsa ed
inefficace. Da questo momento fu un susseguirsi di circolari, in primo
luogo con lo scopo di bloccare la variolazione e poi con quello di diffondere efficacemente la vaccinazione. Ma, per rendere più incisivi i provvedimenti, il Regio Governo Generale di Venezia interessò il Vescovo di Ceneda già dal 5 aprile 18049:
… Ma siccome non si conseguirebbe l’intento qualora non concorressero spontaneamente i Genitori ad approffittare del provido istituto
a benefizio dè loro figliuoli, perciò si è creduto di dover interessare in
tale oggetto anche il zelo di V.S. Ill.ma e Rev.ma, prevenendola a voler incaricare li Parrochi della sua Diocesi ad insinuare e pubblicamente da
Pergami e con privati ragionamenti a loro Parrocchiani di valersi dell’innesto vaccino escludendo l’innesto naturale, onde togliere i loro figliuoli dal mortale pericolo… aggiungendovi il riflesso che chi trascurasse un tale rimedio… si renderebbe autore del danno che sarebbe per deri7 ASVV, S, Serie 38 b. 193.10 e C, Serie 20 b. 130.11, circolare N 2555 / 159 del
19 aprile 1804
8 ASVV, S, Serie 38 b. 191.8 e C, Serie 20 b. 130. 11
9 ADVV, Archivio Vecchio, b.156, N 237. L’invito fu ripetuto in altre date (vedi Ivi,
N 238, 239, 246) e, poiché risultava che la vaccinazione venisse poco adottata e che i
parroci non la promuovessero, anche il 7 febbraio 1805 (vedi Ivi, N 252).
402
vare al Pubblico dalla comunicazione nei casi di evventuale influenza
(contagio).
ASVV, Ceneda comune, b. 130, fasc.11
Il 14 maggio 180410 Devenuto l’Ecc …Governo Presente col
Decreto 21 aprile decorso N. 7482 / 316 ad inibire assolutamente l’innesto del vajuolo naturale senza previa licenza di questo R. Capitanato e
dovendosi quindi far osservare rigorosamente un tale divieto in tutti li Distretti di questa Provincia… che non si abbia ad innestare fanciullo o
persona alcuna col vajuolo naturale…
10
ASVV, S, Serie 38 b. 193.10 e C, Serie 20 b. 130.11, circolare N 3228 /186.
403
ASVV, Ceneda comune, b. 130, fasc.11, circ. 14 maggio 1804
Il 15 giugno180411 (Affinché) l’innesto vaccino da diffondersi
efficacemente anche in queste Austro-Venete Provincie rese già note col
Decreto Cap.le 19 aprile dec. N. 2555 / 159 ( riporti) un corrispondente
effetto …(che vengano incaricati) un medico abile ed uno secondo l’esigenza proporzionata alla maggior o minore estensione del distretto anche
due chirurghi dei più accreditati ai quali possa essere affidata la sopraveglianza in qualità di delegati e l’effettuazione eziandio dell’innesto me11
404
ASVV, S, Serie 38 b. 193.10 e C, Serie 20 b. 130.11, circolare N. 3738 /208.
desimo da verificarsi sempre gratuitamente …(è d’obbligo anche) proporre un luogo opportuno in un Ospitale, Orfanotrofio o in qualche altro
luogo Pio ove la gente di campagna possa liberamente condurre all’innesto vaccino tutti quegli individui che non hanno per anche avuto il vajuolo naturale destinando anzi a tal fine uno o due giorni appositi per ogni
settimana … a maggior comodo della popolazione.
Il 29 giugno 180412 L’Imp. Regia Corte con Aulico suo Decreto
25 Maggio decorso N 486 /146, si è degnata di approvare le interinali disposizioni rilasciate dall’Eccelso Regio Governo Generale tanto per la
propagazione dell’innesto vaccino in queste Austro-Venete Provincie,
quanto per l’abolizione dell’innesto del vajuolo naturale all’interessante
oggetto di preservare l’umanità afflitta da tanto tempo da una malattia
così crudele e fatale…Il Regio Capitaniato Provinciale ne rende intese
tutte le Superiorità locali …Uffizj di Sanità, Medici, Chirurghi e Parrochi, incaricando il rispettivo loro zelo e doverosa ubbidienza a cooperare
in quanto loro spetta, onde questa massima così salutare alla Società abbia a ottenere il più esatto adempimento …
Il 18 agosto 180413 Scopertasi in alcune località delli Distretti di
Bassano e di Noale l’infezione del vajuolo naturale così pericolosa e funesta per la natura sua epidemica … sempre più necessaria e salutare ne
risulta la vaccinazione che garantisce evidentemente li vaccinati da un
morbo così fatale …(Che si propaghi la vaccinazione) eccitando ad un
tempo in nome del Governo la premura dei R.di Parrochi per richiamare
le rispettive loro popolazioni all’adempimento della circolare emanata il
29 giugno N 4164 /233…
Il 31 dicembre 180414 (E’ dato ordine per i medici e chirurghi) di
ritrarre … un esatto elenco di tutte le operazioni numeratamente che fossero da essi state fatte dell’innesto vaccino … commettendo in pari tempo
agli stessi … di estendere di mese in mese … un simile elenco …
A questo punto possiamo già notare che, pur essendo medesime
le disposizioni governative, il comportamento dei due comuni era ben diverso. Infatti, mentre Serravalle sembrava ignorare gli appelli, Ceneda si
dimostrava più solerte nelle risposte.
Ceneda,16 agosto 180415 Non assicurandosi, attesa l’età sua, il
fisico condotto Nob. Benedetto Graziani esso di assumere l’importante
ispezione dell’innesto vaccino, viene proposto il fisico Sig. Anselmo Zava
12
13
Ivi, circolare N 4164 /233.
Ivi, circolare N 5955 /328.
14 Ivi , circolare N 9018 / 475.
15 ASVV, C, Serie 20 b. 130.11, allegato alla circolare 3738/ 208.
405
e i chirurghi Luigi Marchetti e Davide Luzzato, egualmente abili…Verrà
quindi approntata incessantemente una opportuna località nel Pio Ospitale dè Poveri, dove eseguire l’innesto sopra le genti di campagna per
cui viene destinata la sola giornata di mercoledì di cadauna settimana,
bastante essendo questa a tutte le contingenti operazioni, attesa la poca
estensione del territorio.
Ceneda, 27 gennaio 180516
Al Regio Capitaniato Provinciale di Treviso.
Vengono accompagnate … in esecuzione al decreto 31 dicembre
p.p. le polizze dei vaccinati in questo territorio che vennero subordinatamente prodotte dai Medici e Chirurghi che vi prestarono cura. …Nell’atto
stesso si forma dovere quest’offizio di (avvisare di non aver omesso) impegno per insinuare negl’animi di questa popolazione … l’utilità e il determinato bene della medesima; e se il numero dè vaccinati malgrado ciò
non è copioso qual potrebbe essere, dipende da un timor panico che tuttavia contrasta la maggior parte della popolazione, ad ogni novità titubante ma che col tempo sarà risolto dall’esempio e dalla vigilanza dell’Offizio e dé Medici.
Questo il tenore delle liste firmate dai medici:
La Provincia Trivigiana16 tanto colta e fertile d’uomini dotti ed
illustri in ogni ramo di Scienze, altrettanto pigra ed infingarda in riccevere ed addottare quelle scoperte che sono tanto utili all’ Umana generazione. La gran scoperta della vaccina fatta la prima volta nella Contea di
Glucester in Inghilterra dal non mai abbastanza lodato Sig. Dottor Jenner Medico Inglese, la di cui memoria resterà sempre immortale alla posterità, non era in questa nostra città di Ceneda tre anni fà che confusamente conosciuta. Il primo che portò l’innesto o sia il virus17 fù il celebre
Sig. Dottor Moreschi18 due anni or sono. Chiamato dalla Nobilissima Famiglia Co: Zuliani a vaccinare i due unici figli del Nob. Co: Marino e
Nob. Co: Giustiniana, partì da Venezia in compagnia d’una fanciulla pochi giorni prima vaccinata e col virus della stessa furono vaccinati li
sud.i Nob.i Pargoletti. Il Sig. Francesco Modolini onoratissimo Negoziante di questa città a mia persuasione con tall’occasione si determinò a
16 ASVV, C, Serie 20 b. 130.11, allegato alla circolare 9018/ 475.
17 In questo caso, il termine virus ha il semplice significato di veleno,
tossina dal momento che la scoperta dei virus era ancora lontana, avvenendo solo alla fine dell’Ottocento.
18 Il dr. Alessandro Moreschi, il 19 dicembre 1800, praticò la prima vaccinazione a
Venezia sul figlio della contessa Isabella Teotochi Albrizzi. (Vedi U. Tucci, Innesto del
vaiolo e società nel Settecento Veneto, in Annales Cisalpines d’histoire sociale, Serie I,
N 4 1973, pp. 199-231: 229)
406
vaccinare li tre suoi Figli, alla cura dei quali, come Medico ordinario
della Famiglia fui assistente, instruito dal sulodato Sig. dr. Moreschi intorno il metodo curativo e preservativo da tenersi durante la cura, fù vaccinato in allora qualche altro individuo.
Riuscirono le cure tutte felici e ben dovevano queste essere d’un
forte eccitamento per disporre gli animi dei Padri e Madri di tanti fanciulli di questa città a preservarli dalla stragge del vajuolo, procurandogli l’innoculazione della vaccina; ma un insuperabile panico timore specialmente nel popolo sempre titubante ed ambiguo nelle sue rissoluzioni,
arrestò i progressi, ed gli animi indecisi aspettano col tempo maggiori
schiarimenti. Non volsero a persuadere cod.a popolazione i tanti esperimenti felicemente riusciti di tante nazioni colte d’Europa, i Sovrani Augusti Imperiali comandi, le nostre assidue insinuazioni, tutto riuscì inutile.
La vigilanza e perspicacia di chi presiede a tanto scoppo, troverà i mezzi
opportuni per ottenere il bramato intento.
Domenico Tirindelli Medico Fisico della città di Ceneda e Medico stipendiato dell’Ospedale della Beata Vergine del Meschio.
Ceneda, 22 febbraio180519. L’elenco dei vaccinati firmato dal
medico fisico Zava Anselmo comprendeva tre nominativi di Ceneda, quindici di Costa, tre di Anzano, due di Rindola e tre di Cappella con l’aggiunta della seguente nota:
Furono da me vaccinati moltissimi altri dei vicini villaggi il
nome dei quali non fu da me registrato e per conseguenza sfuggito dalla
mia memoria unitamente alle loro età.
E’ da notare che su una lista di 26 nomi di bambini vaccinati,
ben 8 erano quelli provenienti dalla Pietà di Venezia (quasi un terzo!) ad
indicare che pochi genitori erano propensi a presentare i propri figli.
Anche il medico chirurgo Davidde Luzzatti presentò il suo elenco vaccina19:
Il figlio del Nob. Sig. Conte Marino Zuliani di anni 10
la figlia del medesimo di anni 17
la figlia del Marchese Casoni di anni 3
due figli del cacciatore del Nob. Sig. Conte Pietro Zuliani di anni 10 e 12
il figlio del Nob. Dr. Leandro Fusari di anni 8
In questi prese felicemente il seminio …
Il figlio del Sig. Bernardo Talamini negoziante di questa città di anni 3, un
anno prima inestato con miasma naturale senza effetto non prese nemmeno in
quest’anno la vaccina. Che più?
La figlia del Sig. Valentino Bertoja di anni 12 non sviluppò pustole.
19 ASVV,
C, Serie 20 b. 132.2
407
Durante la prima dominazione austriaca, esistevano dei semplici
inviti ad eseguire la vaccinazione che non portarono grandi passi avanti
nella sua diffusione ma, dalla fine del 1805, i comuni di Ceneda e Serravalle passarono sotto il dominio francese, entrando a far parte del Regno
d’Italia. Dal 7 febbraio 1806, l’argomento che ci interessa divenne di
competenza del Magistrato di Sanità20.
Da questo momento, si passò a provvedimenti sempre più incisivi fino a, come vedremo, vere e proprie coercizioni al fine di diffondere la
vaccinazione medesima.
Intanto la preoccupazione per i vari comuni di imbattersi in qualche epidemia di vaiolo, si faceva sempre più tangibile, come dimostra il
carteggio seguente:
Li Nobb. Provveditori di Sanità di Belluno, li 14 marzo 1806 21
Al Nobile Uff. di Sanità di Ceneda.
Corre una voce, che nel Distretto di Ceneda siasi manifestata
una malattia contaggiosa, o epidemica, con eruzione di Pustole, che potrebbe estendersi con maggior danno dell’umanità nei paesi limitrofi;
(prega perciò) a voler sollecitamente renderlo informato della verità di
tal fatto, coll’indicare ancora i sintomi dai quali viene accompagnata la
malattia, quali sono i rimedi coi quali viene trattata; quale ne sia l’esito e
finalmente le misure che fossero state prese per evitare la propagazione…
La lettera fu inviata anche all’ufficio di Sanità di Serravalle ma,
da quanto si riscontra, solo Ceneda rispose:
Ceneda, li 15 marzo 1806.
Alli Nobili Provveditori di Sanità di Belluno.
E’ strano, che fra due Paesi così prossimi, e d’immediata continua communicazione possa stabilirsi come nata, ed avvanzata una cosa,
che mai non ebbe alcun principio. Le voci arrivate a cod.ti Nobili Provveditori ha la compiacenza l’off. alla Sanità di Ceneda, di smentirle come
effetto del più impudente azzardo, o di uno stolto riscaldo.… dessumendo
apposite cognizioni dalli Medici di questa Città … (non ci sono casi) in
argomento di malattie oggi qui serpenti, fuorchè una qualche semplice
Rosalia.
Come responsabili della vaccinazione, il 22 marzo 1806, Ceneda
22
incaricò il medico Condotto nella persona del Nob. Benedetto dr. Graziani ed un chirurgo parimenti condotto nel dr. Luigi Marchetti mentre a
20 Decreto 12 marzo 1806 - Napoleone I - vicerè Eugenio Napoleone. Il magistrato
di Sanità nominato dal nostro Decreto del 7 febbrajo scorso è incaricato di tutto ciò che
riguarda la Sanità marittima e le Sanità nell’interno dello Stato di Venezia. Vedi ASVV,
C, Serie 20 b. 136.1
21 ASVV, S, Serie 38 b. 198.5 e C, Serie 20 b. 136.1
408
Serravalle23 furono approvati, il 28 luglio, i medici condotti Ecc. d.ri Giuseppe Zandonella e Anselmo Zava.
Infine, il 2 agosto 1806, giunse ai due comuni la Notificazione21
che dettava i punti ben precisi da rispettare riguardo alla vaccinazione, a
cominciare dal fatto che doveva essere eseguita con regolarità e bisognava
tenere un registro dei vaccinati metodico e piano con obbligo di passarlo
in seguito al rispettivo Ufficio di Sanità.
… La materia vaiolosa sarà somministrata per questa prima
volta da questo Uffizio a cadaun Professore che la ricercasse, in seguito
la conserverà per il tempo più lungo che sia possibile col mezzo di successivi innesti. Si doveva comunicare ai medici e chirurghi circonvicini
quando abbia in pronto dei vaccinati per approfittare della materia onde
diffondere la vaccina. Il pus per l’innesto doveva essere estratto nell’ottavo giorno o prima, ma non dopo e i vaccinati dovevano essere ricontrollati, in quanto, se la pustola non compariva o era spuria, era necessario inoculare nuovamente.
Si cercava inoltre la collaborazione dei parroci che avrebbero
dovuto convincere la popolazione a cooperare e allo scopo furono consegnati dei fogli a stampa col seguente testo:
Al Rev. Parroco della Comune di …
Una delle Paterne cure che più impegnò il cuore benefico dell’Augusto Nostro SOVRANO fu quella di generalizzare la effettuazione
dell’opera tanto salutare dell’innesto vaccino e con venerato Decreto 9
maggio 1804, ne ha stabilito il piano …Ma conoscendosi che li Reverendi
Parrochi possono molto confluire all’oggetto medesimo (raccomandiamo)
a Voi o Signore di parlare con replicati insinuanti discorsi dall’Altare al
vostro Popolo, onde toglierlo da ogni dubbio, ed intimamente persuaderlo di addattare con tutta franchezza i proprj Figli alla operazione.
Ricordiamo che la legge prevedeva la denuncia di ogni caso di vaiolo, l’isolamento delle famiglie colpite e la successiva disinfezione delle case24.
22 ASVV, C, Serie 20 b. 136.1, circolare 826 Fascicolo circolare 76 / 61 del 24 marzo 1806: Elenco dei Medici in Ceneda e distretto:
Sr. Benedetto dr. Graziani Prottomedico
Sr. Antonio dr. Meneghini Medico fisico
Sr Domenico dr. Tirindelli Medico fisico
Sr. Anselmo dr. Zava Medico fisico
Sr. Davidde dr. Luzzato Medico fisico e chirurgo
Sr. Luigi dr. Marchetti Chirurgo condotto
23 ASVV, S, Serie 38 b. 198.5 , circolare 4614
24 Decreto 9 maggio 1804.
409
Nel maggio 1807, si presentarono i primi problemi per Serravalle con la comparsa di alcuni casi di vaiolo fortunatamente rimasti isolati,
come documentato dal seguente carteggio25.
Serravalle, rapporto N. 5…Inerendo a propri doveri d’uffizio e in
dipendenza alle Sovrane prescrizioni... si è ultimamente scoperto il vajuolo umano in luogo limitrofo a questa Comune essendosi rimarcati attaccati da detto morbo una fanciulla di anni 5 e un fanciullo di mesi 13
figli di Antonio e Giovanna Trovadel lavoratori in un opifizio di carta26
dove si attrovano più famiglie.
ASVV, Ceneda comune, b. 141, fasc.1, circ. 160 del 19 giugno 1807
25
26
410
ASVV, S, Serie 38 b. 200.9.
Si tratta della cartera della Negrisola.
Treviso, 12 maggio27. La commissione dipartimentale di Sanità
del Tagliamento alla deputazione di Sanità di Serravalle.
Spiace in sentire dal vostro diligente rapporto N 5 lo sviluppo
vajuoloso in codesta comune. Interessante oltremodo il soggetto vi si raccomanda di far praticare sollecitamente il sequestro alla famiglia interdicendo qualsisia comunicazione e sopravegliando perché sia eseguito.
Procurate ancora che sia posta in attività la vaccinazione con eccitare li
Fisici locali a prestarvisi con fervore onde farsi benemeriti verso questa
Commissione che attenderà … i riscontri.
Serravalle, rapporto N 6 …l’indicato morbo cessò interamente
colla guarigione delli due fanciulli.
Treviso, 23 maggio28 … Sentiamo con vera compiacenza dal
gradito vostro rapporto N 6 l’esito felice delli due vajuolosi di codesta
comune senza che siansi manifestati nuovi attacchi. Previ dunque li dovuti espurghi con quella contumacia che dal Fisico curante sarà creduta
bastante per togliere ogni timore di comunicazione … rimetter potrete la
casa medesima alla libertà primiera …
Giustamente venne dato molto rilievo alla figura del dr. Sacco
che, come già detto, era direttore generale della vaccinazione, persona autorevole in grado di trasmettere sicurezza e che si prodigava in maniera
davvero lodevole nel diffondere la pratica in tutto il Regno d’Italia. Anche
nei nostri territori si organizzò la sua venuta.
3 agosto 180729… Per approntare alcune disposizioni preparatorie all’arrivo del Dr Sacco Direttore Generale della vaccinazione ...( è
necessario) raccogliere in un quadro il numero e l’esito dè vaccinati nel
Distretto…(con indicazioni) del rimmarco di persuasione o avversione,
che gli abitanti mostrano per così salutare preservativo.
Naturalmente tale circolare giunse anche a Serravalle ma solo
Ceneda, a quanto pare, rispose.
Ceneda, 17 agosto 180730 … Spiace però sommamente a questa
Municipalità il dover confirmarsi … che sussiste in riguardo alla vaccinazione una insistente ripugnanza in questi abitanti …Davide Luzzato
presentò il proprio travaglio riguardo a vaccinati…
Regno d’Italia
Elenco dei vaccinati in Ceneda dal dr. Davidde Luzzatti Medico
Fisico e Chirurgo.
27
ASVV, S, Serie 38 b. 200.9, circolare 828 /4.
28 ASVV, S, Serie 38 b. 200.9, circolare 871/4.
29 ASVV, S, Serie 38 b. 200.9 e C, Serie 20 b. 141.1,
30 ASVV,
circolare 1142.
C, Serie 20 b. 141.1, circolare 475.
411
Addì 12 luglio 1806, Bonajuto Norlenghi di anni 3 … inestato
con da braccio a braccio con il miasma di Antonio Osti da Ceneda calderajo in decima giornata d’inestazione …
Addì 1° genaro 1807, Giuseppe di Abram Valenzin di mesi 6 …
con miasma preso dal braccio d’un putello da Sacile…
Addì 1° genaro 1807, Isacco di dr. Davidde Luzzatti di anni 2 …
con il miasma medesimo da Sacile…
Addì 10 genaro 1807, Iseppo Luzzatti altro mio figlio (di 1 anno)
con miasma preso dal braccio dell’altro suo fratello…
Addì detto, Ester Copio di anni 2 …
Addì 29 maggio1807, Bortolo di Giuseppe Mori di anni 3… con
miasma avuto dal Dr. Zotti di ( ?) fra due cristalli raccolto addì 24 maggio 1807.
Addì detto, Anna sua sorella d’anni 5 … che non prese.
Addì detto, Luigia altra sua sorella di anni 3, che prese ottimamente con sviluppo regolarissimo.
Addì detto, Iseppo di anni 1 fratello degli sopra indicati Mori …
che non prese.
Addì 7 giugno 1807, Maria di Gregorio Martin di anni 4 con il
miasma dei Mori…
Addì detto, Cattarina di Pietro Bortoluzzi di anni 2 …
Addì 16 detto, Cattarina di Giacomo Franceschini di mesi 14 …
Addì 16 giugno, si rinnova l’innesto a Anna Mori e a Iseppo suo
fratello…
Addì 20 giugno, Giacobbe di Angelo Valenzin di mesi 6 …
Addì 27 giugno1807, Cattarina di Gregorio Martini di anni 6 …
La figlia del sig Antonio Fusari la più piccola e tanti altri non li
ho registrati per mancanza di tempo: essi però hanno avuto un corso regolare. A nessuno tra li miei vaccinati fin’ora ebbe alcuna malattia che
possa por in sospetto l’uso della medesima.
In Ceneda bisogna pregar e supplicar li genitori perché vogliano far vaccinar li propri figli ad onta del disinteresse praticato e della intima persuasione dimostrata da me per questa. Vari falsi filosofi spargono dei dubbi e con sofismi mall’intesi tragono nell’inganno i meno esperti.
Con l’avvicinarsi della visita del dr. Sacco, si intensificarono le
disposizioni e il 14 ottobre 180731 giunsero, dalla commissione di Sanità
Dipartimentale del Tagliamento, precise istruzioni da seguire... Nel giorno
stabilito, notificato con pubblico avviso e per mezzo dei parroci, si darà
31 ASVV,
412
S, Serie 38 b. 200.9 e C, Serie 20 b. 141.1, circolare 1923
un tocco di campana… Il delegato municipale, il Parroco e il R. Vaccinatore si porteranno al locale destinato per gl’innesti prima che vi si rechino i vaccinandi… Se pochi o nessuno si presentassero si farà immediato
rapporto al Prefetto informandolo delle presuntive cause di un tal disordine…I parroci dovevano cooperare con efficaci consigli e presentare la
lista dei ragazzi di ciascuna parrocchia compresi i neonati fino all’età
d’anni 10. Essi, quindi, oltre ad assistere alla vaccinazione e a firmare le
tabelle dei vaccinati insieme al medico e al rappresentante comunale, avevano la responsabilità della compilazione delle liste dei fanciulli e l’obbligo di avvisarne personalmente le famiglie.
17 ottobre 180732 … Il Sig. Luigi Sacco Medico Chirurgo direttore generale della vaccinazione, fra 15 giorni al più tardi si recherà nel
Dipartimento per eseguire le operazioni ad esso affidate … importanza
che si attrovi alla di lui venuta del virus fresco …(perciò) che siano incominciati in alcuni bambini gli innesti… Se all’arrivo del Sig. Sacco mancasse il virus fresco li SS. Pro Podestà dovrebbero rispondere personalmente.
Per assicurare l’esistenza della preziosa materia, a Ceneda furono subito attivati il dr Marchetti e il dr Luzzato. Ma, proprio a Ceneda, si
stavano preparando tempi drammatici.
Infatti, il 23 ottobre 180733, essendosi manifestati in questo comune casi di vaiolo naturale, che prima era serpeggiante in qualche altra
contermine…la perlustrazione eseguita in questo Municipio (rileva) un
numero rimarcabile di attaccati dal vajuolo naturale …(e deve essere applicato il) Decreto Reale 9 maggio 1804 art. 8-9-10-12 con sequestro
delle famiglie. Quindi recatasi nella famiglia del sig. Giovanni dal Fabro
detto Linarol ove risulta essere attaccato un fanciullo dell’età d’anni 4 e
mezzo circa …(egli fu messo sotto la) sorveglianza del Condotto dr. Luigi
Marchetti . Nella famiglia del sig. Steffano Bonaldi risulta essere attaccata una fanciulla di nome Maria dell’età d’anni 7 ritrovata in quarta giornata di eruzione, fu praticato il sequestro come sopra…Nella famiglia di
Giovanni Zambon risulta essere attaccato un fanciullo di nome Giovanni
d’anni 9… Nella famiglia di Antonio Tonello… due fanciulle, Marianna
di anni 7, l’altra Catterina di anni 5 …Nella famiglia di Pietro Scrizzi risulta essere attaccato un giovine di nome Domenico Mione di anni 27 nativo di Mel, abitante da mesi tre in questa comune… Nella famiglia di
Giuseppe dal Bo … due fanciulli, Antonio di anni 9 in quinta giornata
d’eruzione e Francesco di anni 3 in quarta giornata …Nella famiglia di
32
33
ASVV, S, Serie 38 b. 200.9 e C, Serie 20 b. 141.1, circolare 2625.
ASVV, C, Serie 20 b. 141.1, circolare 2019.
413
Zuanne dal Pont detto da mas …una fanciulla di nome Giovanna dal Pio
Luogo di Venezia di anni 6 circa …
Le altre famiglie colpite dal vaiolo e poste sotto la sorveglianza
dei medici, furono quelle di Domenico Bet (con) il fanciullo Domenico di
anni 6, Michiel De Nardi detto Osel (con) due fanciulle Angela e Margherita Osel di anni 5 e 1 e mezzo, Giobatta De Nardi detto Osel (con la)
fanciulla Angela di anni 6, Giobatta dal Bo detto Giardinier (con il) fanciullo Giobatta di anni 2 circa, GioMaria Canal (con la) fanciulla Maria
di anni 2 e mezzo, Giacomo Franceschini (con) la giovine Giacomina di
anni 17 in decima giornata. (E ancora) la famiglia della sig.ra Luigia
Ballarini (con) una fanciulla di nome Orsola Giacomini orionda da (?)
dipartimento Piave da un mese circa in questa comune, di anni 9… La famiglia di Giovanni Genova (con il) fanciullo Antonio di anni 1 e mezzo,
Domenico Foltran (con) il fanciullo Antonio di anni 9, Osvaldo Stella
(con il) fanciullo di nome Salvador di anni 5 (e la famiglia di) Steffano
Bonaldi (con) Margherita di anni 4.
Altre denunce del 29 ottobre 1807: Zuanne Tolot denunziò una
bambina d’anni 6 di lui figlia per nome Apolonia attaccata dal vajuolo
naturale in prima giornata, GioBatta Bet suo figlio di anni 3 … Giovanni
Artico denunziò due figli, Lorenzo di anni 6 e Maddalena di mesi 5 …
In tutte queste famiglie furono attuati i sequestri per togliere la
propagazione ulteriore del morbo. Il numero dei colpiti fu molto alto ma
si può supporre che i casi fossero anche più numerosi come risulta dal
rapporto n. 24, del 29 ottobre 180734.
Dal poco numero di tali dati in confronto al numero degli attaccati (si pensa al) …ripiego degli abitanti per evitare le conseguenze di disciplina, alle quali sanno che li assoggetta la legge. Dobbiamo però rimarcare che la presente circostanza va in altro aspetto a riportare un effetto
vantaggioso fin ora inutilmente malgrado pubbliche e particolari cure di
questa comune provocato; ed è che gli abitanti scossi dal ribrezzo del propagato morbo vanno ad adottare spontaneamente e con persuasione la vaccinazione la quale viene ricercata in questi momenti da molti individui …
In risposta: Regno d’Italia, Treviso 31 ottobre 1807 35. La commissione dipartimentale di Sanità del Tagliamento alla Deputazione Comunale di Sanità di Ceneda. … Approvando le misure prese da voi per il
sequestro, vi si aggiunge soltanto che apponiate alle case affette sulla
porta maestra un cartello dicente Casa infetta di vajuolo è inibito a
chiunque l’entrarvi.
34
35
414
ASVV, C, Serie 20 b. 141.1, fascicolo circolare 2765.
ASVV, C, Serie 20 b. 141.1, circolare 2078.
Ben 22 furono le famiglie costrette a mettere il cartello sulla porta di casa e possiamo immaginare lo scenario desolante di Ceneda in quel
periodo.
ASVV, Ceneda comune, b. 141, fasc.1
Conosciamo anche l’esito dell’epidemia consultando gli elenchi
presentati dai medici incaricati del caso.
Da quello del dr Marchetti:
Appolonia Romana orfana di padre e madre d’anni 20 in terza
giornata d’eruzione confluente sta in casa del Gastaldo delle Monache
del Gesù (in foresteria del Monastero del Gesù)… in settima giornata
non dimostra per ora segni di morte.
- Domenica figlia di Marco Costella sta in Piazza Galina d’anni
9 circa in terza giornata d’eruzione confluente tendente al maligno; in
settima giornata… vajuolo petechiale… è in gran pericolo della vita.
- Giuseppe figlio del Sig. GioBatta Fabris sta al Meschio d’anni
4 in terza giornata d’eruzione… in settima giornata … dovette soccombere nell’entrar in ottava…
- Mione Domenico domiciliato nella famiglia di Pietro Scriz …
dalla sesta giornata si formarono gran copia di petechie nerastre e così
continuò fino l’undicesima che fatalmente dovette morire.
Dalla lista del dr. Davidde q. Isacco Luzzatti:
Denunzio io… che mancarono di vita due individui: Orsola Giacomini di anni 10 circa (morta il 31 ottobre in 12 a giornata) e Margheri415
ta figlia di De Nardi Michiel (morta il 30 ottobre) …nella stessa famiglia
due individui (sono) in pericolo di essere attaccati dal morbo.
Fortunatamente si salvarono invece tutti gli altri.
Il 30 ottobre giunse infine l’avviso firmato dal dr. Luigi Sacco
che confermava la sua venuta … si recherà lunedì 16 dopo mezzo giorno
nella Comune di Ceneda … per estirpare una malattia, ch’è la più desolante per il genere umano … e così sbandire dalle vostre terre la più schifosa, e la più micidiale peste…L’avviso sarà dato col suono della campana, ed un Deputato Municipale, il Parroco ed un Cursore a norma delle
istruzioni si presteranno per le opportune emergenze. Le operazioni si faranno gratuitamente.
1 novembre 180736 Il viceprefetto del distretto terzo di Ceneda
alla Municipalità di Ceneda.
Il Sig. dottor Sacco… mi avvisa che nel giorno 16 corrente dopo
mezzo giorno e forse prima di quest’ora si recherà in questo capo-luogo
per eseguire sul momento la vaccinazione generale. Siccome egli deve
continuare subito il suo viaggio per Passereano così gli è necessario che
tutti i medici e chirurghi del Distretto inclusi tutti quelli dei Capo Luoghi
dei Cantoni si trovino per il detto giorno all’ora appuntata in Ceneda per
prendere seco lui i dovuti concerti, onde la vaccinazione si eseguisca e
con sicurezza e con facilità in ciascuna comune del Distretto… Questa è
la circostanza in cui dovete occuparvi con tutto il zelo per far sentire al
Popolo la voce del buon senso, della ragione e della umanità …(Si invita
anche a chiamare i parroci ad assistere alla vaccinazione)… che i Parochi
conoscono la via dei cuori per far abbracciare qualunque massima, che
si tratta di un reale interesse, che la Religione anzi comanda che le cose
utili vengano diffuse dai Ministri del Santuario, perché questi più facilmente sanno persuadere, che il nostro Vice Re (Eugenio Napoleone di
Francia) ci ha preceduto coll’esempio facendo vaccinare la sua bambina
di soli 27 giorni, che finalmente se vi sarà qualche ostinato, e contumace,
le Leggi Sanitarie sono vigilanti su questo, che tutti gli attaccati da vajuolo saranno messi in un Lazzaretto, e là rinchiusi dovranno restarvi
quaranta giorni; che pagheranno una multa pecuniaria di Lire cento italiane; che se alcuno li denunzierà, il denunziante verrà premiato colla
metà della multa, che se in fine alcuno osasse opporsi a tali disposizioni,
la forza pubblica saprà arrestarlo, e gli si farà soffrire quel castigo che le
Leggi Sanitarie cominano per i contravventori.
Ben si nota il clima intimidatorio!
36
416
ASVV, S, Serie 38 b. 200.9 e C, Serie 20 b. 141.1, circolare 2876.
I delegati alla vaccinazione che dovevano seguire il dr. Sacco,
furono presto incaricati: per Ceneda Luzzatti Davide e Marchetti Luigi,
mentre per Serravalle Zava Anselmo.
Serravalle, 4 nov 180737. Lettera del medico fisico condotto Zava
Anselmo.
Se una fatale combinazione ha apportati dei mali terribili alla
Umanità, la Provvidenza ci ha talvolta suggeriti dei mezzi per prevenirli.
Il vajuolo infatti che per l’addietro spopolava interi villaggi e toglieva
per lo meno il 20 per 100 degli attaccati si vidde sotto l’uso innocente e
semplicissimo della vaccinazione perdere la sua influenza e garantirne i
fortunati soggetti che subirono una simile operazione. A fronte però di
fatti certi inconcussi di preservazione sotto un tal metodo, a fronte di tanti
sì replicati sovrani eccitamenti diretti alla conservazione dei sudditi che
gli appartengono, v’hanno tuttora dei Genitori o insensati o crudeli che
sordi agli inviti della Provvidenza che vorrebbe salvi i lor figli, soggetti li
vogliono ad una malattia delle più terribili e contaggiose. L’istessa morte
che strappa tratto tratto dal loro seno le vittime innocenti della loro ostinazione non bastano a persuaderli a ricorrere ad un mezzo tanto facile e
sicuro per conservarli.
Ecco le ragioni per cui anche attualmente comparisce questa
malattia e libera vagando nei paesi limitrofi priva il Padre dei figli, di sostegni la Madre, il Sovrano dei sudditi.
Anche nelle vicinanze di questa città comparve ieri il vajuolo
che attaccò il figlio di Taddeo di Antonio Bridot abitante in Longhere e
siccome una nozione di tal fatta potrebbe interessare le viste Sovrane,
così mi credo in dovere di significarlo a quest’Offizio Municipale, onde,
dietro le Superiori Commissioni, usar possa dei mezzi atti ad arrestarne i
progressi.
Finalmente Ceneda, 17 novembre 180738. Il Podestà del Consiglio Municipale di Ceneda.
Il Sig. dr. Luigi Sacco … comparso in oggi in questa Comune verificò le operazioni di suo istituto … sopra un numero assai rimarcabile
di bambini, insinuando nell’affollata popolazione con la di lui attività e
virtù una deffinitiva confidenza di abbandonare li proprj figli a questo beneffico soccorso e diffondendo né presenti Proffessori Fisici li lumi oc37 ASVV, S, Serie 38 b. 200.9.
38 ASVV, C, Serie 20 b. 141.1, fascicolo
circolare 2876.
417
corribili per organizzare ed assicurare in di lui assenza il progresso e il
felice esito di tal operazione…
Ceneda, 19 novembre 180739. Il viceprefetto del Distr. Terzo di
Ceneda al S. Pro Podestà di Serravalle.
Il Sig. Sacco… con appuntamento di questo giorno mi comunica la nomina dei Professori da esso delegati a compierla (la vaccinazione) in tutta la estensione del Distretto. Il Circondario assegnato a ciascuno dei medesimi è stabilito sulla base di provvisoria distrettuazione 20
marzo p.p. ... Ho visto con vera soddisfazione adottato dalla persuasione
l’innesto vaccino nel Capo-Luogo del Distretto. Non dubito che otterrà
un eguale successo anche nelle altre comuni. Li signori Parrochi non cesseranno di far conoscere al Popolo il dovere preciso che gl’incombe di
seguire le Superiori Proscrizioni, presteranno le liste di quelli che non
hanno ancora avuto il vajuolo e assisteranno personalmente alla pubblica vaccinazione. Confidato nella filantropia de’ Signori Parrochi e Municipali mi astengo volentieri dal replicare nuovi eccitamenti e dal rimarcare ch’essi sono responsabili della mancanza dell’effetto contemplato dalle benefiche cure del Governo. Sono note le pene cominate contro gl’inobbedienti. Io terrò mano forte perché siano attivate in tutto il loro rigore … al nuovo anno deve far conoscere il numero dè vaccinati…
Naturalmente furono presto richieste tali liste, necessarie per valutare il successo della visita del dr. Sacco nei nostri territori.
Il 2 gennaio 1808 40. Il Viceprefetto del Distretto terzo di Ceneda
al Podestà di Serravalle.
Il Sig. Ministro dell’Interno (desidera) avere sott’occhio il generale prospetto de’ vaccinati dopo la visita fatta dal... dottor Sacco. Non
essendomi pervenuta alcuna relazione sull’argomento invito l’esperimentato di Lei zelo a rimettermi fra sei giorni il regolare prospetto in discorso ed a ragguagliarmi col maggior dettaglio di quanto si è operato in codesto comune …
Treviso, 16 gennaio 1808 41 al Podestà di Serravalle.
Preme alla Commissione di conoscere a colpo d’occhio tutti li
vaccinati in codesta comune … in tutto l’anno 1807.
Come al solito, solo Ceneda, che aveva ricevuto il medesimo invito, rispose immediatamente42.
39 ASVV,
40 ASVV,
41 ASVV,
42 ASVV,
418
S, Serie 38 b. 200.9, circolare 3174.
S, Serie 20 b. 203. 2 , circolare 18.
S, Serie 20 b. 203. 2 , circolare 127/39.
C, Serie 20 b. 148. 1.
6 febbraio 1808, accompagno l’elenco di tutti li vaccinati in
questa comune durante l’anno 1807…
L’elenco comprende ben 332 nomi di bambini, ragazzi e qualche
giovane, tutti vaccinati a novembre 1807, a dimostrazione del forte impulso dato dalla presenza del dr. Sacco.
I più piccoli avevano 1 mese, come Posocco Giacomina di Bernardo, CasaGranda Lucia di Domenico, Sanson Maria di Giacomo e Tobero Paolina di Domenico; ma c’erano anche giovani di 16, 17, 25 anni; il
maggiore risultava Botteon Giuseppe di 27 anni.
Sicuramente un così alto numero di vaccinati può imputarsi anche alla forte impressione causata dalla recente epidemia cenedese, tuttavia bisogna ammettere che durante il dominio francese si usò tutto l’impegno possibile affinché la vaccinazione diventasse una prassi corrente.
Il 20 marzo 180843 Il Viceprefetto del distretto terzo di Ceneda al
Podestà di Ceneda (circolare inviata anche al Podestà di Serravalle).
Conosciuti li salutari effetti della vaccinazione il Governo ha
impiegato le più sollecite cure per introdurla nel Regno in grazia delle
quali è attualmente attivata col più felice successo in tutti li Dipartimenti.
Ora spetta alle Amministrazioni Comunali di vegliare perché non si perda il frutto di un tanto benefizio, assumendo esse la cura del proseguimento della vaccinazione. Il benessere e la preservazione degl’individui
del proprio Comune deve essere per esse l’oggetto più interessante. Così
il Governo avrà il merito di averla introdotta, le Amministrazioni Comunali di averla conservata. E’ poi anche loro interesse che i proprj amministrati non abbiano a perdere quei diritti che sono concessi ai soli vaccinati, qual è l’ammissione nei collegi o convitti di educazione, e la preferenza ai soccorsi e alle beneficenze pubbliche. Temerei di far torto al filantropico di Lei sentimento e di offendere la di Lei delicatezza se dopo
l’esposto volessi interessarla nell’importante oggetto con più efficaci raccomandazioni …
Ceneda fu subito pronta incaricando come responsabile il chirurgo condotto L. Marchetti che ben presto diede dimostrazione del suo zelo.
Li 20 settembre 1808 44. La Municipalità e per Essa Il Delegato
per la vaccinazione nel Comune di Ceneda.
Per adempiere l’incarico di cui venne superioramente onorato,
fa sapere il sottoscritto Delegato per la vaccinazione di questa comune:
Che nelli giorni ...
43
44
Ivi , fascicolo 168 e S, Serie 38 b. 203.2, circolare 1370.
ASVV, C, Serie 20 b 148.1, circolare 2416 del 6 aprile e circolare 635.
419
Si presterà ad eseguire il gratuito pubblico innesto restando fissato per tal operazione il locale della Pubblica Loggia. L’ora resta addottata nella mattina di detti giorni e verrà enunciata col suono della
campana …( Si eseguirà) senza prescrizione di tempo, ed in qualunque
luogo possa il caso richiederla, così previene, che piacendo a taluni di
approffittarne privatamente, e nel proprio domicilio, un solo cenno basterà a condurre il Delegato ove l’altrui desiderio potesse invitarlo… soggiungendo d’essere provveduto di fresco miasma.
Possiamo notare la piena disponibilità dei medici cenedesi incaricati di divulgare la vaccinazione e non avrebbe potuto essere diversamente poiché erano già in vista i provvedimenti per i meno zelanti.
Infatti, il 1 marzo 180945 Il Viceprefetto del Distretto terzo di Ceneda al Sig. Podestà di Ceneda (circolare inviata anche al podestà di Serravalle).
Essendo pervenuto a notizia di S.E. il Sig. Ministro dell’Interno,
che alcuni Medici e Chirurghi condotti mostrandosi contrarj al sistema
della vaccinazione non si prestano ad eseguirla nei loro circondarj, ovvero la eseguiscono con poco zelo e non generalmente in modo che non è
sperabile di ottenere quei favorevoli risultati che una sì fortunata scoperta assicura pel bene della popolazione e dello Stato con … ordinanza 24
decorso N 4467 … m’incarica di invigilare sui Medici e Chirurghi del Distretto e di partecipare se alcuno realmente vi esistesse contrario al suddetto sistema, essendo intenzione della prelodata S.E. che venga tosto destituito…
La risposta di Ceneda fu immediata e il 3 marzo 180946 Il Podestà di Ceneda al Viceprefetto.
… per lume della verità e nella sicurezza ch’Ella ne sentirà un
vero conforto, rilevando che non solo ogni Medico e Chirurgo di questa
comune ma ancora ogni abitante manifestano ora con indubitati segni
una piena propensione al sistema della vaccinazione superiormente inculcato. Posso aggiungerle pertanto, che non solo non mi è mai risultato
alcun motivo di dubbio nelle rette disposizioni di questi Medici e Chirurghi, ma anzi ho riscontrato sempre ne’ medesimi la massima energia e la
più liberale attività per promuovere il rimarcato sistema.
Il 29 maggio il dr. Luzzatti, per tema di sbagliare, segnalò alla
deputazione di Sanità di Ceneda il caso di un’eruzione cutanea comparsa
a due figli del sig. Vettor Raccanelli; egli considerava la malattia una sorta
45
46
420
ASVV, S, Serie 38 b. 207.1 e C, Serie 20 b. 155.1, circolare 733.
ASVV, C, Serie 20 b. 155.1.
di vajolo spurio benigno ma preferiva comunque evidenziare il fatto per
cui fu sentito il parere autorevole del dr. Graziani.
Ceneda, li 31 maggio 1809 46 Benedetto Graziani Proto Medico.
Per commissione ingiuntami dal Sig. Savio alla Sanità, ho visitato li fanciulli di Vettor Raccanelli Barbitonsore in punta del Ghetto,
nonché altri due da altro suo fratello poco discosto d’abitazione, di più
uno di certo Zambon e finalmente un altro del signor Luigi Marchetti ed
ho rilevato ad evidenza esser l’esplosione morbillosa che attaccava questi fanciulli, esentematica con pustole senza alcun pericolo e lontana affatto d’ogni sospetto di vajuolo naturale; Bensì riverentemente consiglio
il Sig. Savio alla Sanità, che essendo cotesti morbilli prodromi dell’epidemica eruzione del vajuolo, precetti chi aspetta a passare all’innesto del
vaccino, e nell’atto istesso avvertir faccia la popolazione che si presti a
procurar a suoi figlioli tale utile operazione precettata dal Sovrano, e riconosciuta necessaria per togliere dal mondo un tal malore… ripassandogli a tal uopo elenco dei nati dall’ottobre 1808 ultima epoca dell’eseguita vaccinazione.
Mentre Ceneda si dimostrava quindi sempre solerte, Serravalle
dava segni di qualche negligenza, almeno per quanto riguardava la consegna delle famose liste dei vaccinati che dovevano di continuo essere sollecitate.
Il 20 marzo 180947… Il S. Ministro dell’Interno ha veduto la trascuratezza con cui non furono secondate le di Lui brame …L’operazione
non è faticosa, né richiedente studio alcuno…
Il 29 marzo 180948… Ritorno per la terza volta a richiederle l’elenco dei nati nel 1808 e dei vaccinati nell’anno medesimo con la individuazione dei progressi della vaccinazione…
Evidentemente Serravalle era ancora abituata al governo veneziano notoriamente più tollerante e permissivo e gestiva la cosa con una
certa leggerezza mentre Ceneda, per lungo tempo assoggettata all’amministrazione ecclesiastica, era più ligia e rigorosa.
Con la primavera giunsero anche nei nostri territori le istruzioni
per eseguire la vaccinazione nel corrente anno 180949 con la novità di
eseguirla da comune a comune, partendo dal capoluogo, organizzandola
quindi meglio ed obbligando le varie amministrazioni comunali a sincronizzarsi con rigore tra loro, ottenendo anche il vantaggio di aumentare la
disponibilità di materia vaccina.
47
48
49
ASVV, S, Serie 38 b. 207.1, circolare 478.
Ivi , circolare 545.
ASVV, S, Serie 38 b. 207.1 e C, Serie 20 b. 155.1.
421
Le Amministrazioni Municipali che trascurassero di approfittare
dell’invito saranno denunziate a S.E. il Ministro dell’Interno.
Regno d’Italia50 Dipartimento del Tagliamento, Ceneda 10 giugno 1809 Il Viceprefetto al Sig. Podestà di Ceneda (circolare inviata anche a Serravalle).
… Scoperti i tre motivi principali, che frapponevano ostacolo
all’andamento regolare di sì benefica istituzione, cioè la mancanza di
materia vaccina, la negligenza di alcune Amministrazioni Municipali, e
la poco o niuna persuasione di certi Medici o Chirurghi sui benefici risultati di questa scoperta… vuole la lodata E.S. che si faccia di ora innanzi da comune a comune principando dal Capo Luogo del Dipartimento … mantenendo in corso fino alla completa esecuzione in tutti i comuni
che compongono il Dipartimento51.
… Quanto poi ai Medici o Chirurghi che si rifiutassero di eseguire la vaccinazione o fomentassero nel popolo delle sinistre opinioni a
questo riguardo li S.ri Podestà e Sindaci dovranno notificarli alla Vice
Prefettura per quei immediati provvedimenti …
E’ opportuno notare che un vero problema era la mancanza del
siero vaccino che spesso si manifestava inefficace, specialmente il pus
conservato nei tubetti, e che comunque doveva continuamente essere
mantenuto con passaggi da braccio a braccio. Questo inconveniente appare evidente leggendo le ripetute richieste di Ceneda, fatte a partire dal 18
giugno 1809 e soddisfatte solamente ai primi di novembre.
18 giugno180946 Lettera di Benedetto Graziani Protomedico della comune di Ceneda al Sig. Podestà.
Per darle un pieno contrassegno del mio zelo nell’esecuzione
de’ suoi cenni e per dovere del mio Uffizio, già da varii giorni avevo col
mezzo delli due eletti Professori S. Marchetti e S. Luzzatti eseguito qualche innesto di vaccino col miasma dell’anno scorso; ma avendolo rilevato o affatto innoperoso, o spurio, così ho creduto di rivolgermi a ricercarne altrove e subito che io l’abbia ottenuto mi presterò a dar di bel nuovo
mano all’opera col metodo che riconosco assai giovevole… Se Ella volesse, S. Podestà, accennare al V. Cao. Prefetto la predetta deficienza di
miasma, e l’arenamento che soffre conseguentemente l’operazione onde
fossimo provveduti col di lui mezzo dai Professori di collà d’alquante
Penne, ciò mi darebbe la compiacenza di poter subito prestarmi all’esecuzione dè suoi venerati comandi…
50 ASVV, S, Serie 38 b. 207.1 e C, Serie 20 b. 155.1, circolare 1715.
51 In quel periodo, Ceneda era capoluogo mentre Serravalle era comune
422
di II classe.
Il 20 giugno vennero perciò richieste due penne di pus vaccino
ma il prefetto del Tagliamento, a sua volta, era in attesa di virus fresco e
solo il 7 ottobre fu in grado di trasmetterlo a Ceneda. Sfortunatamente
esso riuscì mancante di effetto e finalmente il 7 novembre furono consegnate due penne in grado di ottenere il bramato effetto.
Si dette quindi l’avvio alla vaccinazione annuale con partenza
dal capoluogo.
17 novembre 180946
Radunati nella Sala dell’Ospital Civile il Sig. Savio Viezzeri incaricato della Sezion Sanitaria, il Segretario Municipale, il Sig. Benedetto Graziani Medico Condotto, il Sig. Luigi Marchetti chirurgo condotto,
affine di verificare, dietro li avvisi emanati e le circolari rivolte ad ogni
Rappresentanza Municipale in contatto con questo CapoLuogo, la vaccinazione generale da braccio a braccio a termine delle superiori analoghe
istruzioni.
Quivi fatti tradurre gli infrascritti fanciulli innestati col pus conservato ed aventi in suo perfetto corso la legitima pustola della vaccina e
sono: innestati li 8 novembre 1809
Basilio figlio di Domenico Michielin di mesi 12 circa
Francesco figlio di Pietro Redivo di mesi 12
Moisè figlio di Michiel Chiesa di mesi 16
Agostino figlio di Giacomo Racanel di mesi 15
Si passò all’innesto da braccio a braccio verso delli seguenti individui presentati dal Medico Chirurgo Luigi Marchetti.
Per parte della comune di Ceneda
Bortolo figlio di Michiel Borsoi detto Oc di mesi 15
Lorenzo di Pietro Carati di mesi 30
Teresa di Pietro Carati di mesi 18
Lucieta di Pietro Fais di mesi 4
Lorenzo di Giacomo Saggio di mesi 20
Elena di Giuseppe Bertoja di mesi 15
Per parte della comune di Serravalle accompagnati dal dr. Anselmo Zava
24 novembre 1809 vaccinati da braccio a braccio
Osgualdo di Valentin Tiffi di mesi 20
Girolamo di Zuanne Barel di mesi 20
Per parte della comune di Revine accompagnati dal dr. Marchetti
24 novembre 1809 vaccinati da braccio a braccio
Domenico di Zuanne Baldo di mesi 21
Angela di Marco Bernardi di mesi 9
Per parte della comune di Carpesica e suoi colmelli di Formeniga e Cozzuol
accompagnati dal dr.Marchetti
26 novembre 1809 vaccinati da braccio a braccio
423
Valentin di Giovanni Pol del mengo di mesi 6
Domenico di Giacomo dei Nadai di mesi 14
Pietro di Zuanne Toè di mesi 12
Osgualdo di Pietro Marcon di mesi 8
Appolonia di Biasio Bozon di mesi 4
Anche San Giacomo, Cappella, Anzano e Tarzo presentarono
ciascuno due fanciulli come era previsto ma, come si nota nel prospetto,
la data per tutti quelli fuori Ceneda, fu posticipata di circa una settimana a
causa della forte contrarietà del tempo…La forte stravaganza del tempo
nel giorno di ieri (il 17 novembre) avendo impedito alle Amministrazioni
Municipali delle comuni contermini l’inoltro a questo Capo Luogo dè
fanciulli, ai quali communicare l’innesto vaccino.
Il metodo di eseguire la vaccinazione distrettuale di comune in
comune partendo dalla centralità, si dimostrò efficace così giunse, anche
nei nostri territori, l’ordine di applicarlo negli anni seguenti.
Le coercizioni erano sempre incalzanti e chi non era vaccinato
non poteva essere accettato nei collegi e nei monasteri e nella distribuzione dei pubblici soccorsi era posposto ai vaccinati. Nel 1813 fu introdotta
la novità del certificato, consegnato al momento del controllo se si fosse
dimostrato valido l’innesto, da esibire come prova dell’avvenuta vaccinazione.
Il podestà di Ceneda, dopo aver ordinato l’annuale vaccinazione
con la relativa consegna dei certificati, il 20 maggio 181352, precisava …
Sappiano li Comunisti:
Che ultimata la presente operazione saranno da me ripetute delle visite in tutte le Scuole Comunali e Private per espellere dalle medesime tutti gli allievi non vaccinati o rimasti immuni dal vajuolo naturale.
Conseguentemente li Maestri Comunali e Privati non potranno in seguito, in pena dell’immediata sospensione, ricevere nelle loro Scuole alcun
individuo che non somministri le prove di aver ricevuto l’innesto vaccino,
a meno che non fosse preceduto dal vajuolo naturale… Avvenendo poi,
che si sviluppi in alcun luogo il vajuolo naturale, sappiano i Capi di casa
che saranno pratticati i più rigorosi sequestri con guardie stabili a tutto
carico della famiglia nella quale si sarà manifestato il contaggio.
52 ASVV, C, Serie 20 b. 182.3, avviso N 676. Naturalmente i Comunisti non erano
del partito comunista, che non esisteva, bensì gli abitanti del comune. A Ceneda , il fisico condotto responsabile in quel periodo era il dr. Fontebasso, eletto dopo la morte del
dr. Graziani avvenuta il 31 maggio 1810.
424
Naturalmente anche Serravalle diede il via all’annuale vaccinazione, affidata al dr. Zandonella.
Avviso del podestà di Serravalle del 10 luglio 181353
… Sappia inoltre questa popolazione che il Governo ha stabilito
delle misure contro coloro che sordi alle voci della ragione si rifiutassero
di seguire gli eccitamenti della superiore autorità… Li fanciulli non vaccinati verranno esclusi dalle scuole pubbliche… in caso poi che si sviluppi il vajolo naturale saranno praticati li più rigorosi sequestri alle famiglie in cui si è sviluppato con guardie a tutto carico di dette famiglie…
Comunque ormai la prassi della vaccinazione aveva preso l’avvio e, nei relativi elenchi dei vaccinati54, le osservazioni dei medici erano
sempre positive. Devo però far notare come Serravalle continuasse a dimostrarsi negligente nella consegna di tali elenchi, che dovevano sempre
essere sollecitati e che si presentavano inoltre meno ordinati e precisi rispetto a quelli cenedesi55. Prendo ad esempio il caso dell’anno 1814. Probabilmente confidando a torto sulla confusione legata alla recente caduta
del dominio napoleonico, Serravalle non aveva ancora trasmesso il prospetto del 1813.
Conegliano, li 20 maggio 1814. Dalla Cesarea Regia Vice Prefettura distrettuale alla Municipalità cantonale di Serravalle56
E’ ben osservabile, Sig. Podestà, che indolente alle ricerche fatte
colla mia Ord. N 4211 esecutivamente agli ordini della Prefettura, sia
trascorso di quattro giorni il termine siffato alla presentazione del prospetto della vaccinazione seguita nell’anno 1813. Le commetto d’inoltrarlo a vista della presente per apposito Espresso, e le prevengo, che
continuando il troppo vergognoso ritardo, sarà destinato un delegato a
tutte sue spese…
Con il Congresso di Vienna del 1815, il Veneto passò nuovamente all’Austria e fu annesso al Regno Lombardo -Veneto. Le disposizioni in
materia di vaccinazione ormai erano comunque una prassi consolidata e
53 ASVV,
54 Non si
S, Serie 38 b. 232 sanità, allegato alla circolare 2087.
trattava più di liste di nomi, bensì erano essenziali e veniva richiesto solo
un quadro da cui si possa rilevarne la popolazione, il numero dei nati nell’anno antecedente, il numero dei vaccinati nell’anno corrente con una breve nota di osservazioni del
medico.
55 Il fatto è evidente dall’osservazione delle buste sanità di Serravalle di tutti gli anni
del periodo esaminato. Es. 30 dicembre 1809, con circolare urgente si sollecitava l’elenco dei vaccinati del 1809 (ASVV, S, Serie 38 b. 211.1), 24 dicembre 1811 … Non mi ritardi più oltre la prego la spedizione del quadro de’ vaccinati…(ASVV, S, Serie 38 b.
218.6) e in realtà venne trasmessa la lista dell’anno precedente (!).
56 ASVV, S, Serie 38 b. 237.11, circolare 4347.
425
sia Ceneda che Serravalle continuarono ad effettuarla con la medesima
tecnica.
A conclusione del presente studio, si può affermare che, dopo un
primo periodo di comprensibile titubanza, le popolazioni dei due comuni
si adeguarono ben presto alla diffusione del vaccino. Questo grazie al rigore delle amministrazioni e al buon operare dei medici e chirurghi incaricati, anche se dobbiamo ammettere che gran merito va attribuito all’opera del dr. Sacco ed alle leggi ed imposizioni attuate durante il Regno d’Italia. Va ancora osservato e ribadito che Ceneda si assoggettò più facilmente all’introduzione della vaccinazione antivaiolosa rispetto a Serravalle, probabilmente perché, come già detto, era da tempo abituata alla rigorosa amministrazione ecclesiastica.
Allegato 1
Ritengo interessante riportare, mediante le parole del dr. Zandonella, il caso del contagio vaioloso avvenuto a Serravalle nel 1831.
Serravalle, 31 maggio 183157
Relazione del dr Zandonella Medico Condotto all’inclita deputazione comunale di Serravalle.
Ho la consolazione di far noto a questa deputazione …che il vajuolo sviluppatosi in alcune famiglie di questa città fino dai primi giorni
dello scaduto mese di aprile in causa di una questuante discesa dalle
montagne di Erto Provincia del Friuli con una fanciulla carica di vajuolo, va felicemente a cessare. Gl’individui che in esse furono successivamente attaccati, toccano quasi tutti il termine prescritto al loro sequestro
e vanno di mano in mano che lo raggiungono ad essere l’uno dietro l’altro rimessi in libertà, dopo fatti li dovuti espurghi …( Il vaiolo è stato) discretissimo per altro, benigno, di un andamento regolare in tutti e di un
esito costantemente in tutti felice … Ho dovuto convincermi che l’attuale
contagio attacca indistintamente vaccinati e non vaccinati, vaccinati di
fresco e vaccinati in passato e da molti anni. (Viene fatto cenno del problema) della stretta comunicazione continua e giornaliera in cui siamo
con li varj distretti del Bellunese infetti universalmente da molti mesi da
questo morbo…
57
426
ASVV, S, Serie 20 b. 351.3
E’ molto strano il fatto che anche i vaccinati fossero soggetti all’infezione e questo fa pensare che in realtà non si trattasse di vero vaiolo
ma del così detto ravaglione.
Vedi I. Lotti, Cura del vajuolo, Venezia 1794 … vajuolo detto
volgarmente Salvatico, o Volante, e dai colti Italiani Ravaglione. Esso è
appunto così nominato perché infatti non è il vero vajuolo ma in qualche
parte lo rassomiglia … è sempre più benigno … non ha pustule ma vescichette serose….
Era forse varicella?
Allegato 2
A metà Ottocento, la conoscenza sul vaiolo ed il relativo metodo
di vaccinazione non erano molto diversi da quanto fin qui trattato; a dimostrazione, riporto quanto viene scritto nel volume 24 della Nuova Enciclopedia Popolare Italiana, Torino 1866.
p. 69 - Vaccina
Chiamasi vaccina, cowpox degli Inglesi, una malattia pustolosa
e contagiosa propria delle vacche, la quale, inoculata all’uomo, lo preserva dal vajuolo.
p. 70 - Vaccinazione
Chiamasi vaccinazione l’inoculazione del virus vaccino sull’uomo, onde preservarlo dal contagio vajuoloso…La vaccinazione… da
braccio a braccio, vale a dire l’inoculazione per mezzo del vaccino raccolto all’istante da una pustola colla lancetta, o coll’ago da vaccina, è
incontrastabilmente il metodo più sicuro.
(Si ammette la possibilità di trasmettere altre malattie, principalmente la sifilide).
Pericoli d’infezione. Casi incontrovertibili avvenuti in Francia
ed in Germania, ma più di tutto il fatto di Rivalta, provincia di Alessandria, per cui si trovarono infetti di lue buon numero dei bambini vaccinati
in questo comune nell’anno 1864. ( Perciò viene raccomandato)
1° di non vaccinare se non con pus di legittima provenienza, tolto su ragazzo sano, esaminato pria minutamente dalla testa ai piedi.
2° procurare di caricare la lancetta col solo liquido vaccinale
senza mescolanza di sangue.
427
3° scegliere per vacciniferi dei bambini che abbiano almeno tre
o quattro mesi di vita, od anche più, perocchè nei casi di sifilide ereditaria, gli accidenti si dichiarano quasi sempre prima di questo periodo. Tali
avvertenze meritano di essere segnalate …. né vuolsi spargere alcuna
paura nelle popolazioni, le quali in certe regioni sono pur troppo ancora
tutt’altro che proclivi a profittare del gran benefizio arrecato all’umanità
dalla scoperta di Jenner.
p. 73 - Vajuolo ( lat. variola)
Malattia formidabile e spesso micidiale, che uccideva grande
numero di individui prima dell’invenzione del vaccino, o ne rimanevano
per lo più sconciamente sfigurati.
Il vajuolo è una malattia esantematica, essenzialmente contagiosa, sovente epidemica, la quale ordinariamente non coglie l’individuo che
una sola volta nella vita ….
Secondo il vario grado di sviluppo, distinguesi il vajuolo in discreto e confluente.
Il discreto presenta la caratteristica forma di comparsa di pustole
che dall’11° al 12° giorno vanno incontro all’essiccazione lasciando cicatrici permanenti. Nel confluente invece i fenomeni sono molto più violenti
e giungono le più gravi complicazioni.
Le fotoriproduzioni sono state eseguite da Pizzol Carla e sono
pubblicate su concessione prot. n.14953/2012 rilasciata dall’Archivio Storico di Vittorio Veneto di beni archivistici a stampa.
Desidero ringraziare la Sig.ra Paola da Grava, responsabile dell’Archivio
Storico di Vittorio Veneto, per la sua disponibilità e gentilezza.
428
Farmacopea, droghe e veleni nell’Ottocento vittoriese
Relazione presentata al Convegno da
Loredana IMPERIO
Dall’esame dei numerosi documenti presenti nell’Archivio Storico di Vittorio Veneto, relativi ai due centri di Ceneda e Serravalle, che nel
1866 unendosi formarono l’odierna città, appare evidente l’interesse del
governo austriaco per la salute pubblica1.
Il primo documento indirizzato ai “Signori Provveditori alla Sanità di Serravalle” portava la data del 30 novembre 1799 e li invitava a
vigilare “per impedire le arbitrarie composizioni di Pomate e di Acque
per tingere con artificio li capelli del Capo, conosciute dannose alla
umana salute …”2.
Come possiamo notare da questo documento gli Austriaci nella
voce Sanità, includevano anche la cosmesi.
Il 28 giugno 1803 veniva pubblicato l’elenco dei medici di Serravalle e dintorni:
● Dott. Gasparo Francesco Zaffoni (Serravalle);
● Dott. Giovani Orsi chirurgo (Serravalle);
● Dott. Silvestro Salamon chirurgo (Serravalle);
● Dott. Giovanni Marini medico a Cappella;
● Dott. Antonio Sandre chirurgo a Formeniga;
● Dott. Giovanni Antonio da Rè chirurgo a Osigo3.
Tali elenchi, ripetuti più volte negli anni successivi, avevano lo
scopo di impedire l’esercizio abusivo della professione medica.
In questo stesso anno troviamo a Ceneda il dott. Davide Luzzato
definito “chirurgo scientifico”.
1Per
gli Austriaci, alla voce sanità e in particolare nel comparto farmacopea e droghe,
erano da annoverarsi anche aspetti diversi del vivere quotidiano come la cosmesi, i recipienti e il vasellame da cucina, le acque minerali, i liquori, le confetture, le spezie ed altro ancora.
2 ASVV, S.b. 184,
3 ASVV, S.b. 190.
429
Il 20 maggio 1803 da Venezia giungeva a Serravalle un editto
che riguardava l’uso della China gialla e l’introduzione nella farmacopea
della China rossa.
Si specificava che dal 24 febbraio si doveva usare la “China rossa, egualmente utile come la China gialla e in alcuni casi più efficace
della China, bene inteso che sia vera china Rossa di Santa Fè … . Sarà
permessa la vendita a’ solo speziali di medicina, dietro ordinazione di un
medico fisico, restano abilitati pure li droghieri…..”4.
Da questo avviso non appare chiaro che cosa si intendesse per
China – China, a meno di identificarla con la Cinchona ledgeriana o china
grigia usata più che altro nella liquoristica.
La Cinchona officinalis o China gialla era quella adoperata normalmente sin all’introduzione dell’uso della “succirubra” o China rossa.
Il 3 agosto 1803 da Treviso si notificava al Pubblico “ la istituzione di una scuola chimica in Venezia, per ammaestramento degli studenti in medicina e chirurgia”.5
Il 22 marzo 1807 si pubblicava a Serravalle l’elenco dei cittadini
che potevano “vendere droghe al minuto” ed essi erano:
● Antonio Baccichet;
● Innocente Rocher;
● Giobatta Rocher;
● Antonio Panella e compagno;
● Francesco Todesco;
● Fabrizio Eve;
Un documento del 24 giugno 1815 ci presenta una particolarità
del sistema sanitario austriaco che potremmo definire di “mutuo soccorso”, generalmente messo in atto durante le epidemie.
In questo caso il prefetto provvisorio del Tagliamento conte di
Porcia informava che la “peste sviluppatasi a Macarsca fece pure passaggio a Narenta e quindi in alcuni villaggi di Imoschi, al di là della Cettina e resiste tuttora agli sforzi zelanti delle preposte autorità di quella
provincia…”. Poiché si era tutti sudditi dello stesso sovrano si chiedevano aiuti alle popolazioni di “…Grano, riso, biscotto e soldo che fosse
possibile raccogliere.”6.
4
ASVV, S.b. 191.
Ibid.
6 ASVV, S.b. 245.
5
430
Dall’elenco dei sanitari del 16 agosto 1817 vediamo che vi erano
a Serravalle due farmacisti: Comini Lorenzo e Villi Ambrogio e due venditori di droghe: Todesco Giuseppe e Guardabasso Natale e fratelli7.
Il 22 agosto 1819 l’Imperial Regio governo di Venezia notificava
ai responsabili della comunità di Serravalle che:
“Le coccole d’India” o di Levante dietro l’esperienza e le prove
fatte su di esse vennero riconosciute qual sostanza velenosa e dannosa all’umana salute. Esse sono le bacche d’una pianta che nasce nelle Indie
Orientali, ed hanno il gusto amaro, ardente, e acuto, ed eccitano il vomito. L’uso delle medesime è nocivo alla salute, produce non solo nausea,
svenimenti, e flussi di sangue, ma può anche cagionare la morte.
Per impedire quindi le disgrazie, che potrebbero succedere dall’incauto uso di queste bacche, il Governo dietro gli ordini dell’Eccelsa
Aulica Cancelleria Riunita, le assoggetta qual sostanza velenosa a tutte
le precauzioni, e limitazioni prescritte per le altre sostanze velenose.
Le Autorità tutte, Provinciali e Comunali, restano perciò incaricate di sorvegliare attentamente per l’osservanza della presente determinazione e devono particolarmente tenere di vista que’ venditori girovaghi,
che nelle campagne sogliono vendere le dette Coccole, e come rimedj
per ditruggere gl’insetti del capo, e come esca per prendere il pesce8.
Gli speziali e negozianti legalmente autorizzati alla vendita de’
veleni dovranno essi pure nella vendita delle Coccole d’India o di Levante rigorosamente seguire le cautele prescritte dal Codice delle Gravi Trasgressioni Politiche in questo argomento”.
Tale notifica portava le firme del governatore Carlo Conte d’Inzaghi, del vicepresidente Alfonso Gabriele conte di Porcia e dell’I.R.
Consigliere di Governo Francesco Aglietti9.
Il 7 agosto 1819 da Venezia veniva emanato, a stampa, un catalogo degli articoli medicinali chimico Farmaceutici, la preparazione, e
vendita dei quali erano di esclusivo diritto dei Farmacisti approvati e,
pubblicamente esercenti (Vedi allegato 1)
Tale catalogo era firmato dal governatore Pietro conte di Goess e
si faceva presente che sua Maestà aveva ordinato con risoluzione dell’8
settembe 1818 che venisse posta in vigore nel Regno Lombardo – Veneto
la Farmacopea austriaca.
7
ASVV, S.b. 260.
Nel dizionario del dialetto veneto del Boerio alla voce “cocola” si legge: i pescatori se ne servono come esca per gettarla ai pesci, che vengono quasi addormentati e si lasciano pigliare (pg. 175).
9 ASVV, S.b. 269.
8
431
Da Treviso, il 15 gennaio 1820, si “autorizzavano alcuni individui alla vendita dei veleni”:
Treviso:
Oderzo:
Conegliano:
Serravalle:
Ceneda:
Valdobbiadene:
Montebelluna:
Castelfranco:
-
Targhetta Pietro;
Poletti Teodoro;
Rigamonti GioBattista;
Toppan Giuseppe;
Vascellari Giuseppe;
Guardabasso Natale;
Bianchi Giovanni
Dalla Costa Giobattista;
Ferrari Francesco;
Lucato Giovanni.
Il documento proseguiva notificando “Nel dedurre a pubblica
notizia questa governativa Risoluzione, e restano incaricati i Regi Commissariati Distrettuali, la Congregazione Municipale, e tutte le Deputazioni Comunali d’invigilare, attentamente, affinché non siavi chi quindinnanzi si permetta un simile esercizio di vendita ad eccezione degli individui suddetti, e de’ Farmacisti, gli ultimi de quali possono somministrarne pei soli oggetti di medicina colle norme fissate…10.
Il 3 aprile 1823 il Regio Commissario Distrettuale Marini scriveva alla deputazione Comunale di Serravalle quanto segue:
“Benché sia stata per l’addietro raccomandata tutta la vigilanza
affinché fosse tolto l’abusivo smercio de’ rimedi segreti per parte dei farmacisti, la Superiorità ha motivo di dubitare che ciò nulladimeno continui in qualche Farmacia cola vendita non autorizzata a senso del decreto 11 gennaio 1811”...11.
Perciò si incaricava la Deputazione a fare diligenti indagini per
scoprire gli abusi.
La Deputazione di Serravalle rispose negando che avvenisse nelle farmacie del luogo “smercio di rimedi segreti”.
Purtroppo nell’ordinanza non veniva specificato che cosa si intendesse per “rimedi segreti” e viene spontaneo chiedersi se in realtà si
alludesse all’antica farmacopea erboristica di matrice popolare che la medicina ufficiale e le scuole farmaceutiche tentavano di estirpare.
Il 31 agosto 1824 da Venezia veniva trasmessa a Serravalle la seguente disposizione:
10
11
432
ASVV, S.b. 279.
ASVV, S.b. 292.
“Sua Maestà con sovrana risoluzione si è degnato di ordinare
che l’attuale assoluto divieto contro la cura col mezzo del magnetismo
animale abbia tuttora a sussistere anche per l’avvenire.”12.
Con il termine magnetismo animale, o mesmerismo, si indicava
la pratica terapeutica elaborata negli anni ’70 e ’80 del XVIII secolo dal
medico viennese Franz Anton Mesmer, il quale sosteneva che il corretto
funzionamento dell’organismo umano fosse garantito da un flusso armonioso di un fluido fisico che lo attraversava e credette di identificare tale
fluido quale forza magnetica. Malattie e disfunzioni sarebbero perciò dovute a blocchi o difficoltà di scorrimento di questo flusso. Dopo pochi
anni Mesmer stesso si rese conto che la sua teoria sui fluidi era sbagliata e
che i pazienti miglioravano non per la forza magnetica, ma per la suggestione mentale che egli provocava negli ammalati. Egli chiamò questo
strano legame tra medico e paziente “magnetismo animale” e in seguito
“mesmerismo”.
Le teorie e gli esperimenti di Mesmer furono dichiarati privi di
ogni base scientifica, ma aprirono la strada ai successivi studi sull’ipnosi
e sul sonno magnetico indotto dal medico.
Nel 1824 la pratica del “magnetismo animale” era considerata
opera di ciarlatani e nociva alla salute.
Il 28 settembre 1829 veniva stampata ed inviata alle delegazioni
cittadine la “Tavola sinnottica dei materiali e preparati velenosi disposti
nelle categorie secondo le quali gli stessi possono tenersi e vendersi dai
commercianti a ciò particolarmente autorizzati dagli speziali ”13.
(Allegato 2)
In questo periodo troviamo dei foglietti con le dichiarazioni di
semplici cittadini per l’acquisto di prodotti considerati velenosi.
Eccone un esempio:
“2 novembre 1829 – La Deputazione civile di Serravalle, sopra
domanda della Sig.a Anna Maria Colletti, autorizza il droghiere sig. Natale Guardabasso alla vendita alla stessa sig.a Colletti di mezz’oncia di
verderamino, di cui dichiarò di voler servirsene per tingere della seta,
trattenendo la presente a sua cauzione”14.
Un’altra dichiarazione riguardava la vendita del farmacista Antonio Biave ad Antonio Cortuso, fabbricante di cappelli, di 6 libbre di acido
12
ASVV, S. b. 298.
ASVV, S.b. 337.
14 Ibid.
13
433
nitrico e once sei di mercurio precipità rosso, necessari per il suo lavoro
di cappellaio15.
Il 22 maggio 1829 venne stabilito che il medico provinciale e il
protomedico dovessero visitare le farmacie e drogherie di Serravalle per
controllare gli articoli medicinali provenienti da altri paesi16.
Abbastanza frequenti erano le ispezioni per controllare il buon
funzionamento delle farmacie e il comportamento dei farmacisti. A seguito di una di queste visite troviamo una lettera di biasimo inviata a Serravalle: “12 maggio 1830 – Regno Lombardo Veneto – Regia Delegazione
nella provincia di Treviso. Si farà sentire il Regio malcontento al farmacista Biave che usa poca attenzione nella conservazione di molte sostanze
semplici, nella preparazione di non pochi rimedi di uso frequente come
sono il diascordio, gli sciroppi, la conserva di rose, le acque di cedro e
di menta, ecc.. Lo si invita ad essere più diligente e fervoroso nell’esercizio di una professione che tanto interessa la sofferente umanità”17.
Il 30 luglio 1835 furono consegnati ai farmacisti di Serravalle gli
esemplari a stampa della farmacopea austriaca autorizzata18.
Da Venezia veniva inviato alla delegazione il seguente avviso:
“Si rende noto che l’Aulica Cancelleria ha dichiarato che per
quanto concerne il così detto estratto di salsa pariglia composto dal dott.
Smith si debba stare a quanto prescrivono le vigenti direttive giusta le
quali non solamente è riservato ai farmacisti lo smercio dei medicinali
composti, ma incombe altresì ai farmacisti di preparare eglino stessi li
preparati che da loro vengono dispensati.
In tutta la monarchia non è permessa la vendita dell’estratto
suddetto …le autorità devono impedirne lo smercio…19.
Da questa disposizione possiamo notare una certa diffidenza delle autorità austriache verso i preparati non eseguiti nelle farmacie locali e
secondo le direttive dell’Imperial Regio Governo.
Il 18 maggio 1836 fu autorizzata l’apertura della prima farmacia
a Cappella Maggiore20.
15
ASVV. S.b. 345.
ASVV. S.b. 337.
17 ASVV. S.b. 345.
18 ASVV. S.b. 375.
19 Ibid. La salsa pariglia è una pianta medicinale delle gigliacee, dalle cui radici si
estrae un succo usato per fare uno sciroppo depurativo del sangue o decotti diuretici e
sudoriferi...
20 ASVV. S.b. 381.
16
434
Il 15 aprile 1837, da Venezia, la Cancelleria imperiale ordinava
che per essere ammessi al tirocinio farmaceutico bastasse, in avvenire,
avere compiuta l’età di 14 anni invece di 1521.
Tale tirocinio era della durata di 4 anni, cui seguivano 2 anni di
Università.
Il 18 ottobre 1839 i farmacisti di Serravalle ricevettero un comunicato in cui venivano invitati ad usare nel loro lavoro i pesi austriaci e
non più quelli veneti22. Tale invito verrà ripetuto più volte a palese dimostrazione del rifiuto quasi generale dei conduttori di tali esercizi ad usare
i pesi austriaci.
A seguito di nuove ispezioni alle locali farmacie fu emessa una
circolare in cui si rilevavano soprattutto due aspetti negativi nella loro
conduzione: “Che manca affatto presso talune, e presso molte altre Farmacie è irregolarmente tenuto il Registro dei veleni, sebbene questo obbligo ingiunto ad ogni Farmacista sia di tanta importanza da costituirne
pel paragrafo 121 del Codice Penale, parte II, una grave trasgressione di
polizia la sua trascuranza. Che finalmente, viene dato corso a Mediche o
Chirurgiche ricette sebbene scritte coll’amatita (Sic) (lapis) in forma
spesse volte oscura e dubbiosa e senza che in esse siasi prescritto il modo
con cui deve essere usato il rimedio, il che può apportare di leggieri le
più sinistre conseguenze alla salute degli infermi. L’Imperial Regio Consigliere effettivo di governo e regio delegato provinciale Barone di Humbracht, segretario F. Pasini”23.
Onde comprendere meglio le prescrizioni imposte dalle autorità
austriache per la buona conduzione delle farmacie, leggiamo di seguito le
modalità d’ispezione attuate in una di esse situata a Serravalle24.
“Serravalle il giorno 17 febbraio 1840. Atto della visita eseguita
dall’imperial Regio Medico Provinciale all’Officina Farmaceutica posta
nella contrada della Calle Grande n. 830 di ragione del Sig. Alvise Fanzago come da Decreto Delegatizio n. 2934 di Sanità, presenti il medico
municipale dott. Giuseppe Zandonella, il segretario municipale Desiderio
Fozza. Il Fanzago è stato laureato alla facoltà medica di Padova nel febbraio 1835. La farmacia è situata in una strada frequentata e sana; è sufficientemente provveduta degli occorrenti rimedi, usitati dai medici del
luogo; i medicamenti sono di buona qualità; i preparati sono eseguiti secondo le norme prescritte e sono ben conservati e contenuti in regola (nel
21
ASVV. S.b. 387.
ASVV. S.b. 402.
23 Ibid.
24 ASVV. S.b. 409.
22
435
vaso un solo medicamento); i medicamenti eroici o di azione violenta
sono collocati in un apposito armadio; i veleni sono custoditi sotto chiave; le bilance e i pesi sono esatti; i vasi di rame e di bronzo sono ben stagnati e netti; le iscrizioni sui vasi sono chiare e leggibili; nel locale è
mantenuta la necessaria pulizia. Entro il prossimo mese di marzo si dovrà controllare che la farmacia sia ben sistemata, soprattutto per quanto
riguarda i rimedi eroici e i veleni.
Il sig. Pietro Fontebasso, chirurgo condotto.”
Da questo scritto si nota come fossero minuziose le ispezioni effettuate nei locali adibiti a farmacie e come si desse importanza anche alla
salubrità del luogo in cui esse sorgevano.
Gli Austriaci stabilirono anche come dovessero essere spedite le
materie velenose. Nel 1840 ordinarono che esse fossero contenute in botticelle con la scritta veleno e cerchi di legno25, mentre l’anno successivo,
fu disposto che invece dei barili dovessero essere usate delle casse con sopra scritto “veleno”, in seguito riposte in casse più grandi26.
Nel 1842 troviamo una nuova disposizione riguardante le tinture
dei capelli. “Notificazione”.
Contenente la proibizione della fabbricazione, vendita ed introduzione del cosmetico inserviente a tingere i capelli conosciuto sotto il
nome di Sélénite. Per riguardi di polizia sanitaria la fabbricazione e la
vendita del cosmetico inserviente a tingere i capelli, conosciuto sotto il
nome di Sélénite, come pure l’introduzione del medesimo sia per oggetto
di traffico, sia per proprio uso, viene proibita per ordine Sovrano in tutta
l’estensione della Monarchia Austriaca. Questa norma entrerà in vigore
col giorno della presente pubblicazione. Venezia 1° agosto 1842”27.
Sotto la voce “Sanità” gli Austriaci inclusero anche le droghe
usate in cucina e ciò appare evidente da un “Avviso sulla falsificazione
dello Zafferano emesso da Venezia l’11 luglio 1844,”ove in tale comunicazione troviamo scritto quanto segue:
“In seguito ad indagini state praticate da parte delle Autorità,
venne a riconoscere che lo Zafferano del commercio adoperato comunemente nell’uso domestico, per la preparazione delle vivande, come droga,
o come mezzo colorante, già da qualche tempo trovasi falsificato per mescolanze colla segatura di legni colorati non solo, ma più di spesso coi
fiori rossi della calendula officinalis o fiorarancio. Quest’ultimo miscuglio riuscendo nocivo all’umana salute …. Si mette in avvertenza il pub25
ASVV. S.b. 409.
ASVV. S.b. 415.
27 ASVV. S.b. 424.
26
436
blico, affinché si guardi dal fare uso dello Zafferano così come adulterato, essendo d’altronde facile riconoscerlo con una diligente ispezione.
Dalle autorità verranno prese le necessarie misure accio sia d’ora innanzi impedita tale falsificazione dannosa anche allo smercio dello
zafferano Austriaco apprezzato e ricercato nella Monarchia e nell’estero
per la sua bontà...28”.
Da quanto scritto si comprende come l’adulterazione dello Zafferano fosse sì nociva alla salute, ma anche dannosa al commercio austriaco di tale prodotto.
Il 26 gennaio 1846, la deputazione comunale di Serravalle autorizzava il farmacista Sig. Antonio Biave “alla vendita di una libbra di
Sale di Saturno in più riprese al sig. Paolo Pajetta, che dichiarò di dover
servirsene negli oggetti della propria professione di Pittore… 29.”
Da questa autorizzazione si evidenzia come il controllo sanitario
austriaco fosse piuttosto capillare e di largo spettro.
Il 2 gennaio 1847 venivano emanate delle disposizioni alquanto
singolari in merito alla “applicazione dei metodi di cura emeopatica”
(sic) in cui viene detto che “ i medici o chirurghi dediti alla cura emeopatica possono in seguito diluire e triturare i medicamenti medesimi, nonché somministrarli, sempre però gratuitamente ai loro ammalati, a questi
ultimi poi deve però sempre venire consegnata una ricetta in cui più precisamente indicata la medicina col grado di deluzione o triturazione, la
quale indicazione deve essere confermata dalla firma del medico o chirurgo.30”
Riteniamo che il termine “emeopatica” indichi la moderna omeopatia e ci meraviglia notare come tali cure dovessero essere gratuite.
Forse qualche fatto delittuoso o qualche disgrazia potrebbero essere all’origine della notificazione intitolata “onde prevenire gli abusi mediante l’assopimento con l’etere solforico e colle altre specie di etere”
emanata il 1° dicembre 1847, nella quale si precisava che tutte le specie di
eteri, cioè il solforico, l’acetico e il nitrico erano preparati velenosi e la
loro preparazione e somministrazione aveva necessità di una autorizzazione speciale31.
Il 17 giugno 1851 furono emanate disposizioni onde prevenire la
vendita abusiva di medicinali da parte di fabbricanti di olii e bottegai.
28 ASVV. S.b. 441. La farmacia Biave era situata in piazza Flaminio a Serravalle e
all’insegna dello Struzzo d’Oro.
29 ASVV. S. b. 459.
30 ASVV. S. b. 468.
31 Ibid.
437
I contravventori venivano puniti con l’arresto da uno a tre mesi e
se l’illecito spaccio avesse avuto conseguenze nocive la pena era da uno a
sei mesi32.
Mentre nel 1824 l’imperatore aveva proibito tassativamente la
pratica del “magnetismo animale”, il 17 marzo 1851 venne emanata una
nuova disposizione “che incaricava la Deputazione alla più cauta sorveglianza onde l’applicazione del Magnetismo animale nella cura dei mali
non produca le più tragiche conseguenze”33.
Non sappiamo che cosa causò il cambiamento delle disposizioni
in merito al magnetismo, ma notiamo che nell’arco di ventisette anni il divieto assoluto di praticarlo cadde. Forse a Vienna, città piuttosto evoluta
nella pratica della medicina, tale tipo di cura venne studiato in maniera
più approfondita e i risultati furono così favorevoli da farne modificare il
divieto.
Negli anni successivi, sino al 1866, la maggior parte delle disposizioni sanitarie focalizzerà il suo interesse sul controllo della morte e deicimiteri. Evidentemente vi furono parecchi casi di morte apparente per cui
si stabilì che non si potessero seppellire i defunti prima di 48 ore e che in
quel lasso di tempo i corpi non restassero incustoditi.
Non sappiamo come mai le disposizioni sanitarie imposte al comune di Serravalle fossero diverse da quelle del limitrofo comune di Ceneda. Non riusciamo a comprenderne il motivo, a meno di non imputarlo
alla perdita di numerosi documenti.
Nel 1817 a Ceneda ci fu un’epidemia di tifo, cosa non registrata
nella vicina Serravalle34.
In questo stesso anno a Ceneda vi erano i farmacisti Francesco
Marchetti e Angelo Sgalfaro e il venditore di droghe ed altri generi soggetti a medica ispezione Giovanni Bianchi.
Il 26 ottobre 1818 fu inviata a Ceneda una circolare nella quale si
diceva quanto segue: “ …il vaiolo naturale comparve per l’ultima volta in
questa Provincia sotto forma epidemica nella primavera 1802 e fu specialmente in questo Capoluogo d’indole così fatale che presso ad un terzo
degli infetti vi dovette soccombere.”35
E’ probabile che tale circolare fu inviata per sollecitare i Cenedesi a far vaccinare i propri figli data l’alta mortalità verificatasi nelle precedenti epidemie.
32
ASVV. S. b. 508.
Ibid.
34 ASVV. C. b. 215.
35 ASVV. C. b. 221.
33
438
Il 6 giugno 1819 giunse a Ceneda l’ordine di Sua Maestà che decretava la messa in vigore nel Regno Lombardo-Veneto della Farmacopea
Austriaca.
Si ordinava “che i farmacisti abbiano d’ora innanzi ad attenersi
a questa Farmacopea esattamente in ogni sua parte, ed a tenere costantemente provvedute le loro Officine in modo da poter prontamente somministrare tutti quei medicamenti semplici e composti descritti nella medesima, che verranno ordinati dai medici, e dalle altre persone regolarmente
autorizzate all’esercizio dell’arte salutare. Le Imperiali Regie Delegazioni Provinciali sono incaricate d’invigilare per l’adempimento della presente determinazione”36.
Il 18 luglio 1819 “il sig. Francesco Marchetti speziale di medicina iusta che sia fatto confronto di acqua catulliana provvista al suo negozio da Angelo Dall’Acqua con altra provvista, ad altro negozio tuttora
esistente presso il Dall’Acqua. Si intimi al Dall’Acqua di dover comparire in questo offizio la mattina del giorno 12 corrente e di depositare le acque suddette che presso di lui esistessero col dichiarare presso qual negozio le abbia provvedute”37.
Due giorni dopo troviamo un’altra dichiarazione in merito che
diceva:
“Il sig. Francesco Marchetti speziale di questo Comune imputato di aver somministrato acque catulliane falsificate a Angelo Dall’Acqua, pure di questo Comune, per differenza riconosciuta dalla moglie di
esso Dall’Acqua che ne fece uso col confronto di acque eguali, provviste
ad altra Spezieria, domandò con l’annessa istanza che sia istituita regolare analisi delle acque medesime tutt’ora esistenti presso il Dall’Acqua
a tutela del suo decoro, e per gli effetti voluti dai riguardi sanitari. Comparso in offizio della Deputazione dietro intimazione il nominato Angelo
Dall’Acqua depositò tre bottiglie d’acqua provviste alla Spezieria”38.
A piè pagina del documento c’è un’aggiunta “ Osservando che in
Comune non vi è chi sappia esattamente istruire un’analisi chimica”.
Il 12 agosto 1819 un documento affermava che le acque vendute
dalla Farmacia Marchetti erano genuine, mentre quelle smerciate dalla
farmacia Biave di Serravalle erano false. Pertanto si faceva divieto di vendita alla farmacia Biave delle acque che essa spacciava per Catulliane o di
Recoaro39.
36
ASVV. C. b 226.
Ibid.
38 Ibid.
39 Ibid.
37
439
Poiché a Ceneda non vi era nessuno in grado di analizzare tali
acque ci chiediamo come fecero a stabilire la genuinità delle acque vendute in loco e nella vicina Serravalle.
Da una disposizione successiva, del 1825, troviamo che queste
acque, scoperte da Giovanni Catullo, erano dette anche acidule di Civillina e potevano essere permesse solo dietro prescrizione medica40.
Il 22 agosto 1819 anche a Ceneda giungeva il divieto di vendita
delle Coccole d’India o di Levante41.
Il 24 settembre 1822 arrivò a Ceneda questo comunicato: “essendosi riconosciuto che la così detta Carta fumicatoria (Rauch papier) la
quale si adopera per la distruzione degli insetti, è inverniciata con una
copiosa preparazione di mercurio e sviluppa, nell’adoperarla, specialmente abbruciandola, dei vapori mercuriali molto dannosi alla salute…”
per tali motivi essa verrà proibita42.
Il 18 novembre 1822 il medico condotto G. B. Fontebasso avvisava che “l’aceto che viene elaborato dai sig.i Bianchi e Gava di Ceneda
risulta che lo zenzero, il piretro ed il pepe prevalgono in quantità eccedenti e che stimolando con troppa forza e causticità le papille nervee della lingua possono facilmente produrre afte, esulcerazioni ed escoriazioni,
è quindi mestieri di porre in seria avvertenza li Fabbrificatori dell’aceto,
onde quello che attualmente è in vendita venghi allungato col solo acido
ottenuto dalli grappoli dell’uva…”43.
Da questo comunicato appare evidente come parecchi aspetti della vita quotidiana rientrassero, in epoca austriaca, sotto il controllo dei
funzionari di Sanità.
Il 22 settembre 1823 si mettevano in guardia i cittadini cenedesi
dall’usare utensili di ferro da cucina stagnati e prodotti in Boemia, essendo pericolosi per l’umana salute” perché la vernice che li rivestiva internamente conteneva una quantità di piombo facilmente solubile coll’azione del fuoco44.
Pochi giorni prima i farmacisti di Ceneda venivano invitati a non
usare più “il peso sottile veneto” bensì quello austriaco come i loro colleghi di Serravalle45.
40
ASVV. C.b. 258.
ASVV. C. b 226.
42 ASVV. C.b. 242.
43 Ibid.
44 ASVV. C.b. 248.
45 La libra sottile veneta si divideva in once dodici, un’oncia in otto dracme, una
dracma in tre scrupoli e lo scrupolo in venti grani.
41
440
Il 14 novembre 1825 venivano redarguiti i venditori di olio perché non solo tenevano tale prodotto in vasi di rame non ben stagnati, ma
rendevano tali olii impuri con l’aggiunta di “sostanze derivanti da deposizioni feciose che rimangono nei recipienti”. Inoltre si vietava di tenere
vini, acqueviti, rosolij, composti di frutta, liquori forestieri e altri liquidi
in vasi di rame non stagnati e di eseguire la distillazione delle ciarpe e dei
vini per la estrazione delle acqueviti in alambicchi non stagnati46.
Una circolare del 22 novembre 1826 denunciava la pratica di alcuni distillatori e venditori di Acqueviti e Rosolj che preparavano l’acqua
coobata e l’olio di lauro ceraso, utili nella fabbricazione dei Rosolj così
detti di mandorle amare e dei rinfreschi ed altre bevande spiritose ad uso
del popolo. La preparazione e la vendita di tali sostanze era permessa solo
ai farmacisti. Poiché l’inosservanza di tali precauzioni aveva avuto alcune
funeste conseguenze si ordinava ai Pubblici funzionari di sorvegliare attentamente47.
L’anno successivo l’Imperial Regio Governo notificava alle Delegazioni comunali che “l’oppio e i suoi composti, la morfina e la narcotina che da esso si estraggono, e tutti li Sali e principj cristallizzabili di
dette sostanze” dovevano ritenersi assolutamente come veleni e soggetti
ai regolamenti ad essi inerenti48.
Il 5 dicembre 1827 con un dispaccio si proibiva “sotto pena di
confiscazione l’ungere e tingere le stoffe, le quali vengono a toccare il
corpo umano con rame, arsenico, piombo, zinco ed altri colori minerali
contenenti preparati metallici velenosi, come pure l’inamidate con amido
misto con simili colori minerali”49.
Gli Austriaci controllavano attentamente che gli operatori sanitari
fossero essi medici o farmacisti esercitassero al meglio la loro professione
nell’interesse della salute pubblica. Pertanto, il 24 ottobre 1829, troviamo
questa lettera indirizzata:
“Alla Delegazione Comunale di Ceneda. Il medico condotto
dott. Fontebasso ed il chirurgo dott. Zannetti sono ambedue imputati di
disattento servizio in favore dei poveri, e consta pure che presso il Comunale ufficio pendano alcuni reclami di tratto in tratto, insinuati sulla loro
negligenza, e poco amore nell’adempimento dei loro doveri. Si chiede entro cinque giorni un circostanziato rendiconto in dettaglio delle singole
mancanze attribuite ai suddetti ufficiali di sanità, non senza soggiungere
46
ASVV. C.b. 252.
ASVV. C. b. 263.
48 ASVV. C. b. 276.
49 Ibid.
47
441
se e quali esistano in fatto le mancanze medesime onde poter indi proporre gli opportuni occorrenti provvedimenti. L’argomento quanto è delicato
è altrettanto di sua natura importante e deve essere perciò trattato con
quella imparzialità che distinse sempre li predetti signori deputati. Il
Commissario” ( firma illegibile)50.
Il 18 settembre 1829 si proibiva a chiunque di tenere tabacco in
foglia se non era coltivatore e da tale divieto non erano esenti nemmeno i
farmacisti. “Benchè dalla farmacopea austriaca sia intimato ai farmacisti di tenersi provvisti di Nicolliuran ossia foglia di tabacco, tuttavia fatto riflesso che l’uso di esso nella medicina va in generale sempre più diminuendosi ” sia vietato anche ad essi di tenere tabacco in foglie nel loro
esercizio51.
In precedenza vi era una lettera alquanto curiosa indirizzata alla
Regia commissione distrettuale di Ceneda che diceva quanto segue: “Tanto la teriaca che la manna ed altre simili sostanze medicinali essendo di
uso esclusivamente medico non possono essere vendute che da farmacisti.
Non occorre però per queste la prescrizione o ricetta medica”52.
La teriaca era un farmaco composto, usato già dai romani. Inizialmente essa era preparata dai medici, ma nel 1233 con l’ordinanza medicinale di Federico II la sua preparazione fu affidata alla Corporazione
degli Aromatari che divenne, nel 1429, il Collegio degli Speziali.
Gli ingredienti erano: oppio, carne di vipera, asfalto, benzoino,
mirra, cannella, croco, solfato di ferro, radice di genziana, mastice, gomma arabica, fungo del larice, incenso, scilla, castoro, rabarbaro, calcite,
trementina, carpo balsano, malabatro, terra di Lemno, opobalsamo e valeriana.
Queste sono solo alcune delle sostanze usate nella sua preparazione poiché Galeno parlava di 62 componenti e nella farmacopea spagnola ne venivano utilizzati ben 74. E’ certo che se i nostri antenati ingurgitando questa “teriaca” non morivano avvelenati dovevano avere dei fisici eccezionali! Sappiamo che a Venezia la si preparò sino al 1850 e a
Napoli sino al 1906.
La manna era una sostanza resinosa dolcissima che si ottiene incidendo il tronco dell’ornello che è una pianta delle oleacee simile al frassino ma più piccola; essa ha proprietà lassative.
50
ASVV. C. b. 283.
Ibid.
52 ASVV. C. b. 289.
51
442
Nel 1831 fu proibita la vendita di vasellami e giocattoli “di colore verdolino cangiante in oro composto di litargirio” considerato velenoso
e altamente nocivo alla salute53.
Nello stesso tempo Sua Maestà ordinava di informare i sudditi
che “il Magistero di Bismuto decantato dal dott. Leo pegli ammalati di
cholera, agisce invece ad essi assai dannosamente” e quindi non doveva
essere usato né come rimedio preventivo, né come farmaco curativo del
cholera asiatico54.
Un’altra circolare dava “le regole per la preparazione e l’uso
del cloruro di calce efficace disinfettante da adoperarsi nei casi di cholera asiatico e di altre contagiose malattie”. Tutte le farmacie ne dovevano
essere abbondantemente provviste55.
L’8 gennaio del 1831, dalla direzione del civico Ospitale della
Regia Città di Treviso, era giunta questa lettera alla Deputazione Comunale di Ceneda: “ Alli tanti esperimenti fatti in questo Civico Spedale colle sostanze medicinali nuovamente introdotte, mancano da istituirsi quelli
colle acque minerali Epatico-saline di Ceneda.
Volendo con queste il sottoscritto ottenere una serie di esperienze, ha ordinato al farmacista di questo Istituto Pio Sig. Giacomo da Camin di procurarsene una sufficiente quantità. Onde averle però prontamente e possibilmente pure, si prega la gentilezza di codesta Comunale
Deputazione a voler interessare il Medico Condotto, od altra persona che
reputasse più adatta a sorvegliare la dispensa, lorché o il da Camin stesso o persona da essa incaricata si porterà ad attingerla alla fonte. Nell’atto che lo scrivente si ripromette questo favore, anticipa alla Deputazione stessa riconoscenza e ringraziamenti.
Il Diretore A. Zava56.
Non ci è dato sapere se gli esperimenti prospettati dal dott. Zava
furono eseguiti e quale ne fu il risultato poiché non vi è negli incartamenti
successivi alcuna menzione del fatto.
Una circolare del 1832 invitava tutti a denunciare chi esercitava
abusivamente la professione medica “con grave danno della salute pubblica”57. Nello stesso anno si metteva in evidenza che certe persone per risparmiare usavano nel far il pane e in altri usi domestici gli avanzi di acque salate che si raccoglievano dalla confezione dei gelati, formaggi, e si53
ASVV. C. b. 296.
Ibid.
55 Ibid.
56 Ibid.
57 ASVV. C. b. 300.
54
443
mili “nelle quali acque da Caffettieri alle volte vendute per viste di guadagno contengonsi e terra e nitro, ed altre materie saturnine ed incomode
che recano nocumento grave alla salute”. Il decreto in questione intimava
alle Regie Deputazioni una vigilanza costante soprattutto nei riguardi dei
caffettieri58.
Anche a Ceneda, come a Serravalle, il 20 dicembre 1832, giunsero disposizioni per ovviare agli abusi e agli inconvenienti che si verificavano nella vendita e nella consegna dei medicinali nelle Farmacie.
Seguono alcune disposizioni in merito, di cui una ci sembra abbia ancora valenza attuale:
“i Medici e i Chirurghi sono obbligati di scrivere chiaramente le
loro ricette indicando anche il modo con cui dovrà essere usato o preso
il rimedio”.
Seguivano altre norme per i farmacisti che oltre a scrivere sulla
medicina come dovesse essere usata, dovevano indicarne il prezzo e il
nome di chi l’aveva preparata.
Le ricette medico-chirurgiche dovevano essere conservate col
numero progressivo, con l’indicazione del giorno e dell’ora in cui erano
uscite dal locale e chi ne era stato incaricato. Particolare cura doveva venir usata nel maneggiare droghe e veleni da essere tenuti in un Armadio
separato e chiusi a chiave59.
In questo anno giunse un avviso a Ceneda in cui si mettevano in
guardia le autorità per il manifestarsi tra i soldati di epidemie di “grippe”
e di scabbia. La “grippe” era una malattia epidemica che attaccava le mucose del naso e della gola, e indeboliva improvvisamente l’organismo;
iniziava con febbre alta, catarro e congestioni bronco-polmonari. Era causata da un bacillo particolare detto di Pfeiffer e venne indicata come
“grippe” per la prima volta in Francia60.
Il 4 aprile 1834 il dott. Luigi Nardo medico presso l’Ospedale
Civile di Venezia, chiedeva “fosse sperimentato l’uso della corteccia di
Pinus Marittimo per la cura di alcune malattie …. come rimedio astringente tanto per uso interno che esterno, venne riconosciuta ottimo rimedio non inferiore in efficacia alla Formentilla, alla Vistorta, alla Quercia
e alla Ratania61 e quindi utilissima in tutti quei casi né quali è indicato
l’uso d’una sostanza vegetale astringente …..”.
58
Ibid.
ASVV. C. b. 314.
60 Ibid.
61 Ibid.
59
444
Il medico ne magnificava le virtù e data “la tenuità del prezzo
poteva sostituirsi a molte altre sostanze straniere portando così qualche
risparmio nelle spese farmaceutiche.”62.
Il 30 luglio 1834 una circolare informava i Cenedesi che, prima
di presentarsi all’Università i giovani che volessero fare i farmacisti dovevano subire un tirocinio di quattro anni. Il corso universitario era di due
anni ed in esso si insegnavano:
- nel primo anno: la mineralogia, la zoologia e la botanica;
- nel secondo anno: la chimica generale e la farmaceutica63.
Anche a Ceneda, nel 1835, giunse il divieto di vendere, anche ai
farmacisti, l’Estratto di Salsapariglia composta dal dott. Smith64.
Inoltre “a preservazione e garanzia dei riguardi di pubblica salute venga disciplinata con apposite norme la distillazione e la vendita
dell’Acquavite.” Ai medici e farmacisti fu imposto, il 4 agosto 1835, l’acquisto del prontuario della Farmocopea austriaca65.
Il 9 agosto 1837 fu emenata a Ceneda una “Istruzione popolare
sui soccorsi da prestarsi alle persone apparentemente morte ed agl’individui avvelenati, con appendice sugli ajuti da impiegarsi anche in caso
di altri pericolosi accidenti”66.
Alcui mesi prima troviamo la seguente comunicazione alle Autorità di Ceneda in cui si diceva: “Sua Maestà Imperiale si è degnata di togliere il divieto della cura omeopatica del 13 ottobre 181967.
Sia nel 1839 che nel 1841 e 1845 vi furono nuovi reclami perché
i farmacisti non usavano i pesi medicinali austriaci68.
Nel 1843 troviamo questa annotazione sanitaria “ripullulano i
germi della migliare”69.
Era detta miliare una malattia che si manifestava con un’eruzione
cutanea di vescichette della grossezza di un grano di miglio. Era molto infettiva e frequente dove si usava il latte di mucca non bollito che ne contiene i germi.
62
La Ratania è un ramoscello delle Leguminose che cresce nelle Ande del Perù e
della Bolivia a quote tra i 1.000 e i 2.500 metri: ha proprietà astringenti, antinfiammatorie, cicatrizzanti e leggermente disinfettanti.
63 ASVV. C.b. 314.
64 ASVV. C. b. 323.
65 Ibid.
66 ASVV. C. b. 336.
67 Ibid.
68 ASVV. C. b. 350 e 365.
69 ASVV. C. b. 377.
445
Alcuni medievalisti hanno supposto che la “leonardie” o “arnaldie” una malattia altamente infettiva che si manifestò negli eserciti crociati di Riccardo Cuor di Leone e di Filippo Augusto re di Francia durante
la terza Crociata e all’assedio di Acri del 1191, fosse per l’appunto la miliare70.
Tale supposizione ci sembra poco realistica poiché la “leonardie”
provocava la perdita dei capelli e dei denti, pertanto poteva piuttosto trattarsi di scorbuto.
In alcuni fogli sparsi troviamo delle annotazioni su alcuni metodi
di cura e, come cura del Vaiolo, veniva proposto: decozioni insieme di
china-china e di serpentaria virginiana71 e di canfora e blandi purgativi e
qualche verminoso, vino meglio di sostanze preziose, come le perle, ossi
di cuore di cervo, i bezoartici e le volgarmente dette “balle di camozza”.
La balla del camozzo che è una capra selvaggia o rubicapra, è un ammasso di erbe non digerite , indurite e di forma per lo più ovale, quasi
nera, di buon odore bezoartico chiamata dai tedeschi “beizoar” e dai francesi “agropille”.
Tali consigli e metodi di cura ci sembrano alquanto antiquati e ci
fanno sospettare che si riferissero a parecchio tempo prima, soprattutto tenendo conto che le conoscenze mediche e farmaceutiche degli Austriaci
erano, rispetto agli altri paesi europei, piuttosto avanzate.
Il 26 ottobre 1847 troviamo un documento alquanto singolare:
“Al regio Commissariato distrettuale di Ceneda. Per quelle incoraggianti disposizioni che potessero risultare opportune onde introdurre
qual succedaneo alla patata il tubero di una pianta che dicesi poter allignare anche in varj punti dell’Italia e chiamata Apios tuberosa; l’Eccelso
I. R. Governo col suo impegnato decreto 18 andante n° 42142/4019 desidera di essere accuratamente informata e gli sia riferito, se l’Apios tuberosa sia conosciuto ed in qual parte della Provincia coltivato ed in caso
affermativo, se e come ne venga fatto uso, aggiungendo alcuni esemplari
tanto dei tuberi, come dell’intiero vegetabile, e tutte quelle ulteriori notizie che a questo scopo giovare potessero. S’incarica perciò codesto R.
Ufficio ad attendere le sue ricerche e valersene all’uopo delle cognizioni
e dell’opera dei R. R. Parrochi, dei Medici e dei Farmacisti dipendenti,
nonché di qualunque altro individuo, che per ragione di speciali studj ed
applicazioni potessero giovare, riferendo poi i risultamenti di tali pratiche. L’I.R. Delegato Mubrachte, per copia conforme Galeazzi”.
70
71
446
S. Runciman: “Storia delle Crociate” Torino 1966, II vol. p. 727.
La serpentaria è una pianta erbacea dal cui rizoma si estrae un tonico.
Ci chiediamo a cos’era dovuta questa richiesta di informazioni
del Governo di Vienna?
E’ probabile che tale domanda fosse da collegarsi all’epidemia
del fungo della patata (Phytophtora infestans) che colpì l’Irlanda nel
1845. In quell’anno il “colera delle patate” come fu chiamato dai contadini irlandesi, distrusse metà del raccolto, lo devastò totalmente nel 1846 e
continuò sino al 184872 cancellando l’unica risorsa alimentare irlandese.
La carestia uccise milioni di essi e costrinse i sopravvissuti ad emigrare.
È probabile che l’attento servizio di informazioni austriaco fosse
stato informato di tutto ciò e cercasse di ideare qualcosa per prevenire il
manifestarsi di una eventualità simile anche nelle nostre zone.
L’Apios tuberosa, detta anche apios americana, fagiolo patata,
patata indiana o groundnut, é una pianta rampicante, appartenente alla famiglia delle Leguminose. Essa cresce 3 o 4 metri e porta fagioli commestibili e grandi tuberi mangerecci. I tuberi di questa pianta sono molto ricchi di amido e di proteine e queste ultime sono tre volte maggiori che nella patata.
L’Apios era una delle più importanti piante mangerecce del Nordamerica pre-europeo.
Essa cresce dall’Ontario al Quebec e nel Nord del golfo del
Messico e dalle praterie dell’Est alla costa atlantica. Gli Amerindi da un
capo all’altro di quest’area, utilizzarono l’Apios americana come la maggiore risorsa di cibo. In effetti, è ancora comune trovare queste piante che
crescono nei siti dei vecchi villaggi amerindi. I primi esploratori europei e
i colonizzatori del Nord America spesso dipesero dall’Apios per la loro
sopravvivenza. Nel 1580 i coloni di sir Walter Raleigh, sistemati sull’isola
Roanoke, lungo la costa del Nord Carolina (la famosa “colonia perduta”
con la casa di Virginia Dare, la prima bambina inglese nata nella Nuova
Colonia) mandarono campioni di Apios alla regina Elisabetta I.
Nel 1607, il capitano John Smith di Jamestown (Virginia) scrisse
un saggio sull’utilità di tale pianta. I Pellegrini di Plymouth (Massachusetts), nel 1623, sopravvissero grazie all’Apios, quando il loro rifornimento di grano si esaurì. Tale pianta era così importante per i coloni della valle del fiume Connecticut che, nel 1654, la città di Southampton emise una
legge che proibiva ai nativi di esportarla nelle terre inglesi.
La prima infrazione era punibile con un periodo ai ceppi, mentre
per la seconda il colpevole veniva frustato.
La coltivazione dell’Apios tuberosa fu tentata due volte in Europa nel 1635 e nel 1845 e tutt’e due i tentativi fallirono, forse perché la ma72
A. Nikiforuk: “Il quarto cavaliere” Milano 2008, pagg. 113-127.
447
turazione dei tuberi richiede due o tre anni, mentre le patate necessitano di
una sola stagione di crescita.
Venne coltivata anche in Italia lungo il Po, il Ticino e la Stura col
nome di “Castagna di terra” o “pera di terra”73.
Alla richiesta di informazioni delle superiori Autorità risposero
alcune persone di Ceneda:
“Carpesica 4 gennaio 1848 – Relativamente alla nota di codesta
Congregazione Municipale, in data 2 dicembre p. p. n. 2085, il sottoscritto parroco partecipa non esservi in questa parrocchia persona che conosca la pianta Apios Tuberosa, né il modo di farla crescere o coltivarla.
Don Bortolo dal Bò parroco”74 (74).
La seconda risposta fu la seguente:
“Dall’Ufficio di Ceneda il 15 gennaio 1848 – L’Apios Tuberosa
da quanto si sa non si conosce in questa Parrocchia, né si sa che alcuno
il coltivi. Non saperesse quindi l’ufficio scrivente che più riferire ad evasione della nota del 2 dicembre. Roveda curato” Non è detto però di quale parrocchia questo Roveda fosse parroco.
Senza data troviamo un’altra annotazione:
“ Spettabile municipio!
Non conosce il sottoscritto l’Apios né sa sia qui coltivato a sostituzione della patata. Ciò ad evasione della ricerca di questo ufficio. Gio
Antonio Latore”.
Il 5 gennaio 1848 il dott. De Mori, medico di Ceneda, rispose di
non avere alcuna cognizione in merito. Alla stessa data leggiamo quanto
segue:
“ Non risulta che nei dintorni del distretto di Ceneda e nel vicino
Serravalle aligni naturalmente l’Apios tuberosa (poire de terre), né che
vi sia coltivato. Sa bensì che questa pianta, nativa della Virginia, vive
bene nel nostro suolo, si propaga per mezzo delle radici, che molto si
estendono e s’ingrossano a modo a guisa di pene, per il dolce sapore è
grato cibo agli animali e agli uomini. Luigi Renier farmacista”75 (75).
Come possiamo notare dalle risposte al quesito, solo il farmacista Renier conosceva tale pianta che tuttavia non era presente nelle nostre
zone. Poiché non vi furono ulteriori indagini delle autorità dobbiamo ritenere che, nel Cenedese, non si sviluppò la malattia della patata.
Più di una volta le autorità sanitarie denunciarono le abusive vendite di farmaci da parte dei droghieri.
73
“Scienze naturali” Novara 2010, vol. II, p. 513.
ASVV. C. b. 409.
75 Ibid.
74
448
Nel 1848 giungeva un nuovo rimprovero ai Farmacisti e ai droghieri che “nella vendita dei veleni, non si procede colla dovuta uniformità nel peso medico, valendosi a capriccio ora del peso medico Austriaco,
ora del Veneto ….”76.
Tale comportamento “recava danno alla salute e alla vita degli
uomini” pertanto era tassativo l’uso del solo peso medico austriaco.
Il 13 marzo 1851 si vietava nuovamente il mesmerismo dicendo
“...Per prevenire gl’inconvenienti che possono derivare dall’applicazione
del magnetismo animale, un gioco di curiosità e passatempo con grave
pregiudizio della salute e della Pubblica morale”77.
Il 3 ottobre 1851 si imponeva, nelle Comuni dei distretti dov’erano avvenute “le recenti allagazioni” la creazione di apposite commissioni
per decidere se il granone raccolto dopo il disastro dovesse essere distrutto o se se ne potesse permettere l’uso agli uomini o solo agli animali.
Inoltre doveva essere scrupolosamente controllato anche il granoturco78.
Nel 1853 fu registrata a Ceneda “una epidemia scarlatinesca”
senza ulteriori ragguagli o provvedimenti governativi79.
Il 20 febbraio 1855 le autorità di Ceneda ordinavano che si vigilasse in quanto a Valdobbiadene era scoppiata “l’epidemia scarlatinesca”.
Da Treviso, il 13 giugno 1855, giungeva a Ceneda il seguente avviso:
“Si è verificato il caso, che in molte città dei Domini Austriaci
alcuni commercianti girovaghi napoletani vendettero del Zafferano, spacciandolo per genuino di Aquila e fu poscia riconosciuto essere un miscuglio di vegetabili diversi di gomma e di tintura di legno di Pernambuco
….”. si avvisavano perciò i commercianti perché si premunissero da tali
frodi80 (80).
Il 5 dicembre 1857 si avvisava che si trovavano in commercio
“delle tele apparecchiate con preparato di piombo il cui uso per bianche76
ASVV. C. b. 418.
ASVV. C. b. 443.
78 Ibid.
79 ASVV. C. b. 459.
80 ASVV. C. b. 479.
77
449
ria da corpo e da letti riesce nocivo all’umano organismo” pertanto si
raccomandava la sorveglianza delle autorità81.
Il 29 aprile 1858 giungeva ordine alla congregazione municipale
di Ceneda che “non debbano essere tollerati, i venditori d’unguenti, medicastri, operatori girovaghi, cavadenti, venditori di teriaca ed altri medicinali”82.
L’anno successivo si faceva presente alle autorità la pericolosità
del cianuro di potassio usato dai fotografi e dai pirotecnici poiché si trattava “di un veleno violento, potentissimo agli uomini ed ai bruti”83.
Il 15 settembre 1859 l’Imperial Regio Luogotenente di Vienna
avvertiva le autorità di Ceneda di aver trovato in commercio un surrogato
di caffè contenuto in pacchetti coll’Etichetta “Prima ed antica fabbrica
del vero ed esaminato estratto di caffè di Sairger e Fugelus in Italia”.
Esso aveva odore e sapore nauseabondo ed era avvolto in lamine di piombo per cui la sostanza umida veniva a contatto con il metallo.
La merce fu confiscata, distrutta e tolta dal commercio84. Tale avviso giunse anche alle autorità di Serravalle.
In quei giorni le comunità vennero avvisate che una “carta preparata a distruggere le mosche messa in commercio dai dottori Rirnitz e
Kruliner di Pest” era altamente nociva alla salute85.
Dal 1859 al 1862 sembra, esaminando i documenti, che le preoccupazioni degli Austriaci per la salute pubblica fossero inesistenti e che
tutto il nostro territorio fosse salubre al massimo.
Il 31 gennaio 1862 si dovevano avvertire “i locali venditori di
aceto ad usare secchie di legno, anziché di rame negli occorrenti travasi,
od in qualsiasi altra maniera di spaccio del genere stesso86.
Il 4 luglio 1862 il municipio di Ceneda istituì una commissione
sull’esame delle confetture e tutti gli esercizi furono trovati in ordine “ad
eccezione d’una sola specie tra le esistenti in quello della ditta Polleselli,
la cui tinta di giallo colore riconoscevasi contenere cromato di piombo.
Dietro assenso dell’esercente il resto della medesima specie venne di-
81
ASVV. C. b. 495.
ASVV. C. b. 503.
83 ASVV. C. b. 509.
84 Ibid.
85 Ibid.
86 ASVV. C. b. 540.
82
450
strutto. Devesi poi aggiungere che qui non esistono fabbriche di confetture, perciò bisogna controllare le fabbriche stesse nei luoghi”87.
Il 29 settembre 1862 giungeva a Ceneda l’ordine che se cinque
individui fossero stati colpiti dalla stessa malattia bisognava denunciare
tale fatto alle autorità.
Nell’ottobre dello stesso anno si istituiva a Ceneda il servizio sanitario alle prostitute con visite periodiche.
L’Imperial Regio Comando lamentava l’estendersi della lue tra i
militari “ in riflessibili proporzioni ” perciò incaricava il chirurgo comunale dott. Ernesto Zanette di Ceneda del controllo sanitario.
Le visite dovevano aver luogo tutti i sabati, dalle ore 12 meridiane all’ora una pomeridiana, nella stanza a pianoterra del Civico Ospitale
destinata a tale uso. Chi risultava ammalata non poteva lasciare l’ospedale88.
Un anno dopo (28 novembre 1863) troviamo il reclamo del medico che effettuava tali visite e che voleva essere pagato ed ecco quanto
rispondevano i responsabili municipali: “ … non si fece menzione della
visita settimanale alle donne di mondo: visite non contemplate, trattandosi d’una Comune nel quale queste non avevano mai avuto sede; e le prestazioni altronde, pelle quali il Chirurgo chiede ora di essere gratificato
si resero occorribili soltanto in seguito allo stabile militare acquartieramento principiato dopo tanti anni nell’agosto 1859”89.
Non sappiamo chi si assunse l’onere di stipendiare il medico di
Ceneda poiché nell’incartamento mancano ulteriori documenti.
Nel 1862 e 1863 troviamo le circolari che riguardano l’Oftalmite
granulosa militare o castrense detta anche infiammazione egiziana degli
occhi e si invitavano le autorità di Ceneda a vigilare per impedire la diffusione della malattia che doveva essere curata secondo le esperienze fatte
durante le precedenti epidemie in Galizia e in Italia90.
Queste sono le ultime disposizioni sanitarie dettate dall’Austria
per Ceneda e Serravalle e come possiamo notare riguardano più che altro
aspetti della vita militare.
87
Ibid.
ASVV. C. b. 540.
89 ASVV. C. b. 548.
90 Ibid.
88
451
A conclusione di questo mio studio desidero precisare come gli
interventi sanitari della dominazione austriaca furono molto vasti e capillari, interessando anche campi che oggi esulano dalla sanità vera e propria.
La scarsa presenza di documenti inerenti ai farmaci, così numerosi nei primi anni dell’occupazione del territorio veneto, e pressoché inesistenti negli ultimi anni, non credo indicasse una mancanza di attenzione
verso la salute pubblica, bensì la perdita di interesse per un territorio che
gli Austriaci ormai non sentivano più facente parte dell’Impero Austroungarico.
[una riproduzione dell'Apios tuberosa si trova
nella sezione di illustrazioni a colori degli Atti]
Allegato n° 1
Venezia 7 agosto 1819
Catalogo degli articoli medicinali chimico – Farmaceutici, la preparazione e vendita dei quali sono di esclusivo diritto dei Farmacisti approvati, e pubblicamente
esercenti.
■ Acetato Ammoniacale ossia spirito di Minderero;
■ Acetato di potassa fluido, ossia liquore di terra foliata di Tartaro;
■ Acetato di soda;
■ Aceto radicale;
■ Etere acetico;
■ Acqua di ciliegie nere;
■ Acqua di foglie di pesco;
■ Acqua di Lauro Ceraso.
Tutte le acque composte che si preparano secondo la Farmacopea austriaca:
■ Acqua vulneraria con vino;
■ Acqua vulneraria con aceto.
■Gli Elettuarj, tanto se sono preparati secondo la Farmacopea Austriaca,
quanto altrimenti purché sieno destinati per uso medico.
■ I cerotti, ed Empiastri, nessuno eccettuato, e qualunque ne sia la denominazione ed uso;
■ Tutti gli estratti;
452
■ Globuli marziali, Tartaro calibeato, ferro, o Marte solubile;
■ Linimento di Sapone canforato ossia Opodeldoc;
■ Linimento volatile;
■ Magnesia usta;
■ Preparazioni fatte col miele secondo la Farmacopea:
■ Fiori di sale Ammoniaco marziali;
■ Mercurio precipitato bianco;
■ Mercurio dolce;
■ Pietra infernale (nitrato d’argento fuso);
■ Nitrato d’Argento liquido (nitrato d’argento soluto);
■ Olio di Dippelio volatile di Corno di Cervo;
■ Etiope marziale (oxidulum ferri nigrum);
■ Solfo d’orato d’antimonio;
■ Chermes minerale;
■ Croco d’Antimonio;
■ Le polveri composte;
■ Le polveri semplici vegetabili ed altre medicinali comprese dalla Farmocopea Austriaca ad eccezione delle seguenti: Allume crudo, Arcano duplicato, Arsenico, Borace, Cerusa, Canella, Cremor Tartaro, Zaferano, Curcuma, Limature di Ferro, Gomma arabica, Litargirio, Magnesia, Minio. Mitro, Zuccaro, Sal Ammoniaco, Antimonio, Tartrato crudo; i quali Articoli
possono prepararsi e vendersi in polvere anche dai Droghieri;
■ Sapone antimoniale;
■ Resina di Guajaco;
■ Gialappa;
■ Specio, o mescugli uniti di più erbe, fiori, radici, o legni, fra le quali specie o mescugli si comprendono i così detti: Tè pettorali purificati, o lassativi:
la vendita dei quali è proibita tanto ai botanici, quanto ai Droghieri.
■ Tintura nervino-tonica marziale;
■ Spirito di nitro dolce;
■ Spirito di vino canforato, o Acquavite canforata;
■ Spugna preparata e bruciata;
■ Cupro ammoniacale;
■ Latte di zolfo;
■ Etiope minerale;
■ Etiope antimoniale;
■ Fegato d’Antimonio;
■ Tartaro tartarizzato;
■ Sal di Seiguette;
■ Tartaro emetico;
■ Tinture, Essenze, Elissiri, che servono ad uso medicinale;
■ Tutti gli unguenti.
453
Allegato 2
Venezia 28 settembre 1829
Tavola sinottica dei materiali e preparati velenosi disposti nelle categorie secondo le quali gli stessi possono tenersi e vendersi dai commercianti a ciò
particolarmente autorizzati e dagli speziali.
Categoria I
Materiali e preparati velenosi che a motivo della loro applicazione tecnica si possono vendere dai commercianti autorizzati alla vendita dei veleni, o
dai fabbricatori chimici autorizzati alla loro preparazione; ma sì dagli uni che dagli altri soltanto a coloro che ne abbisognano per la loro professione osservando
sempre tutte le vigenti prescrizioni stabilite dalla legge pel commercio dei veleni.
Arsenico allo stato metallico, i suoi ossidi, acidi, sali non che tutti i
suoi composti sì artificiali che nativi d’ogni sorta, sia che loro venga dato uno
dei seguenti, od altro nome qualunque, come arsenico bianco, vetro d’arsenico,
fiori d’arsenico, acido arsenico, ed acido arsenioso, arsenico fisso, arseniato di
potassa, arseniato di soda, arseniato d’ammoniaca, arseniato di calce, farmacolite
(pietra a veleno), arseniato di rame, verde di Seele, verde di Mitis, verde di Svezia, verde di Vienna, e tutte le altre denominazioni, sotto le quali questi colori
vengono in commercio, il cosi detto Reservage di Dingler, Solfuro d’arsenico,
orpimento, sandracca, risogallo, arsenico rosso, arsenico rubino, deutocloruro di
mercurio, o mercurio sublimato corrosivo, mercurio corrosivo, muriato d’ossido
di mercurio, mercurio precipitato rosso, nitrato di mercurio, turpeto munerale o
sotto solfato di mercurio, cloruro d’antimonio, butirro di antimonio solido, fosforo.
Categoria II
Materiali e preparativi velenosi, i quali venendo adoperati esclusivamente nella medicina non possono vendersi dai commercianti che agli speziali
ed a nessun’altra persona.
Piante velenose indigene. Capi di papavero sonnifero, solano negro, legno di dulcamara, datura stramonio, giusquiamo negro, giusquiano bianco, loglio temulento, ervo emilia, chenopodio ibrido, lattuga scariola, lattuga virosa,
prunolauro-ceraso, parise quadrifolia, stropa bellandonna, digitale, purpurea,
cherofillo silvestre, cherofillo tenulento, etusa cinapio, sio latifoglio, sio angustifolio, cicuta virosa, conio macolato, sedo palustre, mercuriale perenne, brionia
alba, brionia diorea, colchico autunnale, piombagine europea, cinanco eretto,
ciclamine europeo, idrocotile volgare, enante fistulosa, enante crocata, alisma
454
piantagine, clematide vitalba, clematide integrifoglia, clematide fiammola, clematide eretta, aristolochia clematide, anemone pulsatilla, anemone pratense, anemone nemorosa, elleboro nero, ellebero verde, elleboro, fetido, veratro albo e
nero, calta palustra, aconito con tutte le sue specie, dafne mezereo, dafne timelea, dafne laureola, aro macolato euforbia con tutte le sue specie, rafano rafanistro, ranuncolo con tutte le sue specie, graziola, asaro europeo, la corteccia interna ed i germogli del sambuco, arnica montana, sabina, fellandrio acquatico, chelidonio maggiore, somacco, rhus radicante, rhus toxicodendron, i semi del ricino,
scilla marina, secale cornuto.
Piante velenose esotiche
Radice d’’ipecacuana, noce vomica, fava di S. Ignazio, i frutti di coloquinto, la radice e la resina di gialappa, il tiglio, e l’olio di crotone, tutte le
specie d’aloe, le resina d’euforbia, la resina di scammonio, la corteccia di geoffrea del Suriman e della Giamaica, i semi di sabadiglia, stafisagria, il fungo bianco, rododendron crisanto e ferrugineo, spigelia antelmintica, e del Mariland, oppio.
Dal regno animale: le cantaridi
Categoria III
Materiali e preparati velenosi, che i commercianti non possono tenere
e quindi neppure vendere a chicchessia, o perché la loro preparazione e vendita è
affidata esclusivamente agli speziali, o perché con essi si avvelenano gli animali,
o se ne fanno altri abusi.
Miniera d’arsenico, come arsenico nativo, il veleno per le mosche, il
veleno pei topi, il veleno per le zanzare, e qui bisogna osservare che sotto il
nome di cobalto o miniera di cobalto non si venda falsamente dell’arsenico nativo o miniera d’arsenico, muriato d’oro semplice o unito alla soda, oro fulminante ecc., pietra infernale, tartaro emetico, solfo dorato d’antimonio, Kermes minerale, croco d’antimonio, mercurio precipitato bianco, solfato di rame ed ammoniaca, solfato di zinco artefatto, fiori di zinco, idriodato di potassa, non che
tutti gli altri preparati d’iodio ad eccezione del cinabro di iodio, cloro, acido
prussico, gli olj eterei, e le acque contenenti l’acido prussico p.e. acqua di lauroceraso, di mandorle amare, di nocciolo di persico, di fior di persico, di nocciolo
di ciriege, prussiato di ferro ossia azzurro di Berlino. Alcali vegetabili velenosi
come morfina, narcotina, stricnina, veratrina, picrotoscina, iosciamina, solanina,
emetina ed i Sali relativi, bacche di coccola, corteccia d’angustura vera e falsa.
Categoria IV
Materiali e preparati velenosi, che i commercianti possono bensì vendere senza osservare le vigenti prescrizioni stabilite dalla legge pel commercio
dei veleni, come per quelli indicati nella categoria I, ma però la vendita al minuto si deve sempre fare a persone conosciute e si avrà una speziale attenzione,
455
perché questi veleni vengano ben conservati evitando ogni sbaglio e mescolanza
con altre merci.
Acido nitrico fumante, acqua forte, acido nitrico concentrato, olio di
vitriolo, acido muriatico concentrato, acido d’acetosella ossia acido saccarino o
acido ossalico, pietra caustica, litargirio, minio, cerussa bianca, zucchero di saturno, massicot, giallo di Cassel, giallo inglese, giallo napolitano, giallo di cromo, solfato di rame, o vitriolo bleu, verderame di Francia, verderame distillato o
cristallizzato ossia verde eterno, vitriolo di zinco o vitriolo, bianco magistero di
bismuto, muriato di stagno d’ogni sorta, vetro d’antimonio, iodio, cinabro, iodino, gomma gotta, clorato di potassa ossia muriato sopraossigenato di potassa.
Un caloroso ringraziamento alla Sig.ra Paola Da Grava dell’Archivio Storico
di Vittorio Veneto per la sua gentilezza e disponibilità e alla mia amica Carla
Pizzol per i suoi suggerimenti.
456
Ceneda e Serravalle: la prima minaccia del Cholera Morbus
Relazione presentata al Convegno da
Massimo DELLA GIUSTINA e Irene SPADA
INTRODUZIONE
Il colera asiatico è una malattia infettiva che interessa il tratto intestinale, a trasmissione oro-fecale, causata da un batterio gram negativo,
a forma bastoncellare, noto come Vibrio Cholerae.
Il batterio, agente eziologico responsabile della patologia, fu
identificato per la prima volta dall’italiano Filippo Pacini (1812-1883),
nel 1859, che gli diede la qualifica di
“asiatico” per indicarne la provenienza e per distinguerlo da un’altra forma di colera, ben nota sin dall’antichità e provocata dal Cholera Nostras di cui si trova dettagliata e precisa descrizione nei libri ippocratici.
Inoltre l’aggettivo posto da Pacini ne
permetteva la distinzione immediata
dal cosiddetto “colera dei suini” che
è determinato da un agente virale che
si manifesta con compromissioni gastroenteriche e polmonari.
All’epoca gli studi di Pacini
passarono inosservati; fu descritto
successivamente in maniera molto
dettagliata dal tedesco Robert Koch,
famoso per essere stato il primo a descrivere il bacillo della tubercolosi (Mycobacterium Tubercolosis), che
ebbe modo di studiarlo approfonditamente a Calcutta.
La presentazione del colera è variabile, si passa da quadri inizialmente asintomatici a quadri che sin da subito presentano una chiara sintomatologia; si pensi che nelle prime descrizioni si distingueva tra un colera
mite, grave, gravissimo, fulminante.
457
La storia naturale della malattia consta di tre fasi principali: prodromica, in cui si hanno sintomi generali aspecifici (febbre, dolori muscolari, astenia ecc.), fase algida e di reazione. I sintomi principali sono: assenza di dolore addominale, tenesmo rettale (spasmo doloroso dell’ano e
impellenza alla defecazione), diarrea profusa che compare entro 24-48 ore
dal contatto con l’agente patogeno. La diarrea è il segno più importante.
Inizialmente essa si presenta come feci liquide ma viene rapidamente sostituita da quella definita “diarrea ad acqua di riso” per l’aspetto caratteristico che presenta. Le scariche sono molto numerose, 50-80 al giorno,
non molto abbondanti, circa 100 ml per ognuna. Facendo un rapido calcolo si vede subito come l’individuo possa avere una perdita di liquidi notevole; in media 5 o 6 litri al giorno.
La diarrea significa perdita di una grande quantità di acqua e sali
minerali che porta, se non si interviene nel giro di poco tempo, a shock
ipovolemico e infine morte. Durante la fase di shock si presentano tutta
una serie di sintomatologie correlate per l’appunto alla perdita di acqua e
sali, importanti soprattutto sodio e potassio, quali: crampi muscolari per
l’ipokaliemia, obnubilazione del sensorio in assenza però di delirio, letargia del sistema nervoso centrale, dovuti soprattutto al forte calo del volume sanguigno e agli effetti che questo determina sulla capacità di produzione dei neurotrasmettitori, tachicardia compensatoria che cerca di contrastare il calo di volume, tachipnea nel tentativo di risolvere la condizione di acidosi metabolica.
Come si evince dalla breve descrizione della sintomatologia, il
colera, in assenza di interventi, è una malattia con effetti devastanti sull’organismo e che porta a morte in un tempo molto ristretto.
Bisogna dire, ed anche questo è un aspetto su cui vogliamo porre
l’accento in quanto ritornerà successivamente in questa breve trattazione,
che il colera rientra nelle cosiddette patologie autolimitantesi.
Queste sono tutte quelle malattie che vanno incontro a risoluzione spontanea senza l’utilizzo di farmaci. Infatti, la migliore ed unica cosa
che è prevista attualmente per la terapia è l’infusione di soluzione salina
che ha lo scopo di mantenere, entro livelli accettabili, la volemia e la
composizione salina dell’organismo; contrasta quindi la diarrea profusa
che, ribadiamo, è l’aspetto più importante di questa malattia.
Già Pacini, nella prima descrizione che diede della patologia,
propose argutamente, ponendosi in contrasto con le metodiche e le idee
dell’epoca, come unica terapia l’infusione endovena di liquidi. La sua
proposta non trovò seguito.
458
Attualmente la malattia si può definire debellata in Europa, ricordiamo però il focolaio napoletano degli anni ’70, ma è ancora endemica (cioè si ripresenta costantemente) in molti paesi dell’Africa (epidemia
nello Zimbabwe nel 2008, poco meno di 5000 morti in un biennio) e dell’Asia, India in primo luogo.
L’ARRIVO DEL COLERA IN EUROPA E I MODI CON CUI SI È CERCATO
DI RALLENTARNE LA DIFFUSIONE
Abbiamo concluso il paragrafo precedente ricordando come il
colera sia endemico in India, in particolar modo nella zona compresa tra il
Gange e Bramaputra. Proprio da questo Paese dell’Asia, in cui le condizioni igieniche sono purtroppo ancora molto scarse, si presume sia iniziata la diffusione della malattia; diffusione che fu favorita dagli spostamenti
commerciali degli inglesi che le fecero guadagnare, lentamente ma inesorabilmente, l’Estremo Oriente, l’Africa e l’Europa.
Il primo paese europeo contagiato fu la Russia, nella quale i primi casi si registrano già dal 1829. Successivamente furono coinvolte la
Polonia, la Prussia, l’Austria e la Francia. Dalla Francia meridionale, contagiata già dal 1832, il colera, tramite sempre gli scambi commerciali, arrivò in Italia; la prima città colpita fu Genova.
Il colera era una malattia assolutamente sconosciuta in Europa,
per questa ragione i medici, le autorità e la stessa popolazione non sapevano come contrastare in maniera efficace la malattia.
Vi è poi da ricordare, ma facciamo qui solo un breve cenno, il
forte dibattito sorto tra gli studiosi che verteva sulla definizione del colera
come malattia contagiosa o epidemica. La disputa non era per nulla oziosa
o meramente accademica. Far rientrare il colera in una di queste categorie
significava attuare dei metodi, terapie, nettamente diversi.
All’epoca della prima epidemia, la quale si può inquadrare nel
lustro 1830-1835, i concetti di contagio ed epidemia erano nettamente distinti.
Il concetto di contagio, vicino a quello attuale, era definito come
“malattia che passa da individuo ad individuo […] senza perder mai della sua forza, dovuta ad un corpo il quale produce sempre i medesimi
identici effetti”.
Nella categoria delle malattie epidemiche rientravano tutte quelle
patologie che si ritenevano causate da prodotti in putrefazione, miasmi,
aria malsana etc.
459
Il colera inizialmente fu trattato, dalla maggior parte degli Stati
del centro e sud Italia, come malattia epidemica. Nella nostra zona e in
gran parte dell’Italia settentrionale si considerò da subito come malattia
contagiosa e si ricorse ai soli metodi efficaci, già sperimentati molte volte
in passato durante le grandi epidemie, volti a contrastare il contagio, quali: cordoni sanitari, limitazione e controllo degli spostamenti, istituzione
di lazzaretti e potenziamento delle strutture e del personale sanitario (vedi
appendice documentaria). Pur agendo da subito in questo modo, dimostrando l’amministrazione di avere più a cuore la salute dei propri cittadini che i piccoli e grandi interessi commerciali che venivano giocoforza
lesi da queste limitazioni straordinarie, venne colta anche la lezione degli
epidemisti.
Si procedette quindi ad imbiancare i muri delle abitazioni e delle
chiese, fu raccomandato di aspergere le pubbliche vie e piazze con il cloruro di calce che è un debole disinfettante; si promosse un maggior controllo degli scarichi delle abitazioni, si arrivò persino alla “sanificazione”
delle lettere in entrata dagli Stati a rischio, e per la nostra zona, furono
istituiti anche delle figure predisposte al controllo delle condizioni igienico-sanitarie delle case private e dei luoghi pubblici; di questo tratteremo
meglio successivamente.
La prevenzione del contagio fu, ad onor del vero, piuttosto precoce. Già nel 1831 e 1832 la maggior parte degli Stati Italiani aveva preso
delle precauzioni atte a prevenire la diffusione della malattia. Vennero inoltre già predisposti, come nel nostro caso, lazzaretti, ospedali e cimiteri.
I medici si trovarono ad affrontare una malattia di cui non conoscevano assolutamente nulla. Per la guarigione del paziente, durante la
prima ondata ma anche nella successiva del 1855, i medici prescrivevano
le classiche, ed uniche, metodiche disponibili all’epoca; le quali in alcuni
casi sono vane e a volte controproducenti per il paziente stesso.
Si prescrivevano delle regole di igiene personale, sorvegliare la
dieta, tenere lo stomaco in ordine, poche bevande alcoliche e astensione
dai rapporti sessuali. Prescrizioni di carattere generale che a poco valevano e probabilmente lo sapevano anche gli stessi medici, ma almeno davano qualcosa in cui credere agli ammalati. Nessun farmaco disponibile all’epoca fu trascurato, si provò con menta, laudano, oppio, sorsi di vino
generosi (l’alcool è un disidratante ed ha pertanto un effetto controproducente), calomelano noto all’epoca anche col nome di mercurio dolce (protocloruro di mercurio alias cloruro mercuroso) e pure emetici (sostanze
che favoriscono il vomito, anche queste dannose in quanto il vomito implica dispersione di liquidi e sali). Gli emetici più utilizzati erano il tartaro
460
emetico (tartrato di potassio e antimonio) le cosiddette paste forti (miscugli di farina con acqua o aceto) e i senapismi (pasta forte con aggiunta di
senape).
Quando sopraggiungeva l’ipokaliemia accompagnata dall’acidosi
metabolica, si entrava in quello che i medici definivano lo “stato algido”,
caratterizzato da cute fredda e secchezza delle mucose. Alla comparsa di
questa fase si attuavano manovre volte a “riscaldare” il paziente ma che in
realtà sono quanto mai deleterie e non hanno ragione d’essere. Si tentava
di riscaldare i malati con panni caldi, mettendogli delle bottiglie di acqua
calda sotto le ascelle e tra le cosce allo scopo di farlo sudare, bagni bollenti e i cosiddetti “bagni secchi”. Questi consistevano nel porre il malato
all’interno di una tinozza riempita di alcool al quale successivamente veniva dato fuoco.
Tabella 1 – L'epidemia di colera nei diversi Stati italiani
(Dati riportati da Corradi 1865)
Stati italiani
Pre -Unitari
1835
Casi
1836
Morti
Casi
2962
1837
Morti
Casi
Totale
Morti
Casi
Regno Sardo
5811
4562
2920
1240
11613
6567
1,7
390815
Lombardia
13521
6777 43656
25238
-
- 57177
32015
13
3455539
Veneto
10401
5998 32857
17087
468
344 43726
23429
11,3
2058936
Toscana
2148
9
554
347
2562
1,8
1421927
0,1
469303
2206
19
685
Morti
Morti/
1000 popolazioabine
tanti
2721
Ducato di
Modena
-
-
70
51
-
-
70
51
Ducato di
Parma
-
- 10382
5483
-
- 10382
5.483
11,5
472.806
Stato
Pontificio
-
-
1625
787
10290
5944
11915
67.31
2,5
2732436
Regno di
Napoli di
qua dal Faro
-
-
N.P.
60700
N.P.
29682
N.P.
90.382
10,0
6082900
Sicilia
-
-
-
-
N.P.
69253
-
69253
35,3
1960951
236473
11,0
21500000
ITALIA
17943
112275
106255
Solo dopo la prima metà dell’Ottocento si fece strada l’idea che era necessario prestare maggior attenzione alla perdita di liquidi.
Il medico Cantani a Napoli provò, nel 1865, ad infondere liquidi nei colerosi ma ottenne, per imperfezione di metodo e di strumenti, dei risultati
variabili.
461
Ci volle molto tempo prima che le metodiche “classiche” fossero abbandonate.
Ancora nel 1884 le terapie erano quelle elencate poco sopra; furono abbandonati gli emetici ed i salassi che vennero riconosciuti essere
francamente dannosi per il paziente.
Lo studio delle cifre sopra riportate ci fa capire, ed è opinione
largamente condivisa dagli studiosi, come l’epidemia di cholera morbus
non abbia fatto più morti e creato più disagi di quanto abbiano fatto altre
epidemie che investirono l’Europa nei secoli precedenti. Ci fu, e questo è
bene metterlo in luce, un impatto sociale e psicologico diverso rispetto
alle altre epidemie, sui popoli che dovettero affrontare il contagio. Il colera era all’epoca, ripetiamo, completamente sconosciuto per cui la medicina non aveva alcun mezzo per poter arginare la diffusione del contagio se
non quello di ricorrere all’isolamento dei malati tramite la costruzione di
lazzaretti, talvolta, ed è il nostro caso, in via preventiva, cioè prima ancora
che si presentassero casi all’interno della comunità.
Tabella 2 – L'epidemia di colera nelle diverse province
(Dati riportati da Ferrario 1827)
Province
Casi
Morti
Morti / 1000 abitanti
Genova
5974
3219
32,0
Brescia
3219
1613
52,0
Bergamo
1598
974
32,3
Como
865
603
36,0
Udine
1574
733
54,0
Milano
2283
1521
6,5
Venezia
4648
2893
24,0
Verona
1616
914
16
Una cosa che è emersa da ormai più di un decennio grazie alla ricerca scientifica è una relazione tra colera asiatico e fibrosi cistica. Stando
a quanto riportato in diversi studi (Quinton 1982; Baxter et al. 1988; Kopelman 1993; Gabriel et al. 1994; Cuthbert et al. 1995; Grubb and Gabriel
1997; Knowles et al. 1999; Högenauer 2000) la fibrosi cistica avrebbe un
effetto protettivo in quanto, agendo sugli stessi canali del sodio e del cloro, bersagli dello stesso colera, ridurrebbe se non addirittura impedirebbe
in alcuni soggetti le manifestazioni diarroiche, limitando quindi le perdite
d’acqua.
462
Si è notata anche una correlazione tra incidenza di fibrosi cistica
nella popolazione e diarree infettive.
Il Veneto è tristemente famoso per la sua alta incidenza di fibrosi
cistica rispetto alla media italiana; forse questo può aver contribuito a
dare una maggiore resistenza all’epidemia di colera. Non crediamo sia un
caso come il tasso di mortalità per mille abitanti, se il dato è riferito al territorio regionale, sia sensibilmente più basso rispetto alla vicina Lombardia; se poi i dati sono confrontati per provincia questa discrepanza risulta
ancora più evidente (vedi tabelle precedenti).
Certamente hanno influito di più le misure preventive prese dai
governi, l’esperienza e la capacità di osservazione dei medici, il rispetto
delle leggi straordinarie emesse dagli Stati per fronteggiare l’espandersi
dell’epidemia, ma non si può escludere a priori che anche questo dato genetico abbia giocato un ruolo difensivo, seppur minimo, nella popolazione
dell’epoca.
DISPOSIZIONI SANITARIE NEL REGNO LOMBARDO VENETO
L’impero austriaco si mosse rapidamente, almeno nella nostra
area, nel tentativo di contrastare il più possibile la diffusione del “temibile
morbo”. Furono diramate, ai diversi podestà dei comuni del regno, alcuni
“pamphlet” contenenti istruzioni, sia per i medici sia per la popolazione,
su come affrontare il colera allo stato dell’arte attuale (vedi appendice documentaria).
Le varie Deputazioni comunali promulgarono, in accordo con le
direttive governative, leggi straordinarie al fine di limitare gli spostamenti
della popolazione da un luogo all’altro. Furono soppresse, almeno sin tanto che si registrarono casi di colera, le annuali fiere del bestiame; tutti i
prodotti agricoli erano sotto lo stretto controllo di ufficiali comunali che
avevano il compito di controllare, ad esempio, la freschezza della frutta e
verdura e di vietarne la vendita nel caso in cui questa non lo fosse, controllare se il “vino nuovo” era munito delle patenti di sanità che ne accertassero la “non nocività per la popolazione”.
Altri ufficiali comunali furono preposti al controllo degli scoli
delle acque fognarie, al controllo della situazione igienica del popolo annotando minuziosamente, nel caso in cui fosse necessario, quanti abitanti
dimoravano, quante persone erano solitamente disposte per stanza, se vi
erano scarichi fognari nelle vicinanze, se l’aria all’interno dell’abitazione
fosse salubre e non appestata da fumi od altro, se le persone erano sottopeso, mal vestite ed in quali condizioni economiche versassero.
463
A queste ispezioni seguirono alcuni provvedimenti, in armonia
anch’essi con le direttive centrali. Possiamo dire che, almeno per Ceneda
e Serravalle, i rimedi per la sanità pubblica sono pressoché gli stessi. Questo è sicuramente dovuto al fatto che il governo imperiale austriaco, che si
caratterizzava, come è noto, per una forte centralizzazione, aveva già
emanato delle istruzioni con l’obbligo che fossero rispettate tassativamente.
Questo anticipò la possibilità che i vari comuni provvedessero ad
opporsi autonomamente all’epidemia, garantendo quindi una migliore gestione e organizzazione sul territorio.
CENEDA E SERRAVALLE AFFRONTANO IL COLERA
In questa parte del nostro studio riportiamo quanto accadde nel
periodo 1831-1836, stando a quanto emerge dalla ricerca archivistica, nei
due antichi comuni di Ceneda e Serravalle, ora riuniti col nome di Vittorio
Veneto. L’esposizione tratterà in maniera unitaria le due comunità. Tutto il
materiale archivistico, se non altrimenti citato, è tratto dall’Archivio Comunale di Vittorio Veneto; per la parte di Serravalle le notizie riportate
provengono dalle buste della serie 38 numero 351 e 375; per Ceneda dalle
buste della serie 20 numero 296, 323, 329. Non è stato possibile consultare l’Archivio del Medico Provinciale di Treviso, depositato presso l’Archivio di Stato di Venezia, in quanto conservato nella sede della Giudecca, attualmente inagibile.
I tentativi di arginare la diffusione del colera e le diverse predisposizioni per prevenirne i casi, furono considerate ed in alcuni casi attuate, sin dal 1831. I sistemi di prevenzione e controllo citati precedentemente furono seguiti scrupolosamente; talvolta in modo curioso come la sepoltura di sedici baccalà ritenuti malsani, avvenuta a Ceneda. Lo spostamento delle persone e delle merci fu limitato drasticamente. Non si poteva uscire o entrare nel territorio del Comune senza la necessaria fede di
sanità. Lo stesso valeva per le merci delle quali non solo era necessario
conoscere la provenienza ma anche, come si legge, “il grado di sanità”.
Quest’ultima espressione era riservata esclusivamente alle derrate alimentari, di qualsiasi genere fossero.
Il controllo sulla freschezza e qualità degli alimenti era attuato
non solo su quelli in arrivo dall’esterno ma anche su quelli prodotti nel
territorio comunale.
Non solo i generi alimentari furono oggetto dell’attenzione delle
Deputazioni delle due comunità. Cure particolari furono riservate alle
pubbliche strade, agli scolatoi pubblici, alle latrine e letamai, questi ultimi
464
talvolta annessi alle case; furono interessati anche i depositi di pelli, i macelli e non ultime le case private.
Ci fornisce un valido esempio di come ritenessero importante la
pulizia e l’igiene delle abitazioni un documento dato in Ceneda datato 27
ottobre 1831:
“Si recherà in corpo a riconoscere l’immondezza e la insalubrità interna
ed esterna delle abitazioni per prescrivere, ove necessario, le necessarie
misure di polizia e preservazione di que’ contagiosi morbi, che insorgere
potrebbero da una trascurata immondezza, singolarmente nei luoghi e
negli effetti inservienti e destinati al riparo delle persone”.
Nelle prescrizioni stilate dal governo imperiale, erano previste
alcune norme particolari per i medici condotti dei paesi. Essi erano tenuti
a presentare ogni quindici giorni, alla metà e alla fine di ogni mese, “un
ragionato e dettagliato rapporto” sullo stato di salute della comunità, segnalando eventuali malati e il rischio di possibili contagi. I medici non
potevano per alcun motivo rifiutare di visitare gli ammalati; la trasgressione era punita con il divieto perpetuo di poter esercitare la professione
(documento II, disposizione n.36).
Il governo centrale richiese un intervento e una presenza attiva
delle Deputazioni comunali. Ad esse fu richiesto di istituire due commissioni: sanitaria e di beneficenza. L’appartenenza ad una delle due non
escludeva la possibilità di partecipare alle attività dell’altra. Le funzioni di
queste istituzioni verranno da noi trattate in seguito quando, essendo il colera realmente presente sul territorio, esse avranno modo di esercitarle.
Riportiamo comunque quanto affermato in una delle tante relazioni quindicinali riguardo l’attività svolta dalla commissione di sanità di Serravalle:
“la Commissione Sanitaria istituita in questo Capoluogo agisce con somma lentezza e poca cura”.
Nel periodo tra il settembre e i primi di novembre del 1831 alle
Deputazioni comunali fu richiesto di identificare dei luoghi adatti all’istituzione di lazzaretti, nuovi ospedali per migliorare l’assistenza ai possibili
malati, ed infine fu richiesto di scegliere un luogo idoneo alla sepoltura
dei cadaveri dei colerosi. Quest’ultima disposizione era da recepire nel
caso in cui il cimitero cittadino non avesse “tanta ampiezza da potersene
465
separare una porzione, che non potrà in seguito mai più servire ad uso di
tumulazioni”. Furono date disposizioni particolari per il trasporto degli infermi al lazzaretto; questo doveva essere eseguito percorrendo le vie
meno frequentate ed in modo che “le materie che sortano per vomito o
per basso non si spargano sul terreno”.
La disposizione in merito all’istituzione del lazzaretto fu prontamente attuata da ambedue le Deputazioni di Ceneda e Serravalle.
La Deputazione di Ceneda trattò con i fratelli Posocco in data 9
ottobre 1831, all’epoca proprietari dell’allora ex-convento del Gesù (attuale Collegio di San Giuseppe), i quali lo comprarono dopo la demanializzazione dei beni ecclesiastici in età napoleonica. L’accordo prevedeva
la cessione in affitto delle “due stanze sopra il parlatorio grande dell’exconvento del Gesù col parlatorio stesso pei convalescenti, e colla stanza
di ingresso sulla pubblica via”. Il corrispettivo per l’affitto fu fissato a 30
lire al mese pagabili trimestralmente. Nei documenti si riscontra la volontà di attivare due lazzaretti; il secondo, stando a quanto scritto nel documento citato precedentemente, era situato in un “nuovo fabbricato” presso
il civico ospedale di Meschio. In quest’ultimo erano previsti sedici posti
letto per i malati di colera, altri tre erano riservati ai convalescenti.
A Serravalle la Deputazione, il 16 ottobre 1831, servendosi anche del parere del medico provinciale, il cenedese Pezzoli, che si recò di
persona a vistare il posto, indicò come luogo idoneo il “Locale di S. Giustina”, già dall’epoca napoleonica trasformato in caserma. Inoltre si pensò
di utilizzare come cimitero per i colerosi, secondo le disposizioni centrali,
“lo spazio di terreno attiguo ed isolato”. L’articolo 32 della Circolare 4
ottobre 1831(vedi documento II) dà precise indicazioni su come il cimitero debba essere allestito. Riportiamo: “Per morti di Cholera è fissato un
cimitero apposito, qualora quello del Comune non avesse tanta ampiezza
da potersene separare una porzione, che non potrà in seguito mai più
servire ad uso di tumulazioni. Mancando quest’ampiezza, se ne deve istituire uno di contiguo al medesimo, se la località lo permette, e cingerlo di
tavole, o meno, con rastrello chiuso a chiave, e lo si fa benedire, e vi si
pianta una croce nel mezzo”. Esiste un documento molto interessante datato 26 ottobre 1831 dal titolo “Fabbisogno degli effetti occorrenti per
l’allestimento di un Lazzaretto in Serravalle pegli attaccati dal Cholera
Orientale, e da altre consimili malattie di indole perniciosa e per N. 100
ammalati”. Non riportiamo l’intero elenco degli oggetti necessari essendo
una semplice lista di oggetti. Possiamo dire, come già chiaramente enunciato dal titolo del documento, che i posti previsti erano cento e che la
spesa totale preventivata era di 17711,84 lire austriache delle quali
466
7566,38 erano già coperte dal materiale esistente nel locale; la spesa effettiva dunque ammontava ad 10145,46 lire austriache. Nonostante non sia
esplicitato, si può ragionevolmente supporre che tale lazzaretto fosse istituito nel predetto locale.
Sul finire dello stesso anno si ha un repentino calo dello stato
d’allerta. L’Impero dà disposizioni per tutto il territorio, recepite e diramate, nella provincia di Treviso, tramite circolare datata 8 novembre
1831, numero di protocollo 25934/1429 (documento VI), nella quale
espressamente è dichiarato: “S.M.I.R.A […] si è demestissimamente degnata di abolire per la malattia del Cholera Asiatico le prescrizioni de’
regolamenti di peste, e di comandare che invece per la malattia stessa si
proceda come per ogni altro male ordinario epidemico e contagioso”.
Inoltre sono imposte disposizioni per l’abolizione delle commissioni di
sanità con l’obbligo, per queste ultime, di consegnare tutto il loro materiale alle autorità sanitarie ed agli uffici ordinari di polizia comunale.
Nel triennio 1832-1834 si ebbe, nel territorio delle due Deputazioni di Ceneda e Serravalle, un periodo di quiete nel quale non furono registrati casi di colera. Le stesse strutture sanitarie attivate nel 1831 furono
destituite e smantellate.
A questo periodo di tregua seguì un biennio, quello degli anni
1835 e 1836, in cui il morbo infuriò in maniera violenta. Per quanto concerne l’area presa in esame possiamo affermare come la zona di Ceneda
fu sicuramente la più colpita.
Le due Deputazioni comunali si mossero a ripristinare rapidamente, come era stato impartito dal governo ma soprattutto per la paura
del contagio, gli stessi provvedimenti già presi in precedenza. Nell’arco di
qualche mese fu ripristinato “tutto ciò che fu nel 1831 prescritto in occasione della invasione sin allora temuta del Cholera Asiatico”. I controlli e
i divieti sugli alimenti si inasprirono. Citiamo come unico esempio l’espresso divieto, non previsto nel 1831, di consumare i giovani granchi in
muta, citati nel documento con il nome veneziano di “masanete”, “[…]
perché trasportati a lunghe distanze dal veneto estuario ove li raccolgono”. Le Deputazioni erano preoccupate soprattutto per il consumo del
“vino nuovo”. Nonostante riuscissero a impedire che il vino novello fosse
venduto da osti e bettolieri rimaneva il problema della piccola produzione
privata e conseguente consumo da parte dei contadini nelle proprie abitazioni: “[…] ma gente del contado non usa frequentare i pubblici esercizi,
avendone di proprio”. La preoccupazione per la salute della popolazione
era al primo posto anche per la Chiesa. Siamo a conoscenza di alcuni edit467
ti, promulgati dall’allora vescovo di Ceneda Bernardo Antonino Squarcina, in cui si dichiara che l’assunzione di particolari cibi in periodi proibiti
dell’anno era soggetta, date le condizioni precarie di salute, ad indulto.
Seguono sempre esortazioni ai parroci di agire sempre secondo quanto riportato dalle Sacre Scritture: “curate infirmos”.
Fu posta in questi anni maggiore attenzione alla salubrità delle
acque, delle pubbliche vie, degli alberghi e locande dove si poteva pernottare, all’igiene personale. Sia a Ceneda che a Serravalle si provvide all’erezione di “pubblici lavatoj” da costruirsi preferibilmente ad una congrua
distanza dal caseggiato. Tali strutture erano previste per il lavaggio degli
indumenti e di tutti gli effetti personali dei malati di colera. Il “bisogno”
di igiene era a tal punto sentito che furono approntati dei tini di cloruro di
calce per una prima disinfezione, tramite immersione, dei colerosi. A titolo di curiosità riportiamo, come si evince dai documenti, che i tini erano
forniti dai “filantieri” del posto.
Furono ripristinati, e questa volta realmente attivati, i diversi locali indicati nel 1831 come luoghi idonei per la creazione di ospedali.
Quest’ultima affermazione vale solo per la realtà di Ceneda. Il 12 ottobre
1835 fu formalmente destinato ai colerosi l’ospedale civico situato nell’attuale Piazza Meschio. Il lazzaretto previsto nei locali dell’allora exconvento del Gesù, all’epoca di proprietà della famiglia Posocco, non
poté essere attivato prontamente. Questo perché la richiesta della Deputazione capitava in un momento in cui la famiglia stava procedendo alle divisioni ereditarie.
A dispetto della celerità con cui si provvide al ripristino di queste
strutture ospedaliere, molto spesso si riporta come gli ospedali rimanessero vuoti in quanto i malati o non potevano o, molto più spesso, non volevano esservi trasportati.
A Serravalle, nonostante la ricerca archivistica, non è stata trovata menzione né di ospedali né di lazzaretti, fatta salva una lettera datata 11
ottobre 1835, conservata nella busta 42 dell’archivio parrocchiale, in cui
la Deputazione di Serravalle chiede al Presidente della Pia Commissione
della Parrocchia di Serravalle, che altri non era che il Prevosto, di interessarsi alla ricerca di una stanza, possibilmente in una zona centrale dell’abitato, da adibirsi a piccolo ricovero “[…] onde accogliersi e curarsi
qualche infelice che ne avesse bisogno per la violenza del morbo”.
Nello stesso periodo si provvide alla creazione di un corpo di infermieri, due per parrocchia a Serravalle, un uomo ed una donna; per Ceneda il corpo degli infermieri era costituito da tre uomini e tre donne.
Queste persone furono istruite per garantire una prima assistenza, in attesa
468
del medico, ai colerosi; inoltre permettevano di avere un controllo più capillare del territorio anche nelle zone più distanti e difficili da raggiungere. In alcuni casi, soprattutto a Ceneda, nelle zone rurali e più isolate, l’azione di controllo che essi esercitavano fu delegata ai parroci. La formazione e gli stipendi degli infermieri erano a carico delle casse delle Deputazioni le quali lamentavano periodicamente l’impossibilità di procedere
col pagamento degli stessi.
Accanto alle disposizioni sanitarie e igieniche imposte dal governo centrale, entrambe le Deputazioni di Ceneda e Serravalle provvidero
alla formazione di una “Commissione di Beneficienza”. A Serravalle la
Commissione fu istituita il 30 settembre 1835 con delibera 3464 in cui si
decide l’istituzione di una “Commissione ufficiale per raccogliere le offerte pei Cholerosi, e provvedere a tutto ciò che fosse reclamato per la
pubblica Salute”. Pure a Ceneda si formò una Commissione di Beneficienza; troviamo i primi documenti della sua attività nell’ottobre 1835.
Dallo spoglio del materiale archivistico traspare la volontà di
queste Commissioni di assistere con ogni mezzo gli infermi, con particolare attenzione ai meno abbienti. L’attività di queste Commissioni nasceva
sicuramente per carità cristiana verso il prossimo ma aveva anche la funzione, a nostro avviso, di contenere la diffusione del morbo. Azione quest’ultima che era rivolta soprattutto ai poveri che non potevano permettersi i farmaci prescritti per le cure e che spesso non volevano abbandonare
la propria abitazione, rendendo quindi più difficile l’eradicazione del morbo dalle città.
L’attenzione delle Commissioni non era rivolta solo ai malati ma
anche a tutti coloro i quali versavano in condizioni di povertà ed indigenza notevoli. Queste provvidero, ad esempio, alla “somministrazione di
pane e carne ai poveri”; era anche questo un modo efficace di fare prevenzione. A Ceneda nel novembre 1835 fu stilato un elenco di tutti i poveri presenti sul territorio comunale che necessitavano dell’assistenza fornita dalla Commissione di Sanità; troviamo inoltre un dettagliato elenco
di coloro i quali, di loro spontanea volontà, diedero un sostegno economico e materiale (alimenti, farmaci ed altre “razioni”) a tale Commissione.
Supponiamo, nonostante non sia stato ritrovato, che anche a Serravalle fu
stilato un elenco simile e che anche le famiglie serravallesi si prodigarono
per sostenere le attività della Commissione.
Esiste un prospetto per le questue offerte alla Commissione, in
cui erano segnalati, oltre al Comune e alla Commissione, i dati del benefattore e l’importo effettivo distinto in tre voci: denaro, frumento, granoturco; seguiva uno spazio per le annotazioni.
469
Nei primi mesi dell’anno successivo, 1836, sembrò che il morbo
fosse stato debellato; invero cominciarono a ripresentarsi alcuni casi sparsi già dal mese di marzo. La malattia ebbe la sua massima diffusione nell’estate, tanto da impedire, almeno sulla carta, lo svolgimento della fiera
di sant’Osvaldo. Scomparì repentinamente già in ottobre. Serravalle fu
colpita in maniera modesta, ci furono, stando agli archivi parrocchiali,
poco più di una ventina di
decessi. Purtroppo non si trovano documenti, nell’archivio comunale, nella busta riguardante l’anno 1836.
La ripresa interessò
soprattutto la zona di Ceneda, è infatti in quest’anno che
si pose la necessità, causa
l’elevato numero di morti, di
erigere un nuovo cimitero,
corrispondente a quello tuttora in uso. Una lapide posta a
futura memoria ricorda il
motivo che portò alla fondazione del camposanto (figura
a sinistra).
In un documento datato 22
luglio 1836 si fa riferimento
alla ripresa dell’epidemia per
quanto riguarda la zona di
Ceneda. La piccola relazione
è stesa dal Curato della Cattedrale ed è indirizzata al Comune; egli afferma che “sul declinare di Marzo p.p. con generale sorpresa di tutte le Venete Provincie, anche in questa nostra città, che per l’amena sua situazione poteva chiamarsi il Tempio della Salute, si sviluppò
improvvisamente la malattia dominante del Cholera Morbus. Infieriva il
male non ancora conosciuto dall’arte medica, che quindi a buon diritto
può chiamarsi vero Flagello di Dio […]”. Queste poche righe che abbiamo trascritto fungono da preambolo ad una richiesta di dar luogo ad una
seconda processione, la prima era stata celebrata il 25 marzo, al tempio di
san Rocco, santo apotropaico. Nella stessa lettera si esprime il desiderio
470
che i pubblici esercizi rimangano chiusi durante la “Sacra Funzione” così
da permettere una maggior partecipazione di popolo. Il relatore nota però,
con una certa ironia, come il portarsi a san Rocco servisse per “non essere
Ceneda ascritta nel numero di quelle città, le quali dopo essersi portate
al tempio per ringraziare il Signore della sospensione del flagello, ora
sono nella necessità di stare sempre a piè degli altari per venire meno
alla paura di quello stesso nimico […] ”.
Un passaggio interessante che non si può tacere è quello in cui il
Curato sottolinea che il morbo, un tempo diffuso solo nei ceti sociali più
bassi, ora si stava diffondendo sempre più anche in quelli più abbienti. Riportiamo: “perché questa malattia, la quale ne’suoi principi coglieva soltanto i poveri, e disordenati, ora non la risparmia i ricchi, ed a quelli ancora che viveva con tutta riserva, fatti tutti successi e tutt’ora esistenti in
molti capi distretti, anche in questa nostra Provincia…”. Quest’ultima
considerazione è quanto mai veritiera. Ci si accorge di ciò anche solo dando una rapida scorsa ai registri parrocchiali dei morti. Se inizialmente, soprattutto nel 1835, morivano per lo più “villici, lanajoli, tessitori, calzolai”, si nota come l’anno successivo muoiano, contagiati da colera, anche
molti ricchi possidenti e industriali. Un nome su tutti quello del serravallese Nicolò Casoni, morto a 56 anni il 6 agosto 1836. Nei registri di morte
è annotato anche il decesso della possidente Anna Salvadori. Questo ci interessa in quanto, nella busta 42 del medesimo archivio parrocchiale, è
conservato un foglio in cui si afferma che il cadavere di questa donna,
morta per colera, non era stato alloggiato, come da espresse direttive del
Comune, nel “deposito di questi cadaveri”. Il deposito è la chiesa di san
Giuseppe in campis; l’attuale chiesa del cimitero di sant’Andrea (vedi documento XVII).
Nel 1836, a Ceneda, si pose per la prima volta il problema dei
“cenci sospetti” introdotti nelle cartiere. Vengono stilate precise e minuziose indicazioni su come “espurgare” e quindi conseguentemente poter
utilizzare gli stracci che arrivano da zone considerate a rischio.
La ripresa del morbo si accompagnò anche ad un aumento del
sentimento religioso. Fu proprio in quest’anno che si celebrarono, come
già affermato, diverse processioni al tempio di san Rocco.
Risalgono a questo periodo due piccoli volumetti a stampa; il primo, di 32 pagine, intitolato “Preghiere ed inni a Maria Vergine Santissima sotto il titolo della salute e delle grazie; a S. Antonio, S. Rocco, S. Augusta e tutti i Santi onde Iddio ci salvi dal cholera”; il secondo, di 16 pagine, dal titolo “Preghiere in onore di S. Rocco, e indulgenze concesse
471
dalla santità di Gregorio XVI”. Entrambi stampati a Ceneda dalla tipografia Cagnani nell’anno 1836.
Questi tometti sono quanto mai indicativi del rinnovato vigore
religioso della popolazione verso i santi apotropaici; vigore religioso che
non poté non coinvolgere anche i santi locali.
Avvenne, inoltre, l’esposizione del Santissimo Sacramento nella
chiesa Cattedrale “per il doppio oggetto, e di ringraziare il Signore di
aver sospeso il flagello del cholera morbus e per supplicarlo a voler sempre più allontanarlo dalle
nostre contrade”.
Nel 1835 l’Imperial Regio Ispettorato del
demanio di Venezia pose
in vendita l’altare che era
servito per accogliere il
Santissimo
Sacramento
nella chiesa dell’ospedale
degli Incurabili di Venezia. All’epoca si trovava,
smontato, nella chiesa di
Santa Margherita, della
stessa città, che fu soppressa nel 1810.
Il 15 ottobre
1835, ad un’asta pubblica,
il vescovo Squarcina lo
fece acquistare per soddisfare un voto della cittadinanza. L’altare fu consacrato al Redentore il 15
gennaio 1837 [vd. Sartori
2005].
L’altare (vd. figura) fu collocato nella navata sinistra della Cattedrale di Ceneda, subendo alcune modifiche. Sopra il grande tabernacolo,
sul timpano, recava due angeli adoranti; questi furono tolti e oggi possiamo ammirarli nell’altare del Santissimo Sacramento della stessa Cattedrale. La statua del Redentore fu spostata dall’alto del timpano al centro della
nicchia dell’altare sopra un basamento di marmo, opera di Francesco
Guerrini. Sopra la mensa si sistemò una piccola custodia per la conserva472
zione della reliquia della Santa Croce. Tutto ciò contribuì a dare all’altare
l’aspetto attuale [vd. Sartori 1988].
Ad ottobre, come già detto, il morbo scomparve improvvisamente dalla nostra zona. A conferma di ciò un documento, datato 1 ottobre
1836 dato in Ceneda, che afferma come “il morbo sia generalmente fermato in queste provincie […] non deve essere prelevata alcuna somma da
impiegarsi in oggetti di cholera”.
Possiamo immaginare il sollievo e la gioia che colse la popolazione cenedese quando si arrivò alla scomparsa totale del colera. Venne
infatti “cantato un solenne Te Deum in rendimento di grazia al Signore
per la cessazione del cholera morbus”. Il canto di lode si tenne in Cattedrale il 30 ottobre 1836.
Così si chiuse, per la nostra zona, la prima grande epidemia di
colera che invase l’Italia e l’Europa negli anni 1830-1836. Le popolazioni
dovettero affrontare nuovamente altre ondate di questa malattia che a pieno diritto può essere definita vera e propria piaga dell’Ottocento.
473
DOCUMENTI
In questa sezione si è deciso di proporre un’ampia scelta di testimonianze archivistiche; questa è infatti è la prima relazione che ha preso
in esame la documentazione esistente afferente alla prima epidemia di colera nel territorio di Vittorio Veneto.
N.B. Tutti i documenti o gli estratti di questi qui presentati e trascritti, ove non segnalato
diversamente, sono conservati presso l’Archivio Comunale di Vittorio Veneto e sono inediti. Per la parte di Serravalle i documenti provengono dalle buste 351 per l’anno 1831,
375 per i documenti dell’anno 1835. Per Ceneda i documenti provengono dalle buste 296
per l’anno 1831, 323 per l’anno 1835, 329 per il biennio 1835-1836.
CIRCOLARI E DISPOSIZIONI DI CARATTERE GENERALE
Documento I: disposizioni per medici e chirurghi (29 settembre 1831)
“Circolare N° 21857/1072 – Treviso 29 Settembre 1831
[…]. Esser dovere di ciascun Medico e Chirurgo, al quale accadesse di curare un ammalato sospetto, o realmente affetto da Cholera di trattarlo secondo tutte le regole dell’arte, di toccargli il polso, di palpargli il ventre ec., di ordinargli e di apprestargli tutti i
soccorsi suggeriti dalla medicina, di visitarlo quante volte sia necessario, finalmente di
estendere in ogni caso la storia della malattia coll’esatta descrizione di tutti i medicamenti usati.
A quei Medici e Chirurghi i quali per timore di avvicinarsi al letto di un ammalato di tal
genere omettessero di toccargli il polso, e tutte le altre prescritte pratiche ed ordinazioni, sarà da inibirsi per sempre l’esercizio dell’arte, e per minori mancanze da determinarsi i proporzionati gastighi. […]”.
Documento II: prescrizioni generali per la popolazione, per farmacisti,
osti, bettolieri e altre categorie lavorative. Vi sono disposizioni sulla tumulazione dei cadaveri, sull’istituzione di lazzaretti, cimiteri appositi per
colerosi ecc. (4 ottobre 1831)
“N° 18780/798 – Treviso 4 ottobre 1831
ISTRUZIONI E DISCIPLINE PER LE COMMISSIONI SANITARIE E DI BENEFICENZA, PEGLI UFFICIALI DI SANITÀ, E PEI REVERNDI PARROCHI E CURATORI D’ANIME NEL CASO DI SVILUPPO DI MALATTIE CONTAGIOSE
[…]
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2.° Nelle Comuni più popolose queste Commissioni si dividono in più Sezioni, ripartendo tra esse per maggior prontezza e regolarità le ispezioni 1.° di visita alle famiglie specialmente bisognevoli, ed agli esercizj di vendita de’commestibili; 2.° di sorveglianza
alla salute pubblica, ed ai Lazzaretti; 3.° di ricerca de’mezzi di allontanare possibilmente la questua.
[…]
6.° La Commissione prende annotazione sul luogo dei difetti riscontrati, e li fa conoscere al proprietario od inquilino, con modi di cortese ammonizione, ed insinuazione procura di conseguirne la riparazione. Se con tali modi non potesse ottenere l’effetto, passa
all’intimazione d’Officio, ed assegna un tempo congruo all’esecuzione, appoggiando in
seguito all’Agente Comunale, od ai Sorvegliatori, (che per tali saranno principalmente
tenuti gl’Individui associati N. 1) la ricognizione dell’esito.
7.° Rileva lo stato delle latrine e scolatoj; e nella Campagna de’ letamaj, delle acque
stagnanti e corrotte, dei pozzi ecc. ed allontana possibilmente tutto ciò, che può essere
nocivo alla salute.
8.° Ordina la polizia delle piazze e delle strade; e nella Campagna vieta che siano poste
erbe a marcire in prossimità alle abitazioni, o comunque contaminata la salubrità dell’aria , o impedito il libero sfogo delle acque.
9.° Sorveglia ne’pubblici mercati alla vendita degli animali, de’ cereali, dell’ erbe e della frutta, e distrugge o sequestra ogni genere nocivo, onde non possa effettuarsene l’uso,
o la vendita.
10.° Visita i Granaj de’Commercianti, ed i depositi de’Prestinaj, proibendo la vendita ed
il traffico di tutto ciò, che fosse trovato e giudicato nelle vie regolari nocivo alla salute
pubblica; esercitando la sorveglianza medesima verso i pizzicagnoli; ed i loro depositi.
11.° Cura che ne’macelli sia tenuta conveniente mondezza; distrugge la carne patita, e
vieta che vengano vendute carni di animali ammalati; ove l’innocuità loro non venga
certificata dal Medico, o dal Veterinario, che se ne ritengono garanti.
12.° Visita le Osterie, e le Bettole, e riconosce la qualità dei cibi, e delle bevande, che
vengono vendute, ed i recipienti, in cui vengono preparate e custodite.
[…]
15.° Se alla miseria andasse unita la infermità, e gl’Individui non avessero ancora potuto giovarsi dell’assistenza medica, o chirurgica, procureranno, che questa loro non
manchi, del pari che l’occorrente somministrazione de’ medicinali , ed i mezzi più indispensabili di sussistenza.
16.° Ritenuto, che gli eminenti riguardi di Salute Pubblica richiedano, che non solo si
abbia attenzione al Cholera asiatico, ma benanco a qualunque altra malattia d’indole
grave e contagiosa; e ritenuto, che lo stesso Cholera talvolta colpisce gl’Individui, senza dar tempo allo sviluppo de’ sintomi, che ordinariamente lo accompagnano, si ricorda
l’emanato ordine rigoroso di non dar sepoltura ad alcun Individuo perito di malattia rapidissima, tanto improvvisa, che di una durata non maggiore di tre giorni, se prima il
475
cadavere non verrà diligentemente ispezionato dal Medico, e dichiarata la causa della
morte indipendente da principio contagioso. Nel caso di giudizio diverso il cadavere dovrà essere trasportato, e con cautela, dalla casa alla sepoltura, senz’essere introdotto
nella Chiesa.
17.° […] appena spirato l’individuo, verrà asperso il cadavere di una soluzione di cloruro di calce, ed involto in un lenzuolo inzuppato della soluzione medesima. Oltracciò
nella camera, in cui si trova deposto, saranno attivati li suffumigj di Guyton Merveau
col metodo indicato in calce alla Circolare […].
[…]
19.° A malgrado delle misure accennate al N. 17 non entrerà [il medico n.d.a] nella
stanza, se prima non avrà fatto aprire tutte le finestre, e dato campo a libera ventilazione; ed ove non avessero potuto aver luogo le fumigazioni minerali suddette, premetterà
almeno dell’evaporazioni d’aceto, che si farà cadere sopra ferri, o mattoni arroventati.
[…]
22.° Qualunque Medico, cui si offre una malattia di questo genere, o manifestatamente
contagiosa, ha lo stretto obbligo di farne immediato rapporto, e provocare il sequestro
fiduciario o rigoroso, come meglio stimerà necessario
23.° Nel sequestro rigoroso l’infermo dovrà tenersi isolato nella sua stanza dal rimanente della famiglia, e chiuso nella medesima con uno, o più assistenti. La porta della stanza è assicurata esternamente con catenaccio, e serratura a doppia chiave, una delle
quali è consegnata al Medico, e l’altra presso la Deputazione locale, o il Parroco, per
ogni opportuna occorrenza.
Nella porta è aperto un piccolo fenestrino assicurato esternamente da catenaccio mobile, e capace dell’introduzione ed uscita di tutto ciò, che potesse occorrere all’ammalato,
ed agli assistenti.
Appiedi di questo fenestrino, nella stanza contigua, è situato un piccolo mastello con liscivio, in cui vengono gettati ed immersi tutti gl’indumenti, biancherie ed altro, che deve
sortire dalla medesima per essere conservato. Gli escrementi sono immediatamente versati in una buca lontana dall’abitato, e coperta di terra e poca calce, se si potesse avere.
[…]. Nella camera dell’ammalato, e nella stanza contigua saranno tenuti in permanente
attività li suffumigi di cloruro di calce, ed in mancanza di questo, quelli di Schmit, riservando quelli di Guyton Morveau per la disinfezione degli effetti, e dei locali non abitati,
od in cui fosse stato deposto il cadavere.
24.° Nel sequestro fiduciario la separazione dell’infetto, ed assistenti è intimata alla famiglia, ma non forzata dalle misure suddette.
25.° Se la malattia riveste i caratteri del Cholera morbus, e non sono stati ancora approntati i Lazzaretti, dovrà aver luogo immediatamente il sequestro di rigore. Nel caso
di assoluta miserabilità, e d’impossibile isolamento dell’infermo dalla famiglia, tutti
gl’Individui sono a carico Comunale, onde allontanar il pericolo, che coll’uscire a procacciarsi l’occorrente sostentamento, si facciano propagatori del contagio.
[…]
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27.° Se i Lazzaretti sono in attività e l’Individuo fosse giudicato dal Medico in istato di
potervi essere trasportato, il trasporto dovrà essere eseguito per le vie meno frequentate,
ed in modo che le materie che sortono per vomito o per basso non si spargano sul terreno; essendo a temersi, che il principio contagioso principalmente risieda nelle medesime. Se mancasse una portantina munita dell’occorrente per raccoglierle, si dovrà sostituirvi una sedia d’appoggio, nel sedere della quale si trovi un recipiente opportuno a
contenere quelle che sortono per basso, mentre si avrà cura di raccogliere quelle che
sortono per vomito in altro recipiente all’uopo appressato all’infermo. Si nell’uno, che
nell’altro di questi recipienti è versata prima una discreta quantità di cloruro di calce.
Quegl’Individui, che non potrebbero reggersi seduti, saranno trasportati distesi con inclinazione del corpo sul lato sinistro, perché men pericolosi tornino i conati di vomito.
In questo caso, come in quello della sedia d’appoggio, devesi curare, che l’Individuo si
trovi coperto, e tolto con ciò alla vista comune.
28.° In questo trasporto il corpo dell’infermo è difeso da una coperta di lana greggia,
che a tre quarti della sua lunghezza ha un’apertura pel passaggio del capo, e negli angoli delle estremità più breve due cordelle, che abbracciano, e fermano quella, che gli
pende anteriormente: i suoi piedi appoggiano sopra mattoni caldi imbevuti d’acqua e
d’aceto, ed involti in canevaccie. […]
[…]
32.° Per i morti di Cholera è fissato un Cimitero apposito, qualora quello del Comune
non avesse tanta ampiezza da potersene separare una porzione, che non potrà più in seguito mai più servire ad uso di tumulazioni. Mancando quest’ampiezza, se ne deve istituire uno di contiguo al medesimo, se la località lo permette. e cingerlo di tavole, o
muro, con rastello chiuso a chiave, e lo si fa benedire, e vi si pianta una croce nel mezzo. Finalmente in mancanza di un opportuno spazio contiguo, si sceglie un’altra località
in luogo ventilato e aperto, e lontano dall’abitato, che si fa benedire, e munire, come sopra. In questi Cimiteri di Cholera si dovrà curare, che l’escavazione delle fosse sepolcrali non porti mai alcun ritardo alle tumulazioni dei cadaveri.
33.° Dall’istante, in cui è dichiarata in un Comune l’esistenza del Cholera asiatico, se
nello stesso esistono più farmacie, dovrà sempre restarne una almeno aperta di giorno e
di notte, colla continuata presenza di un Soggetto capace di eseguire all’istante qualunque medica, e chirurgica, prescrizione. Questo servigio verrà sostenuto per turno, ove
non venga assunto volontariamente da un solo Farmacista.
[…]
36.° I Medici e i Chirurghi, tanto i Condotti, che gli avventizj, non possono rifiutarsi di
prestare assistenza agli infermi di Cholera nelle case private, qualunque volta ne vengano ricercati; né istituire la visita, senza la pratica di quegli esami, che si fanno in qualunque altra malattia; ne mancare alle dovute cautele per non rendersi appresso veicoli
del contagio. La trasgressione di questa disciplina, per espressa volonta di S.M.I.R.A. è
punita con divieto perpetuo di esercitar più la professione.
[…]
38.° In tutte le Comuni popolose, e specialmente in ogni Capo Distretto debbono esistere
uno o più Lazzaretti pel ricovero e cura principalmente de’ miserabili.
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39.° Dovendosi nell’allestimento di questi procurar di conciliare tutti i riguardi di pubblica economia, la loro capacità ed allestimento potrà essere ragguagliata al due per
cento della popolazione.
40.° Ogni letto dovrà essere formato di due cavalletti e tre tavole, montate da un pagliariccio con guanciale di paglia, e tre coperte di lana greggia, dovendosi inoltre tenere in
serbo altro pagliariccio, altro guanciale, e quattro lenzuoli per ogni letto. Se al momento, che viene accolto l’ammalato si trova gelato l’estremità, si stende una delle coperte
sul pagliariccio e guanciale, e l’altre due sopra lo stesso, senza frapposizione di lenzuola, sicchè si trovi in contatto immediato della lana, e tornino più facili e attive le stroffinazioni colla medesima. Bene avviato il calore, ed il sudore, si passa alla aggiunta delle
lenzuola. Il pagliariccio, ed il guanciale tenuti in serbo, vengono usati qualunque volta
si trovino lordati quelli, su’ quali l’infermo riposa, o tra’quali è perito uno di Cholera.
[…]
Treviso li 4 Ottobre 1831
L’IMPERIAL REGIO CONSIGLIERE EFFETTIVO DI GOVERNO E REGIO DELEGATO PROVINCIALE
NOBILE DI GROELLER”.
Documento III: circolare riguardante l’uso del popolo di stazionare lunghe ore nelle stalle (12 ottobre 1831)
“ Circolare N° 21864/1197 – Treviso 12 ottobre 1831
È noto che nulla maggiormente influisce allo sviluppo del Cholera asiatico di quello che
i gravi sbilancj della traspirazione insensibile; e le stesse Istruzioni emanate dall’Eccelso Imperial Regio Governo traggono da ciò il soggetto di speciali avvertimenti.
Che se questi sbilancj difficilmente si possono evitare in molte circostanze per le intemperie delle stagioni, ve n’hanno però di quelli maggiormente pericolosi ai quali si può
porre facile riparo. Massimo fra questi e forse di tutti il più funesto è quello che deriva
dal costume d’una gran parte dei villici di passare lunghe ore della sera ed anche le intiere notti nelle riscaldate e mufitiche Stalle de’bovini e pecorini. La mancanza in esse
di qualunque ventilazione, l’emanazione degli escrementi e delle corrotte sterniture degli animali, la decomposizione dell’aria per la respirazione, e lo svoglimento della traspirazione insensibile operar debbano tale pervertimento nel sistema cutaneo, e nell’ ordine della circolazione sanguigna degl’individui, che è assai difficile comprendere come
una tale consuetudine non risulti anche più fatale di quel che si osserva. Da tali luoghi
infuocati e mufitici escono le persone in uno stato di generale madore suscitato dal calore e da’vapori in mezzo a’quali soggiornano, ed affrontano l’aria umida e fredda della
notte per passare alle stanze di riposo molte volte per lunghi tratti lontane.
Se in ogni tempo sarebbe stato utile il tentare di togliere un siffatto disordine, di tutta
necessità è ciò divenuto di grave minaccia d’invasione del Cholera orientale. Gli Ufficj
ai quali è indirizzata la presente Circolare, e particolarmente i Reverendi Parrochi ed i
Curatori d’Anime prendendo da essa il soggetto di opportune ripetute istruzioni da darsi
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dall’Altare in occasione di festività, e di maggior concorso alle Chiese si adopreranno
affine che tanto e così pericoloso disordine sia quind’innanzi efficacemente evitato.
PEL REGIO CONSIGLIERE EFFETTIVO DI GOVERNO E REGIO DELEGATO PROVINCIALE IN VISITA
Il Regio Vice Delegato CAPITANIO ”.
Documento IV: istruzione sull’uso del cloruro di calce (15 ottobre 1831)
“ Circolare N° 22182/1237 – Treviso 15 ottobre 1831
[…] che le fumigazioni di cloruro di calce non possano venire praticate senza permesso
medico né come preservativo, né come espurgativo dal Cholera Asiatico, dovendosi
piuttosto dar preferenza alle fumigazioni di aceto o di legno di ginepro, ed alla libera
ventilazione delle abitazioni. […]”.
Documento V: disposizioni generali sui luoghi da adibire a lazzaretto (22
ottobre 1831)
“ Circolare N° 22707/1292 – Treviso, 22 ottobre 1831
[…] Nella scelta ed allestimento dei luoghi per uso dei Lazzaretti di Cholera, avuto riguardo alla infrequenza dei casi nei quali si possono adoperare attesa la nota rapidità
del male, e la regola che in tali Ospizj non si possono trasportare che queglino i quali
mancano d’ogni occorrente ajuto, ed ogni proprio mezzo di cura nelle rispettive abitazioni, si dovrà avvertire, che la capacità loro fia quanto più è a calcolarsi ristretta, e che
la provvista dell’occorrente mobiliare, già sempre in via di preavviso, e senza alcun effettivo immediato dispendio rimanga limitata al puro indispensabile bisogno.
Per un dato opportuno il quale possa servire di guida alle ricerche dei dipendenti Officj,
ed alle successive loro proposizioni, si rende noto che nella Regia Città di Venezia popolata da quasi cento mila abitanti dei quali quaranta mila sono miserabili, furono per ora
approntati locali, e forniture per soli duecento Infermi. È quindi a ritenersi che le proposizioni di pari provvidenze debbano corrispondere meramente alla prima urgenza di un
morboso sviluppo, ed essere determinate per quei soli Capi-luoghi, di Provincia, e di
Distretto, e per quelle assai poche Comuni, le quali o per eccesso di popolazione o per
istraordinaria quantità di caseggiati, ed insieme per grande miseria, per angustia e succidume nelle abitazioni domandassero un particolare riguardo […]”.
Documento VI: l’Imperatore abolisce il “Regolamento di Peste” che si
basava su quello promosso da Maria Teresa d’Austria del 1770. Si promulgano inoltre altre disposizioni di carattere generale per la popolazione
e i medici (8 novembre 1831)
“Circolare N° 25934/1429 – Treviso, 8 novembre 1831
S.M.I.R.A. [Sua Maestà Imperial Regia Austriaca n.d.a.] con le sue venerate Sovrane deliberazioni 4 e 10 Ottobre prossimo passato già comunicate colle Circolari 22 Ottobre n.
22775, e 4 corrente n. 23319 si è clementissimamente degnata di abolire per la malattia
del Cholera Asiatico le prescrizioni de’ Regolamenti di Peste, e di comandare che invece
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per la malattia stessa si proceda come per ogni altro male ordinario epidemico e contagioso. Dovendo quindi ne’ casi, se avvengono, di Cholera occuparsi esclusivamente gli
Ufficj e Funzionarj di Sanità a’quali solitamente incombe ogni ingerenza secondo le leggi di Polizia Medica nelle circostanze di qualunque epidemico e contagioso sviluppo,
d’ordine espresso della prelodata M.S.I.R. cesseranno al ricevere della presente Circolare tutte le Commissioni Sanitarie in addietro istituite ed attivate unicamente per Oggetti, e per provvedimenti analoghi al Cholera Asiatico; rimanendo appoggiate le attribuzioni loro alle Autorità Sanitarie ed aggli Uffici ordinarj di Polizia Comunale, ai quali
verrà fatta consegna immediata, se esistessero, degli atti ed oggetti e de’ lavori tutti ch’erano prima affidati alle prefate Commissioni, e ciò verso regolare inventario da essere
conservato presso le stesse Autorità Comunali ordinarie. Queste Autorità poi avvertiranno particolarmente di tenere nota distinta e precisa delle spese tutte, se per avventura
fossero occorse, od in seguito occorressero, per causa appunto della malattia ripetuta.
S.M.I.R.A. ha innoltre conceduto, che ne’ casi di generale, o di speciale sviluppo del
Cholera, ove il medico personale in ordinario servigio de’ luoghi fosse per insufficiente
al bisogno, né sia all’opportunità proposta una qualche aggiunta; e perciò dovranno a
suo tempo da’ dipendenti Regj Ufficj Distrettuali essere avanzate alla Scrivente le analoghe proposizioni, però circoscritte e proporzionate alla pura ed indispensabile necessità, con quelle limitazioni economiche che assolutamente escludano ogni superfluità di
dispendio e per quel minor possibile tempo che ragionevolmente sarà calcolato in ragione della più breve durata del male.
Di comando poi della M.S.I.R.A. per ciò che concerne la istituzione di Ospitali e di Lazzaretti, qui di nuovo si ricordano le prescrizioni tutte riassunte e dettate nella Circolare
22 Ottobre pros. pass. N. 22707; sicchè l’uso di questi luoghi sia riserbato ai vari casi e
per quel numero soltanto di Infermi di Cholera che mancheranno di bene adattato proprio asilo, che saranno inoltre in tanta prossimità agli Ospitali da potervi essere trasportati senza più grave loro pericolo, e che non fossero stati così impetuosamente colpiti dal male da impedire o da rendere pericoloso e malagevole un qualunque movimento delle loro persone. Ed intanto sarà evitato ogni dispendio per perizie e riconoscimenti
de’Fabbricati, per riparazioni ne’ medesimi, e per interni allestimenti, oltre quelle minori scorte de’ mobiliari arredi che esistessero già o ne’Comunali Depositorj, od in quelli
fuori di uso ordinario ed urgente de’ Civici Spedali. Bensì si avrà a calcolo preventivo e
concreto l’occorrenza di un personale Sanitario, e di subalterni assistenti per l’interno
servigio di tali Ospizj da essere assunto nel caso ed in proporzione di un futuro reale bisogno, e delle loro competenze, così del pari preavvisando alle occorrenze del mobiliare
di primo impianto, massimamente per letti, biancherie, indumenti ec.
Si è altresì degnata la M.S.I.R.A. di ordinare che ove l’ampiezza de’ Cimiterj ordinarj
Comunali lo acconsenta, debbano in essi pure seguire le tumulazioni de’Cadaveri de’
morti di Cholera, non però spogli di vesti, e previe le consuete Ecclesiastiche cerimonie
e benedizioni come si usa per i morti d’ogni altra malattia epidemica, e ciò per maggiore tranquillità degli animi, ed affine di prevenire la tanto perniciosa occultazione della
malattia, e la trascuratezza degli ammalati.
Finalmente la prelodata M.S.I.R.A. si è clementissimamente degnata di rammentare e di
inculcare che le pubbliche Autorità tutte alle quali vengono comunicati gli alti e sapientissimi Suoi premessi voleri, costantemente avvertano d’essere responsabili della scrupolosa loro osservanza, rimanendo per essi nella parte che vi ha relazione, e che diversamente provvedeva, abrogate le istruzioni tutte finora nel proposito diramate, e più
particolarmente emesse coll’Ordinanza 4 Ottobre pross. pass. N. 18780.
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Per migliore pratica guida poi de’ pubblici Officj Comunali, e de’Funzionari di Sanità, come pure per istruzione del popolo in oggetti e pel caso finora avventurosamente
lontano di sviluppo del Cholera Asiatico, si aggiungono qui sotto alcune regole di
Medica Polizia e di facile universale applicazione che gli Ufficj e personale Sanitario, ed i Reverendi Signori Parrochi sapranno nella parte di rispettivo tributo far comunemente conoscere ed eseguire.
1.° Essendo provato che in istato di salute ogni rimedio preso ad uso di preservativo
è pregiudizievole, resta proibito a Farmacisti di rilascia rimedj, ed a’Chirurghi di
cavar sangue senza ordinazione di Medico.
2.° Quelli che sono abituati ad un genere di esercizj, di cibi e di bevande giova che
continuino senza mutamenti, evitando peraltro ogni eccesso, e curando di non valersi
di sostanze guaste, degenerate, o di cattiva qualità.
3.° Dovrà aversi somma cura della nettezza delle case, delle stanze, delle persone, e
degli indumenti; e sarà dovere de’Medici di cooperarvi co’loro consigli
4.° Gioverà ventilare le stanze, profittando delle ore più opportune della giornata, e
specialmente tra le dieci della mattina e le quattro pomeridiane.
5.° Cadendo alcuno ammalato di malattia epidemica contagiosa, si procurerà possibilmente che si trovi in camera separata, disgiunto da’sani, e solamente con quell’assistenza di cui abbisogna; e gli assistenti non potranno commescolarsi col rimanente
della Famiglia.
6.° Le camere di questo infermo dovranno essere tenute nette, gli escrementi prontamente allontanati, gli indumenti spesso cambiati, e la ventilazione §. 4 praticata in
modo, che non ne risenta nocumento.
7.° Essendo miserabili si procurerà di eccitare la pietà delle persone ricche ed agiate, perché non manchi a’ medesimi l’occorrente opportuno sostentamento.
8.° In caso di guarigione, o di morte il letto, il vestiario, gli utensili, e le stanze dovranno restar esposte a lunga ventilazione, prima di essere usate di nuovo; restando
alla sagacità de’Medici di aggiungervi all’uopo li suffumigi acidi minerali.
9.° La paglia de’ pagliericci de’ morti dovrà peraltro essere abbruciata
10.° Dovunque pernottano le truppe di passaggio, dovranno dopo la loro partenza
essere diligentemente nettati e ventilati i locali, e bruciata la paglia di que’pagliericci su cui avessero dormito militari infermi trattando colla ventilazione, o col liscivio
gli altri effetti.
11.° Resta proibito qualunque discorso, il quale potesse ingenerare pusillaminità ed
avvilimento, e raccomandato di tenere gli animi eretti e tranquilli.
L’IMP. REGIO CONSIGLIERE EFFETTIVO DI GOVERNO REGIO DELEGATO
PROVINCIALE NOBILE DI GROELLER ”.
Documento VII: istruzioni per le Commissioni di Beneficenza (senza
data ma in buste anno 1835)
“Istruzioni per le Commissioni di Beneficenza per le private offerte onde sovvenire i
poveri Cholerosi inoltrate col Decreto N: 9
1 – Le Commissioni di Beneficenza tosto che siano regolarmente instituite, sono particolarmente destinate a promuovere la carità dei privati, ed a ricevere ogni offerta
che venga fatta, sia in generi, sia in dannaro, ed a distribuirla secondo il bisogno, e
sempre ad esclusivo soccorso dei poveri Cholerici del Comune, o come sarà voluto
dagli obblatori, ove questi ne facciano esplicita dichiarazione
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2 – Esse risiedono al Palazzo Comunale nelle Città, e nel Locale della Deputazione
Comunale nelle altre Comuni, e si valgono dell’assistenza degli Impiegati Comunali.
Nelle Frazioni la loro residenza sarà fissata presso il Parroco se ciò è possibile, o
presso taluno dei Membri della Commissione.
3 – Le Commissioni tengono un regolare protocollo delle fatte obbligazioni, e rilasciano le corrispondenti ricevute. Gli effetti secondo la diversa loro natura vengono
depositati, e custoditi in luogo sicuro, assumendo uno dei Membri della Commissione la carica di Cassiere e di Economo e la relativa responsabilità. I nomi degli offerenti, se non lo vietano, e la qualità e quantità delle offerte sono notificate al Municipio ed alle Deputazioni che le fanno conoscere alla Superiorità.
4 – Le Commissioni, o direttamente, o col mezzo dei Preposti di Beneficenza ricevono le dimande di soccorso in iscritto, od anche a voce, facendone processo verbale,
prendono in immediato esame, e verificano tutte le esposte circostanze, e a misura
dei mezzi disponibili presentano gli occorrenti soccorsi e trasmettono al Municipio o
Deputazione Comunale giornalmente i Prospetti delle distribuzioni con tutte le necessarie indicazioni per loro norma, e per evitare il caso di doppi sussidi.
5 – I Preposti di Beneficenza sono solleciti, ed incessanti, nel visitare le abitazioni, e
nel riconoscere i bisogni per farne immediato rapporto alla Commissione, che dal
suo canto vi accorre sul momento colle norme e coi concetti suespressi.
6 – Nelle Città, e nei luoghi più popolati potranno le Commissioni per maggiormente
facilitarne le obblazioni instituire delle sezioni, e dei luoghi di deposito che si regoleranno colle stesse norme prescritte superiormente, e che faranno sempre conto e dipenderanno dalle Commissioni medesime.
7 – In dette Città e luoghi più popolati potranno, in casi Urgentissimi da essere poi
giustificati, aver luogo soccorsi immediati a cura dei Preposti, ben inteso che debbano farne immediato rapporto alle Commissioni.
8 – Si terrà tanto dalla Commissione, quanto dai Preposti un esatto Registro di carico, e scarico, dal quale risulti sempre, e con tutta chiarezza l’offerente e la offerta, e
l’impiego.
9 – Presso le Commissione, e presso le Sezioni vi saranno sempre possibilmente degli
Infermieri, ed occorrendo dei mezzi di trasporto per gli istantanei provvedimenti che
potessero abbisognare affinché oltre il soccorso in generi, od in dannaro, abbiano
anche i poveri Cholerici tutta la possibile assistenza morale e fisica.
10 – Con queste generali norme non è già impedito alle Commissioni di proporre, e
di adottare tutte quelle aggiunte, modificazioni, e dichiarazioni, che trovassero necessarie, od utili, e che potessero essere suggerite dall’ esperienza sempre che costantemente siano rivolte al duplice scopo di promuovere in tanta sciagura la carità
dei privati e di assicurare agli obblatori la scrupolosa esecuzione della loro volontà,
ed ai poveri l’immediato, e sicuro effetto, dei largiti soccorsi”.
Documento VIII: pamphlet a stampa di quattordici pagine che venne
diramato in tutto il lombardo-veneto dal titolo “Avviso al Popolo intorno al Cholera-morbus”. Si trascrive integralmente (Venezia 1835)
“La quasi costante successione dei fenomeni del cholera-morbus ha mosso i medici a
distinguerne l’andamento in quattro periodi o stadj. Stadio di preludio, ossia de’ sintomi precursori del cholera, dicesi il primo; stadio di invasione o di svolgimento di482
cesi il secondo; stadio algido o di asfissia il terzo, e stadio di reazione il quarto ed
ultimo.
1° Stadio o Stadio di delitescenza. Una diarrea, talvolta di materie fecciose, talvolta
di materie liquide, biliose, per uno, due, tre dì; un insolito gorgogliamento del ventre; lievi granchi alle gambe; nausee passeggiere; un talchè di sbalordimento alla testa; un senso di pienezza, di calore, di ardore, di ambascia alla regione dello stomaco; talvolta un enfiarsi insolito dell’addome; una inesprimibile oppressione e stringimento al cuore; un’ indescrivibile pusillanimità d’animo e la sete sono generalmente
i primi annunziamenti o i precursori del cholera in chi vive in un paese travagliato
dal morbo. Secondo l’intensità della cagione morbifera, il grado della disposizione
individuale e altre circostanze, può questo stadio durare da poche ore a uno, due, tre,
quattro e più giorni. Come si dirà in appresso, egli è questo lo stadio di cui ogni individuo deve tener gran conto; perciocchè il guarire con sicurezza dal cholera sta tutto
nell’avvertirlo e nel curarlo a questo stadio.
2° Stadio p Stadio d’invasione. Violenti vertigini, nausee più insistenti, convellimenti
nervosi, granchi più acuti, dalle dita delle mani e dei piedi ascendenti al tronco, polsi intermittenti, piccoli o tardi, annunziano l’invasione del morbo, ossia l’imminente
scoppio del vomito e della diarrea, che dal più dei medici si tengono per segni caratteristici del cholera. Le materie rigettate per vomito e per secesso sono acquose, sierose, talvolta bianchicce simili al siero di latte non chiarificato, o alla decozione di
riso, talvolta di colore scurognolo, emananti un odore specifico, da principio tramischiate con avanzi di cibo maldigesti, in appresso con una sostanza mucosa, granellosa, con fiocchetti albuminosi, verdiccio-bruni. Allo strabocchevole rigurgitamento
per disopra e per disotto di questa particolare materia, si aggiungono dolori più
acuti agl’intestini, granchi dolorosissimi ed altri sintomi, i quali sarebbe superfluo
qui numerare; perciocchè, come si disse, al medico appartiene il curare questo stadio, siccome a lui pure appartiene il curare i due stadj successivi, cioè il terzo detto
algido o di asfissia a cagione dell’estinguersi a questo periodo il calore animale e
cessare la sensibile circolazione del sangue, ed il quarto, cui venne dato il nome di
stadio di reazione per dinotare l’ultimo sforzo con che la natura si adopera a combattere l’inimico da cui è oppressa.
CURA – L’arte medica vanta guarigioni di cholera giunto a tutti gli stadj. Però mille
e mille sperienze hanno provato, la probabilità di guarire dal cholera stare in ragione diretta della sollecitudine dei soccorsi; anzi la guarigione essere generalmente sicura se venga metodicamente curato allo stadio di preludio. Vero è che questi preludj, questi sintomi precursori del cholera, sono comuni ad altre infermità bene spesso
di lieve momento. Per non andare errati nel giudizio, se i sintomi appartengano al
cholera o ad altro morbo, si segua il consiglio più prudente, qual è di ritenerli a dirittura per segni precursori di cholera, purchè questa malattia seguiti ad infuriare
nel paese; in una cosa di tanto rilievo, da cui può dipendere la vita o la morte, nulla
si perde abbondando di prudenza, quando che non frenato il morbo alle sue prime
mosse, esso può trascorrere a tanto impeto da rendere vano ogni successivo soccorso. E però, avvertiti o tutti o gran parte dei ridetti sintomi precursori, l’individua si
riduca subitamente a letto, e intanto che fa chiamare il medico, dia tosto mano a curare i sintomi più molesti. Se amara è la bocca, impasta la lingua, teso rumoreggiante e leggermente sciolto il ventre, non indugi a prendere un purgativo di magnesia calcinata o altro qualsiasi purchè non appartenga ai purganti irritanti. Insistendo
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la nausea, con senso di grave ambascia, di ardore della fossetta dello stomaco, si
adoperi a promuovere il vomito con l’olio di uliva sbattuto in molta acqua tiepida,
oppure con la titillazione delle fauci mediante le barbe di una piuma. Non si ricorra
all’applicazione delle sanguisughe alla regione del ventricolo, salvo che il medico
soggiornasse a grande distanza, e grave fosse l’ardore, il dolore di stomaco, pungenti le coliche, insistente il tenesmo, e sommo l’agitamento generale. A rintuzzare i dolori all’ addomine e al ventricolo valgono altresi le fomentazioni mollitive sul ventre,
la gomma arabica stemprata nell’acqua con sufficiente quantità di zucchero, la decozione di riso, di malva, di orzo e cose simili, e questi mezzi medesimi possono pure
giovare a blandire il tenesmo injettati per cristero. L’esperienza ha dimostrato trovare di grandissimo profitto il promuovere la traspirazione Epperò, essendo il malato
sufficientemente coperto di coltri di lana, gli si amministri ogni quarto d’ora o più
spesso poca infusione tiepida di qualche sudorifero, come sono le foglie di menta e di
melissa, i fiori di sambuco, di papavero, di camomilla, di tiglio, di verbasco, ecc. ; rimedj, che crescono spontanei da per tutto, sono di nessuna spesa, di uso facile e sicuro, e dei quali sarebbe buon consiglio ogni padre di famiglia ne facesse anticipata
provvigione. Ad invitare più facilmente il sudore alla pelle, in un coll’uso interno dei
ridetti sudoriferi, gioverà praticare a tutte le membra, e particolarmente lungo la
spina, fregagioni con flanella o lana ruvida o secca, inzuppata in qualche preparazione aromatica e poscia spremuta, oppure sia faccia uso di spazzola asciutta o attuffata nell’aceto caldo. Allo stesso fine sarà profittevole applicare sul ventre e sul petto
cataplasmi di lin seme, bottiglie d’acqua calda o mattoni riscaldati tra le cosce, le
gambe e alle punte dei piedi, sacchetti di crusca bollita, di cenere, di sabbia calda
sulle gambe e sui piedi, sì pure rubrificanti d’ogni maniera preparati con rafano
grattugiato, cipolle peste, semi di senapa e cose simili. Insistendo nell’uso di questi
mezzi per mezz’ora o per un’ora intiera, rado è che il sudore non compaja, e la comparsa di un’ abbondante traspirazione è quasi sempre di felice preludio alla risoluzione del morbo. Intanto il medico sarà venuto. Da questo istante spetta a lui di rettificare e di modificare la cura in ragione del grado, delle variazioni e delle complicazioni del morbo.
PRESERVAZIONE – Alla genesi del cholera è necessario il concorso simultaneo di
due condizioni; la prima si è la materia morbosa specifica; la seconda si è l’opportunità dell’individuo, ossia la predisposizione a sentirne l’impressione. Tutte e due queste condizioni sono egualmente indispensabili onde nasca il morbo. Se manca la predisposizione, di nullo effetto riesce l’azione della causa morbifera, siccome di nullo
effetto è la sola predisposizione dell’ individuo se manca la causa morbifera ad attivarla. In che consista questa predisposizione, senza il cui concorso torna affatto inefficace l’operare della cagione morbosa, non si sa; ma ben si sa, con tutta certezza,
mancare di questa predisposizione il maggior numero degli uomini. Perfino dove si è
lasciato divagare il cholera senza ritegno, si è veduto non soggiacere al morbo più di
un due, di un tre, di un quattro, di un sei per cento della popolazione; e ancor più
piccola sarebbe stata questa proporzione di attaccati dal cholera, se il popolo non si
fosse creata, per modo di dire, una predisposizione artificiale per cagioni che avrebbe potuto facilmente evitare, come l’intemperanza nel bere e nel mangiare, la scostumatezza ecc. Oltre di ciò l’esperienza ha in mille casi dimostrato che con poche cautele di uso facile e comune, taluni si fecero atti a trattare impunemente cogli ammalati per più mesi di continuo; e se colla pratica delle cautele medesime altri non po484
terono cancellare affatto la naturale predisposizione, riuscirono non pertanto a rintuzzarla per modo che non patirono del morbo se non in grado lievissimo. Basta ricordare l’immenso numero di medici, di chirurghi, di sacerdoti, d’infermieri che da
più anni vanno impunemente assistendo ai cholerosi per convincersi, come sia erronea, anzi assurda, la generale credenza che non si possa altrimenti scampare dal
cholera che con la fuga. Nei villaggi, per ogni mille abitanti, il cholera generalmente
non ne coglie più di cinque o sei. Da questi fatti incontrastabili emanano intanto due
legittime conseguenze:
1 – Il massimo numero degli uomini essere dotato di immunità al cholera
2 – I pochissimi non privilegiati d’immunità naturale non mancare di mezzi acconci a procacciarsi un’immunità artificiale, se non assoluta, almeno relativa,
ossia che valga a rintuzzare e raddolcire la fierezza del morbo.
Né complicati o di uso difficile sono i mezzi preservativi. Essendo il cholera il risultato di due distinte cagioni simultaneamente operanti, vuol ragione s’impieghino ad
un tempo due classi distinte di mezzi preservativi; l’una che tenda a distruggere, a
snervare la causa materiale del cholera; l’altra che valga al fare atto il corpo a resistere alla lotta impunemente, o almeno col minor danno possibile. I mezzi più efficaci
a snervare e distruggere la cagione materiale del cholera sono la ventilazione ed i
lavori.
Regnando il cholera si adoperi adunque ogni cittadino a mantenere la purezza dell’aria, allontanando dalla propria abitazione ogni specie di sozzura, di concime, di
acque stagnanti, od altre cose valevoli a contaminare l’atmosfera, e raddoppii di vigilanza a curare la nettezza del casamento, sia con più frequenti spazzature e lavacri
de’ pavimenti e delle masserizie non danneggiabili da queste purgazioni, sia coll’imbiancare le pareti, far elevare i suoli pianterreni, acconciare le latrine, ripurgare i
pozzi, sia col tenere lungamente aperte le porte e le finestre, onde l’aria possa liberamente trascorrere per ogni dove e seco portare via ogni germe di corruzione. Cautela indispensabile si è il non vivere intasati entro ristrette abitazioni. Non v’ha circostanza che più validamente contribuisca a diffondere il cholera, dello stare stivati
in angusti abituri. Per questa stessa ragione si schivino i luoghi ove l’aere è contaminato dal respiro e dalle esalazioni di molte persone.
Al medesimo fine di distruggere e disperdere la cagione materiale del cholera gioverà ogni mattino esporre all’aria libera le lenzuola, le coperte, i materassi, i piumini
che hanno servito di letto la notte, cambiare spesso la camicia e gli abiti, lavare frequentemente le mani e il volto e bagnarsi nell’acqua corrente, entro tinozzi, nel
mare, secondo i luoghi, i tempi, le stagioni. Quanto ai mezzi atti a predisporre il corpo a lottare efficacemente contro la cagione materiale del cholera, questi mezzi si riducono a governare la maniera del vivere in guisa che le funzioni tutte si mantengono il più possibile in reciproca armonia. Suprema legge sia la sobrietà, senza però
discostarsi di troppo dalla solita consuetudine; perciocchè se il vivere sobrio non
può sempre e in modo assoluto preservar tutti dal cholera, può non pertanto gagliardamente contribuire a far si che, pigliandolo, si affacci sotto meno gravi sembianze e
scevro da complicazioni saburrali e da altre affezioni inseparabili dagli eccessi nel
mangiare e nel bere. Per questa ragione gioverà astenersi dai cibi troppo grassi e
rancidi, dal formaggio troppo acre, far parco uso di melloni, citriuoli, insalata, carne affumicata o salata, delle ostriche ne’ mesi di Maggio, Giugno, Luglio e Agosto,
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da tutti i cibi in somma di digestione difficile, i quali, irritando lo stomaco e gl’intestini, possono accendere la disposizione al morbo, o inasprire il grado. Chi è avvezzo
all’uso del vino non se ne astenga. Lo stesso dicasi della birra, purchè sia di buona
qualità. Nuoce l’abuso, non l’uso moderato. Assolutamente nocivi sono i liquori alcoolizzati, ed ugualmente nocivo il dissetarsi largamente con bevande fredde o
ghiacciate, in ispecie a corpo riscaldato.
Al medesimo fine di mantenere l’attitudine del corpo a resistere alla cagione del
cholera, sia prudente cautela non esporsi senza necessità all’aria umida, alla pioggia, ai venti, alle subitanee variazioni di temperatura; anzi, all’ avanzare dell’ autunno e nell’ inverno, buon consiglio sarà coprire il ventre di flanella, usar calze o peduli di lana, e vestire di lana tutta la superficie del corpo. Strettissimo essendo il consenso tra la cute e la superficie interna dello stomaco e degl’intestini, allo squilibrarsi delle funzioni di quella, assai facilmente si squilibrano le funzioni di questi.
Sia regolato l’esercizio del corpo, ma non violento a muovere il sudore , onde dall’
improvviso sopprimersi di questo non vengano infreddature, diarree, dissenterie ed
altri modi di affezioni predisponenti allo svolgimento del cholera.
Il coraggio e la forza d’animo fortificano maravigliosamente il corpo contro gli assalti del cholera. Chi ha la prudenza per guida, discacci adunque ogni timore e si
conforti a pensare che il più degli uomini non ha per dono di natura l’attitudine a pigliarlo; che allo stadio di preludio è morbo quasi sicuramente sanabile, e che
quand’anche, negletto questo stadio, il cholera siasi avanzato con tutti i segni di gravezza e pericolo nel secondo stadio, ora mai si possiede un metodo di cura razionale
per vittoriosamente combatterlo. Tengasi in freno con molto studiole passioni, e una
religiosa rassegnazione alla Divina Provvidenza mantenga l’animo a quella giusta
calma, che valga ad allontanare la stolta temerarità, egualmente che gli esagerati timori del morbo. Le materie rigettate per vomito e per secesso dal malato siano il più
presto possibile diligentemente raccolte entro vasi appositi e recate al cesso, versandovi sopra larga copia di acqua. Preservativi mal sicuri sono i vapori d’acido nitrico
e di cloro. Se concentrati, quali si vorrebbero per distruggere la materia morbosa,
riescono insopportabili al respiro, anzi soffocativi; se allungati nell’aria
atmosferica,; non possono corrispondere al fine cui sono destinati. Tutto al più si
può impiegare i vapori di cloro per correggere la puzza, ove circostanze particolari
vietassero la pratica della libera ventilazione, sempre preferibile a qualunque maniera di profumo. Allo stesso fine possono servire i vapori di aceto, versando di questo
liquore sopra pezzi di mattone, di tegola, riscaldate, ma non al grado dell’ arroventamento; nel qual caso l’aceto, in vece di andare in vapore, dal calore rovente viene
scomposto.
Bando agli specifici di qualunque sorta; oltre che sono tutti inutili e bene spesso nocivi, inspirando una sicurezza fallace, muovono a trascurare altre cautele più utili, e
con ciò favoriscono indirettamente la dilatazione del morbo.
FINE
VENEZIA
____________________
MDCCCXXXV”
486
SERRAVALLE
Documento IX: disposizioni sul commercio di ortaggi e vegetali in genere nel Comune di Serravalle (29 settembre 1831)
“N° 1156 – La Deputazione Comunale di Serravalle
Inesecutivamente alle Superiori prescrizioni, e discipline emanate […] trova di prescrivere pubblicamente:
I Che resta assolutamente proibita in questa Comune la vendita dei Funghi qualunque sorte se non in piazza e previo esame del medico o del farmacista incaricato
dalla Commissione Sanitaria.
II Che la vendita ambulante di frutta, erbaggi, pesce, e qualunque altro commestibile prima delle ore dieci della mattina non possa eseguirsi altrimenti che sopra
questa pubblica Piazza, essendo permessa questa vendita per le Strade, e per le Contrade
soltanto dopo le suddette ore dieci
[…]
IV Che li contravventori alli precedenti tre Articoli saranno assoggettati alla immediata confisca dei generi rispettivi e sottraendo questi nocivi alla Salute Pubblica
saranno seppelliti, ed i contravventori assoggettati alle penalità di legge
La Commissione Sanitaria già istituita […]
Serravalle li 29 7bre 1831”.
Documento X: si indicano i locali della caserma di s. Giustina come
sede di possibile lazzaretto (4 ottobre 1831)
“N° 21419/1128 – Serravalle 4 8bre 1831:
Dagli esami da me fatti in codesto Capoluogo ho potuto personalmente accertarmi
che il Locale di S. Giustina può meglio di ogni altro servir ad uso di Lazzaretto pel
Cholera, senza nessun indugio sarà invitato il Medico Consulente Dip. Dott. Pezzoli
a recarsi a visitarlo in concorso con i S.S. Medici Condotti per concretare ogni più
congruo suo adattamento e tutte quelle riprove che valgono a vederlo qualificato all’
uso al quale si contempla. […] Per il Cimitero in cui tumulare i defunti di Cholera
potrà essere preso lo spazio di terreno attiguo ed isolato già da me visitato, se dalle
persone dell’arte sarà riconosciuto idoneo per l’odierna occorrenza…”.
Documento XI: censimento del personale sanitario esistente nel territorio (2 gennaio 1832)
“ Prospetto del Personale Sanitario esistente nel Comune di Serravalle
487
Numero
progressivo
2
3
Cognome e Nome del
personale
sanitario
Zandonella dr. Giuseppe
Fontebasso Pietro
De Zorzi Dr. Giuseppe
4
5
Dalle Coste Francesco
Cavezzani Dr. Luigi
6
Dal Mas Maria
7
8
9
10
11
Gai Lucia
De Nardi Giulia
Ballarin Giacomo
Piccin Antonio
Della Giustina Pellegrino
1
Qualità
Osservazioni
Medico condotto
Chirurgo condotto
Medico Chirurgo
avv.
Flebotomo avv.
Medico Chirurgo a
Fregona e Cappella
Mammana approvata
e condotta
Mammana tollerata
idem
Veterinario tollerato
idem
idem
Non essendo sufficiente
al disimpegno una sola
mammana si è dovuto
tolerarne altre due in
sua assistenza trascelte
fra le più esperte che
esercitavano anche prima dell’approvazione
della attuale mammana
condotta
Non essendo in loco veterinarj approvati si è dovuto tollerarne in esercizio, come li più intendenti, e li più pratici nell’arte veterinaria
Serravalle 2 Gennaio 1832”.
Documento XII: ripristino delle disposizioni sanitarie per il territorio
di Serravalle (16 agosto 1835)
“N° 2829 - Alla Deputazione Comunale di Serravalle – 16 agosto 1835:
Si raccomanda alle popolazioni di usare tutta la vigilanza affinchè specialmente nell’attuale stagione non siano poste in vendita frutte immature o guaste, né carni, facendo sul momento distruggere tutti quelli , che non lo fossero, […]. Dovrà pur essere usata una particolare attenzione per la nettezza delle case, delle strade, e dei canali, adattando, o proponendo indicatamente quei provvedimenti che all’uopo si considerano necessarij. Uno degli oggetti più interessanti per la Pubblica Salute è pure
quello delle Latrine. Prende lo sconforto di riconoscere, che non si presta minimamente a tenerle possibilmente espurgate, e che le materie vi si lasciano giacere per
anni e anni, cosicché ne derivano esalazioni insalubri e oltremodo nocive agli abitanti. Le Deputazioni vorranno agire su ciò colla maggiore sollecitudine […]. Anche
i locali dove si vendono le carni crude devono essere esaminati perché vi è motivo di
credere che non si abbia alcuna cura della loro nettezza. Le Deputazioni obbligheranno i Macellaj a far di tratto in tratto imbiancare, e a tener netto il pargimento di
sangue che vi si lascia agglomerare. Si rammenta che non devosi permettere la macerazione del Canape nei fasci rituali lungo le pubbliche strade. Anche i Letamaj
debbono essere tenuti lontani dalle abitazioni. Siccome ogni immondezza potrebbe
produrre delle esalazioni nocive, così è dovere delle Pubbliche Autorità di vigilare
perché sia impedito perché sia impedito per ciò ogni disordine”.
488
Documento XIII: nomina degli infermieri nel territorio di Serravalle
(22 settembre 1835)
“N. 965 - Alla Deputazione Comunale di Serravalle
Mediante la cooperazione di questi Parrochi si sono potuti rinvenire, oltre i due individui proposti nel Rapporto 15 corrente N. 846 altri otto Individui, … due femmine,
che potranno dedicarsi congiuntamente alli proposti in dipendenza de’ Cholerosi
dell’ Ospitale, e delle private Famiglie comprese nell’interno di questo principale
abitato, e gli altri sei in assistenza delle case private dei colmelli più lontani, non
cessando per altri questa Deputazione di adoperarsi con tutto l’impegno pel rinvenimento di qual maggior numero di infermieri che potranno rendersi necessarj in assistenza delle case private degli altri Colmelli distaccati dal Centro di questa città.
Questi otto individui sono li seguenti : [ sono annotati i due infermieri in più “ per
l’interno ” ]
Per l’interno: Barazza Francesca , De Bin d.a Zoccolet Giovanna
Per Cima Fadalto: Salvador Dom.ca d.a Cunial, De Savi Salvador Teresa
Per le Calloniche: Salvador Domenica d.a Martin , Salvador Giacoma
Per Basso Fadalto: Dal Tio Catterina ved.a Giuseppe, Dal Tio Giuseppe fu Giuseppe
Per Alto Nove: Piccin Pellegrino fu Francesco, Rizzo Cecilia ved.a Salvador
Serravalle, 22 7bre 1835”.
Documento XIV: nomina dei membri chiamati a comporre la Commissione di Beneficienza (30 settembre 1835)
“N° 3464 – Alla Deputazione Comunale di Serravalle
Sulle proposizioni di questo R. Commissario vennero nominati con Dec.o Deleg.o 28
corr. N. 21259/2283 gli infrascritti individui in qualità di Membri componenti le
Commissioni destinate a raccogliere le offerte pei Cholerosi, e a provvedere su tutto
ciò che fosse reclamato dagli eminenti riguardi della Pubblica Salute. Nell’avvertirne la Deput.ne , la si incarica di consegnar loro le annesse Lettere di nomina, non che
un esemplare delle istruz.i diramate coll’ ord.za 26 corr. N. 3421 , trascrivendo le necessarie copie , e le si raccomanderà di prestare alle Commissioni predette ogni possibile assistenza, e di farne a suo tempo dettagliato rapporto.
Serravalle, 30 7bre 1835
Segue l’elenco delle Commissioni”
Parrocchia di Serravalle
Ballarini D.n Gio: Preposito di S.a Maria Nova Presidente
Pellatis Nob. Girolamo Deputato
Todesco Pietro Possidente
489
Concino (?) Lorenzo
Pollini Giuseppe
Possidenti Questi due furono espressamente aggiunti
dalla Commissione composta dei primi tre,
onde abbiano a prestarsi come Funzionarij
di Sezione per gli oggetti sanitari a mende
dell'art.° VI delle predette istruzioni
Curazia di Fadalto
Scarpis D.n Gio: Batta : Curato, Presidente
Balbinot Ermenegildo
Marin Francesco
Possidenti
Piccin Steffano
Documento XV: la Deputazione chiede al parroco di Serravalle di trovare una stanza ad uso di piccolo ricovero nel centro della parrocchia
(11 ottobre 1835, sta in Archivio Parrocchiale Serravalle, b.42)
“Al Sig. Presidente della Pia Commissione della Parrocchia di Serravalle:
[…] Più di tutto interessa che la Commissione prenda gli opportuni concerti colla
Deputazione perché sia approntata possibilmente una Stanza nel Luogo più centrale
della Parrocchia onde accogliersi, e curarvi qualche infelice, che avesse bisogno per
la violenza del morbo. Allo zelo del Parroco non deve esser difficile rinvenire qualche caritatevole Famiglia che offra di somministrare uno, o due letti e qualche altro
mobile di poco valore per l’arredamento di detta Stanza, e se ciò non fosse possibile
si procurerà di convenire con qualche privato somministratore a condizione di pagare il prezzo nel caso che serve […]”.
Documento XVI: disposizioni per alberghi e pubblici locali (20 ottobre 1835)
“N° 3680 - Alla Deputazione Comunale di Serravalle:
Per ordine superiore devesi riconoscere immediatamente pegli Alberghi, ed i locali
qualunque, che servono pel ricovero notturno d’Individui d’ogni sorta, e specialmente gli Artigiani, ed Operaj, come Muratori, Fabbri, Carrettieri, Spazza Camini si ove
la possibilie salubrità, e devesi pur procurare di diminuire il numero delle persone
giacenti nelle stesse Camere.
Occorre poi rilevare se siovi in ogni Parrocchia un apposito Lavatojo Pubblico in situazione abbastanza lontana dall’Abitato per la disinfezione degli effetti adoperati
dai Cholerosi tanto negli Spedali, o Case di Soccorso, quanto nelle private Abitazioni.
Entro due giorni si attende cattegorico rapporto sopra tutti e due questi oggetti.
Dal Regio Commissariato Distrettuale
Serravalle li 20 8bre 1835”.
Risposta del Comune di Serravalle (26 ottobre 1835):
490
“N° 1096 – Alli Signori Regi Commissari Distretto di Serravalle
Gli Alberghi, ed i Locali, che servono per ricovero notturno di Individui di qualunque classe sono abbastanza salubri, e la nessuna affluenza né ordinaria, né straordinaria di artigia, di operaj, muratori, e simili Individui pernottanti in questa Comune,
non lascia temere della giacenza di più individui nella stessa stanza.
Perla disinfezione però degli effetti che potessero essere adoperati dai Cholerosi,
non potendo a ciò servire questo pubblico Lavatojo perché situato nel centro di questo principale abitato, saranno istituiti all’evenienza del cholera degli appositi Lavatoi in situazioni abbastanza lontane dall’abitato, non mancando in questa Comune le
località opportune a questo oggetto, tanto per l’Ospitale, che per le Case private.
Con questi cenni riceve evasione l’ordinanza urgente 20 corrente N. 3680 VII di codesto Regio Commissariato.
Serravalle li 26 8bre 1835”.
Documento XVII: si indica l’oratorio di san Giuseppe in campis come
deposito dei cadaveri dei colerosi (25 luglio 1836, sta in Archivio Parrocchiale Serravalle, b. 42)
“All’ Ill.mo Don Gio: Ballarini Preposto Parrochiale:
Essendo prescritto che li Cadaveri de’ morti di Cholera o di malattia sospetta debbano immediatamente essere trasportati in luogo apposito, e messi sotto osservanza
particolare fino all’ espiro del termine delle 24 ore, ed essendo stato destinato da
questa Deputazione pel Deposito di questi Cadaveri l’oratorio di S. Giuseppe nella
curazia di Sant’ Andrea, si invita codesto Parroco a disporre sotto sua responsabilità
per l’immediato trasporto del Cadavere della già defunta Anna Salvadori nella Chiesa suddetta, essendosi destinato alla sua custodia e sorveglianza Giuseppe Ballarin,
autorizzandosi la sua tumulazione soltanto dopo l’espiro del termine suddetto.
Serravalle, li 25 luglio 1835”.
CENEDA
Documento XVIII: il medico consulente del Dipartimento Giobatta
Pezzoli (vedi doc. X) è diffidato dalla Deputazione di Ceneda (16 maggio 1831)
“N.781.VII
La Deputazione Comunale di Ceneda
Diffida
Eccel. Gio Batta dr. Pezzoli in Ceneda
La Fogna sulla Via pubblica del Secchiaro della Casa di Lei abitata non è bene coperta e rende mal odore al vicinato.
491
Ella quindi viene diffidata a dover farla espurgare e bene coprire nelo termine di 3.
tre giorni dalla data della presente, fatto communicatoria di sospensione della stessa
a tutte di Lei spese.
Ceneda dall’Ufficio Distretto
Li 16 Maggio 1831”.
Documento XIX: si richiede l’istituzione della Commissione di Sanità
di Ceneda; si accenna ai lazzaretti di Cordignano e Pieve di Soligo (1
ottobre 1831)
“N° 3285/3286 - Alla Deputazione Comunale di Ceneda
[…]. Il Commissario chiede alla Deputazione Comunale di istituire una Commissione Sanitaria così come voluta dalla Superiorità; richiede quindi di segnalare le persone più idonee “ e siccome già d’allora fu ritenuto che le medesime persone potevano ritenersi anche a far parte d’una Commissione di Beneficenza ” chiede quindi un
elenco dei prescelti a formare parte della mista Commissione d’attivarsi in “ cosiddetto ” Circondario così da autorizzare la Deputazione a vagliare i Decreti di nomina per ciascun individuo; “ arrivando gli stessi ad assumere con premura e zelo
onde incontrare le superiori ricerche coll’ opere utili alla propria Patria ed a sé medesimi”. Questo per prevenire le disgrazie temute dal Cholera. La Commissione doveva farsi carico di redigere ogni settimana i risultati delle “ proprie premure ”, “
dimostrando coi dettagli le scoperte esistenti o non esistenti”. La Comune di Cordignano, e quella di Pieve di Soligo si ritengono ambe nel caso d’ istituire in via programmatica la pratica di un lazzaretto d’attivarsi probabilmente fuori dall’abitato, e
sentendo il medico condotto sulla convenienza più idonea del locale, facendo conoscere la sua estensione e capacità non senza indicare a chi appartenga la proprietà,
e quale spesa sarebbe da incontrarsi per renderlo fornito di tutto ciò che può occorrere all’uopo. Entro 48 ore, chiede, la Comune di Ceneda dovrà inviare “ un prospetto che dimostri la capacità, esistenza di effetti d’indumento, e tutto ciò che può
essere necessario per attivare i due lazzaretti nelle località stabilite.”.
Documento XX: si istituiscono i lazzaretti di Ceneda; norme sul trasporto dei malati e dei cadaveri. La Deputazione di Ceneda riconferma
la scelta fatta circa il luogo sul quale verrà costruito il nuovo cimitero
(9 ottobre 1831)
“N° 1530.VII […] Questa Deputazione trattò colli fratelli Posoco, e verbalmente
seco loro convenne per la cessione in affitto, ad uso di lazzaretto delle due stanze sopra il parlatorio grande dell’ ex convento del Gesù col parlatorio stesso pei convalescenti, e colla stanza d’ingresso sulla pubblica via all’ evenienza del Cholera Asiatico pel corrispettivo di 30:00 lire al mese pagabili di trimestre in trimestre.
Si assicurò, che la porzione di questo Civico Ospedale consistente nel nuovo fabbricato da attivarsi parimenti ad uso di lazzaretto al Meschio è capace di altri 16 letti
per malati e di altri 3 pei convalescenti. Verificò pure successivamente, che il Comune potrà fornire a questi due lazzaretti la scorta fino di 30 letti completi per cadauno,
492
ove siano per occorrere, al qual oggetto fino da passati giorni aveva già fatto battere, e ventilare i relativi effetti. Riguardo poi ai pochi altri arredi di non molta entità
necessari ai detti due lazzaretti sarà provveduto col prodotto della proposta questua.
Osserva soltanto, che prima della evenienza del male converrebbe far appositamente
costruire due lettighe pel trasporto degli ammalati dalle proprie abitazioni ai detti
lazzaretti, non trovandosene pronte di queste al caso di bisogno. Per la costruzione
delle quali attenderà l’ autorizzazione della spesa a carico del Comune, e la esatta
descrizione della loro forma per la maggiore comodità dell’ ammalato e de’ gestatori. In quanto finalmente al cimitero del colera non sa la Deputazione rinvenire luogo
più opportuno di quello già fissato pella costruzione del nuovo Cimitero sotto ogni
rapporto considerato, e quindi ritiene di valersene del medesimo all’occorenza. Resterà per altro il carico, onde poterne far uso, della costruzione di un’apposita barra
pel trasporto de’ Cadaveri per cui pure ne implora l’autorizzazione.
Ritiene la Scrivente di aver pel tal guisa provvisoriamente provveduto alla possibile
temuta evenienza del Colera. Non mancherà poi in seguito di chieder sempre l’intervento, ed il voto del Medico Consulente Distrettuale, e del Medico, e Chirurgo Condotti all’atto dell’effettiva attivazione de’Lazzaretti stessi, ed in tutto ciò che concerna ogni altra occorrente Medica, e Sanitaria disposizione. […]
Dall’Ufficio proprio Ceneda li 9 Ottobre 1831
Sergio De Pellegrinis”.
Documento XXI: esempio di relazione quindicinale di sanità. Il colera
non è ancora segnalato ma i lazzaretti risultano già istituiti (15 ottobre
1831)
“ N.1577.VII - All’Imperial Regio Commissariato Distrettuale di Ceneda
Oltre la distruzione del Granoturco al Liberali sequestrato, alla predisposizione dei
due Lazzaretti per l’evenienza del Colera, allo sviluppo del ravaglione [varicella
n.d.a.], e del vajuolo umano, ed alla attivazione della vaccinazione Generale,
de’quali oggetti tutti fu già distintamente raguagliato con appositi rapporti codesto
Regio Commissariato, non ha la Scrivente in questa prima quindicina di ottobre alcun altro oggetto ad indicare avvenuto in questo Comune, il quale abbia interessata
le visite della istituita Commissione Sanitaria. Tanto a scarico della prescritta relazione.
Dall’Ufficio proprio
Ceneda li 15 ottobre 1831
Sergio De Pellegrinis”.
Documento XXII: progetto di una lettiga per il trasporto dei colerosi
ideata dal dott. Pezzoli; ed altre istruzioni sulla “reconvalescenza” della malattia (16 ottobre 1831).
“N° 689 - Inclita Regia Delegazione Provinciale
Le misure prese dalla Deputazione Comunale di Ceneda, e sviluppate nel Commissariale Rapporto 9 corrente N: 3404, che rimesso mi viene sotto il N.22063/1222 del 14
493
fanno conoscere quanto valga la direzione, e cooperazione di un uomo dotto e riputato, qual è il Dottor Pezzoli, nel disporre opportune misure di Polizia Medica. Non
pare per altro, che siasi abbastanza avuto in contemplazione lo stato di reconvalescenza, se nel novero di 37 individui lo si riduce a 3 solamente. È noto che la reconvalescenza della malattia del Cholera Orientale è lunga, difficile e bisognevole d’ogni possibile riguardo. Ne avviene quindi che gl’Individui vi debbano essere trattenuti pel giro di più settimane, sicchè supposto che il numero degli attaccati ascendesse progressivamente e complessivamente a 100 è da ritenersi, che sul caso dell’ epidemia non ne avrebbero tre quarti di reconvalescenti, ed un quarto di infermi. Ciò
per altro non richiederebbe l’opera di nuove ricerche (almeno per mio sommesso parere) giacchè io ritengo che per l’articolo 29 delle pubblicate istruzioni non potrà
mai essere considerabile il numero di raccolti nell’ Ospizio, sicchè uno de’ contemplati locali possa bastare pegl’ infermi, e l’altro pei reconvalescenti; destinando a
quest’ultimo uso il maggiormente comodo e salubre. Quanto alla proposizione dell’allestimento di una Lettica e di una barra, io la trovo meritevole della Superiore
approvazione, considerando, che in qualunque caso non è male che una Città, avente
un Ospitale, si trovi di ciò provveduta. Intorno alla costruzione della Lettica per
l’apposito oggetto, io credo di averla adombrata nell’articolo 27 delle citate Istruzioni. A sviluppare maggiormente quei brevi cenni, io non posso che ripetere, quanto
rassegnai a Codesta I.R. Delegazione col mio rapporto 6 7bre p.p. N.556 . In esso io
faceva conoscere l’importanza, che nel trasporto degl’ Infermi non si disperdano per
via le materie evacuate per vomito e per seccesso , e che sia possibilmente mantenuto il valore vitale degl’Infermi. Io proponeva a tale oggetto una Lettica divisa in due
parti facilmente tralloro combinabili. Consisteva la prima in una specie di sedile
d’appoggio con fondo e poggiapiedi capace di contenere un mastelletto da pediluvio
caldo senapizzato. Il sedere era formato ad uso di seggetta il cui vaso poteva essere
applicato e lavato per di dietro. L’appoggio o schienale si elevava all’altezza totale
della lettica. Con facile meccanismo a questa prima parte si applicava il rimanente
della Lettica, e lo si assicurava, onde non potesse muoversi nel trasporto. Questa seconda parte era munita anteriormente di un recipiente destinato a raccogliere le materie, che fossero mandate per vomito, e lateralmente di finestrini acconci a prestare
tra via all’Infermo gli occorrenti soccorsi. Nel poggia piedi presso l’angolo esterno
di ciascun lato laterale venivano assicurate le due estremità di una cinghia o corda,
la quale a 3/5 circa della sua altezza attraversava un’ansa aderente al lato stesso,
per ricevere quindi la stanza occorrente al trasporto. Con quest’ultimo meccanismo
io contemplava di mantener sempre in situazione perpendicolare i vasi annessi alla
lettica nelle salite e discese, ripiegando al difetto dell’[vuoto] con una corda ferma o
mobile, come fosse meglio piacciuto, che si atteneva allo schienale della Lettica stessa, e veniva ad attraversare un anello infisso in una delle stanghe. La penetrazione
del Dott. Pezzoli potrà di leggeri concepirne il meccanismo, che è sempre difficile
esporre con chiarezza sufficiente, senza il soccorso della figura.
Treviso li 16 8bre 1831
Ghirlanda R. M. Prov.le”.
Documento XXIII: si richiede il ripristino dei lazzaretti attivati nel
1831; Giovanni Battista Pezzoli è nominato medico responsabile del
Circondario di Ceneda (24 agosto 1835)
494
“N° 1155 – Ceneda 24 Agosto 1835
Al Regio Commissario Distrettuale di Ceneda
Facendosi carico questa Deputazione delle Prescrizioni Superiori comunicate colla
Nota Commissariale 19 Andante N°2033 VII nell’importantissimo oggetto sanitario,
cui si riferiscono, rassegno quanto alle prime:
I Che i locali in questo capo-luogo destinabili ad uso di Ospitali straordinari sono quelli stessi che eransi destinati nel 1831 trovandosi detti nello stato
medesimo in cui si trovavano allora. E sono = Le due stanze sopra il Parlatorio grande nell’ ex convento del Gesù, col Parlatorio stesso e colle stanze
di ingresso sulla Pubblica strada = la porzione di questo Civico Ospedale al
Meschio consistente nel nuovo fabbricato = locali quali furono anche nella
detta epoca reputati convenienti e per la loro capacità, e per la loro distribuzione delle parti che li compongono, e per la loro situazione agli estremi
rispettivi dell’abitato. Siccome però la indicata parte di Ospedale ( a osservanza della prima indicata parte del Monastero che è vuota ) trovasi attualmente occupata da alcuni individui, così la Deputazione attiverà quanto prima gli opportuni concerti con la Direzione del Pio Luogo per ricevere i tali
individui o nell’Ospitale Vecchio o in altro locale che non sarà difficile rinvenire.
Riguardo al secondo, attesa l’esistenza dell’Ospitale, e nella impienza dello
stato mobiliare da esso possesso, come pur dell’economico di Lui stato, non
reputa la Deputazione che potrà spettarle di occuparsi della … delle cose
occorribili all’allestimento degli Ospitali dei quali si tratta, riservando a tal
uopo ogni ingerenza(?) per di Lei parte, dietro a quelle rispettanze che le
venissero comunicate.
Anco sulle ispezioni degli Infermieri cui si riferisce la terza, devesi ritenere
che le … ingerenze spetti alla Pia Direzione, ma qualora non fosse detta in
grado né di fornire, né di indicare tutte le persone approvimaticamente (sic),
o secondo le circostanze occorribili, vi si prodigherà in sussidio la Deputazione.
Propone bensì fino da questo punto a Medico di Sanità per questo Circondario il Dr.
Gio.Batta Pezzoli, ed assicura codesta Regia Carica di aver prudentemente ingionto
non solo al Medico, ma eziandio al Chirurgo Condotto prudentemente di vegliare ed
assicurarsi, affinchè le Farmacie siano per tempo provvedute dei medicinali che più
sono in caso e si adoperano nella cura del temuto morbo”.
Documento XXIV: nomina degli infermieri per i lazzaretti di Ceneda
(29 agosto 1835)
“N° 1155 – Nell’ufficio della Comunale Deputazione di Ceneda, questo li 29 agosto
1835
Presenti li suddetti Deputati:
Nob. Giovanni Antonio Lotti
Nob. PierAntonio …
Si sono presentati:
Il Medico Fisico Dr. Gio.Batta Pezzoli Direttore di questo Civico Ospitale
Il Medico Fisico Dr. Gio.Batta Fontebasso Medico Condotto
495
Il Medico Fisico e Chirurgo condotto Dr. Domenico Bizzoni
[…]
Due essendo gli Ospitali predisposti per il detto caso, l’uno nel Locale dell’Ospitale
Civile al Meschio, l’altro nel Convento delle ex-monache del Gesù, tutti gli intervenuti convennero nel parere che per cadauno dei detti ospitali occorrer possano numero tre infermieri Maschij, ed altrettante Femmine.
Fatte quindi le dovute indagini si determinarono a proporre come infermieri:
Per l’Ospitale al Meschio
Ghello Gio.Batta
Dal Bo Tiziano
Peterle Andrea
Sant Elisabetta
Rinaldi Giovanna
De Martin Catterina
Per l’Ospitale al Gesù
S.Elpidio Giovanni
Dota Giovanni
Sartori Andrea, o Marcon, detto Vidot Domenico
(sic)
Bibanel Marta
Padarnello Maria
Marcon detta Vidot Catterina
[…]”.
Documento XXV: problemi nella riattivazione del lazzaretto all’exconvento del Gesù (29 agosto 1835)
“N°.1155 – Nell’Ufficio della Comunale Deputazione di Ceneda, questo li 29 agosto
1835
[…]. In seguito all’invito ripassatogli da questo Ufficio portante la data 24 andante
ed il N. 1155 è comparso il Sig. Gio: Batta Posocco fu Bernardo di questa Città utente attuale del Convento delle ex – monache del Gesù. Fu richiamato alla conoscenza
del patto verbale seguito tra esso e li di lui Fratelli nell’ 8bre 1831, per cui all’ evenienza del Colera Asiatico eransi obbligati di cedere al Comune per uso di Lazzaretto, contro il corrispettivo mensile di Austriache Lire 30:00 tanto le due stanze sopra
il Parlatorio grande pei convalescenti, e colle stanze di ingresso sulla pubblica via.
E gli venne pur fatto conoscere che in obbedienza a superiori disposizioni, e per il
caso che il detto morbo prendesse piede in queste contrade, fin qui preservate, dovendosi provvedere nel modo stesso che era stato ordinato nel detto anno 1831, sia
pur predisposto il lazzaretto nei locali sopraindicati. Dietro a tali conoscenze il Posocco disse: che il convento di cui si tratta, comunque da esso abitato, non è da lui
presentemente disponibile, mentre non venne sin ora formalmente diviso cogli altri
Fratelli, e stante giudiziaria pendenza in punto di divisione, venne affidata mediate
Decreto Pretorio la amministrazione al fratello Bernardino per ciò che concerne alla
contingibile di lui parte è disposto a venerare le ordinazioni della Superiorità, ma
nello opposto stato di cose non è in grado di prestare … positivi, ed assoluti. Oltre
alla siffata Indicazione dell’Amministratore, indicò pure che sono cointeressate nella
mentovata giudiziaria pendente le di lui sorelle Anna Maria ex Monaca qui domiciliata, e Margherita moglie di Antoniazzi di … , non avendo più alcun interesse l’altra
496
di lui sorella, Maria moglie di Sebastiano Maso di Fregona, delle cui vazioni(?) dichiarò essere divenuto cessionario egli stesso. […]”.
Documento XXVI: Bernardino Posocco, in qualità di amministratore,
concede i locali del monastero del Gesù (31 agosto 1835)
“N°.1155 - All’Ufficio della Comunale Deputazione di Ceneda, questo li 31 Agosto
1835
Presenti li Ill. Deputati Nobili Gio.Antonio Lotti, PierAntonio…, e Sig. Gio.Batta Segatti
Comparso in ordine all’Invito di jeri sotto questo numero il S. Bernardino Posocco fu
Bernardo qui domiciliato, venne a lui fatto conoscere il patto verbale seguito nell’Ottobre dell’anno 1831 colli Fratelli Posocco allora comproprietari del Convento delle
ex-monache del Gesù, per cui all’evenienza del Cholera Asiatico, eransi obbligati di
cedere al Comune per uso di Lazzaretto contro un compenso mensile di Austriache
Lire 30:00 le due stanze sopra il Parlatorio Grande colla stanza d’ingresso sulla via
pubblica; gli venne pur fatto conoscere, che in obbedienza a Superiori Disposizioni,
e per il caso d’invenzione del detto morbo, dovendosi provvedere nel modo stesso
che era stato ordinato nel detto anno 1831; sta pur predisposto il Lazzaretto nei locali sopraindicati; gli venne fatto conoscere ancora, che rappresentato tutto ciò al di
lui fratello Gio.Batta utente attuale del mentovato Convento, dichiarò nel Protocollo
29 spirante, che perciò che convenne alle contingibili di lui parti è disposto di venerare le Disposizioni Superiori, ma fece riflettere che pende una civile controversia
sulle divisioni dello stesso convento, e che stante una tale pendenza fu affidato per
Decreto Pretorio la amministrazione ad esso comparente Bernardino. Datagli quindi
lettura dell’atto Deputativo 9 8bre 1831 N°1530 in quale vi è il patto verbale allora
seguito, nonché del verbale in cui sono contenute le dichiarazioni di suo fratello
Gio.Batta, gli si fece riflettere la necessità di aderire anche col di lui cante(?) e nella
indicata figura di Amministratore giudiziale.
Il S. Bernardino Posocco dietro alle promesse compiute, dichiarò nella di lui figura
di Amministratore, di non opporsi all’effetto di quelle misure, che fossero per adottarsi in ordine al patto verbale seguito con questa Comunale Deputazione nell’ottobre 1831 per assoggettare a Lazzaretto nel caso di invasione del Cholera Asiatico le
stanze sopra indicate nel Convento del Gesù, contro compenso mensile Austriache
Lire 30:00 trenta.
Firmato […]”.
Documento XXVII: esposizione del SS.mo Sacramento (26 giugno
1836)
“Alla Deputazione amministrativa della Città di Ceneda:
non solo il luminoso esempio di qualche altro capodistretto, e di alcune parrocchie
numerose soggette alla spirituale giurisdizione del nostro Vescovo, ma più ancora un
fervoratissimo zelo de’ nostri cittadini fece sì, che l’Ufficio scrivente unito al parere e
all’ istanza della Fabbriceria ottenuto abbia dall’ Ill.o Rev.o Nostro Prelato l’ordine
espresso di dar principio ad un Triduo coll’ esposizione del SS.o Sacramento, nella
497
Cattedrale per il doppio oggetto, e di ringraziare il Signore di aver sospeso li flagello del Cholera Morbus e per supplicarlo a voler sempre più allontanarlo dalle nostre
contrade. Li giorni fissati sono quelli di Lunedì, Martedì e Mercoledì 27, 28, 29
corr., ne’ quali si darà principio alle ore 7 precise della sera. Nell’atto poi, in cui si
pregia questo Uff. Parr.e di rendere avvertita questa Spettabile Deputazione delle
prese Superiori disposizioni la si invita a voler possibilmente col suo personale intervento unire il proprio ai voti di tutti i Cenedesi, e compiacersene in quel tempo di dispensar in modo le cose per il maggior concorso di popolo, che tutte le botteghe, e i
pubblici Uffici siano chiusi durante la Sacra Esposizione come si è praticato nel dì
della generale Processione alla Chiesa di San Rocco nostro difensore.
Dall’Ufficio Parrocchiale li 26 Giugno 1836”.
Documento XXVIII: processione alla chiesa di s. Rocco (22 luglio
1836)
“Alla Spettabile Deputazione Amministrativa della Città di Ceneda
Sul declinare del mese di Marzo p.p. con generale sorpresa di tutte le Venete Provincie, anche in questa nostra Città, che per l’amena sua situazione si poteva chiamarsi
il Tempio della Salute, si sviluppò improvvisamente la malattia dominante del Cholera Morbus. Infieriva il male non ancora conosciuto dall’arte medica, che quindi a
buon diritto può chiamarsi vero Flagello di Dio, al di cui fermo, l’unico ripiego furono ritenute le pubbliche preci. In tale sinistra emergenza ordinò M.s Vescovo che nel
dì 25 Marzo, giorno dell’ Assunzione di Maria Vergine Santissima, fosse prevenuto
nelle debite forme il popolo di Ceneda, che dopo il vespero si trovasse raccolto nella
nuova Cattedrale, per da di là inviarsi processualmente al Tempio di San Rocco Santo, sotto la cui protezione viene ascritta questa nostra Città, liberata con tal mezzo
fin’altra epoca più remota dalla pestilenza che menava stragi, e rovine in tutti questi
d’intorni, e per cui la Città stessa fece voto solenne di visitare processualmente in
ciascun anno la Chiesa ormai ridotta ad altra forma dal Benemerito nostro Concittadino, in ringraziamento di sì grande beneficio. Quanto sia stata numerosa, ordinata
ed edificante la processione di quel giorno, la Deputazione stessa può farne testimonianza e non è falso congetturare, che viva fosse la fede de’ cenedesi e validissima
l’intercessione del nostro Protettore che sul fatto stesso cessò il flagello, né mai più
ricomparve. Ciò nulla meno, … Ceneda possa gloriarsi di aver veduto per così dire
il miracolo ed esaudito col mezzo del suo Intercesso il suo voto, pure in un momento
sì terribile, e spaventoso, in cui sembra essere inesorabile il Signore, perché questa
malattia, la quale ne’ suoi principi coglieva soltanto li poveri, e disordinati, ora non
la risparmia i ricchi, e da quelli ancora che viveva con tutta riserva, fatti tutti successi e tuttora esistenti in molti capidistretti anche in questa nostra Provincia, non si
deve cessare dalla preghiera la quale deve contemplare il duplice oggetto, prima di
rinovacione di grazie per la liberazione dal morbo, secondariamente per innalzare al
Signore, sempre a mezzo del nostro validissimo Intercessore, protettore e Patrono
San Rocco nuove suppliche, per non essere Ceneda ascritta nel numero di quelle città, le quali dopo essersi portate al Tempio per ringraziare il Signore della sospensione del flagello, ora sono nella necessità di stare sempre a piè degli altari per venir
meno alla paura di quello stesso nemico, ma che mena stragi molto maggiori nella
misera umanità ormai avvilita venendo al campo con forza ed armi più che supplica498
te. Egli è perciò che M.s Vescovo animato da vero zelo apostolico e vivamente interessato per la pubblica salute ha disposto, che dom. pross. vent. sarà lì 24 Luglio, col
solito metodo della prima processione seguita nel dì 25 Marzo abbia ad aver luogo
una seconda processione, che avrà il suo inviamento verso le ore 6 della sera del che
a mezzo dell’incaricato sottoscritto ne mette per buona regola uffiziosamente edotta
questa Spettabile Deputazione, affinchè come lo fece nella prima così anche in questa seconda processione vogliano li Religiosi e Pii Individui che la compongono, unire personalmente i loro voti a quelli di tutti i loro amministrati e disporre in modo le
cose, che durante la Sacra Funzione tutti li pubblici esercizi sian chiusi, levando così
ogni ostacolo di tutti quelli, che per la necessaria prestazione del loro servizio, intendessero esonerarsi dall’ intervenirvi. Ritiene il sottoscritto che sarà di aggradimento alla Deputazione l’ordine emanato dal Superiore Ecclesiastico, e che in quanto la concerne darà sempre più segni luminosi del loro interessamento.
Dall’Ufficio Parrochiale di Ceneda li 22 luglio 1836
Don Antonio Arciprete Fabris – Curato della Cattedrale”.
Un’altra processione al tempio di s. Rocco si avrà il giorno di
domenica 6 novembre dello stesso anno.
Documento XXIX: si indicano i parroci come personale di sostegno
per i primi soccorsi (22 luglio 1836)
“N° 16398/2596 – Treviso li 22 luglio 1836
Alla Deputazione Comunale di Ceneda
La sempre maggior estensione della malattia di Cholera in questa provincia e la
scarsezza del personale sanitario in non pochi Comuni poveri rendono ognor più indispensabile negli Individui che vengono attaccati dal morbo di ricorrere prontamente a quei semplici rimedi che vennero già suggeriti coll’avviso al popolo diramatosi
nel decorso anno onde ostare alla maggior forza del male finanche giunge il medico
curante. Per tale oggetto si interessarono tutti gli Ordinariati a voler ingiungere ai
S.ri Parrochi di presentarsi nei luoghi meno provveduti di medica assistenza soccorrendo i malati al primo manifestarsi del morbo col metodo indicato nell’ avviso accennato di sopra. Ma a questo fine assai bene possono e debbono giovare le Commissioni di Mutuo Soccorso ponendosi in accordo opportuno con i S.ri Parrochi massime nelle località prive di farmacie e di medico; nelle quali sarà quindi utile che
vengano i Parrochi stessi provveduti di que’ più semplici e pochi medicinali che bastano se non a vincere almeno a fermare l’impeto primo del morbo”.
Documento XXX: l’ospedale è senza infermieri (29 luglio 1836)
“N°. 2038 - Alla Deputazione Comunale di Ceneda – Urgente:
Osservando con dispiacere che il morbo dominante vada aumentando di giorno in
giorno in questa città, il sottoscritto non può dispensarsi da raccomandare a cod.a
zelante Deputazione quanto occorra perché l’ Ospitale dei Cholerosi sia provveduto
almeno di un infermiere per il caso che qualche povero trasportato nel med.o non gli
499
abbia a mancare l’occorrente servigio, sarà perciò opportuno di prendere inteligenza
colla Benemerita Commissione di Mutuo Soccorso e per l’istituzione dell’infermiere
e perché nelle presenti angustie spieghi il conosciuto suo zelo onde porsi in grado di
fornire qualche fondo pel caso di bisogno che può succedere di momento in momento. Sarà gradito un cenno sull’operato”.
Documento XXXI: Te Deum di ringraziamento (29 ottobre 1836)
“Per ordine dell’ Ill.mo e Rev.mo Monsignor Vescovo domani verrà cantato un solenne
Te Deum in rendimento di grazie al Signore per la cessazione del Cholera Morbus.
Avrà luogo pur anco l’ esposizione del SS.mo Sacramento e darà la Benedizione Mons.
Vescovo. Si previene quindi questa Deputazione Comunale, che la Sacra Funzione
avrà incominciamento alle ore 3 ½ pomeridiane.
Dalla Cattedrale di Ceneda, li 29 ottobre 1836”.
Documento XXXII: processione di ringraziamento al tempio di s.
Rocco per la cessazione del morbo (5 novembre 1836)
“Alla Deputazione Comunale di Ceneda
Ringraziato il Signore Domenica p.p. col canto dell’Inno Ambrosiano per la cessazione del Cholera Morbus, Monsignor nostro Vescovo diede ordine che Domani 6
9bre corrente sia fatta una solenne Processione alla Chiesa di S. Rocco, che, dopo il
Dator delle Grazie, deve essere stato il nostro Intercessore, anzi il nostro Protettore
nelle cessate sciagure. Si previene quindi questa Deputazione Comunale che la Processione avrà il suo incominciamento subito dopo il Vespero, e sarà circa le ore 3 pomeridiane. Il sottoscritto per altro si impegna, un quarto d’ora prima di spedir persona apposita per renderla avvertita dell’ora precisa.
Dalla Cattedrale di Ceneda, li 5 9bre 1836”.
500
Bibliografia essenziale
La bibliografia sull’epidemia di colera degli anni 1830-1835 è
molto vasta, così come quella sulle successive ondate epidemiche. Ci
limitiamo pertanto a fornire solo una piccola scelta.
A. Bianchi, Istruzione ad uso del popolo circa il regime di vita onde preservarsi dal colera-morbo, i soccorsi da presentarsi a coloro che ne venissero attaccati ed il modo di assisterli, Venezia 1835
M. Bufalini, Intorno alla colera e alle malattie epidemiche e contagiose:
pensieri, Venezia 1835
G. L. Cadonici, Instruzione o trattato sulla malattia del colera morbus o
cholera morbus sua indole, sintomi che l’accompagnano, cose da
escludersi, Venezia 1831
G. T. Caffi, Cenni sulla irruzione del colera nelle provincie venete, Venezia
1837
A. Corradi, Annali delle epidemie occorse in Italia dalle prime memorie fino
al 1850, Bologna 1865
P. Curti, Sunto medico logico-critico sul cholera morbus ossia completa sposizione della colera asiatica, Napoli 1838
J.Dietz, Il cholera è un morbo epidemico o contagioso?, Roma 1835
G. Ferrario, Prospetto del cholera asiatico pel Regno Lombardo-Veneto per
l’anno 1836, pg 8 – 112; sta in Annuale astronomico di Milano per
l’anno 1838 , Milano 1837
G. M. A. Ferrus, Due trattati teorico-pratici ed una proposta di nuova classificazione del morbo colera : con la descrizione e la carta geografica
del viaggio da esso fatto in questi ultimi tre lustri, Venezia 1831
F. Lavagna, Saggio di osservazioni per servire alla storia del colera asiatico,
Genova 1836
P. Lichtenthal, Istruzioni sulla Colera pei non medici, Torino 1835
L. Martini, Della colera indica, Torino 1831
J. Monico, Esortazione del Cardinale Patriarca di Venezia a tutto il clero
delle città e diocesi sulle disposizioni da prendersi riguardo al cholera,
Venezia 1835
J.M. Moos, Del procedere e dei primi soccorsi nel morbo cholera, Milano
1835
M. Hasper, Sul colera epidemico, Trieste 1831
V. Ottaviani, Sui timori che il cholera morbus desta in Europa non che sulla
causa effettrice, sul metodo preservativo e curativo di questa malattia,
Milano 1831
F. Pacini, Del processo morboso del colera asiatico, del suo stadio di morte
apparente e della legge matematica da cui e regolato, Firenze 1880
501
A. Pazzini, Storia dell’Arte sanitaria , Torino 1974
G.B. Pezzoli, Mezzi di preservazione da adottarsi assai tempo prima dell'infezione cholerosa : istruzione popolare, Ceneda 1835
T. Rima, Sul colera: cenni critici, Venezia 1835
B. Sartori, Pagine di storia e di vita cenedese, Vittorio Veneto 1988
B. Sartori, A Ceneda con S. Tiziano vescovo e i suoi successori, Vittorio Veneto 2005
Società Medico – Chirurgica di Bologna (a cura di -), Memorie sul choléra –
morbus, Bologna 1836
J.M. Socquet, Osservazioni pratiche ed istruzioni famigliari sulla natura ed
il trattamento semplice e metodico del cholera-morbus asiatico raccolte e compilate in seno degli spedali, messe alla portata d'ogni intelligenza, Venezia 1835
C. Speranza, Sul cholera delle provincie venete nell’anno 1835 : osservazioni, Venezia 1836
G.Tommasini, Sul cholera-morbus: nozioni storiche e terapeutiche ed istruzioni sanitarie, Bologna 1833
E. von Vest, Il colera asiatico è egli contagioso?, Milano 1831
Gli Autori desiderano ringraziare Paola Da Grava e tutto il personale della
Biblioteca Civica di Vittorio Veneto per aver dato loro la possibilità di consultare i documenti su cui è basato questo piccolo studio.
502
Aspetti generali della Pellagra e specificità
del Territorio di Ceneda e Serravalle
Relazione presentata al Convegno da
Livio CABERLOTTO
La pellagra è una malattia dovuta ad un inadeguato apporto
alimentare di niacina (vitamina B3) e/o triptofano. Il termine
“pellagra” è ricavato dalle parole “pelle” e “agra”, quest’ultima come
sinonimo di ruvida, dura. Nelle pubblicazioni scientifiche dei secoli
XVIII e XIX si riscontrano diversi sinonimi di pellagra, quali scorbuto
italico, malattia delle 3 D (dermatite, diarrea, demenza), elefantiasi italica, mal della rosa, lebbra asturiense.
Le manifestazioni cliniche
La pellagra si presenta inizialmente come dermatite localizzata sulle zone cutanee esposte alla luce solare, come mani, piedi, gambe,
viso, collo, spesso a comparsa simmetrica sui lati del corpo: ha l’aspetto di un eritema, accompagnato da prurito, che gradualmente cronicizza sotto forma di placche dure, secche, iperpigmentate, nettamente demarcate dalla pelle integra. È frequentemente interessato anche l’apparato digerente, con glossite, stomatite, gastroenterite unita a diarrea,
che può comportare una grave disidratazione del soggetto colpito. È
colpito il sistema nervoso, specialmente nelle fasi avanzate della malattia, con tremore, assenza dei rifessi tendinei, irritabilità, ansia, depressione: nei casi più gravi si sviluppa una encefalopatia con demenza.
Fornisce una immagine molto suggestiva del pellagroso il medico mantovano Achille Sacchi in una relazione del 1878: “Venuta la
primavera, presenta, sulle parti della cute più esposta al sole, il dorso
delle mani e dei piedi scalzi, la faccia, il collo e la parte mediana del
petto sotto l’aperto sparato della camicia, un arrossamento con esfogliazione dell’epidermide e, più di rado, anche forme di alterazioni più
gravi, quali sono rilievi aspri, vescicole e screpolature. Corrispondenti
alterazioni caratteristiche si riproducono più tardi nella mucosa delle
labbra, della bocca e delle fauci, e sopravviene una diarrea profusa,
ostinata, esauriente. L’infermo fattosi sempre più debole non regge più
503
ormai alla menoma fatica, cammina barcollando, colle ginocchia semiflesse e curvo, movendo davanti a sé precipite il passo finché cade
boccone. La pelle di tutto il corpo fassi di color terreo e si lascia sollevare floscia in larghe pieghe, i muscoli si sono assottigliati e s’è fatta
magra o piuttosto emaciata tutta la persona, quando non abbia invece
acquistata una tumidezza cascante e subdiafana, perché il tessuto sottocutaneo si è infiltrito di sierosità1. (...) In molti casi di pellagra,
qualche volta fin dapprincipio, ordinariamente in appresso, si manifesta la pazzia, che può prorompere subitanea e vestire tutte le forme dal
gaio e loquace esaltamento maniaco alla più cupa e feroce lipemania
con tendenza al suicidio, all’incendio, all’omicidio; ma più di sovente
essa s’inizia con una ebetudine o tardità dell’intelligenza ed una apatica prostrazione d’animo, la quale diventa vera malinconia con alquanto stupore, e si esplica in parole ed atti deliranti di paura, di persecuzione o di una disperazione senza scampo”2.
L’epidemiologia
La malattia si presentò nel corso del secolo XVIII in Europa,
diffondendosi largamente nel secolo successivo, in concomitanza con
la diffusione del mais (granoturco, o sorgoturco), importato dal Sud
America, quale componente di base e spesso unica dell’alimentazione
dei popoli europei. L’Italia fu tra le nazioni più colpite, concentrandosi
soprattutto nelle regioni del Nord come Lombardia, Veneto ed Emilia,
dove vennero destinate vaste aree alla coltivazione del mais, in particolare per la sua ottima resa per ettaro, superiore a quella del frumento o
dell’orzo. Contestualmente nelle case contadine ci si alimentava con la
farina di mais, soprattutto sotto forma di polenta. La malattia scomparve dall’Italia nei primi decenni del Novecento, ma rimase presente in
alcune regioni dell’Europa fino alla seconda guerra mondiale. La malattia fino a qualche decennio fa ha continuato a rappresentare un pro1
C. Bertolotti, La pellagra, Bibliografia degli studi dal 1776 al 2005, Mantova
2009 pag. 8. Il brano riportato è in A. Sacchi, La Pellagra nella Provincia di Mantova, Relazione della Commissione Provinciale, Mantova 1878 (ristampato a cura di R.
Salvadori, Mantova 1966). Achille Sacchi (1827-1890), medico di Mantova, si occupò professionalmente di pellagra, che colpiva pesantemente gli agricoltori della pianura padana, ma si impegnò molto anche nella denuncia dell’inerzia dello Stato nel
prevenire la malattia. Da fervente patriota partecipò ai moti rivoluzionari del 1848 e
alla Repubblica Romana. In seguito fu costretto a vivere come esule in Svizzera, per
rientrare nel 1859 in Italia e partecipare alle battaglie risorgimentali accanto a Giuseppe Garibaldi.
2 Ibid.
504
blema sanitario e sociale per diversi paesi in Africa e in Asia. Negli
anni recenti si sono riscontrati solo casi sporadici, in zone rurali, specialmente in concomitanza con carestie o conflitti bellici, con la conseguente migrazione di intere popolazioni in cerca di rifugio3.
L’eziologia
La pellagra in ambito medico è stata considerata una malattia
infettiva o tossica fino all’inizio del Novecento. Nel 1917 Joseph Goldberger, con i suoi esperimenti, dimostrò un deficit nutrizionale come
causa della malattia, ma soltanto nel 1937 Conrad Elvehjem scoprì che
il fattore nutrizionale in grado di controllare la malattia era costituito
dalla niacina o acido nicotinico, una vitamina classificata come vitamina B3 o vitamina PP, sigla derivata da pellagra preventing, cioè che
previene la pellagra4. Le forme attive di niacina sono rappresentate da
NAD (nicotinamide adenina dinucleotide) e NADP (nicotinamide adenina dinucleotide fosfato). Nel sistema nutrizionale interviene anche il
triptofano, un aminoacido essenziale (non sintetizzabile nell’organismo
umano e pertanto assunto esclusivamente con la dieta): il triptofano, infatti, può dare origine, attraverso alcune reazioni chimiche, alla niacina
attraverso una via alternativa. Tuttavia anche il triptofano è scarsamente presente nel mais, mentre è abbondante in altri tipi di cereali e nelle
proteine animali5.
La niacina è presente in alimenti attualmente di largo impiego,
come carne, pesce, legumi, cereali; è prodotta inoltre direttamente nel3 Cfr. World Health Organization (a cura di), Pellagra and its prevention and control in major emergencies, Ginevra 2000. La pellagra ha avuto l’ultima recrudescenza
importante a livello mondiale nel 1990, quando si sono avuti 18.000 casi di pellagra
tra i rifugiati in Malawi, in conseguenza della guerra nel Mozambico, con punte di incidenza in alcuni campi per rifugiati superiori al 13%.
4 Conrad Arnold Elvehjem (1901-1962), biochimico americano, fece importanti
studi in campo nutrizionale. In particolare individuò nella niacina o acido nicotinico
la molecola in grado di guarire i cani affetti dalla malattia black tongue, simile alla
pellagra umana, provocata sperimentalmente negli animali con una dieta esclusiva di
mais. Le sue ricerche hanno tratto spunto dagli studi precedenti di Joseph Goldberger
(1874-1929), medico americano di origine ungherese, studioso delle patologie a carattere epidemico. A proposito della pellagra, dimostrò la sua associazione con l’alimentazione esclusiva a base di mais, e ne individuò la causa nella carenza di una vitamina del complesso B.
5 La dose attualmente raccomandata, sufficiente per prevenire la pellagra, è di 6,6
niacina equivalenti per 1000 Kcal. al giorno (1 niacina equivalente è pari a 1 mg di
niacina o 60 mg di triptofano). Sono alimenti ricchi in niacina il lievito di birra, la
crusca di frumento, il fegato, la carne di pollame in generale, il tonno, il salmone, il
caffè.
505
l’organismo a partire dal triptofano. Il latte contiene poca niacina,
come pure il riso, ma hanno entrambi proteine ad alto contenuto in triptofano, e pertanto un loro consumo anche esclusivo non produce mai la
pellagra. Il mais, al contrario, ha un minimo contenuto in triptofano e
un basso contenuto di niacina, presente in forma legata a peptidi o glucidi, biodisponibile solo per il 30% del totale.
Sui fattori nutrizionali del granoturco hanno un ruolo rilevante
anche i diversi trattamenti impiegati per la preparazione alimentare. La
biodisponibilità di niacina, infatti, può essere aumentata attraverso l’idrolisi della niacina legata, mediante una soluzione alcalina debole,
come avviene da molti secoli in America Centrale, dove il mais è fatto
preliminarmente macerare in idrossido di calcio. Tale approccio ha permesso, di fatto, di proteggere quella popolazione dalla pellagra, nonostante l’utilizzo esteso del mais come alimento. Un altro metodo per liberare la niacina legata è il calore, con la cottura. Al contrario, la degerminazione del mais, prima della molitura, riduce il contenuto di niacina e triptofano a valori circa la metà di quelli iniziali6.
Gli studi scientifici sulla pellagra
Le osservazioni scientifiche sulla malattia conobbero un notevole sviluppo in Italia, dalla seconda metà del secolo XVIII, anche se
la prima descrizione della malattia è comunemente attribuita al medico
spagnolo Gaspar Casal nel 1735, nella popolazione di Oviedo nelle
Asturie7. In Italia la prima osservazione pubblicata è opera di Francesco Frapolli, medico dell’Ospedale Maggiore di Milano, cui si deve anche la coniazione del nome pellagra8.
Diversi dei contributi scientifici che, tra la fine del secolo
XVIII e l’inizio del XIX, contribuirono a evidenziare gli aspetti epidemiologici, clinici ed eziologici della malattia, e la sua prevenzione,
6 Cfr. sull’argomento Horwitt MK, Harper AE, Henderson LM. Niacin-tryptophan relationships for evaluating niacin equivalents. Am J Clin Nutr. 1981;34:423427 e Carpenter KJ. The relationship of pellagra to corn and the low availability of
niacin in cereals. Experientia Suppl. 1983;44:197-222.
7 Gaspar Casal (1681-1759), medico spagnolo, esercitò la professione a Oviedo
nelle Asturie e successivamente a Madrid, come medico personale del Re di Spagna
Ferdinando IV. Nel 1762 venne pubblicata postuma la sua opera Historia Natural y
Médica del Principado de Asturias, in cui sono descritti per la prima volta i segni e
sintomi della pellagra.
8 Cfr. F. Frapolli, Animadversiones in morbum, vulgo pellagram, Milano 1771. Francesco Frapolli (1738-1773), medico laureato a Pavia e attivo all’Ospedale Maggiore
di Milano, descrisse la malattia e coniò il termine “pelagra”, successivamente modificato in pellagra.
506
comparirono in Veneto, come diretta conseguenza del riscontro quotidiano nella regione degli effetti devastanti della malattia. Infatti, l’autore del primo studio scientifico sistematico sulla pellagra pubblicato in
Italia, stampato nel 1815, è stato Francesco Luigi Fanzago, professore
all’Università di Padova, in un’epoca appunto in cui “la pellagra va facendo sventuratamente micidiali ed estesi progressi, massime in alcune delle venete provincie”9.
Fanzago, nello studio citato, ricorda di aver già pubblicato nel
1789 una ricerca sulla pellagra del territorio padovano, con l’intento di
“dimostrare coll’appoggio di sedici storie raccolte nel nostro civico
Spedale l’esistenza della pellagra in queste contrade, la quale credevasi allora soltanto endemica dell’Insubria”10. Nella stessa memoria
Fanzago identifica tre segni caratteristici della malattia: “Primo. La
scottatura dell’epidermide nelle parti esposte al sole. Secondo. La
somma debolezza di tutto il corpo, maggiore però nelle gambe, che in
altre parti. Terzo. Uno sconcerto, or piccolo, or grande nelle facoltà
dell’anima, che si palesa in varie guise, di cui ne sono altrettante prove le vertigini, i capogiri, la pusillanimità, lo sbalordimento, la stupidezza, la perdita della memoria, il delirio malinconico ed il maniaco”11. Fanzago afferma inoltre l’analogia delle sue osservazioni con
quelle descritte in precedenza da Gaetano Strambio in Lombardia12 e
9 F.L. Fanzago, Sulla pellagra, Padova 1815, Parte I, pag. VII. Francesco Luigi
Fanzago (1764-1836) fu un medico di Padova tra i più noti del suo tempo. Già nel
1801 ebbe la cattedra “ad practicam ordinariam medicinae” nell'Università di Padova,
per occupare successivamente, nel 1806, la cattedra di patologia e medicina legale, ridenominata in seguito come medicina forense e polizia medica. A Padova fu preside
della facoltà di Medicina dal 1828 al 1835 e rivestì anche la carica di Rettore della
stessa Università nell'anno accademico 1823-1824. Effettuò studi importanti su argomenti come la pellagra, la vaccinazione antivaiolosa, la tossicologia. Il suo libro Istitutiones pathologicae venne adottato come testo di studio in diverse università italiane. Assunse inoltre diversi incarichi pubblici di carattere sanitario nell’ambito del Regno Lombardo-Veneto. Tra le sue pubblicazioni sono da ricordare: Paralleli tra la
pellagra ed alcune malattie che più le rassomigliano, Padova 1792, Memoria storica
e ragionata sopra l'innesto del vajuolo vaccino, Padova 1801, Istruzioni pratiche generali sulle febbri dominanti, Padova 1806, Saggio sulle differenze essenziali delle
malattie universali, Padova 1809, Sulle virtù della digitale, Padova 1810, Istitutiones
pathologicae, Padova 1813, Sulla pellagra, Padova 1815, Istruzione catechistica sulla pellagra divisa in tre dialoghi, Venezia 1816.
10 Ivi, Parte I, pag. VIII. Si tratta della Memoria sopra la pellagra del territorio
padovano, Padova 1789, ristampata all’interno dell’opera Sulla pellagra, Padova
1815.
11 Ivi, Parte I, pag. 75.
12 Gaetano Strambio (1752-1831), medico, fu il direttore del primo ospedale dedicato allo studio e alla cura della pellagra, aperto a Legnano nel 1784. Con le sue osservazioni cercò di dimostrare la natura non infettiva della pellagra, la sua relazione
507
soprattutto con la cosiddetta “pellarina”, descritta da Jacopo Odoardi
nel Bellunese13.
Nella dissertazione “D’una spezie particolare di scorbuto” del
1776, Jacopo Odoardi, Protomedico della città di Belluno, chiama infatti “pellarina” la medesima malattia e la definisce endemica per le
zone alpine. L’Odoardi riferisce anche che il dott. Giuseppe Antonio
Pujatti, nella sua attività di Primario medico a Feltre, aveva già individuato alcuni casi di malattia, definendola scorbuto alpino14. Per Odoardi essa si presenta inizialmente come una macchia rotonda di colore
rossiccio scuro sul dorso delle mani, di solito in primavera, per scomparire in autunno e ricomparire nella primavera successiva. Compare e
ricompare per qualche anno, finché appare anche sui piedi e lungo le
gambe; subentra quindi una fase di screpolature e desquamazioni, donde il nome di pellarina; seguono poi le altre manifestazioni della malattia.
Nelle sue osservazioni Odoardi include anche una approssimativa valutazione statistica: “Sembra, che il maggior guasto che faccia un tal male sia nella Pieve di Lavazzo e dalla sinistra parte della
Piave, che divide per lo lungo questo distretto; minore per altro nella
Pieve di Castion che in quella di Limana e di S. Felice; e rispetto a
Feltre il sito delle maggiori ruine si è la Pieve di Arsiè e la a noi contermine Pieve di Sospiroi. Molto infestata parimenti n’è la contea di
Cesana. La gente più povera è quella, che ne va più soggetta. Credo
che la Pieve di Sedico, rispetto al numero degli abitanti, conti un micon le carenze alimentari e il carattere sistemico, non soltanto cutaneo, della malattia.
Nel 1789 l’ospedale venne chiuso, ma Gaetano Strambio poté continuare gli studi
presso l’Ospedale Maggiore di Milano, dove furono riservati alcuni posti letto per i
pellagrosi. Nel 1810 diventò Direttore Medico dello stesso Ospedale Maggiore. Negli
ultimi anni di vita continuò a denunciare il disinteresse pubblico verso le condizioni
sociali dei malati di pellagra. Le sue opere più importanti sono De pellagra, s.l. 1786,
De pellagra annus secundus, Milano 1787, De pellagra annus tertius, Milano 1789,
Dissertazioni di Gaetano Strambio sulla pellagra, Milano 1794.
13 Jacopo Odoardi (1725-1784) fu una singolare figura di medico bellunese, con
interessi che spaziavano dalla medicina veterinaria, come traduttore del Bourgelat
(Opere veterinarie del sig. Bourgelat tradotte da Jacopo Odoardi di Belluno, Belluno
1776) e come docente nella materia all’Università di Padova, alla paleontologia (De’
corpi marini che nel Feltrese distretto si trovano, Venezia 1767), alla letteratura. Sulla pellagra scrisse D'una spezie particolare di scorbuto, Venezia 1776 (ristampato in
F.L. Fanzago, Sulla pellagra, Padova 1815).
14 Cfr. V. Ruzza, Dizionario Biografico vittoriese e della Sinistra Piave, Vittorio
Veneto 1992, pag. 305. Giuseppe Antonio Pujatti (1701- 1760), medico nato a Sacile,
laureato a Padova, fu Primario Medico a Feltre a partire dal 1742. In seguito fu titolare di cattedra all’Università di Padova. Odoardi dedicò la sua dissertazione sulla pellagra al figlio di Pujatti, Anton-Gaetano, medico a Spilimbergo.
508
nor numero di ammalati dell’altre, se ne riscontrano parecchi in quelle
di Frusseda e di Alpago, e non va esente il capitaniato di Zoldo. Quello di Agordo, per quanto mi assicura il dotto e diligentissimo sig. dott.
Trivelli, non ha infermi di questa razza. Ve n’ha per altro in Cavrile situato oltre il nuovo lago di Alleghe soggetto al Cadore. In somma toltone il basso distretto di Agordo, non v’ha quasi in questa provincia, o
in quella di Feltre, villaggio, che non soffra un qualche esempio di tal
malattia”15. Odoardi include nella sua dissertazione anche una lettera
del 1774 dell’arciprete di Longarone Francesco Gabrieli, che attesta 47
malati di pellagra nella sua Pieve, abitata da 3.000 persone16.
La descrizione della malattia, da parte di Odoardi, è molto
dettagliata: “Codesto morbo non consiste da principio se non in un
semplice appannamento, ossia in una macchia di figura quasi rotonda,
che apparisce sul dorso di ambe le mani, delle quali occupa ora maggiore ora minore, di un color rossiccio scuro nell’incominciare, il quale va sempre più accostandosi al naturale nel finire lasciando soltanto
allora la cute un poco più liscia, e più lustra o rilucente. Cotesta macchia non suol recare le prime volte incomodo di sorte alcuna, toltone
un qualche leggiero prurito; e facendosi vedere di Marzo e di Aprile,
in Agosto ed in Settembre svanisce; quindi credono ed affermano di essere stati scotati dal sole. Al comparire della nuova stagione rinovellasi anche l’istesso giuoco annualmente, e d’ordinario nel terzo anno
fattasi la macchia un poco più grande, un poco più sensibile loro riesce parimente il prurito, né più riacquista la cute il suo quasi naturale
colore, senza che se ne sollevi in prima la epidermide, e squamisi a
grandi o picciole piazze; e di null’altro si lagnano quei, che patiscono
tale indisposizione. Nelle donne s’arrestano le loro scarse mensuali
purgazioni. Passato il terzo o quart’anno loro si deturpano i piedi nella stessa guisa delle mani, e quelle macchie sogliono estendersi in appresso lungo i fucili delle gambe. Le mani poi mostrano allora molte
crepature la maggior parte longitudinali, ed altre irregolarmente traversate, che il più delle volte fannosi vedere anche durante il verno, e
loro squamasi sempre più la cute, ciò che chiamano essi spellarsi,
d’onde il nome di pellarina dato a tale infermità. In questo tempo comunemente incominciano a querelarsi di debolezza, di oppressione,
ovvero anche di dolore di stomaco, ed hanno il più delle volte stitico il
ventre: alcuni per altro non si lamentano nè di nausee, nè d’inappeten15
J. Odoardi, D’una spezie particolare di scorbuto, Venezia 1776, in F.L. Fanzago, Sulla pellagra, Padova 1815, Parte I, pp. 15-16.
16 Ivi, Parte I, pp. 43-44.
509
ze, ma solo si querelano di qualche flatulenza, che li molesta, e durano
francamente alle fatiche consuete. Il polso è un po’ più tardo e più debole del naturale. Negli anni consecutivi le squame delle mani e dei
piedi s’ingrossano talvolta a segno da somigliare alle croste dei lebbrosi. Passa in seguito tal volta il male alla bocca, e spesso si gonfiano le gingive, e divengono fungose, ed il sangue ne spiccia facilmente:
a molti i denti fannosi neri, e loro cadono a pezzi; o compariscono sulla lingua e sulle labbra alcune afte, ora rossigne, ora nericcie, che acquistano indi talvolta la malizia degli ulceri, ed il fiato n’è puzzolente.
Rari sono quelli ai quali sopraggiunga la febbre: la maggior parte
continua ad avere il polso più tardo del naturale; sono deboli e di
mala voglia. Non ristà già qui la malattia, ma si suscita in seguito in
chi n’è attaccato una tristezza ed una timidità grandissima e quasi
continua; divengono torpidi, fiacchi, inabili alla fatica ed a qualunque
lavoro, e patiscono frequentissime vertigini. Alla timidezza ed ai capogiri succede negli anni avvenire la confusione della mente, ed in fine
diventano pazzi, la maggior parte melancolici, pochissimi furiosi, fintantochè passati ancora cinque o sei anni, o consunti o quasi atrofici,
o presi da una febbriciuola etica, e talvolta da febbre putrida, finalmente sen muojono”17.
La terapia consigliata da Odoardi consiste nell’uso quotidiano
di siero di capra o di vacca e dell’infuso di alcune erbe: “il radicchio,
l’endivia, il sonco, il tarassaco, l’acetosa, l’acetosella, la beccabunga
vera e la spuria”18. Secondo Odoardi, la causa della pellagra è l’abuso
di alimenti farinosi non fermentati e di latte, che contengono glutine, il
quale genera a sua volta la cosiddetta acrimonia acida o agra, che infetta il sangue19.
Nello studio “Sulla pellagra”, Francesco Luigi Fanzago individua come fattore di sviluppo della malattia l’introduzione e la coltivazione del granoturco, avvenuta all’inizio del Settecento, divenuto il
principale alimento dei contadini e considerato poco nutriente rispetto
al frumento. Fanzago tuttavia lo ritiene non la causa principale, ma una
concausa: gli abitanti delle città, infatti, non si ammalano di pellagra
17
18
19
Ivi, Parte I, pp. 11-13.
Ivi, Parte I, pag. 33.
Per acrimonia, nella medicina dell’epoca, si intendeva la cattiva mescolanza
dei quattro umori fondamentali dell’organismo, secondo la dottrina di Ippocrate e Galeno, e cioè il sangue, la bile gialla, la bile nera e la flemma. Per tale teoria, lo stato di
salute è dovuto alla giusta proporzione degli umori, sia qualitativa che quantitativa,
nonché dalla loro perfetta mescolanza. La malattia si manifesta invece quando un
umore prevale sugli altri, alterando l’equilibrio tra essi (pletora) oppure quando la
loro mescolanza non è buona (acrimonia).
510
come i contadini, perché aggiungono nella loro alimentazione altri alimenti nutrienti. Inoltre egli ritiene che nella medesima famiglia non
tutti si ammalano a causa di una diversa predisposizione individuale,
della diversa costituzione corporea e di malattie concomitanti.
Reputa molto rilevante per la malattia il deterioramento delle
condizioni economiche dei contadini, sottoposti al proprietario o al fittavolo dei fondi agricoli, verso il quale si esprime con estrema durezza:
“Una terza classe di gente col sol maneggio, e colla speculazione lucra sulle fatiche del villico, pregiudicando per lo più il proprietario, e
facendo sempre la rovina del contadino. Quest’ultimo non è calcolato,
che qual meccanico strumento. È un rastrello, un vomere, un aratro.
Quanto non è migliore la condizione delle bestie da lavoro! Il fittajuolo ha un maggior interesse per esse, e le fa ben governare e nutrire,
perchè oltre il lavoro in esse contempla un’altra sorgente di guadagno.
Non è però maraviglia, se le stalle sono più comode, e tenute più monde dei villerecci abituri. Altro non resta al misero lavoratore, che una
scarsa misurata porzione di polenta, e poca dose di languido vino, oltre l’avvilimento che malgrado la sua rozzezza non può non sentire, di
spargere abbondanti sudori per coltivar una terra ed una vite, ch’è ingrata a lui solo”20.
Il trattamento della pellagra, per Fanzago, deve comprendere
interventi di carattere medico, ma consiste soprattutto nel cambiare le
condizioni di vita e di alimentazione dei malati. Infatti, egli parla “del
trattamento di quest’infelici, il quale non è forse tanto difficile da proporsi, quanto malagevole da eseguirsi. Parmi che lo scopo primario
dovrebbe più consistere nel preservarli da questo morbo, che nel curarli21. (…) Infiniti ostacoli si oppongono al buon regime, ed alla conservazione della loro salute22. (...) (I villani) fanno mille volte più caso
della salute delle lor bestie, che della propria. Negli anni poi di carestia, se restano sprovvisti di alimento, con quai mezzi se ne possono
procacciare? I fittajuoli, o i padroni non hanno tutti l’umanità di somministrare il necessario a questa gente, che è finalmente un meccanico
stromento del loro interesse. Devono questi miserabili per lo più contentarsi di poco grano d’inferior qualità e bere dell’acqua, o del vino
debole spesso guasto. Allora quando la malattia comincia a dar segni
della sua comparsa, manifestandosi colla debolezza, colle vertigini, o
sì vero col solo vizio della pelle, se i contadini fossero tostamente ri20
21
22
F.L. Fanzago, Sulla pellagra … cit., Parte II, pag. 23.
Ivi, Parte I, pag. 195.
Ivi, Parte I, pag. 196.
511
mossi dalla campagna e tenuti con un metodo conveniente, si distruggerebbe sin dapprincipio la morbosa radice. Sollevati dal peso delle
fatiche, difesi dall’azione dei raggi solari, e provveduti di un sano e vigoroso alimento, condizione la più importante, in poco tempo si potriano ristabilire, e si allontanerebbe così senza gran pena il pericolo
di una grave malattia. Egli è men male di perdere il lavoro di un mese,
che perdere un individuo”23.
È significativo oggi rilevare l’importanza che un illustre cattedratico dell’Università patavina attribuisce alla prevenzione, già all’inizio del XIX secolo: “Per togliere dalla radice questa malattia il vero
ed unico progetto consiste nel cercare di prevenirla. A che giova d’istituire uno Spedale apposito per ricoverare i pellagrosi, massime se si
tratta di un numero grandissimo, com’è presentemente in alcune provincie? A che giova il tentare e ritentare varie maniere di cura e di rimedj negli Spedali civili, se già li poveri contadini entrano in queste
case di umanità sol quando la malattia è moltissimo avanzata, e di ordinario non più suscettibile di guarigione?”24.
Fanzago propone che ai primi sintomi il pellagroso sia tolto
dal lavoro e gli sia dato un sussidio.
Poi continua: “Questo provvedimento sarà fuor di dubbio più
utile, che l’erezione di uno Spedale25. (…) Un pellagroso confinato in
uno Spedale, circondato da tanti altri infelici, benché abbia ancora libere le sue facoltà intellettuali, siccome è sempre compreso da un minor o maggior grado di affezione ipocondriaca, va incontro ad un
maggior abbattimento di spirito fatale nella sua malattia. È verisimile,
che per questa ragione principalmente poco o nulla abbia contribuito
all’estirpazione della pellagra in Lombardia l’apposita erezione di uno
Spedale nella villa di Legnaro (Sic! In realtà Legnano), in cui si potè
bensì raccogliere un buon numero d’istruttive osservazioni, ma il risultamento rispetto alla cura fu piuttosto negativo”26.
Nel frattempo, nel 1810, un medico di Treviso, Giambattista
Marzari, aveva pubblicato il “Saggio medico-politico sulla pellagra, o
scorbuto italico”, in cui riconosceva che la causa principale della malattia consisteva nell’uso di un alimento sbagliato, il granoturco, pur
non attribuendo, come Fanzago, particolare importanza alle condizioni
economiche e sociali della classe contadina.
23
24
25
26
512
Ivi, Parte I, pp. 196-197.
Ivi, Parte II, pag. 49.
Ivi, Parte II, pag. 65.
Ibid.
La trattazione complessiva del problema fatta da Marzari,
maturata in un contesto di grande affinità con le idee illuministiche,
rivela una metodologia scientifica inaspettata per la sua epoca, quando
molte osservazioni mediche erano ancora ampiamente empiriche27.
Marzari afferma di osservare la malattia da 20 anni, riscontrando che “la Pellagra è presentemente una malattia endemica dell’alta Italia28. (…) Fra le croniche malattie dei contadini essa è a quest’ora divenuta la più frequente, la più lunga, e la più micidiale, quantunque sia la sola, come si vedrà, che possa esser prevenuta con sicurezza; che possa essere sempre guarita a principio; e che presenti lusinghe fondate anche in progresso, in cui si crede incurabile, se avverrà il giorno in cui gli sfortunati infermi siano provvisti di tutt’i soccorsi, de’quali abbisognano”29.
Per Marzari “nella città questa malattia non esiste, nè v’è conosciuta ancora30. (…) Gli abitanti poi di queste campagne istesse non
sono egualmente soggetti alla malattia, come si potrebbe credere; perchè in esse ella non ha altre vittime, che i miserabili agricoltori, e
quelli che se del tutto miserabili non sono, pure com’essi e vivono, e si
alimentano. Io non ho mai veduto, anzi non ho mai inteso, che il parroco, l’agente, il notabile, che vivono in campagna coi pellagrosi, che
27 I. Sartor, Dalla Pietà alla Sanità pubblica: l’Ospedale Civile di Treviso nei secoli XIX-XX, in I. Sartor (a cura di), S. Maria dei Battuti di Treviso, L’Ospedal Grando secc. XII-XX, Treviso 2010. Giambattista Marzari (1755-1827), medico trevigiano,
laureato all’Università di Padova, fu il primo Presidente dell’Ateneo di Treviso. Questo sodalizio costituì, nella prima metà dell’Ottocento, il centro della vita letteraria e
scientifica di Treviso: i numerosi soci medici, in maggioranza medici “pratici” laureati a Padova, che esercitavano a Treviso e in provincia, ebbero in quell’ambito l’opportunità di illustrare i loro studi e le loro osservazioni scientifiche. Questa attenzione
alla medicina da parte dell’Ateneo fu merito soprattutto di Marzari. Nella commemorazione dopo la scomparsa di Giambattista Marzari, Jacopo Pellizzari scrisse: “venne
il Marzari a liberare la medicina da funestissima schiavitù, e a ricondurre i suoi cultori dagli obliqui sentieri sul diritto cammino”. Marzari ebbe infatti un ruolo importante
in ambito medico, in qualità di protomedico della città di Treviso dal 1788 alla morte;
assunse una posizione netta sulla natura e sulle cause della pellagra, nonché contro la
teoria del medico inglese John Brown, che poneva alla base di tutti i fenomeni vitali
l’eccitabilità. Di spirito ribelle, aperto all’illuminismo, fondò nel 1807 il giornale “Il
Monitor di Treviso”: nel 1808, per le critiche alla politica governativa e per le idee
troppo anticonformiste, venne incarcerato per un breve periodo e dovette abbandonare temporaneamente la carica di protomedico, ripresa successivamente. Cfr. E. Binotto, Personaggi illustri della Marca Trevigiana, Dizionario bio-bibliografico dalle
origini al 1996, Treviso 1996, pag. 375.
28 G.B. Marzari, Saggio medico-politico sulla pellagra, o scorbuto italico, Venezia 1810, pag. 13.
29 Ibid.
30 Ivi, pag. 14.
513
bevono la stess’acqua, che respirano la stess’aria, e calcano la stessa
terra, l’abbiano avuta, o contratta giammai, quantunque misti e quasi
confusi con loro31. (…) Questa malattia non risparmia veramente nè
età nè sesso32. (…) La pellagra, in qualità d’endemica, come adesso è
fra noi, non è assolutamente antica, come pretesero alcuni. Essa non
rimonta, tutto al più, che al principio del secolo XVIII 33. (…) Questa
malattia dipende da una causa, che non esisteva in Italia avanti il secolo XVIII, quindi non poteva aver un’origine più antica di essa34. (…)
Io non ho veduto mai che la pellagra sia ereditaria35. (…) E’ parimenti
falso ch’essa sia contagiosa36. (…) La pellagra si sviluppa costantemente dopo l’inverno. Quest’è la sola stagione dell’anno, che precede
al suo incominciamento. Vi precede inoltre anche l’uso continuo, nè
mai interrotto del vitto vegetabile per tutta questa lunga stagione, formato di sorgoturco, quasi tutto cinquantino, quasi sempre immaturo,
qualche volta ammuffito, e ridotto a polenta fra noi, ed a pane in altri
dipartimenti, e sempre poco cotto, e quasi privo totalmente del sale,
che lo condisca. A questa pietanza perpetua, che forma almeno 19/20
di tutto l’alimento dei contadini per tutto l’inverno, e parte della primavera stessa, non vi si aggiunge tutto al più, che de’ legumi cotti in
acqua, delle zucche, delle verze, qualche volta del siero, delle ricotte,
del formaggio fresco, quasi mai dell’uova, perchè costano troppo; ma
in loro vece delle lattughe, e del tarassaco, che nasce spontaneo. Durante i lunghi inverni subalpini l’agricoltore37 (…) non conosce alimento di natura animale, nè pane di formento38. (…) Ei riserva il suo
poco salame per la state, ch’è il tempo de’ grandi lavori della campagna; non ne mangia, tutto al più, che all’occasione d’una solennità; ed
allora se è desunto dal pesce salato, egli non ne mangia che in quaresima, di cui è osservatore scrupoloso, e sempre in una quantità tanto
ristretta, che la sua razione non arriva in un giorno ad un’oncia39. (…)
A questo vitto, ch’è comune a tutto il popolo pellagroso del Regno40,
(…) egli accoppia per sua bevanda in inverno assai spesso la sola ac31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
514
Ivi, pag. 16.
Ibid.
Ivi, pag. 17.
Ivi, pag. 18.
Ivi, pag. 19.
Ivi, pag. 20.
Ivi, pp. 20-21.
Ivi, pag. 21.
Ibid.
Ibid.
qua, perchè privo del vino41. (…) Alcuni possono sostituirvi per alcuni
mesi una tintura vinosa leggerissima, spesso acida, od ammuffita, e
conosciuta qui sotto il nome di acquariola42. (…) Bisogna inoltre osservare, che in questa lunga e fredda stagione, nella quale gli agricoltori usano d’una dieta sì erbacea e debilitante, passano anche una vita
scioperata, e generalmente melanconica, giacendo molte e molte ore
del giorno e delle lunghe notti nelle stalle degli animali non proprii,
pensando a’ loro debiti, ed ai consumi seguiti dei prodotti della loro
industria; gemendo perciò, e sull’urgenza d’ogni giorno, e sull’impotenza di farvi fronte, e per conseguenza sui pesi e sui mali d’ogni genere, che gl’inquietano, e li minacciano, e altamente li premono”43.
Per Marzari, relativamente alla pellagra, “Imperocchè se il
sorgoturco è un vegetabile che la fa nascere, il formento è poi un altro,
che non solamente non la fa nascere giammai, ma sempre la previene;
nè forse questo vegetabile è neppur l’unico al mondo, che posseda
questa qualità preziosa. I carcerati, ed i condannati a solo pane ed acqua non l’incontrano giammai con tutto il corredo delle circostanze
propizie a produrla44. (…) Per questo mi sembra di poter concludere,
che l’alimento il quale e sia privo di glutine, e sia parimenti usato nell’inverno senza l’unione di sostanze animali, o vegetabili che ne contengano, è la causa generale e certa della pellagra”45.
In merito alla soluzione per debellare la malattia, secondo
Marzari “Liberar il Regno dalla pellagra, senza cangiar d’alimento, è
una chimera. Mi rincrescerebbe per questo, che questa chimera, che
ha tanto imposto sin quì, sussistesse ancora. Essa perpetuerebbe quell’incertezze, che sembrano fatalmente coltivate per ritardar i provvedimenti del Governo sospirati da tanto tempo. Il popolo non si salva con
dispute, e meno ancora con iscolastiche cavillazioni. Si salva unicamente per opera d’un’amministrazione, che sia attiva, veggente, e guidata da principj sicuri. L’alimento ch’io propongo da sostituirsi al popolo per i soli tre o quattro mesi dell’inverno, quello ch’è il più facile e
il più comodo di tutti, è l’uno de’ seguenti. 1. Si può continuare sull’uso del sorgoturco, purchè sia sano, e si mangi con sostanze animali46.
(…) 2. L’altro alimento salubre, antiscorbutico, certo e provato è il
pane di formento solo, e impermisto, se mai si può; altrimenti unito
41
42
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44
45
46
Ibid.
Ivi, pp. 21-22.
Ivi, pag. 22.
Ivi, pag. 45.
Ivi, pag. 50.
Ivi, pag. 57.
515
colle farine subalterne, escluso il sorgo (melica); e meglio ancora colla farina di patate. 3. Finalmente un altro alimento il più economico di
tutti è quello ch’è desunto dalle patate, o come si è detto, miste col formento47. (…) Per salvar dunque il regno dalla pellagra bisogna venir
alle carni, al pane, e alle patate; ma per far poi questo non bisogna
saperlo solamente. E’ necessario che il popolo prima di tutto lo voglia;
e bisogna dipoi che ne sia persuaso48. (…) Del resto per generalizzare
quest’uso del pane, e così della zuppa oltremontana anche in Italia,
come vorrei, non basta colla mistura d’idonee farine averne abbassato
il prezzo. Gioverebbe assai l’erezione di forni comunali, dove periti
fornai sotto l’ispezione delle locali autorità facessero un pane economico, buono, e salubre49. (…) Ma per togliere poi ogn’altro ostacolo a
questa permutazione della dieta, ch’è indispensabile per liberar il Regno dalla pellagra, gioverà infinitamente sopprimere l’alta povertà degli agricoltori; giacchè questa e in ultima analisi, a dispetto di tutto il
resto, può essa sola almeno in alcuni casi impedire l’uso del consigliato e necessario alimento. Che il voto di Enrico IV sia dunque quello
stesso del nostro gran Re: che ogni contadino possa mangiarsi un pollo alla settimana, giacchè a tal condizione si può rispondere, ed io rispondo solennemente dell’estinzione della pellagra50. (… ) L’estinzione della pellagra esige dunque quel cangiamento nel vitto, che io ho
descritto. I mezzi poi per conseguirlo sono l’istruzione, la panizzazione
economica, la soppressione della mendicità”51.
La cura della pellagra proposta da Marzari consiste in applicazioni di siero di capra o vacca, di malva e sambuco sulla cute affetta
dalla malattia.
Nella fase astenica, egli ritiene utile una dieta con alimenti di
origine animale, iniziando dal latte, per passare poi al brodo, vino,
uova, carne. Consiglia inoltre strofinazioni con latte della cute o bagni
termali, come pure fare movimento e prendere il sole.
La gravità delle condizioni sanitarie e di vita dei ceti rurali fu
denunciata da molti altri medici, come fece il medico provinciale di
47
48
49
50
Ivi, pag. 58.
Ivi, pag. 59.
Ivi, pag. 61.
Ivi, pag. 63. È significativa la nota a piè pagina di G. Marzari: “quando parlo
di povertà, io qui non intendo che l’indigenza, che è tanto diversa da quella. Imperocchè nella prima col travaglio si guadagna una sussistenza salubre; non così nella
seconda, nella quale il travaglio istesso non dà da vivere quanto basta. Quindi la prima forma uno stato ch’è essenziale alla sociale costituzione, mentre la seconda è funesta a tutti; prima a chi la ha, poi a chi la vede”.
51 Ivi, pag. 65.
516
Treviso Gaspare Ghirlanda nella relazione trasmessa nel 1816 al Governo
del Regno Lombardo-Veneto relativa al decennio 1804-181452.
Al dibattitto sulla malattia apportarono un contributo significativo i medici condotti, che riscontravano quotidianamente nell’esercizio professionale gli effetti devastanti della malattia.
È da citare Giambattista Zoppi, medico veronese, che nel
1823, descrivendo l’intervento illuminato del marchese Bonifacio di
Canossa sui contadini dei suoi latifondi, afferma che “v'ha duopo soltanto per guarire della pellagra e di grassa cucina e di piena
cantina”53. Un altro medico molto interessato alla pellagra fu Luigi Soler, medico condotto in diversi paesi del Trevigiano54. Sempre nel Trevigiano è da citare il medico di Ceneda Anselmo Zava, che nel 1805
pubblicò una sua memoria sulla pellagra55.
Anche molti parroci si adoperarono una maggior formazione
dei contadini, come Lorenzo Crico, parroco di Fossalunga56.
Vi sono anche esempi di proprietari terrieri lungimiranti, in
piccolo numero, tanto che la relazione accompagnatoria dell’Inchiesta
agraria nel 1882 ritiene di menzionarli: “vi sono dei ricchi proprietari,
nei quali l'amore all'agricoltura ed ai propri interessi non va scompa52
Gaspare Ghirlanda (1768-1837), medico provinciale di Treviso, fu l’autore nel
1816 della Memoria statistico-sanitaria sulla provincia di Treviso. Nel 1807 istituì il
Gabinetto di lettura e nel 1810, assieme a Giambattista Marzari, l’Ateneo di Treviso,
di cui fu il segretario perpetuo. Cfr. E. Binotto, Personaggi illustri … cit., pag. 300.
53 G. Zoppi, Storia dell’Accademia d’Agricoltura commercio e Arti di Verona degli anni 1821 e 1822, in Memorie dell’Accademia d’Agricoltura Commercio e Arti di
Verona, Volume IX, Verona 1824, pag. 125. Giambattista Zoppi (1758-1841), medico
di Verona, esercitò come protomedico della città e in seguito come medico del Liceo
Convitto. Si dedicò anche alla letteratura e alla poesia, ed ebbe un fitto carteggio con
Niccolò Tommaseo.
54 Cfr. V. Chiarugi, Saggio di ricerche sulla pellagra, Firenze 1814, pag. 8. Luigi
Soler (1773-1831), originario di Gaiarine, fu medico condotto a S. Polo di Piave e
Motta di Livenza. Scrisse l’opuscolo Osservazioni Medico-Pratiche che formano la
Storia d’una particolar malattia chiamata Pellagra, Venezia 1791. Fu anch’egli socio dell’Ateneo di Treviso.
55 Cfr. E. Binotto, Personaggi illustri … cit., pag. 604 e V. Ruzza, Dizionario
Biografico … cit., pag. 376. Anselmo Zava (1778-1844), medico nativo di Ceneda, fu
per molti anni Direttore dell’Ospedale di Treviso e della annessa Casa degli esposti.
Pubblicò la memoria Sulla pellagra, Ceneda 1805, e il Saggio sulle analisi e sulle indicazioni terapeutiche delle acque termali di Ceneda, Ceneda 1807.
56 Cfr. V. Ruzza, Dizionario Biografico … cit., pag. 143. Lorenzo Crico (17641835), sacerdote trevigiano, svolse l’incarico di arciprete di Fossalunga per ben 27
anni e fu molto vicino ai problemi della classe rurale. Scrisse sull’argomento Il contadino istruito dal suo parroco, Venezia 1817, ma pubblicò diversi altri lavori sull’arte e la cultura trevigiana, come Indicazione delle pitture ed altri oggetti di belle arti
degni d’osservazione esistenti nella R. città di Treviso, Treviso 1829 e Lettere sulle
belle arti trivigiane, Treviso 1833.
517
gnato dall'amore e dalla compassione verso i propri coloni: orbene,
taluno di essi, commosso dal desolante aspetto dei tuguri e dei porcili
nei quali vivevano altri uomini, spianò quelle miserabili catapecchie,
obbrobrio di una generazione civile, e le sostituì con nuove case, aerate, abbastanza spaziose e tali da ispirare anche nei più rozzi contadini
la necessità di mettere in pratica, per potersele conservare, un po' di
pulizia. Questi benefici proprietari sono, lo ripetiamo, pochi, ma ci è
grato qui render loro la lode che si meritano e nominare fra essi, a cagione d'onore, il signor Lucheschi nel distretto di Vittorio, i signori
conti M.G. Balbi-Valier e Brandolin dei distretti di Conegliano e Valdobbiadene, e i signori conti Papadopoli del distretto di Oderzo”57.
Da quanto detto emerge con grande chiarezza che già durante
le prime due decadi del XIX secolo la pellagra era stata autorevolmente
e scientificamente definita nella sua entità nosologica, nei fattori predisponenti e causali, per merito soprattutto delle ricerche di studiosi veneti.
A questo risultato scientifico tuttavia non corrispose l’eradicazione della malattia, dal momento che essa non richiedeva un trattamento medico o farmacologico, ma soltanto interventi preventivi o correttivi fondati su una adeguata e corretta alimentazione, che esulavano
dalla responsabilità medica.
La soluzione del problema si ebbe soltanto nei primi decenni
del XX secolo.
Il dibattito scientifico sulle cause della pellagra
Dal 1830 e fino alla fine del secolo XIX, si riscontrò in Italia
un consistente incremento degli studi scientifici. Ciò avvenne in concomitanza con una nuova diffusione della malattia, per il peggioramento
delle condizioni di vita e di alimentazione della popolazione rurale. A
partire dalla seconda metà del secolo XVIII era in corso infatti una
grande e complessa trasformazione della proprietà fondiaria, che passò
gradualmente dalla nobiltà e dagli Enti ecclesiastici ai nuovi ceti borghesi; contestualmente ebbe un grande sviluppo la conduzione dell’a57 Atti della Giunta per la inchiesta agraria sulle condizioni della classe agricola: Inchiesta Jacini, Bologna 1982 (Rist. anast. dell'ed. di Roma 1882). Vol. V: Tomo
II: 4. Monografia dei distretti di Conegliano, Oderzo e Vittorio (provincia di Treviso)
dei signori Luigi Alpago-Novello, Luigi Trevisi e Antonio Zava, pag. 225. Giacomo
Lucheschi (1861-1933) nato a Serravalle, compì studi di agronomia che applicò nelle
sue proprietà. Ricoprì diversi incarichi politici e amministrativi a Vittorio e a Colle
Umberto, di cui fu anche Sindaco per diversi anni.
518
zienda agricola sotto forma di affitto, nelle diverse modalità contrattuali, rispetto alla conduzione diretta fino a quel momento prevalente58.
Dall’Unità d’Italia alla fine del secolo vi fu la fase di maggior
propagazione della pellagra: contestualmente apparvero centinaia di
studi scientifici, furono edite alcune riviste specializzate e organizzati
congressi scientifici sull’argomento. La ricerca scientifica proseguì nel
XX secolo, per subire un rilevante arresto con la prima guerra mondiale, in coincidenza con la scomparsa della pellagra dalle campagne italiane.
Dopo i primi studi scientifici già citati, con gli studi successivi
si aprì in Italia uno scontro molto aspro tra due approcci diametralmente opposti in merito alla causa della pellagra. La teoria “tossicozeista”
riteneva che la causa della pellagra fosse risiedesse nell’assunzione di
sostanze tossiche presenti nelle muffe del mais, formatesi a causa di
un’essicazione scorretta del cereale, mais ugualmente impiegato per
fare la polenta. Gli effetti tossici erano più devastanti su organismi indeboliti da un’alimentazione complessivamente scadente. Dalla parte
opposta la teoria “carenzialista”, sulla scorta delle prime osservazioni
di Strambio, Marzari e Fanzago, attribuiva la causa della pellagra al regime alimentare insufficiente della popolazione agricola più indigente,
costretta a cibarsi in modo pressoché esclusivo di polenta, utilizzando
la farina di granoturco, più economica del frumento. A questa disparità
di opinioni, corrispose la diversità nei rimedi proposti per contrastare la
malattia, costituiti nel primo caso da farmaci, nel secondo dalla richiesta di radicali riforme in campo sociale ed economico, così da alleviare
le condizioni di vita e migliorare il regime alimentare della popolazione rurale.
La teoria “tossicozeista” fu avanzata per primo dal medico
bresciano Lodovico Balardini nel 184459, ma vide il suo esponente più
autorevole e combattivo in Cesare Lombroso, professore di Clinica
delle Malattie Mentali all’Università di Torino60. Costui affermò che la
58 Cfr. A. De Bernardi, Il mal della rosa. Denutrizione e pellagra nelle campagne
italiane tra '800 e '900, Milano 1984, pag. 21.
59 Lodovico Balardini (1796-1891), medico bresciano, scrisse numerosi saggi sulla pellagra, come Della pellagra del grano turco quale causa precipua di quella malatia e dei mezzi per arrestarla, Milano 1845, Igiene dell’agricoltore italiano in relazione specialmente alla pellagra, ossia Istruzione sulle cause che ingenerano quella
malattia e sui mezzi che varrebbero a prevenirla e a sradicarla, Milano 1860, Sullo
stato della questione della pellagra in Italia, Milano 1860, Relazione sulle cause della pellagra e sui mezzi per prevenirla possibilmente e curarla, Brescia 1882.
60 Cesare Lombroso (1835-1909), medico, ebbe fama soprattutto per gli studi di antropologia criminale, basata sulla fisiognomica, cioè sulle caratteristiche fisiche del
519
malattia consisteva in un avvelenamento dovuto a una sostanza tossica,
chiamata pellagrozeina, prodotta a seguito dell’ammuffimento del granoturco, un prodotto alimentare ritenuto facilmente deperibile. Per la
cura della malattia propose l’acido arsenioso e interventi vari come le
“fregagioni di sale”. In Veneto uno dei sostenitori più tenaci di tale teoria fu il medico bellunese Luigi Alpago-Novello61.
Nel nostro territorio si distinse in tal senso anche la Società
Medica di Conegliano, che prese l’iniziativa di affiggere dei manifesti
nei paesi della zona, con le norme ritenute utili a evitare la pellagra. Il
testo recitava: “1.° Il granoturco guasto, anche non molto guasto, è la
causa della pellagra. 2.° Il granoturco si guasta perché viene raccolto
non maturo, e perché viene posto non bene asciutto in granai umidi e
male ventilati. 3.° Essiccate il grano, prima di collocarlo nel granaio,
sull’aia, se la stagione lo permette, o, meglio, in un forno. 4.° Non
mangiate il cinquantino. 5.° Diffidate del grano che viene dall’estero.
6.° Cuocete bene la polenta e salatela. 7.° Sorvegliate il mugnaio. 8.°
La farina che esala un odore speciale aromatico, è un vero veleno che
vi fa divenire pellagrosi”62. D’altra parte i principali sostenitori della
teoria “carenzialista” furono Filippo Lussana63, Gaetano Strambio jusoggetto criminale, un approccio considerato successivamente privo di validità scientifica. Nel 1871 fu chiamato a dirigere l'ospedale psichiatrico di Pesaro, nel 1976 divenne professore di igiene pubblica e medicina legale all'Università di Torino; nella
stessa Università fu docente di psichiatria dal 1896 e infine di antropologia criminale
nel 1905. Si occupò anche di pellagra, con diverse opere: Studi per una Geografia
medica d'Italia, Milano 1865, Studj clinici ed esperimentali sulla natura, causa e terapia della pellagra, Milano 1870, Maiz e pellagra in Italia: rivista popolare degli
ultimi studii pellagrologici, Firenze 1872, La pellagra ed il maiz in Italia. Lettura
d’igiene popolare, Torino 1879, Trattato profilattico e clinico della pellagra, Torino
1892. A questi si aggiungono molte note su riviste scientifiche, in aspro e diretto contradditorio con gli studiosi che si opponevano alle sue tesi.
61 Cfr. V. Ruzza, Dizionario Biografico … cit., pag. 16. Luigi Alpago-Novello
(1854-1943), medico bellunese, si occupò di pellagra con diversi studi come Il granoturco e la pellagra: manuale del contadino, Treviso 1883, La cura della pellagra,
Torino 1891, oltre a svariate comunicazioni su riviste scientifiche e relazioni alla
Commissione Pellagrologica provinciale di Belluno. Dal 1879 svolse l’attività di medico condotto a Cison di Valmarino, dove lasciò buon ricordo della sua opera professionale, in particolare a sostegno della popolazione rurale. Cfr. C. Munno, Fra maghi
e tiraossi : Luigi Alpago-Novello medico di frontiera a Cison a fine '800. Cison di
Valmarino 2009. Nel 1886 fu nominato Primario medico a Feltre, dove diresse per alcuni decenni anche l’ospedale psichiatrico.
62 I provvedimenti contro la pellagra nelle Provincie Venete, in Rivista della beneficenza pubblica e delle Istituzioni di previdenza, Vol. 10, Fasc. 11, Milano 1882,
pp. 1067-1068.
63 Filippo Lussana (1820-1897), medico bergamasco, professore di Fisiologia a
Parma dal 1860 e successivamente a Padova fino al 1889, compì molti studi relativi
al cervello, al sistema nervoso e agli apparati sensoriali. Convinto assertore del meto520
nior64 e Clodomiro Bonfigli65. I sostenitori delle opposte teorie ebbero
contraddittori molto accesi nelle riviste scientifiche di riferimento. La
teoria “tossicozeista” prevalse su quella “carenzialista” a livello accademico, ma soprattutto fu accolta sul piano politico, in quanto la sua
accettazione consentiva al governo del Regno d’Italia appena formatosi
di cominciare a dare risposte concrete alla soluzione della pellagra,
fino a quel momento sostanzialmente assenti, ma in misura tale da non
alterare l’assetto sociale derivante dal regime fondiario del tempo66.
Il ruolo delle istituzioni pubbliche
L’accettazione della teoria alternativa “carenzialista” avrebbe
comportato per il giovane Regno d’Italia una profonda trasformazione
del sistema agrario, dall’organizzazione del lavoro ai sistemi contrattuali vigenti in agricoltura tra proprietà e manodopera, con profonde
conseguenze sugli equilibri sociali e politici esistenti: in quel periodo
storico infatti non esistevano i presupposti culturali né le condizioni
politiche per adottare provvedimenti in tal senso67. Fu adottata quindi
una strategia di azione che rimanesse in un contesto di compatibilità
economica e sociale, a carattere moderatamente riformistico68.
L’intervento pubblico avvenne gradualmente e con diverse
iniziative: con circolare del 28 settembre 1878 della Direzione dell’Ado scientifico in medicina, si oppose con decisione alla teoria infettiva e tossica della
pellagra. Sull’argomento scrisse Su la pellagra. Memoria dei dottori Filippo Lussana
e Carlo Frua presentata all’I. R. Istituto lombardo di scienze, lettere ed arti pel concorso di fondazione Cagnola ed onorata di premio d’incoraggiamento, Milano 1856.
64 Gaetano Strambio Junior (1820-1905), nipote di Gaetano Strambio vissuto nel
secolo XVIII, seguì le orme familiari anche in tema di pellagra. Pubblicò in materia il
trattato La pellagra, i pellagrologi e le amministrazioni pubbliche, Milano 1890, oltre
al saggio Da Legnano a Mogliano Veneto. Un secolo di lotta contro la pellagra. Briciole di storia sanitario-amministrativa. Milano 1888.
65 Clodomiro Bonfigli (1838-1909), medico di Camerino, diresse dapprima l’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia e, dal 1873, quello di Ferrara, dove compì numerosi studi e diede avvio ad una scuola neuropsichiatrica. Nel 1893 fu chiamato a
dirigere l’Ospedale psichiatrico S. Maria della Pietà di Roma. Eletto deputato nel
1897, fu attivo sul fronte della tutela dell’infanzia e contribuì allo sviluppo della neuropsichiatria infantile in Italia. Pubblicò diverse opere tra cui La pellagra, Milano
1880, L’insegnamento clinico della psichiatria, Roma 1894 e Dei fattori sociali della
pazzia in rapporto con l’educazione infantile, Roma 1894, in aperto contrasto con le
tesi sostenute da Lombroso. Durante la permanenza a Ferrara curò la pubblicazione
del Bollettino del Manicomio provinciale di Ferrara, molto importante perché riporta
i risultati degli studi effettuati dallo stesso Bonfigli.
66 Cfr. A. De Bernardi, Il mal della rosa … cit., pag. 170.
67 Ibid.
68 Ivi, pag. 171.
521
gricoltura, fu promossa un’inchiesta nazionale sulla situazione dell’agricoltura, che dimostrò la grande prevalenza della malattia, soprattutto
al Nord69. In seguito furono decisi i primi provvedimenti, sotto forma
di decreti ministeriali: in particolare nel 1884 fu prevista la costruzione
di essiccatoi per la stagionatura artificiale del mais, ma contemporaneamente furono recepite alcune tra le indicazioni suggerite nella teoria
“carenzialista”, come l’istituzione di forni economici per la panificazione a base di frumento70. Seguirono interventi per vietare il commercio del mais avariato, ma anche concorsi per migliorare la salubrità
delle case coloniche e per l’avvio delle cosiddette locande sanitarie,
dove erano raccolti i pellagrosi per la somministrazione di pasti idonei,
una o due volte il giorno, per alcune settimane71. Era inoltre prevista
l’istituzione di speciali commissioni pellagrologiche a livello provinciale, per il monitoraggio della malattia72.
Nello stesso periodo si ebbe l’istituzione del primo pellagrosario italiano, proprio in provincia di Treviso. Nel 1882 fu costituita infatti, con donazioni private, la "Prima Società italiana di patronato pei
pellagrosi" per iniziativa del sindaco di Mogliano Veneto ing. Costante
Gris. Con i fondi fu acquistata "Villa Torni" e nel 1883 ebbe inizio ufficialmente l’attività: nel 1890 la struttura divenne istituto pubblico di
assistenza e beneficenza. Furono accolti i pellagrosi, ma anche i malati
in terzo stadio con demenza. i bambini di famiglie di pellagrosi, orfani
e anziani abbandonati. Dopo la prima guerra mondiale e cessata la pellagra, l’istituto continuò l’attività, che prosegue anche ai giorni nostri,
a favore delle persone abbandonate, malate di mente o affette da handicap fisici73.
Gli interventi per decreto si susseguirono con incerti risultati;
questi provvedimenti, infatti, subivano costantemente intoppi nel per69
Ministero di Agricoltura, Commercio e Industria, La pellagra in Italia, in Annali di agricoltura, n. 18, Roma 1880.
70 Regio Decreto n. 2088 del 23 marzo 1884, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
del Regno d’Italia n. 84 del 7 aprile 1884.
71 Cfr. G. Gregorj, La pazzia e la pellagra nella provincia di Treviso, Treviso
1893, pag. 32. L’autore riporta anche la composizione del pasto offerto dalle locande
sanitarie, composto di “1/4 di litro di vino buono; 350 grammi di pane di frumento
ben cotto; di un litro di minestra in brodo con 100 grammi di pasta e 100 grammi di
fagiuoli secchi, alternati con piselli, prima vecchi, poi freschi, e patate, e di 100
grammi di carne magra cotta disossata, ad ottenere i quali sono sempre occorsi circa
200 grammi di carne cruda colla sua parte d’osso”.
72 Regio Decreto n. 2088 del 23 marzo 1884 e Regio Decreto n. 293 del 10 aprile
1898.
73 Cfr. L. Vanzetto, I ricchi e i pellagrosi: Costante Gris e la fondazione del primo
pellagrosario italiano, Mogliano Veneto 1883, Abano Terme 1985.
522
corso di approvazione in Parlamento, dove era prevalente l’idea che
questioni relative alla popolazione povera rurale e alla pellagra non
fossero talmente importanti da dover interessare l’organo legislativo
dello Stato74. Così si dovette attendere fino al 1902 perché maturassero
le condizioni per una legge specifica per la pellagra, che recepiva diversi precedenti decreti, fino ad allora inapplicati75. La stessa legge comunque non poneva alcun vincolo alla coltivazione del mais, evitando
di frenare gli interessi della grande proprietà agraria, nonostante le richieste avanzate in tal senso nel corso del dibattito in Parlamento: anche il senatore conte Luigi Sormani Moretti, marito di Teresa Costantini di Ceneda, avanzò la proposta di vietare la coltivazione del mais sopra i 400 m. di altitudine, per favorire colture alternative, ma essa fu rigettata76.
Tuttavia il primo provvedimento in assoluto sulla pellagra, da
parte di una istituzione pubblica in Veneto, fu preso dai Provveditori di
Sanità della Serenissima Repubblica di Venezia: il 22 novembre 1776
essi emisero un proclama con provvedimenti di contrasto del commercio e impiego del mais guasto: "li perniziosi effetti che possono derivare alla Salute dei più poveri abitanti, e spezialmente de' Villici del Polesine, Padovano e Veronese dal cattivo alimento dei Sorghi Turchi immaturi e guasti, in gran copia recuperati da terreni sommersi dalle alluvioni, e rotte de’ Fiumi colà avvenute, impegnano la vigilanza e zelo
di questo Magistrato a prevenire con provvedimenti li micidiali morbi,
ed epidemie, che sogliono susseguitare a sì fatti eventi"77. In seguito, il
governo austriaco, con decreto del 28 giugno 1804, “inteso dei terribili
progressi che la pellagra andava facendo nel distretto di Treviso“, invitò i medici e gli uffici di sanità a produrre documentazione e osservazioni su questa malattia, invito peraltro raccolto in larga misura 78. Pur
tuttavia, per le ragioni generali addotte sopra, la gestione del problema
era assai ardua per le autorità preposte. Di fatto la pellagra a livello ufficiale fu sostanzialmente rimossa: i malati “maniaci”, in particolare
quelli caratterizzati da comportamenti aggressivi, furono relegati nei
74
75
Cfr. A. De Bernardi, Il mal della rosa … cit., pp. 172-174.
Legge n. 427 del 21 luglio 1902 “Sulla prevenzione e cura della pellagra” e
Regio Decreto n. 451 del 5 novembre 1903 per il regolamento attuativo della legge.
76 Cfr. A. De Bernardi, Pellagra, Stato e scienza medica: la curabilità impossibile, in F. Della Peruta (a cura di), Storia d’Italia, Annali 7, Malattia e medicina, Torino
1984, pp. 699-700.
77 G. Strambio, Da Legnano a Mogliano Veneto: un secolo di lotta contro la pellagra, in Memorie del Reale Istituto Lombardo di scienze e lettere, vol. 17, Milano
1890, pag. 139.
78 F.L. Fanzago, Sulla pellagra … cit., p. XI.
523
manicomi, mentre tutti gli altri furono lasciati a se stessi, con sporadici
interventi nei casi più rilevanti. Il manicomio pertanto per molti decenni fu l’unica risposta che l’amministrazione pubblica diede alla malattia79. Durante tutto il secolo XIX continuò, infatti, l’istituzione di molti
manicomi, a carattere interprovinciale e localizzati nel Nord dell’Italia,
destinati in prevalenza ai pellagrosi in fase terminale della malattia, su
motivazioni prevalentemente riconducibili all’ordine pubblico. In quel
tempo anche gli ospedali ordinari accoglievano i malati, compresi i
“maniaci”, cioè con demenza; anche l’Ospedale di Treviso li curava,
ma solo “in via precauzionale e di esperimento. I casi inguaribili o
pericolosi venivano inviati all’Ospedale Civile di Venezia o a San
Servolo e, in caso di donne, a San Clemente. (…) Da non dimenticare
che per le patologie psichiche nel territorio provinciale esistevano
cinque Case di Salute, una per distretto, precisamente a Montebelluna,
Crespano, Oderzo, Valdobbiadene e Serravalle”80. Molto era lasciato
alla carità o a qualche provvedimento illuminato: “Nel 1874 il Consiglio
di Amministrazione dell’Opera Pia trevigiana approvò la proposta del
Primario Ferrari Bravo di fornire ai pellagrosi alcuni alimenti speciali,
come polenta con burro, latte, in misura di 500g”81.
La coltivazione del granoturco in provincia di Treviso
Agostino Fapanni nel 1819 fornisce un resoconto storico molto interessante della coltivazione del mais nel Trevigiano e Bellunese82.
79
80
Cfr. A. De Bernardi, Il mal della rosa … cit., pag. 156.
I. Sartor, Dalla Pietà alla Sanità pubblica … cit., pag. 46. Secondo G. Gregorj,
La pazzia e la pellagra … cit., pag. 46, le case di salute sono ubicate a Crespano, Valdobbiadene, Ceneda, Serravalle, Oderzo, oltre al pellagrosario di Mogliano. Le case
di salute erano annesse agli ospedali distrettuali ed accoglievano i “maniaci” tranquilli: Cfr. . L. Tosi, R. Frattini, P. Bruttocao, S. Artemio storia e storie del manicomio di
Treviso, Treviso 2004, pag. 30.
81 Ibid.
82 Cfr. A. Fappani, Memoria ossia Saggio Storico dell’Agricoltura Trivigiana dal
principio dell’era volgare sino a’ dì nostri, in Memorie Scientifiche e Letterarie dell’Ateneo di Treviso, Vol. II, Venezia 1817. Agostino Fapanni (Fappani in op. cit.)
(1768-1861), avvocato e notaio trevigiano, compì numerosi studi sull’agricoltura, in
particolare veneta. La passione teorica e pratica per l’agricoltura era dovuta al fatto
che il padre gli aveva lasciato una tenuta molto vasta a Martellago, che egli ampliò e
fece fruttare con l’applicazione dei metodi più moderni di coltivazione. Scrisse diversi saggi come Delizie della vita campestre, da celebri autori antichi e moderni descritte, Venezia 1819, Memoria ossia Saggio storico dell'agricoltura trivigiana dal
principio dell'era volgare sino a' dì nostri, Treviso 1817–1819, Sulla giurisprudenza
agraria del secolo XVIII e del corrente XIX, Venezia 1843, Istituzioni di giurisprudenza agraria secondo il diritto romano e secondo le leggi vigenti nel Regno Lom524
Riferisce che già nel 1679 Jacopo Agostinetti di Cimadolmo scriveva
del granoturco83. Il cereale fu importato dall’America da Portoghesi e
Spagnoli e, citando il canonico Barpo di Belluno, fu introdotto nel Bellunese da Odorico Piloni verso il 1590, mentre Benedetto Miari ne sviluppò la coltivazione84. Fapanni riferisce anche che Francesco Amalteo,
nei registri parrocchiali di Oderzo del 1624, riscontrò che venne pagato
per la prima volta e distribuito il quartese di sorgoturco fra i membri
del capitolo, sul ragguaglio di 25 staja raccolte: nel 1626 e 1627 si passò a staja 50. Dopo una lacuna di notizie nei registri, il raccolto del
1690 fu di staja 360085.
Fapanni racconta poi che nel 1686 si ebbe il primo calmiere
della farina di sorgoturco a Treviso, mentre nel 1692 fu stabilito il saggio, cioè il ragguaglio tra il prezzo di uno stajo e quello di una libbra di
farina. Fapanni conclude che “Si può fondatamente stabilire che, verso
il trigesimo anno del secolo XVII, la coltivazione del Mais erasi propagata universalmente per ogni parte della Trivigiana Provincia, cosicchè alla fine poi del secolo stesso ella si era per cotal modo dilatata,
ed estesa, che il prodotto di lui fu assoggettato, come ogni altro grano,
e derrata alle statuali prescrizioni d’Annona”86.
La pellagra quindi non inizia con l'introduzione della coltura del
mais, ma soltanto quando esso diventa l’unico alimento di cui i contabardo-Veneto, Venezia 1846, oltre a numerosissime memorie. Ricoprì diversi incarichi pubblici in relazione alle sue competenze agronomiche.
83 Cfr. V. Ruzza, Dizionario Biografico … cit., pag. 13. Jacopo Agostinetti, nato
nel 1597 a Cimadolmo, fu amministratore di diverse tenute agricole nel Trevigiano.
Nel 1679 fu pubblicato postumo il suo saggio “Cento e dieci ricordi, che formano il
buon fattor di villa”, derivato dalla sua vasta esperienza professionale.
84 Giovanni Battista Barpo (1584-1649) sacerdote di Belluno, decano del capitolo
della Cattedrale, ebbe grande interesse per l’agricoltura. Pubblicò l’opera Le delitie e
i frutti dell'agricoltura e della villa, Venezia 1634. Odorico Piloni (1503-1594), umanista bellunese, fu un appassionato bibliofilo e mecenate del pittore Tiziano Vecellio.
Benedetto Miari, appartenente ad una nobile famiglia bellunese, estese la coltivazione
del granoturco nelle tenute di famiglia.
85 Francesco Amalteo (1767-1838) è contemporaneo di Agostino Fapanni: fu anch’egli grande appassionato di letteratura e di agricoltura, nonché socio dell’Ateneo
di Treviso, e compì numerose ricerche storiche relative all’Opitergino. Cfr. V. Ruzza,
Dizionario Biografico … cit., pag. 18. Lo stajo (al plurale staja) era l’unità di misura
per cereali dell’epoca, di valore variabile a seconda delle regioni in Italia. A Treviso
uno stajo corrisponde ad una capacità di 86,81 litri. Cfr. G. Scarpa, Proprietà e impresa nella campagna trevigiana all’inizio dell’Ottocento, Venezia 1981, pag. 63. Lo
stajo è utilizzato, in forma estensiva, anche come misura di superficie, intendendo
quella che può esser seminata con un contenitore della capacità di uno stajo. Il quartese è l’onere gravante sui fondi di proprietà ecclesiastica, corrispondente alla quarantesima parte del raccolto.
86 A. Fappani, Memoria ossia Saggio Storico … cit., pag. 147.
525
dini si cibano, essendo costretti, dalla povertà, a non usare altri alimenti più costosi.
La pellagra in Italia e in Veneto
La trasformazione dell’assetto della proprietà agraria, iniziato
nel secolo XVIII, produsse nelle regioni del Nord dell’Italia un netto
peggioramento delle condizioni di vita della popolazione rurale. La
netta separazione tra la produzione agricola destinata al mercato e
quella per l’autoconsumo ridusse la gamma degli alimenti disponili per
i contadini e creò così le condizioni per il monofagismo maidico, substrato per lo sviluppo della pellagra87. Il mais infatti era considerato a
tutti gli effetti salario destinato al contadino, in modo particolare quello
soggetto a contratto di affitto del fondo, per il suo lavoro88.
Così, dalla prima inchiesta eseguita nel Regno d’Italia nel
1878 sulla situazione dell’agricoltura italiana, risultò un numero rilevante di malati di pellagra, in particolare in Lombardia, Veneto ed Emilia: su 97.855 casi accertati in Italia, il 91,3% (89.402 malati) si concentrava infatti in queste tre regioni89. Venne anche rilevata l’occupazione dei soggetti ammalati: i braccianti erano tra i più colpiti, ma anche i mezzadri, i mendicanti e gli altri soggetti posti ai margini della
società senza mezzi di sussistenza.
Nel 1881, nell’indagine nazionale successiva, i casi di pellagra
in Italia aumentarono a 104.067, dei quali il 55,6% in Veneto, raggiungendo il picco massimo dei casi di pellagra nelle statistiche ufficiali
italiane90. La popolazione italiana del 1881 era di circa 29 milioni, e
quindi la prevalenza media della pellagra era di 366 per 100.000 abitanti. Tuttavia la prevalenza in alcune regioni e nell’ambito di popolazioni selezionate raggiungeva livelli molto elevati: in particolare in Veneto la situazione era molto critica, risultando la regione a maggior
prevalenza di malattia in Italia. Il numero di pellagrosi censito in Veneto fu di 29.836 nel 1879, 55.881 nel 1881, 39.892 nel 1899, 20.303 nel
1910. Il tasso di prevalenza della malattia in Veneto era quindi 1.060
per 100.000 abitanti nel 1.879, 1.986 nel 1881, 1.869 nel 1899 e 576
nel 1910, contro una media italiana di 344, 366, 224 e 98, rispettivamente per gli anni citati91.
87
88
89
90
Cfr. A. De Bernardi, Il mal della rosa … cit., pag. 41.
Ivi, pag. 209.
Ivi, pag. 113.
Ivi, pp. 148-149. È da rilevare che nel Veneto è compresa, all’epoca, anche la
provincia di Udine.
526
Nell’inchiesta del 1879 la distribuzione dei pellagrosi in Veneto, popolato da 2.508.643 abitanti, risultava molto diversa tra le province: nella provincia di Verona i malati erano 2.391, a Vicenza 3.400, a
Belluno 1.400, a Udine 4.000, a Treviso 4.902, a Venezia 2.696, a Padova 8.207, a Rovigo 2.840, per un totale di 29.836 pellagrosi92. Le
provincie più colpite, in rapporto al numero di abitanti, erano quelle di
Padova (prevalenza di 2.128 malati per 100.000 abitanti), Rovigo (prevalenza di 1.434) e Treviso (prevalenza di 1.282).
I Distretti più colpiti nel Trevigiano erano quelli di Treviso e
Oderzo, mentre nel Bellunese erano i Distretti di Belluno, Feltre e Fonzaso, per la provincia di Padova i Distretti di Padova, Camposampiero,
Conselve ed Este, per quella di Rovigo il Distretto di Badia. È interessante riferire che, per Venezia, il Distretto di Mestre contava un terzo
dei pellagrosi della provincia, mentre la città di Venezia registrava solo
47 pellagrosi93.
Se si considera non la popolazione generale ma solo quella rurale, cui appartenevano tutti i casi di pellagra riscontrati, in Veneto nel
1879 la prevalenza della malattia risultava complessivamente del
3.05%, in provincia di Treviso del 3.22%94.
Sempre dall’inchiesta governativa del 1879 per la provincia di
Treviso, nella distribuzione della malattia suddivisa per Distretto, Asolo aveva 215 malati, Castelfranco Veneto 650, Conegliano 332, Montebelluna 639, Oderzo 1.150, Valdobbiadene 103, Vittorio 220 e Treviso
1.234, per un totale di 4.543 pellagrosi95. Si riscontra quindi una difformità, nella stessa inchiesta, tra il dato complessivo dei pellagrosi della
provincia e la somma dei dati disaggregati secondo i Distretti provinciali. Del resto le molte lacune dell’indagine del 1879 furono ammesse
dallo stesso Ministero che l’aveva promossa96. Tuttavia, un’altra statistica, verosimilmente più attendibile, effettuata sempre per nel 1879 in
provincia di Treviso, a seguito della circolare n. 2281 III del 5 dicem91 Cfr. M. Livi-Bacci, Fertility, Nutrition and Pellagra: Italy during vital revolution, in R.I. Rotberg (a cura di), Health and disease in human history, Cambridge
2000, pag. 123.
92 Cfr. Atti della Giunta per la inchiesta agraria sulle condizioni della classe
agricola: Inchiesta Jacini, Bologna 1982 (Rist. anast. dell'ed. di Roma 1882). Vol.
IV: Relazione del Commissario Emilio Morpurgo sulla XI Circoscrizione (provincie
di Verona, Vicenza, Padova, Rovigo, Venezia, Treviso, Belluno e Udine), pag. 168
93 Cfr. G. Sormani, Geografia nosologica dell’Italia, Roma 1881, pag. 243.
94 Cfr. A. De Bernardi, Il mal della rosa … cit., pag. 118.
95 Cfr. Atti della Giunta per la inchiesta agraria ... cit., Vol. IV: Relazione del
Commissario … cit., pag. 170.
96 Cfr. G. Strambio, Da Legnano … cit., pp. 427-428.
527
bre 1879 della Deputazione Provinciale, riportava un numero di pellagrosi assai diverso e cioè un totale di 9.817 (di cui 5.509 maschi e
4.308 femmine). I pellagrosi non guariti degli anni precedenti risultavano 5.386, cui si aggiungevano i nuovi casi di malattia sorti nel 1879,
pari a 4.431; alla fine dell’anno, tolte le persone guarite, decedute o ricoverate in ospedale o in manicomio, restavano in cura per pellagra
6.964 persone97.
Nelle successiva indagine statistica nazionale del 1881 il numero dei pellagrosi in provincia di Treviso salì a 13.320 casi, su una
popolazione di circa 370.00 persone, con una prevalenza di oltre 3.000
casi per 100.000 abitanti98. I malati risultarono distribuiti tra 7.234 maschi e 6.086 femmine, presenti in 80 comuni della provincia su 95 (15
comuni vennero dichiarati immuni dalla pellagra). Significativo fu anche il numero dei malati di età inferiore a 10 anni, pari a 1.327, di cui
991 ragazzi e 336 fanciulle. Circa la metà dei casi, pari a 6.798, si ebbe
nel distretto di Treviso, con tutti i 22 comuni distrettuali colpiti dalla
pellagra99.
A questo picco della diffusione della pellagra contribuirono
sia l’aumento demografico avvenuto nella seconda metà del secolo
XIX sia la crisi dell’agricoltura presente nello stesso periodo100. All’aumento della popolazione concorsero la riduzione del tasso di mortalità,
in particolare neonatale, mentre la crisi agraria colpì in prevalenza i
prodotti agricoli coltivati in Veneto, dove ebbe un profondo impatto
economico per il mancato aggiornamento dei metodi di coltivazione ed
il limitato impiego di mezzi meccanici. Le cattive condizioni economiche in cui vennero a trovarsi braccianti e fittavoli li costrinsero ad una
dieta monoalimento per lunghi periodi dell’anno. Per molti non vi fu
alternativa all’emigrazione, che assunse dimensioni molto consistenti
negli ultimi due decenni del secolo XIX: interessò in Veneto alcune
centinaia di migliaia di persone e in alcune zone del Trevigiano emigrò
quasi un quinto della popolazione101. Così la pressione demografica
venne in qualche modo attenuata e i casi di pellagra cominciarono a calare, non per un intervento diretto a sradicare la malattia, ma per il concorso di molteplici circostanze contingenti. Influirono molto le trasfor97
Cfr. Atti della Giunta per la inchiesta agraria … cit., Vol. IV: Relazione del
Commissario … cit., pag. 245.
98 Cfr. G. Gregorj, La pazzia e la pellagra … cit., pag. 61.
99 Ibid.
100 Cfr. F. Rossi, A. Rosina, Il Veneto fra Sette e Ottocento, in Bollettino di Demografia Storica, n. 28, Roma 1998, pag. 98.
101 Ivi, pp. 97-99.
528
mazioni socio-economiche innescate dal crollo dei prezzi, dalla sostituzione del salario in natura, in maggioranza costituito da mais, con il salario in denaro, alle innovazioni tecniche e colturali, dalla mobilità della forza lavoro, ai nuovi conflitti sociali avviatisi a fine secolo102. È interessante riportare come si espresse Luigi Messedaglia nel 1927: “La
pellagra, in fondo, non è stata guarita: è guarita spontaneamente, da
sé, grazie al risorgimento dell’agricoltura e al miglioramento delle
condizioni economiche e alimentari dei contadini: è guarita, mentre
gli scienziati stavano tuttavia discutendo sulle sue cause …”103.
Così, dopo l’indagine del 1881, nelle rilevazioni successive la
diffusione della malattia dimostrò un declino, prima lento, poi più spedito, arrivando con il censimento della popolazione italiana del 1911 a
1.583 casi di pellagra denunciati in Italia, dei quali 818 nel Veneto, per
scomparire ufficialmente dopo il 1920104. Nella provincia di Treviso nel
1899 si contarono 3.560 casi di pellagra, che su una popolazione agricola di 180.750 persone, fornivano una prevalenza di malattia di 19,67
casi per mille105.
Anche la relazione ufficiale del Commissario Emilio Morpurgo sui risultati dell’Inchiesta agraria del 1879 avanzava molte obiezioni
circa l’attendibilità dei dati raccolti106. A maggior ragione tutte le statistiche fatte in precedenza sono sia incomplete sia effettuate con metodologie oggi scientificamente superate. Spesso le segnalazioni erano
raccolte dai parroci, con risposte disomogenee, frequentemente parziali, prive di riscontri oggettivi. Già si è detto delle risultanze relative al
Bellunese alla fine del secolo XVIII, citate da Jacopo Odoardi. Interessante è l’annotazione di diversi decenni dopo, nel 1851, di Jacopo Facen, sempre sul Bellunese: “La pellagra ha un dominio esteso su tutti i
comuni sia di montagna che di pianura, colpendo i villici poveri ed
esposti ai lavori di campagna107. (…) Ne’ paesi di montagna, siccome
Lamon con Avina e S. Donà, Servo, Fallerer, non esercita attualmente
un dominio così esteso, in confronto delle popolazioni, come una volta.
Ciò è da attribuirsi particolarmente alla introduzione, cultura e largo
102
103
Cfr. A. De Bernardi, Il mal della rosa … cit., pp. 200-201.
L. Messedaglia, La gloria del mais, in C. Barberis, U. Bernardi (a cura di),
Luigi Messedaglia – La gloria del mais e altri scritti sull’alimentazione veneta, Vicenza 2008, pag. 265
104 Cfr. A. De Bernardi, Il mal della rosa … cit., pag. 17.
105 Ivi, pag. 197.
106 Cfr. Atti della Giunta per la inchiesta agraria … cit., Vol. IV: Relazione del
Commissario … cit., pag. 173.
107 J. Facen, Del morbo pellagra che domina nel territorio di Feltre, in Giornale
Veneto di Scienze Mediche, Vol. II, Venezia 1851, pag. 677.
529
uso commestibile de’ pomi di terra, in ispecial modo dopo l’annata infelice dell’anno 1817, in cui si cominciò daddovero la coltivazione per
uso domestico della patata”108. Facen presentò anche una rilevazione statistica molto approssimativa, limitata ai comuni del territorio di Feltre109.
Cesare Lombroso, in un articolo scientifico, riportò le statistiche sulla pellagra in Veneto elaborate da Giovanni Filippo Spongia, relative agli anni fino al 1856110: “Treviso in otto anni contava bene
38042 pellagrosi circa, 4755 per anno. Nel 1856 erano 7880 i denunciati e così distribuiti: 2048 nel distretto di Treviso - 110 nella città di
Treviso - 961 in Oderzo - 1486 in Conegliano - 583 in Ceneda - 492 in
Valdobbiadene - 797 in Montebello - 471 in Asolo - 923 in Castelfranco”111. La media annua dei pellagrosi, 4.755 per Treviso, risultò la più
alta tra le provincie del Veneto: “noi constatammo la media annua dei
pellagrosi di circa: 575 a Belluno, 4775 a Treviso, 1380 a Vicenza,
1335 a Udine, 1380 a Padova, 336 a Verona, 160 a Rovigo, 267 a Venezia”112.
Mettendo a confronto i dati del 1856 e quelli del 1879 riferiti
alla provincia di Treviso, si riscontra una riduzione del numero di malati, da 7.880 a 4.902: tuttavia se si considera la statistica del 1879 promossa dalla Deputazione provinciale si riscontra un aumento a 9.817.
In ogni caso, dal momento che la popolazione agricola tra il 1856 e il
1879 subì una drastica riduzione negli addetti, superiore al 50%, si ha
un incremento della prevalenza tra i contadini, che passa da 2,37% a
3,22% per l’inchiesta agraria e addirittura al 6,45% per la rilevazione
della Deputazione provinciale113.
108
109
Ivi, pag. 678.
Ivi, pag. 702. La statistica presenta i seguenti dati: 600 pellagrosi a Feltre (abitanti 4500), 400 a S. Giustina (ab. 3400), 500 a Cesio (ab. 3000), 350 a Villabruna
(2600 ab.), 300 a Pedavena (ab. 2200), 200 a Quero (ab. 1260), 200 ad Alano (ab.
2600), 500 a Seren (ab. 3300), 600 a S. Gregorio (1300 ab.), 250 a Zermen (2100
ab.), 400 a Fonzaso (3500 ab.), 800 ad Arsiè (4500 ab.), 700 a Servo (3100 ab.), 800
a Lamon (5200 ab.). In ogni comune sono citati i maniaci pellagrosi, che variano da
3-6 casi di Quero, a 10-12 di Arsiè e Lamon. In totale quindi vi sono 6.600 pellagrosi
su 84.560 abitanti, pari a 7,8%.
110 C. Lombroso, Sulla pellagra maniaca e sua cura, lettera del Prof. Cesare
Lombroso al Prof. Griesinger, in Giornale Italiano delle Malattie Veneree e delle
Malattie della Pelle, Anno III, Volume V, Milano 1868, pp. 147-151. Giovanni Filippo Spongia (1798-1880), medico originario dell’Istria, fu direttore dell’Ospedale di
Padova e docente all’Università patavina.
111 Ivi, pag. 148. Il dato complessivo è citato anche in G. Gregorj, La pazzia e la
pellagra … cit., pag. 61.
112 Ivi, pag. 150.
113 Cfr. A. De Bernardi, Il mal della rosa … cit., pag. 118. Cfr. G. Strambio, Da
Legnano … cit., pag. 433.
530
Lombroso riferì anche i dati di Spongia relativi al numero di
“maniaci” pellagrosi, in particolare quelli ricoverati nei due manicomi
di Venezia, che confermano l’alta incidenza dello stadio più avanzato
di malattia nel Trevigiano: “Nel decennio 1847-1856 ricoverarono nel
Manicomio di san Servolo: (…) 55 pellagrosi della provincia di Venezia - 118 di Padova - 83 di Vicenza - 109 di Verona - 209 di Treviso 12 di Rovigo - 22 di Belluno - 112 di Udine. In totale 760 ossia 76 per
anno. Nel quinquennio 1857-1861 entrarono 411 maniaci pellagrosi.
68 da Venezia - 78 da Treviso - 61 da Padova - 60 da Rovigo - 77 da
Vicenza - 65 da Udine - 56 da Verona. A questi si devono aggiungere
117 pellagrosi del Manicomio femminile del Berti, sicchè dovremmo
calcolare in media circa 199 manie pellagrose per anno”114. Da tutte
queste cifre emerge l’alta prevalenza della pellagra allo stadio di demenza a Treviso, Udine, Padova, rispetto a Verona, Venezia e Rovigo.
Più in generale, durante la dominazione austriaca, pur con un
apparato amministrativo efficiente e teoricamente in grado di effettuare
statistiche accurate, non vi erano le condizioni generali necessarie per
avviare a soluzione problemi gravi come la pellagra.
Gaetano Strambio, a proposito del Governo austriaco, si esprime con particolare durezza: “In nessun paese e in nessun periodo si
fece invero maggior sciupìo di circolari governative, Luogotenziali, o
Delegatizie come in codesto, e se la pellagra si debellasse a colpi di
carta stampata e distribuita con burocratica periodicità al ricorrere di
ogni tepore primaverile, nessun dubbio ch’essa a quest’ora non sarebbe, se non una dolorosa ricordanza, non meno nella Venezia che nella
Lombardia”115. (…) Nel Veneto non era rado che Governo o Luogotenenza, raccolte informazioni o cifre sulla pellagra in quelle provincie,
le trasmettessero per esame riassuntivo a quel I. R. Istituto di Scienze,
Lettere e Arti e ne invocassero i consigli. Mai si mancava di chiedere
informazioni esatte, minuziose, periodiche e sopratutto dati numerici,
che, per lo più, si lasciavan dormire nelle cartelle d’ufficio. Tantochè
in quarantacinque anni non riuscì che due volte nella Lombardia, ed
una volta nel Veneto veder comechessia riassunti in forma statistica i
dati e le cifre, periodicamente richiesti per trimestri, semestri e
anni”116.
114 C. Lombroso, Sulla pellagra maniaca … cit., pag. 150. I risultati relativi al ricovero dei “maniaci” pellagrosi riportati da Filippo Spongia, a loro volta derivano da
quelli di Prosdocimo Salerio, Direttore del Manicomio di San Servolo a Venezia, in P.
Salerio, Tavole statistiche del Manicomio maschile di San Servolo, Venezia 1862.
115 G. Strambio, Da Legnano … cit., pp. 229-230.
116 Ivi, pag. 242.
531
Con tale finalità in Veneto si ha riscontro di una Circolare governativa in data 11 giugno 1847 e di un dispaccio della Luogotenenza
del 18 ottobre 1850, che produssero diversi anni dopo le elaborazioni
statistiche, peraltro incomplete, di Filippo Spongia, ma soprattutto non
avviarono alcun intervento concreto sulla lotta alla pellagra117.
Gregorio Gregorj, alla fine del secolo XIX, compì un’analisi
dettagliata, integrata da accurate statistiche, dell’impatto della malattia
in provincia di Treviso, anche dal punto di vista sociale ed economico118. Nel 1890 i casi di morte attribuiti alla pellagra in provincia di
Treviso furono 241 (di cui 140 maschi e 101 femmine), ponendo la
provincia di Treviso al vertice in Veneto con l’incidenza più elevata
(1.238 i casi di morte per pellagra in Veneto nel 1890)119.
La pellagra inoltre continuava ad essere la causa maggiore di
pazzia: nel 1885 la pellagra risultò responsabile in 1.661 casi di pazzia
accolti negli ospedali del Veneto (di cui 954 maschi e 707 femmine), su
un totale di 2.597 ricoveri, pari a 5/8 del totale120.
Gregorj fornì inoltre il dettaglio del movimento dei malati di
pazzia in generale nella provincia di Treviso ricoverati nelle apposite
strutture, nel decennio 1882-1891: la media annua dei ricoveri di “maniaci” era di 779 casi, su una popolazione provinciale di 406.095 abitanti; le variazioni nel corso del decennio non erano significative, passando dai 930 ricoveri del 1882 ai 933 del 1891121. Il contributo maggiore ai ricoveri per pazzia era fornito dal distretto di Treviso, con
1.273 eventi nel decennio 1882-1891, seguito da Oderzo con 456, Asolo con 455, Montebelluna e Conegliano ognuno con 409, Vittorio con
366, Castelfranco con 315 e infine Valdobbiadene con 183122. L’autore
riportò a tal proposito l’affermazione del dott. Gian Giacomo Banchie117 Ivi, pp. 242-243. Cfr. G. Zalin, L’Istituto Veneto di Scienze, lettere ed Arti e il
contributo empirico e teorico dei suoi “economisti nazionali”, in M.M. Augello,
M.E.L. Guidi (a cura di), Associazionismo economico e diffusione dell’economia politica, Milano 2000, pag. 76.
118 Cfr. G. Gregorj, La pazzia e la pellagra … cit. Gregorio Gregorj (1853-1938),
imprenditore trevigiano, assunse nel 1887 la direzione della fornace di famiglia Guerra-Gregorj, sita a Casier. Introdusse le nuove tecnologie industriali ed avviò, oltre ai
laterizi, la produzione delle ceramiche. Con la sua direzione la fornace assunse un
aspetto innovativo soprattutto in senso sociale: costituì una società di mutuo soccorso
per gli operai e fornì loro un’abitazione. Si occupò delle problematiche del mondo
agricolo e dell’emigrazione del territorio trevigiano, e si dedicò alla letteratura, coltivando amicizie tra i letterati e scrivendo poesie.
119 Ivi, pag. 20.
120 Ivi, pag. 24.
121 Ivi, pag. 37.
122 Ivi, pag. 59.
532
ri, direttore provinciale delle Case di salute, che nel 1892 affermava
che il Distretto di Treviso “mantiene il doloroso primato sullo sviluppo
della pazzia e in specie della pazzia pellagrosa”123.
L’amministrazione provinciale era costretta per legge a farsi
carico delle spese di spedalità delle persone ricoverate per pazzia: nel
decennio 1882-1891 le presenze totali giornaliere in strutture ospedaliere ammontarono a 1.590.936, con un incremento da 153.610 presenze del 1882 a 186.183 del 1891, e comportarono una spesa media annua per la provincia di circa 220.000 lire dell’epoca124.
Gregorj inoltre riferì un’interessante riscontro sull’esito favorevole delle cure prestate ai pellagrosi nel pellagrosario di Mogliano,
nel decennio 1883-1892, successivo alla sua istituzione: su 1.155 malati trattati e dimessi, 510 furono dichiarati guariti (pari a 44%) e 464 migliorati (pari a 40%), mentre il 15% ebbe una recidiva della malattia125.
Il territorio di Ceneda e Serravalle
La parte settentrionale della provincia di Treviso, nelle diverse statistiche effettuate durante il secolo XIX, risultò colpita dalla pellagra costantemente in misura minore rispetto alla pianura. Ciò è da attribuire al diverso regime fondiario prevalente nel territorio pedemontano e di conseguenza alla diversa modalità di conduzione delle aziende agricole, rispetto al resto della provincia. Con il Censo provvisorio
attivato a dicembre 1807 e completato a giugno 1808 vennero identificate sei zone agrarie in provincia, come premessa tecnica per i successivi catasti, e da esso risultò la Zona Orientale (Sinistra Piave), comprendente i comuni di Cappella, Ceneda, Cison, Colle, Conegliano,
Farra, Follina, Miane, Moriago, Pieve di Soligo, Revine, S. Pietro di
Barbozza, S. Pietro di Feletto, Sarmede, Segusino, Sernaglia, Serravalle, Susegana, Tarzo, Valdobbiadene, Vidor126. Nel 1848 la superficie
agraria e forestale della provincia, ammontante a 228.398 ettari (ha),
era a seminativo per 63,3%, a prati e pascoli per 26,6%, a colture legnose specializzate per 0,5%, a boschi per 7,2% e incolta per 2,4%; nel
confronto tra le diverse zone agrarie, la Zona Orientale aveva la percentuale più bassa di seminativo della provincia (39%), rispetto alla
zona attorno a Castelfranco e alla zona di Oderzo, dove il seminativo
123
124
125
126
Ivi, pag. 35.
Ivi, pag. 43.
Ivi, pag. 27.
G. Scarpa, Proprietà e impresa nella campagna trevigiana all’inizio dell’Ottocento, Venezia 1981, pag. 10.
533
raggiungeva una percentuale superiore a 80%127. Anche il regime fondiario era differente rispetto alle altre zone della provincia: se la superficie media in provincia per singolo proprietario era di 7,65 ha, nella
zona collinare essa scendeva a 6,60 ha, indice della presenza di molte
proprietà di dimensioni medio-piccole, rispetto alle altre zone agrarie128.
La proprietà fondiaria nella Zona Orientale (Sinistra Piave) risultava così suddivisa nel 1808: su 58.405 ha complessivi, 11.448 ha
appartenevano alla nobiltà (patrizi veneti e nobili di terraferma), 2.188
ha agli Enti religiosi, 1.098 ha agli Enti civili (come congregazioni di
carità, ospedali, ospizi), 21.174 ha agli Enti pubblici (come i Comuni e
il Demanio) e 22.497 ha ad altri soggetti (i privati cittadini non nobili)129. Rispetto al resto della provincia, vi era una minore presenza della
proprietà nobiliare, soprattutto a carico del patriziato veneto (19,6% rispetto a 32,6% della provincia), mentre era maggiore in questa area la
proprietà pubblica, residuo delle antiche proprietà collettive soprattutto
a bosco e pascolo (36,2% rispetto al 18% provinciale); tra i Comuni si
distinguevano quelli di Serravalle (860,22 ha), Revine (1.323,20 ha) e
Cison (1.041,59 ha)130. Gli Enti religiosi, dopo le alienazioni del periodo napoleonico, detenevano circa il 4% della superficie complessiva
nella Zona Orientale, al pari di quanto avveniva nel resto della provincia: a Serravalle si distinguevano le proprietà dei monasteri di S. Gerolamo (39,27 ha) e di S. Giustina (276,72 ha), a Ceneda quella del monastero del Gesù (46,13 ha)131. Tra gli Enti civili spiccava la Congregazione di Carità di Serravalle, con 103,55 ha132.
Anche le modalità di conduzione delle proprietà nella zona
pedemontana si discosta nettamente da quella del resto della provincia:
il 45,9% della superficie agraria era a conduzione diretta, il 50,8% in
affitto e il 3,3% a mezzadria, mentre la media provinciale era rispettivamente del 25,9%, del 70,9% e del 3,2%; vi erano comuni, come Fregona e Revine dove la conduzione diretta raggiungeva il 90%133; anche
le terre della Mensa Vescovile di Ceneda, pari a 23,16 ha, erano condotte direttamente134.
127
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134
534
Ivi, pag. 12.
Ivi, pag. 16.
Ivi, pag. 26.
Ivi, pag. 71.
Ivi, pp. 23-23
Ivi, pag. 87.
Ivi, pag. 45.
Ivi, pag. 47.
La conduzione diretta, specialmente nelle proprietà più estese,
si avvaleva anche di manodopera salariata fissa, che viveva nel fondo e
godeva dell’uso della casa e di una piccola porzione di terra destinata
ad orto, oltre a qualche campo in cui coltivare il granoturco, trattenendone un terzo per le proprie necessità135. La fascia di popolazione rurale che lavorava stabilmente un appezzamento di terra aveva così la possibilità di integrare la propria alimentazione con i prodotti dell’orto e
l’allevamento di animali da cortile; ben peggiore era la condizione dei
braccianti e dei salariati stagionali, come pure dei piccoli affittuari. Da
tutto ciò risulta nella zona pedemontana della provincia la predominanza del podere di piccole dimensioni, coltivato direttamente, anche se
talvolta gravato da livello136.
Se questa era la situazione all’inizio del secolo XIX, negli Atti
della Giunta per l’inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola (Inchiesta Jacini), del 1882, la relazione del commissario Emilio
Morpurgo descriveva per il territorio di Vittorio un assetto fondiario
sostanzialmente simile a quello di inizio secolo, rilevando soltanto un
discreto aumento della mezzadria137.
Questo assetto fondiario, pur non garantendo redditi sufficienti per un sostentamento continuativo, consentiva un’alimentazione abbastanza variata: ciò comportò che la pellagra, a Ceneda, Serravalle e
nei distretti amministrativi di competenza, avesse una diffusione importante, ma sistematicamente minore rispetto alle zone di pianura e ai
riscontri medi della provincia di Treviso.
Il 12 settembre 1814, il Prefetto del Dipartimento del Tagliamento co. Alfonso Porcia, con la Circolare n. 16947, promosse per la
prima volta nel territorio di sua competenza un’indagine statistica ri135
136
Ivi, pp. 47-48.
Ivi, pp. 38-40. Cfr. M. Berengo, L'agricoltura veneta dalla caduta della Repubblica all'Unità, Milano 1963, pag. 192. Il termine livello è riportato nell’accezione relativa al prestito in denaro e all’ipoteca. Un prestito in denaro rappresenta il
prezzo di un bene ipotecato, che risulta venduto al creditore. Il venditore, che riceve
il prestito, resta in possesso del bene, e ne diventa affittuario, versando al compratore
una quota annua. L’interesse del prestito diventa quindi canone di affitto, o livello.
Cfr. B. Brunoro, G. Follador, Livello e livellanti nella Valdobbiadene del Settecento,
in Comune di Conegliano (a cura di), Storiadentro 3, Conegliano 1980, pag. 51.
137 Cfr. Atti della Giunta per la inchiesta agraria … cit., Vol. IV: Relazione del
Commissario … cit., pag. 20. Emilio Morpurgo (1836-1885) fu un eminente economista di Padova, docente di statistica e Rettore dell’Università di Padova. Ricoprì la
carica di segretario generale del Ministero dell’Agricoltura dal 1873 al 1876, e di
Commissario per il Veneto per la commissione d’inchiesta sulle condizioni dell’agricoltura in Italia diretta da Stefano Jacini. Fu inoltre deputato al Parlamento fino alla
morte.
535
volta ai medici condotti e ai parroci, sulla diffusione della pellagra al
terzo stadio138. In essa il Prefetto si lamenta che pochi medici abbiano
soddisfatto adeguatamente ad una richiesta precedente di fornire notizie sulle malattie “che predominano tutti gli anni (…) cioè delle malattie endemiche.” Dà notizia della nomina del Cav. Ferdinando Porro
quale Commissario Straordinario per raccogliere finalmente le notizie
sulle malattie ”ed in ispecialità un’esposizione fedele del novero de’
pellagrosi esistenti, e degli effetti precisi, e non esagerati, né mancanti,
che ne derivano”.
Con lo stesso numero di protocollo e sempre in data 12 settembre 1814, venne pubblicato un appello a stampa ai Parroci, nel quale era richiesto l’elenco di tutti i pellagrosi residenti nelle rispettive
parrocchie. Si allegavano alcune note identificative della malattia: “La
pellagra è una malattia che specialmente si osserva nella classe più
indigente degli abitanti della campagna, e volgarmente si conosce sotto i nomi di scorbuto, di salso e di scottatura del sole”. Seguiva la descrizione dei segni e sintomi dei tre stadi della malattia139.
Il 13 aprile 1815 la Vice Prefettura di Conegliano trasmise ai
Comuni compresi nella propria giurisdizione la propria circolare n.
1975, volta a sollecitare l’effettuazione dell’indagine richiesta l’anno
precedente, evidentemente senza riscontro: “Il Governo con provvide
determinazioni si occupa dei mezzi valevoli a far diminuire o cessare
la terribile malattia della pellagra. Non è però possibile che in un’annata di tante calamità si pongano in pratica tutte quelle provvidenze
che tendono ad uno scopo così salutare. Fra gl’individui attaccati dalla pellagra meritano speciali riguardi, e più pronti aiuti quelli che sino
ormai arrivati al terzo stadio vale a dire al grado più avanzato del
male divenendo il più delle volte o maniaci, o aberati di mente, o ridotti all’estrema debolezza. Questa è la classe cui principalmente debbono essere dirette le cure delle Autorità specialmente quando le rispettive famiglie mancano affatto di mezzi per somministrar loro allimenti, e medicinali, e per tenerli custoditi in modo che possono né offendersi, né offendere. Egli è dunque necessario che dietro le indicazioni inoltrate dai Parrochi alla Prefettura in esaurimento della Circo138 ASVV,
S, Serie 38 b. 237. Circolare n. 16947 della Prefettura del Dipartimento del Tagliamento. Alfonso Gabriele conte di Porcia (1761-1835), figlio del conte
Alfonso e della contessa Leopoldina Attems, ricoprì diverse cariche pubbliche nel
Regno Lombardo-Veneto, tra cui la Prefettura del Dipartimento del Tagliamento dal
1814 e il Governatorato di Trieste dal 1823 fino alla morte. Si sposò con la contessa
Teresina di Porcia ed ebbe due figli.
139 Ibid.
536
lare a stampa 12 7mbre a.p. N.o 16947 siano da V.o Off.o raccolte col
mezzo dei Parrochi med.i tutte le notizie onde formare uno stato nominativo Cantonale dei pellagrosi che sono nel terzo stadio della malattia, indicando precisamente i maniaci, aberati di mente, e ridotti all’estremo, e mancanti di allimenti, e di assistenza. Non è difficile di poter
formare questo stato con esattezza, e sollecitudine, e quindi si raccomanda alla diligenza del Sig. Pod.à di voler trasmettere a questa Vice
Pref.a entro il breve periodo di 10 giorni e prima se fosse possibile lo
stato sumentovato, affine di poter compartire que’ provvedimenti o rimedj, che la Munificenza del Governo è intenzionata di assicurare a
tanti malati. Conegliano li 13 aprile 1815”140.
Dalle relazioni in risposta alla nuova circolare si ebbe un quadro abbastanza preciso della situazione. Per Serravalle il Prevosto Virginio Villi riportò 19 nominativi:“Comune di Serravalle 20 aprile
1815 - Elenco dei pellagrosi, o scorbuti persone miserabili che s’avvanzano giornalmente al terzo stadio di malattia e ridotti all’estrema
debolezza viventi, e domiciliati nella Parrocchia di S.a Maria Nova Masuto Augusta maniacca - Moretti Lucia inferma - Strazzer Giacinta
- Dal Bo’ Felicita - Pevera Paolina - Bortoluzzi Maria - Baldini Augusta inferma - Patria Cattarina inferma - Cervi Maria inferma - Grotola
Maria inferma - Dalla Giustina Anarossa - Mighetti Giovanna - Coletti Maria - Della Giustina Augusta - Giacomini Carlo infermo - Danelon Sebastiano infermo - Della Libera Bortolo - Da Re’ Pietro - Pierotti Girolamo infermo - D.n Virginio Villi Parroco Prevosto di S.a Maria
Nova di m.p., e col Sigillo della Chiesa”141. Il Curato di Fadalto Giobatta Scarpis elencò i nominativi di 78 “pellagrosi ridotti all’estremo”,
di cui 9 “alterati di mente”. Analogamente Luigi Lucchese, Parroco di
Fregona, il 19 aprile 1815 compilò una lista di 41 nominativi, tutti “villici”, di cui 16 “alterati di mente”, 34 “privi di mezzi di sussistenza” e
12 “privi di alimenti e/o assistenza”. Il Parroco di Revine il 21 aprile
1815 contribuì all’inchiesta con 8 nominativi di “individui attacati dalla pellagra arrivati al terzo stadio di questa Famiglia mancanti affatto
di mezzi per somministrare loro allimenti o medicinali o per tenerli custoditi in modo in modo che non possano né offendersi né offendere”.
Per Cappella risultarono 16 nominativi, di cui 7 alterati di
mente e 7 indigenti. Anzano contribuì con 34 persone, di cui 3 alterati
140 ASVV, S, Serie 38 b. 245.
141 Virginio Villi (1764-1832)
fu Prevosto di Serravalle dal 1801 fino alla morte.
La sua nomina a Prevosto o preposito coincise con l’erezione della Chiesa di S. Maria Nova di Serravalle a Collegiata, con bolla di Papa Pio VII del 4 maggio 1801. Cfr.
G. Villanova, Serravalle nella storia e nell’arte, Belluno 1977, pp. 311-312.
537
di mente. Il Pievano di Rugolo Antonio Genova accompagnò l’elenco
comprendente 15 malati con una postilla: “La soprascritta nota contiene soltanto la numerica de que’ pellagrosi ridotti al terzo stadio mancanti affatto di sussistenza, che spiegano i sintomi già indicati nella
Prefettizia Circolare diretta alli Sig.ri Parrochi in Settembre pross.o
pass.o, cioè la vertigine, la debolezza, la malinconia, la magrezza; non
però la tendenza ad uccidersi perchè insiste la stagion’ ancora rigida.
Repplico poi quanto ho scritto l’altra volta, che non capitando solecita
una qualche Providenza anco per que’ pellagrosi del secondo stadio
da quanto mi documenta l’esperienza, per prossimo settembre sono
tutti caduti nel terzo stadio, ne a me resta che il dolore d’aver perduto
un gran numero di Parrochiani, e di chiedere licenza d’ampliare il cimitero per seppellirli. Tanto certifico per la pura verità. In fede ecc.
dalla Can.ca di Rugolo 21 Aprile 1815 Meglior Ant.o Genova Pievano”.
Per Montaner rispose il dott. Giambattista Celotti, Medico Fisico Condotto, con una lista di 22 malati, tutti definiti “aberrati di
mente”, dei quali 7 classificati “maniaci”. Infine Bernardino Salvadori, Decano Parroco della Pieve di S. Andrea di Bigonzo di Serravalle,
ottemperò alla richiesta governativa con un elenco comprendente ben
83 nomi142.
Pertanto nel territorio di Serravalle, nel 1815, si ebbe il riscontro di ben 316 malati di pellagra al terzo stadio.
La medesima indagine fu effettuata anche a Ceneda, che inviò
alla Vice Prefettura di Conegliano soltanto la somma dei malati priva
dei nominativi: “Elenco pellagrosi 3 stadio - Ceneda e frazioni tranne
Pinidello 138 - Cordignano e comunelli annessi e Pinidello 64 - Tarzo,
Corbanese, Arfanta, Lago e frazioni 240 - Cison, Tovena, Rolle, Gai,
Zuel, Soler 102 - Follina, Miane, Farrò, Curazia di Follina, frazioni di
Col e Sottoriva 35 - Pieve di Soligo con Solighetto 26 - Tottalità de’
pellagrosi in terzo grado n. 605”143. La stessa fonte riportò anche il numero di abitanti nello stesso periodo: “Ceneda 6347 - Tarzo con Formeniga 3593 - Cisone con Follina 4219 - Pieve di Soligo 2600 - Cordignano 3918 - Totale abitanti 20676”144.
142 Ibid. Bernardino Salvadori (1757-1835), fu pievano di S. Andrea di Bigonzo
dal 1815 al 1834 e decano della Collegiata di S. Maria Nova di Serravalle. Nel 1834
viene trasferito a Serravalle con il titolo di Prevosto e la parrocchia di S. Andrea viene soppressa, ma muore pochi mesi dopo. Cfr. G. Villanova, Serravalle … cit., pag.
325.
143 ASVV, C, Serie 38 b. 199.
144 Ibid.
538
Ne consegue che nel 1815 la prevalenza dei malati di pellagra
al terzo stadio nella giurisdizione amministrativa di Ceneda è pari al
29,2 per mille abitanti; per Serravalle la situazione è leggermente migliore in quanto si riscontrano 316 pellagrosi su una popolazione stimata di circa 12.000 abitanti (prevalenza del 26 per mille)145.
Della situazione economica e sociale della popolazione di
Serravalle dell’epoca, si ha riscontro indiretto con il numero di abitanti
afferenti alla condotta medica di Serravalle (comprendente anche Revine) al 4 maggio 1819: essi sono in totale 5.288 (di cui 4.323 per Serravalle e 965 per Revine), di cui 4.200 circa classificati “poveri”146.
Dagli archivi emergono anche alcune storie di questi pazienti,
come quella di Garbellotto Augusta di Serravalle, ricoverata presso
l’Ospedale di Serravalle nel 1850. Questa è la sua scheda ospedaliera:
“Tabella normale relativa alla maniaca che viene fatta recludere nell’ospedale di Serravalle dal 7 febbraio 1850 al 21 febbraio 1850. Garbellotto Augusta Vedova dal Cin Valentino di anni 64 - Epoca di sviluppo della pazzia: saranno quindici giorni - Quali atti abbia commesso come contrassegni di alienazione mentale: straccia le massericcie e
minaccia di percuotere anche li propri figli - Cause note morali e fisiche: scorbuto - Cura praticata: nessuna - La Direzione dell’Ospitale
Civile di Serravalle certifica che Garbelloto V.a dal Cin Augusta maniaca furiosa miserabile di Serravalle accolta in questo Ospitale il dì 7
febbraio a. cor:e dimattina, ed è sortita dall’Ospitale il dì 21 detto di
sera quando per ordine superiore fatta tradurre al Manicomio Provinciale in Treviso avendo avuto il complessivo trattamento, e cura di
giornate quindici, diviso nelle seguenti diete - Dieta IV N. 15 - Conto
di Lire 15:00 - Nota: dietro Ordine superiore la Garbellotto Dal Cin
maniaca interdetta con Giudiziale Decreto 20 febbraio 1850 N. 661
verrà accompagnata al Nosocomio provinciale in Treviso, ed in quello
reclusa, come consta dal Delegatizio Decreto N. 2634/161 - La Deputazione Comunale si assume le spese di cura e mantenimento dei maniaci in base al Dispaccio Governativo n. 18711 del 2 maggio 1833. Regio Medico Fiscale di Polizia - R. Commissione politico-sanitaria”147.
La povertà peraltro, quando è accompagnata dalla pellagra,
preclude anche alcuni benefici che sono previsti per gli altri poveri che
145 Sulla difficoltà di stabilire la consistenza della popolazione del periodo e della
verosimile inattendibilità di alcuni dati ufficiali, Cfr. G. Tomasi, Arriva il progresso!
in Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche (a cura di), Ceneda e Serravalle in epoca
napoleonica e austriaca, Vittorio Veneto 2010, pag. 21.
146 ASVV, S, Serie 38 b. 269.
147 ASVV, S, Serie 38 b. 497.
539
si ammalano, a riscontro che tale malattia costituisce motivo di progressiva esclusione sociale.
Nelle informazioni che la Direzione del Pio Asilo di Carità di
Recoaro, in provincia di Vicenza, invia ai medici perché segnalino i
malati poveri per l’accoglienza nella struttura, la pellagra diventa infatti una controindicazione: “Si accompagna l’elenco delle malattie nelle
quali è o controindicato l’uso di queste Acque Minerali, pregando che
sia fatto conoscere ai proprj Medici-Chirurghi con raccomandazione,
nel rilascio di attestati ai malati poveri da accogliersi in questo pio
Asilo di Carità, d’interpretare latamente le malattie indicate, e strettamente quelle controindicate all’uso delle Acque Minerali. Dalla Direzione del pio Asilo di carità, Recoaro li 24 marzo 1852 - Il Direttore
Jacopo D.r Bologna - Elenco delle malattie nelle quali è controindicato l’uso delle acque: (…) Pellagra in qualsiasi stadio …”148.
In questo contesto tuttavia si distinsero alcune figure di medici, come il dott. Giovanni Battista Celotti, medico condotto a Cordignano, Sarmede e Montaner, che segnalarono ripetutamente all’autorità
pubblica la drammaticità dei casi di pellagra riscontrati nei territori di
loro competenza. In taluni casi l’appello venne recepito, come avvenne
per il Vice Prefetto del Distretto di Ceneda, Marino Zuliani, che il 2 luglio 1807 emanò la circolare n. 409, chiedendo che tutti i medici del
Distretto seguissero l’esempio del dott. Celotti, facendo rapporto “nel
formare un quadro veridico dello stato attuale di una malattia, che
sempre più si diffonde, e ferisce la Patria nei suoi più cari interessi.
Amerei altresì che s’impegnasse lo zelo de’ Signori Parrochi a render
nota la necessità di ricorrere al consiglio, ed alla assistenza medica al
primo screpolar nel dorso delle mani dell’epidermide volgarmente detta scottarola specialmente nella stagione di primavera, affinchè opportunamente combattuta nei suoi principj la malattia non passi per inscienza, o trascuraggine a uno stadio, in cui se ne rende difficile, e talvolta, impossibile la guarigione. Ho interessato la vostra umanità anzichè il dovere. Avrei temuto, che il linguaggio di questo avesse offeso
la vostra delicatezza in un argomento, in cui la sensibilità deve essere
altamente penetrata”149.
Dopo la statistica del 1815, che evidenziò 921 casi di pellagra
per il territorio di Ceneda e Serravalle, si ebbe una lacuna temporale
148 ASVV, S, Serie 38 b. 521.
149 ASVV, S, Serie 38 b. 200.
Marino Zuliani, di nobile famiglia cenedese, ricoprì
diverse cariche pubbliche alla caduta della repubblica veneziana. Nel 1797 divenne
Presidente della Municipalità di Ceneda e in seguito Vice Prefetto del Distretto di Ceneda. Cfr. V. Ruzza, Dizionario Biografico … cit., pag. 379.
540
molto estesa, relativamente ai dati di malattia: infatti nella rilevazione
del 1856 per la provincia di Treviso mancano i risultati disaggregati a
livello subprovinciale150. Nel 1879, con la prima inchiesta sull’agricoltura del Regno d’Italia, per il distretto di Vittorio passò a 220 pellagrosi151 e già è stato riferito sulla dubbia accuratezza dei relativi risultati.
Così l’altra indagine statistica del 1879, promossa dalla Deputazione
Provinciale, e più verosimile, riportò per il Distretto di Vittorio 578
malati di pellagra (365 maschi e 213 femmine). Essi erano costituiti da
281 persone già ammalate prima del 1879, cui si aggiungevano altre
297 colpite nel corso dell’anno 1879. Nel corso dello stesso anno, tra
tutti i malati, 67 furono dichiarati guariti, 55 decedettero e 30 vennero
reclusi negli ospedali, per cui alla fine del 1879 risultarono ancora in
cura 426 pellagrosi. Il numero maggiore di pellagrosi si ebbe a Sarmede con 72 casi, seguito da Cappella con 59, Vittorio con 52 e Cison con
37; Colle Umberto contribuì con un unico pellagroso152.
Nella monografia allegata agli Atti della Giunta per l’inchiesta
agraria, Luigi Alpago-Novello riportò una tabella con i dati di prevalenza della pellagra divisi per Comune: Vittorio 0,25% - Cappella 2% Cison 8% - Colle Umberto 1% - Cordignano 4% - Follina 5% - Fregona 1,30% - Revine Lago 1% - Sarmede 1,50% - Tarzo 5% - Miane
3,30%.
Egli riportò anche i dati degli altri Comuni dei Distretti di Vittorio, Oderzo e Conegliano, tra cui spiccavano Refrontolo 10%, Piavon
17%, Ormelle 5%, Cessalto 8%, Mansuè 6%, Pieve di Soligo 8%, Mareno 6%. La prevalenza media della malattia nei tre Distretti considerati era di 2,86 pellagrosi ogni 100 abitanti, per un totale di oltre 4.000
malati153.
Lo stesso autore riconosceva l’inaffidabilità di alcuni dati;
può tuttavia essere ritenuto verosimile il numero di pellagrosi di Cison,
pari appunto a 8% degli abitanti, dal momento che fu rilevato direttamente dallo stesso Alpago-Novello, medico condotto appunto di Cison
di Valmarino.
Nella successiva inchiesta nazionale del 1881, il numero dei
malati del Distretto di Vittorio diventò 537 (di cui 285 maschi e 252
150
151
Cfr. L. Vanzetto, I ricchi e i pellagrosi … cit., pag. 142.
Cfr. Atti della Giunta per la inchiesta agraria … cit., Vol. IV: Relazione del
Commissario … cit., pag. 170.
152 Ivi, pag. 245.
153 Atti della Giunta per la inchiesta agraria … cit., Vol. V: Tomo II: 4. Monografia … cit., pag. 219.
541
femmine). Dei 10 comuni del Distretto di Vittorio, solo il Comune di
Colle risultò indenne da pellagra154.
Lo stesso Distretto di Vittorio contribuì con 366 casi ai 3.866
ricoveri per pazzia nel decennio 1882-1891. Il dettaglio dei ricoveri in
manicomio e nelle case di salute tra i comuni del Distretto era il seguente: Vittorio 135 casi, Cappella 17, Cison di Valmarino 34, Colle
Umberto 7, Cordignano 53, Follina 22, Fregona 35, Revine-Lago 21,
Sarmede 13, Tarzo 29. Il prospetto complessivo del Distretto di Vittorio per singolo anno risultava così: 65 casi (1882), 45 (1883), 49
(1884), 12 (1885), 41 (1886), 35 (1887), 20 (1888), 27 (1889), 37
(1890), 35 (1891), per un totale di 366 ricoveri155.
A distanza di quasi ottant’anni dai rilievi del dott. Celotti, un
altro medico, il dott. Luigi Alpago-Novello, medico condotto a Cison
di Valmarino, descrive una situazione per i pellagrosi non molto diversa: “Il numero di questi infelici ci pare considerevole, ma tuttavia le
autorità che qui tutelano unguibus et rostro la salute del bestiame non
se ne danno punto per intese”156.
Tutto questo avvalora la constatazione che il territorio di Ceneda e Serravalle, dalle diverse rilevazioni statistiche effettuate nel corso del secolo XIX, ha sofferto meno di pellagra rispetto ad altre aree
del Trevigiano. Di più, nei primi decenni del secolo l’incidenza della
malattia nella fascia pedemontana risultava maggiore che alla fine dello stesso secolo, anche in questo caso in controtendenza rispetto al resto della provincia di Treviso. Un ruolo importante per tale risultato
sembra essere il maggior equilibrio sociale in agricoltura presente nel
territorio di Ceneda e Serravalle, rispetto alla gravità dei problemi sociali connessi alla gestione dei grandi latifondi della pianura157. Rimane
la constatazione del lungo tempo perduto per adottare la giusta soluzione al problema della pellagra, che molte menti illuminate, anche nel
nostro territorio, avevano già individuato e proposto.
154
155
156
Cfr. G. Gregorj, La pazzia e la pellagra … cit., pag. 61.
Ivi, pag. 60.
Atti della Giunta per la inchiesta agraria … cit., Vol. V: Tomo II: 4. Monografia
… cit., pag. 220.
157 Cfr. G. Scarpa, Proprietà e impresa … cit., pag. 26.
542
Bibliografia essenziale
1. JACOPO ODOARDI, D’una spezie particolare di scorbuto, Venezia
1776
2. GIAMBATTISTA MARZARI, Saggio medico-politico sulla pellagra
o scorbuto italico, Venezia 1810
3. FRANCESCO LUIGI FANZAGO, Sulla pellagra, Padova 1815
4. GAETANO STRAMBIO, Da Legnano a Mogliano Veneto: un secolo
di lotta contro la pellagra, in Memorie del Reale Istituto Lombardo di
scienze e lettere, Volume 17, Milano 1890
5. CESARE LOMBROSO, Trattato profilattico e clinico della pellagra,
Torino 1892
6. GREGORIO GREGORJ, La pazzia e la pellagra nella provincia di
Treviso. Studio statistico, Treviso 1893
7. LUIGI ALPAGO NOVELLO, Il granoturco e la pellagra. Belluno
1905
8. MARINO BERENGO, L'agricoltura veneta dalla caduta della Repubblica all'Unità, Milano 1963
9. Atti della Giunta per la inchiesta agraria sulle condizioni della classe
agricola: Inchiesta Jacini, Bologna 1982 (Rist. anast. dell'ed. di Roma
del 1882). Vol. IV: Relazione del Commissario Emilio Morpurgo sulla XI Circoscrizione (provincie di Verona, Vicenza, Padova, Rovigo,
Venezia, Treviso, Belluno e Udine). Vol. V: Monografie agrarie, allegate alla Relazione sulla XI Circoscrizione.
543
10. ALBERTO DE BERNARDI, Il mal della rosa. Denutrizione e pellagra nelle campagne italiane fra ’800 e ’900, Milano 1984
11. LIVIO VANZETTO, I ricchi e i pellagrosi: Costante Gris e la fondazione del primo pellagrosario italiano, Mogliano Veneto 1883, Abano
Terme 1985
544
L'epidemia della Spagnola
Relazione presentata al Convegno da
Lorenzo CADEDDU
L’Influenza Spagnola, conosciuta anche come Grande Influenza, è il nome dato ad una pandemia influenzale che fra il 1918 e il 1920
uccise dai 30 ai 50 milioni di persone in tutto il mondo.
Nessun Paese si salvò da questa pandemia.
E’ descritta dalla letteratura medica come la più grave forma
di pandemia della storia dell’umanità avendo causato più morti della
cosiddetta “Peste Nera” esplosa nel XIV secolo.
Il numero dei decessi che causò superò, di gran lunga, il numero complessivo dei combattenti caduti durante il conflitto mondiale.
Sull’origine del nome “Spagnola” esistono due teorie: la prima fa risalire il nome al Re di Spagna che fu la personalità più illustre
colpita dal morbo; la seconda trarrebbe l’origine del nome dal fatto che
di questa forma influenzale mortale parlavano soltanto i giornali spagnoli (la Spagna non era coinvolta nel conflitto) mentre tutto il resto
del mondo, che era in guerra, non reputava opportuno trattare questo
argomento che certamente avrebbe influito ancor di più sul morale dei
cittadini e dei soldati al fronte.
La diffusione della pandemia venne tenuta nascosta dai mezzi
d’informazione che tendevano a parlarne come di una epidemia circoscritta alla Spagna.
In realtà il virus venne portato in Europa dalle truppe statunitensi che, a partire dall’aprile del 1917, affluirono in Francia per combattere il conflitto europeo. Dalle biopsie effettuate su alcuni militari
statunitensi deceduti a causa di questa influenza i ricercatori poterono
ricavare i frammenti del virus per studiarlo alla luce delle limitate conoscenze del tempo.
Quando l’epidemia fece la sua comparsa sul fronte francese la
guerra durava ormai da quattro anni e trattandosi di guerra di posizione
milioni di uomini vivevano letteralmente ammassati l’uno sull’altro in
trincee anguste nelle quali le condizioni igieniche erano terribili e questo favorì la diffusione del virus.
545
Il particolare contesto storico in cui si manifestò la pandemia
favorì la sua diffusione e, soprattutto, la mortalità tra i colpiti.
Complessivamente sembra che nel mondo furono oltre un miliardo i colpiti da questa patologia anche se non è possibile fornire dati
precisi né sui colpiti né sui deceduti. In alcune comunità, però, il numero dei colpiti raggiunse il 70% della popolazione.
Va comunque considerato che all’insorgere della pandemia la
penicillina non era ancora stata scoperta (bisognerà attendere il 1928
perché Fleming faccia la sua scoperta).La gravità e l’origine della malattia non erano state comprese a causa, soprattutto, delle scarse conoscenze scientifiche.
Sebbene l’influenza fosse causata da un virus e che comunque
sarebbe stato inutile l’impiego degli antibiotici, si sa che la maggior
parte dei decessi si ebbero per complicazioni batteriche cioè per infezioni che colpirono fisici indeboliti dalle conseguenze del conflitto in
atto.
Per queste infezioni, se fossero stati disponibili, gli antibiotici
avrebbero potuto rappresentare un validissimo presidio medico in grado di ridurre drasticamente la mortalità.
In Italia il morbo si manifestò per la prima volta a Sossano, in
provincia di Vicenza, nel settembre del 1918, quando l’ufficiale medico
di un reparto d’assalto invitò il Sindaco a chiudere le scuole per una sospetta epidemia di tifo.
Di lì a poco si scatenò in tutto il nord Italia l’emergenza che,
pian piano si estese a tutto il territorio nazionale giacché militari in licenza “esportarono” il morbo anche nel Centro e nel Meridione d’Italia.
Pur colpendo duramente tra le truppe italiane, la Spagnola colpì maggiormente i combattenti austro-ungarici che lamentarono circa
due milioni di morti cioè tre volte il numero dei colpiti militari italiani.
La causa è da ricercarsi soprattutto nella sottoalimentazione
cui erano soggetti gli austro-ungarici a causa dello stretto blocco navale che rendeva impossibile l’importazione di quanto sarebbe stato necessario.
La storiografia tedesca attribuisce questa maggiore incidenza
della mortalità alla sconfitta mentre in Italia non è stata mai fatta un’indagine in questo senso.
Risentirono di queste difficili condizioni anche i prigionieri
italiani rinchiusi nei campi di concentramento austriaci disseminati nel
territorio dell’impero.
546
Vediamo, adesso, come la Spagnola si manifestò nella provincia di Treviso.
Racconta Ernesto Brunetta che il 4 novembre 1918 mentre in
tutto il capoluogo della Marca si festeggiava la conclusione vittoriosa
del conflitto morivano colpiti da febbre “spagnola” Teso Clorinda di
anni 2, Marchetto Carolina di anni 26 di professione “villica” e Gerotto
Angelo di anni 22 di cui non si conosce la professione.
Con la stessa diagnosi e nello stesso giorno morivano nel locale nosocomio Piovesan Vincenzo di anni 67, Fort Giovanni di anni
40 e Lana Luigi che risulta essere un soldato ricoverato in uno dei centri sanitari di retrovia.
Oggi sappiamo che si trattava del soldato Lana Luigi, nato a
Mediglia in provincia di Milano e in servizio al 3° reggimento bersaglieri.
Quando in provincia comparve l’influenza questa, molto democraticamente, non fece distinzione tra civili e militari, tra ricchi e
poveri e tra giovani e anziani.
La febbre, molto alta, si presentava come una delle tante influenze che, periodicamente, colpivano le popolazioni e che colpirà anche in seguito. Ma questa influenza aveva un corso molto rapido che
degenerava poi in edema polmonare dando poi luogo a complicazioni
cardio-vascolari dalle quali non v’era possibilità di guarire.
Senza sulfamidici e senza antibiotici perché ancora da scoprire era praticamente impossibile bloccare l’infiammazione dei tessuti e
conseguentemente tutto era affidato alla capacità dei singoli organismi
di superare la fase critica.
Non appare facile dimostrare un rapporto di causa-effetto tra il
diffondersi della malattia e le condizioni di vita di popoli ed eserciti se
è vero che l’influenza Spagnola esplose inizialmente in Europa proprio
nella Spagna, Paese non belligerante, e colpì molto duramente gli Stati
Uniti d’America che era sì una grande nazione lontana dalla guerra ma
era anche il luogo dove l’Epidemia si manifestò per la prima volta in
assoluto.
Tuttavia è certo che la difficile vita di trincea o i drammi del
profugato, cioè lo stato di miseria nella quale versavano le classi più
deboli della società, favorirono il diffondersi del morbo.
La malattia ebbe il suo culmine tra l’ottobre del 1918 e il gennaio del 1919 anche se, ovviamente, vi fu una coda piuttosto lunga che
fece vittime per tutto il 1919.
547
Secondo Paolo Preto in Italia i deceduti accertati a causa della
“spagnola” furono circa 274 mila mentre per altri 500 mila si ritiene
che si possa affermare senza ombra di dubbio che tra la morte e la malattia esisteva un chiaro nesso1.
Quando l’influenza esplose in tutta la sua virulenza nessun
mezzo era stato approntato per un minimo di prevenzione e di profilassi e questo perché le autorità sanitarie civili e militari erano orientate a
ritenere la patologia di tipo colerico tanto che il Ministero dell’Interno
fece distribuire a tutte le Prefetture un opuscolo sulla profilassi del colera.
Oltre ad un doveroso e necessario richiamo alla pulizia corporale e dei locali l’opuscolo trattava due argomenti particolarmente significativi: la paura del male come più pericolosa del male stesso e il
timore che il panico provocasse un grave turbamento dell’ordine pubblico arrivando, magari, a scatenare una pericolosa caccia all’untore e
riconoscendo in ipotetiche spie e nel nemico austro-ungarico gli agenti
infettivi che avevano provocato l’influenza.
In Italia l’epidemia di colera si manifestò con una virulenza
inferiore a quella che colpì gli altri Paesi europei e dunque una involontaria sottovalutazione del male se non completamente scusabile era,
comunque, abbastanza comprensibile considerando anche che eravamo
un Paese in guerra.
Anche in Spagna, che pure era un Paese neutrale, il problema
dell’influenza venne sottovalutato al punto che lo stesso medico che
aveva studiato come la sintomatologia fosse diversa dalle consuete influenze, venne costretto all’isolamento2.
Non può dunque meravigliare se l’ autorità governativa utilizzasse le notizie sull’epidemia come arma di propaganda attribuendo,
cioè, al nemico la causa della pandemia.
Il 1° agosto una circolare del Ministero degli interni informava le Prefetture che in “…Svizzera serpeggia grave epidemia con effetti letali della cosiddetta malattia spagnola importata da Germania…”3.
Insomma, potremmo dire che l’odio veniva usato come motivazione a combattere con maggior determinazione il mondo austro-tedesco.
1 Paolo Preto, Epidemia, paura e politica nell’Italia moderna, Roma-Bari, Laterza, 1987 p. 251.
2 Richard Collier, La malattia che atterrì il mondo Milano, Mursia, 1980 p. 11.
3 Archivio Centrale dello Stato di Treviso, Telegramma Ministero Interno alle
Prefetture del Regno , 1° agosto 1918.
548
Il 15 ottobre il Prefetto di Milano vietò i cortei funebri e qualsiasi segno esteriore del lutto quando, invece, gli usi e i costumi inducevano a manifestazioni di cordoglio maggiori di quelle che si usano ai
giorni nostri.
Non era una forma di esorcismo ma il tentativo di non abbassare ulteriormente il morale delle popolazioni già scosso dal perdurare
della guerra e dalla partecipazione a questa di molti familiari.
Si arrivò persino, da parte del Consiglio Superiore di Sanità, a
rivolgersi, soprattutto nelle campagne, al clero nel timore che una popolazione semplice e superstiziosa potesse far ricorso alla superstizione
come rimedio al male.
Si invitavano quindi i sacerdoti per convincere i contadini a
non affidarsi ai ciarlatani e alle loro pozioni magiche.
Anche questo appello del Consiglio Superiore di sanità ci da
la misura di come, in assenza di una terapia efficace, la paura della
morte favorisse il diffondersi di sistemi curativi che nulla avevano a
che vedere con la medicina ufficiale.
Bisognerà giungere al 24 ottobre 1918, giorno in cui iniziava
l’offensiva italiana sul Monte Grappa, per far dire al Capo del Governo
quanto i Capi di Governo di tutte le nazioni, usano dire in queste circostanze e cioè che la malattia era “…terribile, misteriosa, ignota nella
sua causa e invincibile nei suoi effetti…”4.
La febbre spagnola colpì particolarmente una popolazione già
fiaccata dalla miseria e quindi priva di difese immunitarie che già di
per se non erano di livello elevato.
L’arrivo dei profughi, poi, aggiunse miseria alla miseria.
Ai primi del 1919, conclusa felicemente la guerra, le Autorità
Sanitarie poterono dedicarsi non solo alla cura ma anche alla prevenzione della patologia.
Sappiamo che il 26 gennaio la Giunta Comunale di Treviso
deliberò di “…mettere gratuitamente a disposizione della popolazione
povera il vaccino antinfluenzale…”.
Evidentemente un vaccino esisteva ma a pagamento e quindi
riservato a chi si poteva permettere di acquistarlo.
Il successivo 1° marzo la stessa Giunta deliberò l’obbligatorietà della vaccinazione di quanti lavoravano a contatto con il pubblico.
Ma nel marzo del 1919 l’epidemia era già in fase discendente
e, pian piano, come era arrivata scomparve misteriosamente.
4
Paolo Preto, op. cit. pp. 251-252.
549
Secondo le credenze popolari l’epidemia venne catalogata
come dovuta a cause naturali, ad imprevisto e imprevedibile frammischiamento di germi che poi si erano trasmessi da un uomo ad un altro
e da un Paese all’altro.
Sarebbe stato molto più romantico e, perché no, patriottico,
immaginare che l’epidemia fosse stata provocata dal nemico e che
quindi, battuto il nemico, anche l’epidemia sarebbe pian piano scomparsa.
Le cose erano sempre andate così, bisognava ricercare assolutamente il colpevole e non si vedeva perché non sarebbe dovuto andare
così anche per l’epidemia della spagnola e dato che l’opinione pubblica
soprattutto europea attribuiva agli austro-tedeschi nefandezze compiute
nei paesi occupati, anche quella volta le cose dovevano essere andate
così perché “…la malvagità diabolica dei nostri nemici…” rendeva assolutamente credibile qualsiasi notizia5.
INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE GENERALI
Great Britain – Ministry of Health, Report on the Pandemich of Influenza, 19181919, H.M. Stationery Office, London 1920
R. Collier, The Plague of the Spanish Lady: the Influenza Pandemic of 1918-1919,
Atheneum-Macmillan, New York-London 1974, ed. it. La malattia che atterrì il
mondo, Mursia, Milano 1980, poi nuovamente edito con il titolo: L'influenza
che sconvolse il mondo. Storia della Spagnola, la pandemia che uccise 20 milioni di persone, Mursia, Milano 2006
A. W. Crosby jr., Epidemic and Peace, 1918, Greenwood Press, Westport (Conn.)London 1976
P. Preto Epidemia, paura e politica nell’Italia moderna, Roma-Bari, Laterza, 1987
F.R. Van Hartesveldt (cur.), The 1918-1919 Pandemic of Influenza: the Urban Impact
in the Western World, Edwin Mellen Press, Lewiston 1992
G.B. Kolata, Flu: the Story of the Great Influenza Pandemic of 1918 and the Search
for the Virus that Caused it, Pan, London 2001
E. Tognotti, La Spagnola in Italia. Storia dell'influenza che fece temere la fine del
mondo., Franco Angeli, Milano 2002
H. Phillips-D. Killingray (curr.), The Spanish Influenza Pandemic of 1918-19: New
Perspectives, Routledge, London 2003
J. Winter, L'Influenza Spagnola, in Encyclopédie de la Grande Guerre 1914-1918,
Bayard, Paris 2004, ed. it., La Prima Guerra Mondiale, Einaudi, Torino 2007,
vol. II, pp. 283-288
5
550
Paolo Preto, op. cit. p. 252.
Peste, Sanità e Morte nella Terraferma Veneta.
Quando il «Gran Contagio» serpeggiò per Ceneda e Serravalle
(1630-1631)
Comunicazione agli Atti del Convegno
presentata da
Oscar DE ZORZI
Ringrazio la Presidente del Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche, prof. Loredana Imperio, per avermi consentito questa «comunicazione». Essa riassume, il più succintamente possibile, uno studio, al
quale sto attendendo da oltre un anno e che spero si concluderà con la
pubblicazione di un libro nel 2013, sulla carestia e sulla peste nella
Terraferma veneta (e nella contermine Patria del Friuli), con particolare
riferimento a Ceneda ed a Serravalle, e su altri aspetti legati alla Sanità
e all’istruzione per le due cittadine che formano l’odierna Vittorio Veneto.
In questa sede gli argomenti sintetizzati vertono solo sulla peste e sui «rimedi» medici addottati nei secoli. Rimando ogni riferimento archivistico e bibliografico alla prevista pubblicazione.
Come ovvio, poiché questa «comunicazione» è la sintesi di un
lavoro «in corso d’opera», i contenuti sono suscettibili di aggiustamenti e di rettifiche.
La peste è una malattia infettiva di origine batterica, non ancora completamente debellata e presente tutt’ora anche in alcune regioni di paesi industrializzati. E’ dovuta ad un batterio che normalmente è
ospite delle pulci parassite dei roditori domestici e selvatici, in particolare i ratti. Le specie imputate dei ratti sono il «Mus rattus» e il «Mus
decumanus»; il secondo, a differenza del primo che ne è sprovvisto, è
munito di membrane interdigitali che lo rende buon nuotatore (attraversa fiumi, si annida nelle navi, si muove nei porti, penetra nelle fogne e
di qui nei magazzini delle città ed ha soppiantato il «rattus»; è il roditore che costituisce il principale veicolo attraverso il quale la peste è circolata e circolerà ancora. Quando le pulci infettano gli animali domestici come i gatti ed i cani, il batterio non causa solitamente alte percentuali di mortalità, per cui questi animali divengono - di fatto - delle
riserve infettive a lungo periodo. Se occasionalmente un’epidemia uc551
cide un grosso numero di roditori, le pulci cercano nuovi ospiti e si trasmettono anche agli umani, causando così il diffondersi della malattia.
Principalmente la peste si manifesta in tre forme diverse, in
alcuni casi anche compresenti:
- la «peste polmonare» nella quale il batterio infetta quegli organi e si trasmette attraverso l’aria poiché l’espettorato contiene grosse
quantità del batterio. Si presenta con una grave tosse che produce un
escreato ematico schiumoso e difficoltà di respirazione. E’ una delle
forme più pericolose per il potenziale epidemico e può derivare anche
dalla degenerazione delle altre forme; se non viene prontamente curata
è pressoché mortale;
- la «peste bubbonica» che è quella più comune e si manifesta
con la puntura di pulci infette oppure col contatto di materiale infetto
sulla pelle lesionata delle persone. La tipicità di questa forma è l’insorgere di dolorosi bubboni, ingrossamenti infiammati delle ghiandole linfatiche, seguiti da febbre, mal di testa, brividi, vomito, sete intensa, dolori generali, debolezza, sopore mentale e delirio. Al terzo giorno, da
quando sono iniziati i sintomi, compaiono sulla cute macchie nere (da
cui deriva il nome di «peste nera» o «morte nera» per l’epidemia della
metà del Trecento) e tra il secondo ed il quinto giorno dolenza ed ingrossamento dei linfonodi; i casi più virulenti durano cinque/sei giorni
e portano alla morte e solo se il malato sopravvive dopo il decimo/dodicesimo giorno, può guarire;
- la «peste setticemica» che è la conseguenza della moltiplicazione del batterio nel sangue e può derivare dalla complicazione delle
due altre forme di peste. Si contrae come quella «bubbonica» e causa
febbre, brividi, dolori addominali, shock e prostrazione, sanguinamento
della pelle e di altri organi.
Nulla di definitivo si conosce sul luogo d’origine della peste:
l’Asia o l’Africa.
Alcuni studiosi sono orientati ad individuare nell’Asia, tra
Cina, India e Birmania, ai piedi dell’Himalaia, la culla da cui si propagò poi per tutta la Terra l’«idra venefica»; altri sono portati a focalizzare in Africa, sotto l’Equatore nel Nord Kivu, un focolaio anteriore,
sempre attivo, che poi andò ad unirsi a quello asiatico, ed è probabilmente da lì che si espanse la prima epidemia dell’Alto Medioevo, la
cosiddetta «peste giustinianea» che, in una ventina di ondate, colpì, tra
il 541 (cominciò in quell’anno a Pelosa, sul Nilo) e il 767 d.C., tutto il
mondo allora conosciuto, dagli scali del Mediterraneo, del vicino
552
Oriente, Costantinopoli, la Spagna, l’Africa del Nord fino alla costa
dalmata, l’Italia fino alle Alpi, la Germania fino a Treviri e la Francia
(fino ai limiti della diocesi di Reims); per altri due secoli viaggiò tra gli
scali portuali, costantemente, importata nuovamente da Costantinopoli
a Cartagine, Marsiglia, Roma, Napoli, Venezia: questa volta però in
minore profondità all’interno delle terre.
La peste rimase poi assente per sei secoli dall’Europa e, nella
prima metà del Trecento, il morbo, dalla Cina ove ricompariva con frequenza quasi annuale, s’incamminò nuovamente verso ovest, lungo le
vie commerciali.
Le fonti sono abbastanza numerose e permettono di stabilire
una cronologia del viaggio del flagello verso l’Europa.
Il morbo segnò il suo passaggio tra il 1336 e il 1339, e nel
1346 raggiunse Tabriz e Astrakhan. Da lì arrivò al Mar Nero, in Crimea, nel 1347, aggirando il Mare d’Aral ed il Mar Caspio. Nello stesso
anno, da quella penisola si propagò in Europa, fino alla Scandinavia ed
alla Russia, a seguito, in parte, di un atto di vera e propria guerra batteriologica «ante litteram».
Pare che il primo che ebbe l’idea di colpire il nemico con la
peste sia stato il tartaro Khan Djanisberg, quando, nel 1347, nell’assedio che da tempo stava portando alla città di Kaffa, scalo commerciale
e fondaco dei Genovesi in Crimea, e da loro difesa, decise di utilizzare
i cadaveri dei soldati morti di peste in seguito ad un’epidemia scoppiata all’interno del proprio esercito, catapultandoli oltre le mura; di fronte
al timore del contagio i Genovesi fuggirono, ma portarono la peste in
occidente. Verso la metà del 1347 il male dilagò a Pera e a Costantinopoli, in ottobre a Messina e poi, a fine anno, a Genova e Spalato. A Venezia e ad Almeria giunse all’inizio del 1348. Approdò quindi nell’Europa occidentale e con virulenza invase l’Africa del Nord, Cipro, l’Anatolia, la Siria, la Palestina, l’Egitto. Dal porto di Marsiglia salì, dividendosi verso l’Atlantico e verso il nord, guadagnando Bordeaux e Parigi, rispettivamente in agosto e in dicembre del 1348. Dallo scalo di
Calais approdò in Inghilterra, in Irlanda, nelle Fiandre, a Brema e in
Danimarca. Da Venezia raggiunse la pianura Padana, la Dalmazia e
l’Europa centrale, e Vienna conobbe la peste nell’estate del 1349. Dal
porto di Genova si propagò in Toscana, salì in Svizzera e discese il
Reno fino a Colonia. L’anno dopo, nel 1350, penetrò nel Baltico, in Polonia e nella Russia europea, mentre nella Scandinavia venne portata
dai navigli inglesi che giunsero alla città portuale di Bergen.
553
In tre/quattro anni, quindi, l’epidemia fece il giro dell’Europa,
causando la morte – si stima – di 60 milioni, tra il 20 ed il 30 per cento
della popolazione, e rimase endemica o importata nuovamente dall’Oriente per circa cinque secoli, sparendo e ricomparendo qua e là con attacchi più o meno virulenti.
A Venezia, la peste del 1348 trovò la popolazione ancora in
preda al panico per il terremoto del 25 gennaio di quell’anno che colpì
il Veneto, il Friuli ed altri paesi d’oltralpe, e per un’ondata migratoria
di una massa di poveri e di indigenti, spinti dalla carestia dell’anno precedente verso la capitale; Venezia, infatti, abitualmente si riforniva di
grano dalla Sicilia e dal Mar Nero ed era più facile trovare nella Dominante un tozzo di pane ed un’elemosina per allentare i morsi della
fame.
Dalle cronache contemporanee e di poco tempo dopo, si ricava che i morti furono da uno a più di due terzi della popolazione
(esclusi quelli che fuggirono per timore del contagio) o, nello specifico, 100.000 (d’ora in poi tutte le cifre sono arrotondate) in tutto il Dogado, la cui popolazione era di 160.000 anime; nell’aprile del 1348 furono scelte due isole dove seppellire in fosse comuni i cadaveri dei poveri senza tetto, ma non bastarono e allora si dovettero deputare altre
isole per la tumulazione dei miserabili.
Il recupero demografico fu durissimo.
Tra i sopravvissuti, secondo una cronaca contemporanea, sia a
Venezia sia altrove, si sviluppò una sorta di immunità, tant’è che quando la «falce nera» riapparve nel 1360-1361, morirono soprattutto le
persone nate dopo il ’48; nel 1371, invece, toccò ai genitori ed i loro figli, conseguentemente, andarono ad affollare l’Ospedale della Pietà.
Un’alternanza di decessi tra generazioni.
Nella Terraferma furono colpite particolarmente Treviso e Padova.
A Serravalle sembra che la peste non sia arrivata e per quanto
riguarda Ceneda, alcune cronache decantavano l’aria di questa città,
ove i Veneziani si portarono in gran fretta per fuggire il contagio.
Pare che a Padova e territorio siano deceduti tra l’uno e i due
terzi degli abitanti; Firenze ebbe 100.000 morti e Pisa sette su dieci,
Siena 80.000, Genova 40.000, Roma 160.000 e così Napoli, che in tutto il regno ne registrò 500.000; Trapani rimase deserta. A Parigi morivano 500 persone ogni giorno, a Vienna 1.600 e ad Avignone la peste
durò sei mesi portandosi via 2.000 persone (e sette cardinali); in Inghil-
554
terra falciò 50.000 vite all’anno per nove anni e l’Irlanda rimase spopolata.
Per Venezia, le continue relazioni commerciali con l’Oriente,
dove la malattia era pressoché costantemente presente, resero inevitabili, dopo la peste del 1348, i periodici contagi ed è stato calcolato che
solo tra il 1361 e il 1509 vi furono ben 26 ondate epidemiche.
I Veneziani - e non solo loro - divennero consapevoli che il
morbo era diventato un flagello ciclico, non prevedibile cronologicamente, ma continuo nelle sue nere visitazioni, col quale ogni anima terrena doveva convivere e fare i conti.
La peste del 1478, considerata «minore», causò la morte di
12.600 persone, e i Veneziani decisero, quale opera pia ed efficace contro la diffusione del contagio, di sgomberare dalla città i poveri affamati e di condurli coattamente in un luogo «straman e remoto», provvedendo loro del necessario vitto e, ciò facendo, di riuscire a placare le
ire dell’Altissimo e di confidare nel ritorno dell’auspicata salute; ma, a
dicembre di quell’anno, molti poveri albanesi questuavano ancora davanti a Palazzo Ducale e, allora, si trovò l’accordo per caricarli su tutte
le imbarcazioni disponibili e traghettarli in Istria.
Prima del terribile attacco del 1575-1577, due affondi pestosi
nel 1527-1529 e nel 1555-1556, segneranno profondamente la popolazione della Repubblica.
Nel 1575 Venezia fu colta impreparata per la virulenza e per
la durata della manifestazione epidemica, per l’estensione del contagio
che colpì quasi tutta la Terraferma e per i conseguenti marcati dissesti
nel tessuto economico-sociale. L’epidemia entrò in città, con ogni probabilità con i topi annidati in balle di merci provenienti da Costantinopoli, rafforzata da un’altra ondata proveniente da un focolaio disceso
per la via dell’Adige; scoppiò nel giugno del 1575, con un incremento
massimo di virulenza nell’estate del 1576, per poi decrescere via via
fino al luglio del 1577, quando la città, ufficialmente, fu decretata libera dalla peste. Politicamente ed economicamente la Repubblica negò
fino all’ultimo la presenza della peste nei suoi territori, preoccupata
che una sua manifesta debolezza interna rafforzasse le minacce esterne
dei Turchi, con i quali, da appena tre anni, aveva concluso l’ennesima
pace che sanciva un significativo arretramento dei possedimenti in Levante (con grave diminuzione delle pubbliche casse); era inoltre allarmata per l’irritazione della Chiesa dovuta a quella improvvisa pace separata ed era timorosa della Spagna che, al di là delle ineccepibili rela-
555
zioni diplomatiche, forte del peso della sua preponderanza in Italia,
non nascondeva la profonda antipatia nei confronti di Venezia.
I contemporanei narravano del Lazzaretto Vecchio e delle altre isole che furono adibite alla stessa funzione, come luoghi infernali,
ove gli ammalati, per lo più dei più bassi strati sociali, giacevano in tre
o quattro su un unico giaciglio, con scarso personale, il che alimentò la
voce che nelle fosse comuni andassero a finire anche persone semivive; per converso, al Lazzaretto Nuovo, usato per la quarantena e la
contumacia, l’assistenza alle persone prese in cura, stimate nel numero
di 8/10.000, dislocate sull’isola e su un’armata di piccole barche ormeggiate tutt’attorno, fu buona, un autentico miracolo delle autorità sanitarie.
Le stime più attendibili parlano di una popolazione pre peste a
Venezia di 180.000 individui e dal primo luglio 1575 al 28 febbraio
1577 morirono 47.000 persone, pari a oltre il 25% degli abitanti. Più di
50.000 cadaveri furono rimossi e seppelliti al Lido; migliaia di abitazioni vennero vuotate di tutto e il loro contenuto inventariato e poi distrutto col fuoco o seppellito nella sabbia, oppure disinfettato mediante
bollitura, o immerso in acqua corrente salata.
Per la Terraferma veneta si riportano i seguenti riscontri.
A Padova i morti furono tra i 10.000 e i 12.000; a Vicenza e
provincia circa 3.000; a Verona modestissime furono le perdite, contate
nel numero di 15.
A Serravalle periodiche furono le segnalazioni da parte dell’Ufficio di Sanità di Venezia del pericolo di sospetto di mal contagioso in Terraferma.
Così, ad esempio, nel 1511, nel 1545, nel 1550, nel 1553, nel
1575, nel 1595.
Nel 1529, frattanto, morirono di peste a Serravalle due cittadini, tali Michele Talpon (forse un venditore ambulante) e sua figlia, probabilmente contagiati da un vestito avuto da Belluno ove infieriva la
peste; il resto della famiglia fu immediatamente condotto al lazzaretto
e si bruciarono tutti i mobili ed arredi loro e di coloro i quali erano venuti in contatto col Talpon. In quell’occasione Ceneda bloccò, lungo il
suo territorio, il transito di tutte le persone e delle merci che volevano
giungere a Serravalle, con le inevitabili ritorsioni di quel podestà che
fece interdire a tutti la Strada Regia, per il Bellunese, il Cadore ed il Tirolo. L’allarme durò tutto il 1530 e per l’anno successivo.
La terribile pandemia del 1575-1577 sembra abbia preservato
Ceneda e Serravalle, quest’ultima, secondo quanto riportato da storici
556
successivi, soprattutto grazie alla salubrità dei suoi venti freddi provenienti dal Nord, i quali scacciavano i miasmi trasportati da luogo a luogo dai venti caldi provenienti da Oriente: concezione assai radicata nei
medici dal Quattrocento al Seicento.
Si è propensi peraltro a pensare che in più di un'occasione, durante i periodici attacchi pestosi antecedenti a quello del 1630-1631,
anche a Ceneda e a Serravalle siano avvenuti dei decessi causati dal
male. Probabilmente il loro numero fu contenuto e l'ossessivo interesse
dei due centri limitrofi a perpetuare nei secoli la salubrità dei rispettivi
luoghi, avrà fatto stendere un «ufficiale» silenzio su quelle (poche)
morti.
Val la pena di accennare a questo punto quali erano le procedure preventive che la Repubblica di Venezia aveva perfezionato nel
tempo, per scongiurare il contagio e l’espandersi della malattia.
Il proprio apparato sanitario si reggeva sui Provveditori alla
Sanità, funzionari di una Magistratura attiva ed efficiente, invidiata e
presa a modello dai più potenti stati d’Europa fino alla caduta della Serenissima, alla fine del Settecento.
L’innesco delle procedure di difesa dal contagio avveniva al
momento della conoscenza di casi di decessi sospetti in una città o territorio, e consisteva nell’apertura di un’inchiesta, chiamata «processo»
svolta dal podestà e dai Provveditori alla Sanità; qualora il riscontro
fosse che le morti erano state causate dalla peste, si doveva emanare
una dichiarazione di «peste formale» ed informare subito i Provveditori
di Sanità a Venezia, ai quali era deputata l’autorità di «bandire» o «sospendere» (la differenza si riferiva alla durata della contumacia, alla
quale dovevano sottoporsi coloro i quali provenivano dai luoghi infetti:
lentamente i termini divennero sinonimi) il luogo ove erano emersi i
casi epidemici. Di seguito, le città e, comunque, i luoghi confinanti con
i siti infetti, erigevano sbarramenti lungo le vie di comunicazione, i cosiddetti «restelli» che erano dei posti di blocco di forme diverse, costituiti da transenne, steccati, muri di sassi, ed effettuavano l’interruzione
di strade tramite il loro dissesto; chi si avvicinava ai «restelli» era controllato dai guardiani armati, o dai soldati, e doveva esibire la «fede di
sanità», una sorta di certificato medico «ante litteram». In casi di epidemie fortemente virulente, il Senato autorizzava la nomina di Provveditori generali alla Sanità, dotati di poteri pressoché assoluti, con l’incarico di sovrintendere ai problemi della Sanità, all’inizio in vaste aree
della Terraferma e poi, progressivamente, in territori più piccoli. L’azione di coordinamento nella lotta alla peste tra il Governo veneto e i
557
reggimenti di Terraferma consentiva a questi magistrati di cavalcare liberamente all’interno della regione loro assegnata, anche con scorta armata, emanando, in materia di Sanità, qualsiasi ordine e giudicando i
rei con condanne fino alla pena capitale (eventualmente, all’interno
delle sedi podestarili, con il parere consultivo dei rettori); potevano utilizzare alla bisogna i denari delle singole camere fiscali. Il primo Provveditore generale alla Sanità eletto con competenza sul Trevigiano fu
Alvise Vallaresso, nominato il 17 maggio 1630, con giurisdizione sull’intero territorio «di qua dal Menzo»; il secondo fu Carlo Contarini,
eletto il 2 novembre successivo per «Treviso e Trevisana»; il terzo, l’energico Giacomo Marcello, il 7 agosto 1631.
Preme sottolineare che, nella maggioranza dei casi, tali disposizioni, almeno inizialmente, venivano eluse o quantomeno aggirate
dalle singole autorità municipali, per il timore che la conoscenza della
presenza della peste in loco ingenerasse il blocco dei traffici commerciali, la conseguente penuria di mezzi di sostentamento e la successiva
carestia, e in alcune città, quali, ad esempio, Bassano e Oderzo, tali
scellerati comportamenti avranno seguiti drammatici.
L’ammissione della «peste formale» seguiva, quindi, tutta una
serie di espressioni, come «febbri maligne, febbri pestilenziali, sospetto
di mal contagioso», etc.
Questi termini, per tutto il Seicento, prima e dopo il formidabile attacco pestoso portato nel nord Italia negli anni 1630-1631 dal
morbo, continueranno ad essere evidenziati nelle periodiche segnalazioni di pericolo per la Terraferma, da parte dell’Ufficio di Sanità di
Venezia.
La terribile peste del 1630 fu preceduta da contagi a macchie
di leopardo nel nord est dell’Italia e oltre i suoi confini ultramontani almeno dagli inizi del secondo decennio del Seicento. Erano periodici focolai per i quali la Repubblica provvedeva ad avviare tutte le misure
necessarie di Sanità per prevenire il contagio all’interno del suo Stato.
Nel gennaio del 1624 il Governo veneto seppe della presenza
della peste in Slovenia e stanziò 3.000 ducati per l’acquisto di una o
più case da destinarsi a lazzaretto a Pontebba; le preoccupazioni si intensificarono tra agosto e settembre del 1625, quando il morbo giunse a
colpire pesantemente l’Arcivescovato di Salisburgo, la Carnia, la Carinzia e la Stiria, e avanzò attorno a Lubiana.
A fine luglio 1629 la Repubblica fu avvisata della comparsa
«d’un male contagioso ad Altorf in Svizzera» e ordinò che la fiera di
Cremona fosse sospesa, imponendo contemporaneamente ai rettori di
558
Terraferma, in particolare quelli prossimi al ducato di Milano ed al
Mantovano, ogni prudenza e vigilanza. La paura per l’imminente arrivo
della «falce nera» entro i confini della Repubblica si accentuò sempre
più, alimentata da un senso di impotenza per l’impossibilità di arginare
ed isolare il contagio, veicolato, oltre che dal passaggio di mercanti
lungo le vie di maggiore accesso alla Terraferma veneta, anche dai movimenti di soldati che si spostavano in continuazione in Europa durante
la Guerra dei Trent’anni, dai disertori e dai fuggiaschi che portavano
seco, diffondendo in ogni luogo, tra le altre malattie, anche la peste.
Il morbo, serpeggiante tra le truppe imperiali dirette alla conquista di Mantova (18 luglio 1630), lambiva i confini marciani e a nulla valsero i ferrei ordini emanati dal Senato di abbattere sul posto «quei
medesimi imperiali» che avessero intrapreso delle scorrerie all’interno
della Terraferma veneta e di impedire la spogliazione dei cadaveri per
fare commercio dei vestiti, al fine di evitare di propagare la peste.
Nella primavera del 1629 i lanzichenecchi, che erano partiti
dalle terre dell’Impero, dietro richiesta del Governatore del ducato di
Milano, erano rimasti acquartierati a Coira per permettere ai Milanesi
la maturazione e la raccolta dei prodotti agricoli delle campagne. Quelle truppe erano già contaminate con malattie varie, tra le quali anche la
peste, prese durante il loro transito nelle terre dei Grigioni, ove avevano depredato e commerciato continuamente; portavano seco merci infette che andavano così a contagiare chiunque avesse contatti con loro.
Le città di Lecco, Chiuso, Cassano, Trezzo, Caravaggio, Treviglio e numerose «ville» lungo la direttrice del fiume Adda fino a Cremona, ebbero la triste sorte di conoscere per prime il morbo.
Nei primissimi mesi dell’anno successivo il contagio cominciò a svilupparsi e si iniziò la conta dei morti in alcune località del Bergamasco, Bergamo e i suoi borghi compresi. All’incirca nello stesso
periodo si ebbero casi di peste nel Bresciano e in marzo ne fu colpito
anche il capoluogo della podesteria. Con la sconfitta dell’esercito veneziano a Valeggio, il 25 maggio 1630, e lo sbandamento delle truppe,
moltissimi soldati entrarono a Brescia, portando con loro il morbo e a
nulla valsero i provvedimenti già addottati dal Governo veneto per l’isolamento di Bergamo e territorio, fortemente richiesti da Brescia e altrettanto osteggiati dall’altra, che premeva per la riapertura dei commerci.
Seguiamo ora il cammino del «Gran Contagio» tra Venezia
(che non fu la prima ad essere colpita) e la Terraferma veneta, fino a
Ceneda e Serravalle.
559
A Venezia la peste giunse nel giugno del 1630, portata da una
delegazione di Mantovani, con a capo il marchese Alessandro Striggi,
che doveva raggiungere l’imperatore Ferdinando II per chiedere la cessazione delle ostilità. Il gruppo aveva lasciato a Sanguineto un servitore già infetto di peste e arrivò all’alleata Venezia l’8 giugno successivo,
sottoponendosi alle consuete leggi sanitarie di quarantena: prima nell’isola di Santa Maria di Nazareth, nel lazzaretto, poi, vista la piena di
gente in quell’ospedale, nella deserta isola di San Clemente che, per
l’occorrenza, fu adibita allo stesso scopo. Due giorni dopo l’arrivo, il
marchese cominciò ad avere i sintomi del terribile morbo e morì il sesto giorno con evidenti segni di «male pestilenziale», come diagnosticato dai quattro medici che erano stati mandati a visitarlo, seguito poi
nel morbo da un cameriere e quattro domestici; intorno al 20 giugno
l’isola fu sottoposta a guardia armata per impedire ogni contatto con
l’esterno. Il falegname, tale Giovanni Maria Tirinello, che era stato incaricato di realizzare le baracche o «casotti» in legno per le guardie di
sanità sull’isola e di riattare le stanze per gli ospiti, fece la stessa fine
con tutta la sua famiglia che viveva nella contrada di Santa Agnese, a
Venezia. Ben presto la peste si propagò con altri focolai, tra i quali uno
per un supposto decesso per peste a Castello di un marinaio del luogo
proveniente dall’Istria con una barca carica di legname, e di sua moglie
contagiata dai vestiti del marito.
La peste, ufficialmente, perdurò fino alla fine di novembre del
1631, quando il Governo decretò la cessazione del morbo.
Nella sola capitale i morti furono quasi 47.000, ai quali si devono aggiungere i decessi nelle isole di Murano, Malamocco e della
città di Chioggia, che furono quasi 37.000. I morti della Terraferma
vennero calcolati in circa 600.000, per un totale complessivo, quindi,
di circa 684.000.
Gli importi sono ovviamente stimati per difetto, non conoscendo il numero dei dispersi, dei fuggiti dalle città poi deceduti altrove, di chi venne tumulato all’insaputa dei Provveditori alla Sanità, ma
soprattutto perché, nei primi mesi in cui scoppiò il morbo, gli stessi
funzionari divulgarono cifre sicuramente inferiori al vero e fecero passare sotto silenzio i decessi avvenuti nei lazzaretti, allo scopo di non
rendere palese l’epidemia a Venezia; inoltre, per quanto ovvio, l’impressionante numero dei morti comprende anche, benché in misura
molto minore, i decessi per morte naturale, per altre malattie infettive
non pestilenziali, etc., anche se i contemporanei erano «maggiormente
condizionati» ad associare ogni quadro clinico alla peste dominante.
560
Venezia saprà ringraziare i Cieli (peraltro assenti vista la moria dei suoi figli terreni non solo in città, ma in tutta la Terraferma) con
molte iniziative pie e religiose, in particolare la costruzione di un maestoso tempio, dedicato alla Madonna della Salute, su progetto di Baldassarre Longhena; la cerimonia della prima pietra avvenne l’1 aprile
1631 e la chiesa sarà poi consacrata il 9 novembre 1687. Ancora con la
peste del 1575-1576 Venezia aveva impetrato la Volta celeste, col solenne voto del 4 settembre 1576 al Redentore, che trovò naturale compimento nell’edificazione di tale chiesa votiva, su progetto di Andrea
Palladio.
A Rovigo la peste si manifestò a macchie di leopardo e tutto
sommato non colpì particolarmente l’intero territorio.
Il sempre più abbondante flusso di cadaveri di appestati e non,
alla deriva lungo il corso dell’Adige, dell’Adigetto e del Castagnaro,
provenienti da Verona e diretti al mare, furono, nel giugno del 1630, disincagliati e portati al largo, nella Bova dell’Abbadia. In luglio il Polesine, ancora immune dal morbo, aveva poi fatto registrare i primi casi
di peste nella «villa» di Sant’Apollinare, distante tre miglia da Rovigo;
il contagio proveniva, probabilmente, da Ferrara e, per Adria, sostò in
zona per alcuni mesi e quindi scomparve. Raggiunse poi Rovigo nell’aprile del 1631, ove si ebbero 15/20 decessi ufficiali, anche se il numero
effettivo fu certamente maggiore. Secondo il protomedico della città
Giovanni Battista Locatelli, il primo caso di contagio fu quello di un
fabbro proveniente dalla capitale con cose infettate; un suo fratello
morì poi al lazzaretto di San Rocco, mentre un barcaiolo contagiato,
prima di lasciare questo mondo, avrebbe trasmesso il morbo ad altre
persone. La detenzione di 45 individui, prima reclusi in un luogo sospetto e poi nelle carceri cittadine chiamate «la Michiele», avrebbe diffuso il contagio nella casa di pena, anche tra i visitatori, e poi, attraverso l’uscita di panni infetti, in alcune case della città. A Lendinara furono registrati 712 decessi negli anni 1630-1631, ma - pare - nessuno
morì di peste e la preservazione dal male venne attribuita alla intercessione della Vergine. Adria ebbe 131 morti nel 1629, 115 nel 1630 e 38
nei 1631, su una popolazione di 3.000 anime riferita al 1627, ma anche
qui, come nella precedente località, si è probabilmente di fronte a dati
parziali per cause e numero dei decessi. A Loreo, nei pressi del Po,
centro primario per il controllo dei transiti sul fiume e sui vari canali
del Polesine, a prestar fede a una nota del Provveditore alla Sanità in
Polesine Domenico Ruzzini, vergata l’8 giugno 1631, vi furono 44
561
morti di peste in tre mesi. Per converso l’epidemia colpì pesantemente
Badia fin dal maggio del 1630. Il luogo, posto lungo il corso del fiume
Adige, era un noto centro di scambi commerciali con i mercanti veronesi che a Francavilla, sul confine occidentale di Badia, giungevano
annualmente per il mercato; l’affollamento di persone assieme allo
sconfinamento in territorio marciano delle truppe imperiali, portatrici,
come si è sottolineato, di malattie varie, tra le quali anche la peste, costituì fertile cultura di incubazione del terribile contagio. I primi casi si
presentarono (inizio maggio 1630) quando il centro, prossimo a Rovigo, aveva già attuato la sorveglianza alle porte e vedeva scorrere sull’Adige i cadaveri degli appestati buttati nel fiume a Verona. Pare che il
primo a morire sia stato un tale Andrea Brusone, seguito da un barcaiolo, ma il decesso dei due fu considerato dal medico fisico badiese
Maurizio Tirello, che li visitò, non dovuto al terribile morbo. Come in
altri tanti luoghi, l’intempestività della diagnosi fu una delle principali
cause della mancata profilassi e dell’espandersi dell’«idra venefica».
Da giugno in poi, per tutta l’estate, infierì il contagio sulla popolazione
di Badia, con una stima media di oltre 20 decessi al giorno; chi poté,
specialmente i nobili, lasciò la città, rifugiandosi in campagna o nei
paesi vicini.
A novembre tutto finì.
Il numero delle vittime di Badia sembra accertato in 1.034
morti di peste (e non) e i sopravvissuti in 1.246, rispetto a una popolazione prima della venuta del contagio di circa 2.200-2.300 persone. Secondo il medico Tirello gli abitanti pre peste erano 3.000 (ma non è
certo che il numero si riferisca all’area coinvolta) ed i superstiti 600. Il
podestà Gabriele Morosini, in data 24 dicembre 1619, affermava che
Rovigo contava 6.200 anime e il suo collega, Francesco Marcello, il 29
marzo 1634, dichiarava che la popolazione era di 3.616 persone.
La peste a Verona pare sia iniziata il 20 marzo 1630, quando
un soldato, proveniente da Asola o da Pontevico, in territorio Bresciano, e già ammalato, si fermò in città e prese una camera in affitto da
tale Lucrezia Isolana della parrocchia di San Salvatore, in Corte Regia.
Dopo cinque giorni il forestiero morì ed il cadavere fu visitato dal medico di Collegio, Adriano Grandi, che dichiarò di non ravvisarvi i segni
della peste. Le spoglie del deceduto, con ogni probabilità, vennero in
contatto con la donna e con le sue figlie, le quali a loro volta propagarono il contagio all’esterno della casa, tanto che il 30 marzo successivo
i rettori di Verona scrissero a Venezia che si erano verificate delle mor562
ti, i cui cadaveri presentavano sul corpo le petecchie ed altre caratteristiche «di sospettione di mal contaggioso».
Ma, con ogni probabilità, non fu quel soldato, l’unica causa
del propagarsi del morbo a Verona e nel suo territorio.
Benché fossero stati adottati i provvedimenti necessari per tenere fuori dei confini del Veronese la peste ancora nel novembre del
1629, quando era stato proscritto il Milanese in seguito al manifestarsi
del morbo nel territorio e venivano segnalati alcuni decessi nella stessa
Milano, e ancorché fossero stati cacciati i mendicanti da Verona per liberarsi dei sospetti ed ammassati gli ammalati negli ospedali nel tentativo almeno di isolare i casi di contagio, le seguenti concause resero
vano ogni sforzo di impedire il propagarsi l’epidemia: la vicinanza del
territorio con il Mantovano, ove insistevano truppe eterogenee nelle
quali già si annidava la peste; la rotta di Valeggio del 25 maggio 1630 e
la dispersione di ciò che restava dell’esercito veneziano; i quotidiani
scambi commerciali con le zone infette, in particolare nelle «ville» di
confine.
Agli inizi di gennaio del 1631 la popolazione di Verona si era
ridotta a poco meno di 21.000 persone e fu calcolato che ne morirono
di peste, di altre malattie, di fame e di inedia quasi 33.000, con una
mortalità del 61%. Nel territorio, secondo i dati ottenuti dal Provveditore Alvise Vallaresso, i morti furono 60.000 circa e i superstiti poco
più di 52.000; secondo altri, quest’ultima cifra, che tiene conto dei dati
delle due podesterie separate di Cologna e di Legnago, e dell’assenza
di informazioni sugli scampati di una settantina di «ville», andrebbe
aumentata ad oltre 70.000 sopravvissuti.
La peste a Vicenza fu causata, con ogni probabilità, soprattutto dalla scarsità delle guardie di confine, impotenti a frenare l’entrata nel Vicentino delle truppe marciane provenienti dalla rotta di Valeggio del 25 maggio 1630, in movimento per raggiungere le proprie case;
migliaia di soldati affamati ed in parte ammalati, si rifiutavano di essere ricoverati coattivamente nei lazzaretti, a costo anche di essere abbattuti e, assieme ai soliti traffici di ogni genere effettuati tra giungo e luglio, costituirono il maggiore veicolo di contaminazione della peste nel
territorio.
A giugno del 1630 Arzignano fu colpita dal morbo e l’escalation di decessi raggiunse, il 19 luglio, le 1.500 persone, per salire dieci
giorni dopo a 3.000; intanto il male cominciò a mietere le sue vittime a
Montecchio, Valdagno e nella stessa Vicenza. Qui il primo caso di pe563
ste si ebbe nel giureconsulto Leonardo Arnaldi, uno dei Provveditori
alla Sanità e, contemporaneamente, si ammalò il suo cocchiere che,
però, si salvò. Nel frattempo, in contrada di San Silvestro, morirono tre
sorelle: la prima era venuta in contatto con un commerciante proveniente da Arzignano e le altre due avevano maneggiato le sue vesti.
Anche qui si ricorse all’ausilio celeste, con pessimi riscontri.
Ciò nonostante, il 29 giugno, si era fatto voto alla Madonna di Monte
Berico, ma solo il 27 ottobre successivo si deliberò di onorarlo con la
realizzazione di due statue d’argento da offrire alla Vergine al termine
del contagio, con una processione ed una messa cantata; allo stesso
tempo si stabilì di glorificare anche San Carlo con una messa solenne
davanti al suo altare in Cattedrale (nel cui santuario dovevano conservarsi le reliquie offerte dal cardinale Cornaro), e la cerimonia sarebbe
stata ripetuta ogni anno il giorno della ricorrenza della sua festività.
Il 28 maggio 1631 la città fu dichiarata libera dalla peste.
I dati sulla mortalità sono contrastanti; comunque sia, un memoriale redatto dai territoriali per i rettori veneti di Vicenza nel gennaio del 1631 dichiarava, probabilmente con esagerazione allo scopo di
ottenere benefici fiscali ed annonari, una mortalità complessiva di oltre
la metà dell’intera popolazione. Solo Marostica, su due podesterie e
undici vicariati, era stata risparmiata dalla peste, mentre Camisano,
Barbarano e Orgiano avevano subìto pesanti perdite; il resto dei luoghi
fu praticamente spopolato dalla «falce nera»; il censimento del 1629
indicava una popolazione di questi quattro centri (assieme al loro contado) di oltre 62.000 abitanti.
Secondo il medico Giovanni Imperiali i decessi a Vicenza furono 11.000 e 13.000 i superstiti; in tutto il territorio del Vicentino
30.000. Un censimento delle parrocchie cittadine ordinato dal vicario
vescovile Saracino nel settembre 1631, su incarico dei rettori veneti,
evidenziò una popolazione di circa 15.000 abitanti e un numero complessivo di inumati pari a 17.700 persone, delle quali 11.000 a Vicenza
(da 31.900 esseri viventi nel 1629 a 14.200 nel 1630). Nella relazione
del podestà Andrea Bragadin del 3 maggio 1635, viene ricordato che la
città aveva una popolazione di 19.000 abitanti e le epidemie di petecchie e di peste avevano causato, la prima 5.000 morti (lo stesso numero
riportato dall’Imperiali) e la seconda 9.200 (11.000 per l’Imperiali),
con un incremento, nel lasso di tempo, di 5.000 persone nel centro podestarile. Ancora secondo il Bragadin, il territorio aveva avuto, tra petecchie e peste, circa 50.000 morti e 97.000 superstiti, ma il dato sembrerebbe calcolato per difetto se si paragona con quello del censimento
564
del 1629 riportato dal podestà Pietro Basadonna che dichiarava quasi
200.000 abitanti nella provincia, 32.000 dei quali nella sola Vicenza.
La peste a Padova fu anticipata da una serie di provvedimenti di vigilanza ai confini e di prevenzione sanitaria che non tardarono,
peraltro, a manifestarsi inutili di fronte al dilagare nella Terraferma della peste. Si segnala qui il caso comunicato il 2 luglio 1630 dal podestà
di Este al capitano Pietro Sagredo, riguardante la cattura di un soldato
di Ceneda, scappato da Verona, già infettata, privo della «fede di sanità»; il Sagredo ordinò di «archibugiarlo», ma il rettore, usando l’escamotage che la disposizione non proveniva dalla Sanità, probabilmente
gli salvò la vita.
In agosto sembra sia avvenuto il primo caso di peste del centro patavino. Il cittadino Matteo Ferro era uscito di città, già ammalato,
per recarsi alla «villa» di Zovon, prossima al Vicentino; giunto in quel
luogo il 23 agosto con un forte dolore all’ascella destra, vi morì pochi
giorni dopo, seguito a breve dalla moglie, due figlie e oltre cinquanta
persone con le quali, in più luoghi era venuto in contatto. Secondo G.F.
Tomasini, priore dei canonici di Santa Maria in Vanzo, cronista contemporaneo, la peste per arrivare a Padova sarebbe transitata da Montagnana, per Zovon e da questa «villa» introdotta in città.
Sempre nello stesso mese furono trovate delle scale che venivano usate dai contadini per la vendemmia, legate l’una all’altra e appoggiate alle mura, assieme a tracce di impronte di piedi scalzi sul terreno; la scoperta non faceva altro che evidenziare, ove ne fosse bisogno, traffici e passaggio di persone da e per Padova, sprovviste delle
«fedi di sanità», forse già infette, che agivano in tal modo per evitare il
sequestro ed il ricovero coatto.
L’ufficialità del male a Padova fu rimandata alla fine di settembre, quando in contrada di San Giovanni dalle Navi, Antonio Pezzani, di professione pizzicagnolo, probabilmente di ritorno dal Vicentino dove si era recato per «avidità di guadagno», morì il 24 del mese,
dopo essere rientrato in città furtivamente, nottetempo, salendo le mura
con una scala di corda, poi ritrovata. Dieci giorni dopo rese l’anima a
Dio la moglie e, dopo quindici giorni, il famulo e due figlie ricoverati
al lazzaretto. Intanto il territorio era oramai preda della peste: Este e
Monselice erano le più colpite, assieme a Piove di Sacco, mentre a
Montagnana i decessi erano minori ma costanti.
Come dappertutto nelle aree colpite dalla peste, la stagione
fredda fece regredire il contagio, ma era solo una tregua e con l’appros565
simarsi della primavera si ricominciò a morire in grande numero. Pare
che il repentino riaccendersi del male sia stato causato da due prostitute, madre e figlia; Angela Capelletta da Venezia era partita munita di
«fede di sanità» ottenuta a Gambarare, ed aveva raggiunto, già ammalata, la figlia Lucia abitante nella contrada di San Matteo, che rimase a
sua volta contagiata. Assieme ad una collega, Giovanna Scagliola, e ad
altre, durante una festa di fine Carnevale, esercitarono il mestiere più
vecchio del mondo, infettando così alcuni clienti, i quali, prima di morire pochi giorni dopo, veicolarono a loro volta la peste.
Come altrove, da tempo, si era chiamato in causa il Cielo.
Il 1630 aveva visto un’ondata di preghiere pubbliche e private, e di processioni per impetrare la salvezza della città e del territorio
dall’«idra venefica». I Padovani accorrevano in continuazione nei luoghi di culto, in particolare, anche scalzi, alla Basilica del Santo, che divenne, assieme agli uffici pubblici, per i gravi disordini igienici, luogo
di ritiri fisiologici, «tanto era il fetore e la sporcizia dei luoghi abitualmente destinati agli usi igienici», favorendo così la propagazione del
contagio.
Il terreno venne congiunto col divino, mediante la concessione dell’indulgenza plenaria e la remissione di tutti i peccati a tutti coloro «li quali veramente pentiti, confessati, e Communicati visiteranno la
Chiesa, overo Capella del Pio Ospitale di S. Rocco, detto il Lazzaretto
fuori delle Mura della Città di Padova, il giorno di detto Santo, principiando dalli primi Vesperi fino il tramontare del Sole di detta Festa, et
ivi pregheranno S.D.M. per la Concordia de’ Prencipi Cristiani, per l’estirpazione delle eresie, e per l’esaltazione di Santa Madre Chiesa; e
come più amplamente appare nel Breve di Sua Santità dato in Roma
appresso S. Pietro sotto l’Anello del Pescatore». Il 3 giugno, le autorità
cittadine deliberarono, oltre ad altre iniziative religiose, cinque funzioni processionarie a diverse chiese, offrendo alla Madonna del Carmine,
San Prosdocimo, Santa Giustina, San Daniele e Sant’Antonio, una statua d’argento per ognuno, del valore complessivo di 6.000 ducati (per
la Vergine la statua doveva essere un po’ più grande), sollecitando pure
l’intervento finanziario dei privati. Le processioni si ebbero il 25 novembre 1631, peraltro senza le statue, che furono consegnate dall’artigiano veneziano, al quale erano state ordinate, dodici anni dopo.
Il 29 novembre successivo giunsero le ducali «che restituendo all’universal commercio del suo dominio la sua già madre, et hor
maggior Figlia, con gran sentimento di giubilo fu determinato il seguente giorno [30 novembre] da gli Eccellentissimi rettori, che doves566
ser quelle restar pubblicate», con grande festa pubblica e santa messa
nella chiesa della Madonna del Carmine.
Veniva così ufficializzata la cessazione della peste.
I dati sulla mortalità a Padova sono ovviamente difformi a seconda delle fonti.
Secondo il Provveditore alla Sanità Alvise Vallaresso, da settembre 1630 all’agosto dell’anno successivo vi furono 9.500 decessi e,
per l’Ufficio di Sanità, per lo stesso periodo, 8.300. A tali cifre vanno
aggiunti i morti nei lazzaretti, da settembre 1630 ad agosto 1631, pari a
2.100 persone. Nel computo della Sanità mancano però le registrazioni
dei decessi di agosto 1631, per la mancanza degli ufficiali e degli scrivani, incaricati, rispettivamente, di segnalarli e di annotarli e i dati parziali non tengono conto degli inumati clandestinamente in orti e giardini delle case, nella paura che denunciandone la morte i sopravvissuti
fossero ricoverati coattivamente nei lazzaretti, e di chi morì altrove
dopo aver abbandonato la città.
Il 27 settembre 1631, nella riunione del Consiglio cittadino in
cui si discusse sulla quantità di granaglie da depositare nei locali magazzini, vista la moria generale, si constatava che i deceduti a Padova
erano circa 16.000, ed il 5 ottobre successivo la stessa Assise deliberava di chiedere a Venezia la riduzione della condotta obbligatoria dei
prodotti cerealicoli, vista la grande carestia e la mortalità ben superiore
ai 14.000 individui. Altri ipotizzano, tenuto conto della carenza delle
registrazioni non solo urbane, tra città, lazzaretto e castelli, che la mortalità avesse raggiunto i 16.000 individui, tra i quali 75 preti curati e
420 ebrei, oltre a 12.000 persone nei lazzaretti e nel territorio sottoposto alla podesteria patavina. E ancora il podestà Vincenzo Capello denunciava per il censimento di fine 1631, la presenta di 13.700 abitanti
in città contro i 34.800 del 1616. Il capitano Alvise Priuli, nella sua Relazione del 6 novembre 1634, precisava che il territorio padovano aveva una popolazione di 101.700 individui nel 1631, diminuiti a 87.400
nel 1634. Secondo il Piva, al 30 dicembre 1631, l’archivio municipale
indica presenti in città 13.600 persone. Per il Preto, il podestà Vincenzo
Capello osservò una contrazione del numero degli abitanti da oltre
30.000 a 12.100, mentre il Ferrari registrò 32.000 abitanti nel 1625 e
13.600 nel 1631, con una diminuzione di 18.400 individui. Non quantificabile è la mortalità nel distretto podestarile; i dati sono altamente
parziali, considerando anche che a gennaio del 1632 sussistevano ancora casi conclamati di peste in alcune località del territorio; complessi-
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vamente sembra comunque che la giurisdizione abbia sofferto meno rispetto a Padova.
La peste a Treviso si presentò in settembre, colpendo il fornaio del palazzo pretorio e sua moglie, assieme ad altre persone; il fatto
fu prontamente documentato a Venezia dal podestà Giovanni Battista
Sanudo. In gennaio, con il freddo stagionale, il morbo rallentò la sua
virulenza, anche se una piccola epidemia di peste, probabilmente sommata a febbri stagionali, sporcizia, promiscuità, etc., circoscritta alle
carceri cittadine situate nel palazzo pretorio, causò in quel mese la rapida morte dei detenuti contagiati. Per la gente di Treviso la scomparsa
del contagio nei mesi invernali fu interpretata come grazia divina e, tra
tante messe, processioni, canti e feste, il 26 aprile fu celebrata una solenne cerimonia per ringraziare il cielo. Anche qui tutto ciò non servì a
nulla; in primavera riapparve la «falce nera» attorno al centro della
Marca: si avvicinò alle mura cittadine e penetrò nuovamente in città.
Alla fine dell’estate il male iniziò a regredire progressivamente e pian
piano la vita ricominciò.
La festa della celebrazione della cessazione della peste avvenne il 14 dicembre 1631.
Per voto della città furono fatte realizzare tre statue d’argento.
Il 16 gennaio 1632 la città fu decretata libera dalla peste.
La conta dei morti anche qui è parziale e, oltretutto, non comprende le persone fuggite da altri luoghi e venute a rifugiarsi a Treviso,
quelle che lasciarono la città per andare in campagna e, inoltre, non
sono giunte fino a noi le registrazioni complete, qualora fossero state
eseguite, dei morti di peste, di altre malattie, di inedia e di fame. Sappiamo dalla Relazione del podestà Giovanni Battista Sanudo del 13
marzo 1631, che nel 1630, inizi 1631, la popolazione di Treviso ammontava a circa 10.000 abitanti e quella del Trevigiano, esclusa quella
dei castelli e loro giurisdizioni, a circa 44.300 individui, per un totale
di circa 54.300. Il podestà Angelo Trevisan riferiva, successivamente,
che il 24 luglio 1631 la popolazione di Treviso era di 6.000 individui e,
nel gennaio 1632, solo di 1.300 abitanti. Le cifre riportate dal Bacchion
contrastano totalmente con i dati dello stesso Trevisan, inseriti all’interno della relazione presentata in Senato il primo ottobre 1632; egli infatti scrive che a gennaio 1632 la popolazione in città ammontava a
7.300 individui e che dal suo insediamento in Treviso, avvenuto il 9
marzo 1631, i decessi per peste in città furono non più di 680 e nei laz-
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zaretti 350, mentre nei territori soggetti alla sua giurisdizione 940, per
un totale di 1970.
Per le confinanti podesteria di Castelfranco, Asolo e Mestre, il centro della prima sembra che non sia stato toccato dalla peste e
solo alcune «ville» furono colpite: Riese, Godego, Loira (che subì il
contagio nei quattro mesi precedenti), Bessica, Treville e Ramòn dove
si ebbero pochi decessi per peste e «Poisolo» con una ventina di morti.
Nell’Asolano, nella seconda metà di settembre 1630, la peste
iniziò a manifestarsi nei pressi di Paderno, dove i morti, in circa due
mesi, furono una quarantina; il focolaio fu prontamente circoscritto a
quella località e spento, con le solite operazioni di sequestro, rottura
delle strade, etc. Il contagio più evidente sembra sia stato portato da
tale Matteo Reghinato (o Reginato) da Fara di Paderno, proveniente dal
Vicentino privo di «fede di sanità», il quale, eludendo la sorveglianza
al «restello di sanità» al ponte sul Brenta, giunse nei pressi di Paderno,
nella sua abitazione; da lì scappò, già ammalato, lasciando in casa panni infetti che diedero vita ad un focolaio nei paraggi. Furono messe sotto sequestro anche le «ville» di San Martino e Fara di Sopra; quelle di
Pove e di Fonte ebbero, rispettivamente, 203 e 8 decessi per peste. La
«falce nera» continuò a serpeggiare anche l’anno successivo a Possagno e Crespano.
La podesteria di Mestre fu solamente sfiorata dall’epidemia in
alcune «ville» della giurisdizione. Ancora nell’estate del 1629 si era
espansa una malattia, genericamente attribuita al «fettor delle aque
morte, et putrefatte»; poco prima dell’estate del 1631 si ebbero dei casi
di sospetta peste nel centro podestarile e nel territorio. Il primo settembre il Provveditore alla Sanità Giacomo Marcello si recò a Mestre e
osservò che il contagio aveva colpito alcune persone nella «villa» di
Spinea.
La peste a Bassano registrò i primi casi a maggio del 1631 e
vennero presi sottogamba; le autorità considerarono quei decessi poco
più che dei falsi allarmi, e, come successo in altre città, furono restie a
dichiarare che si trattava di quel terribile morbo. Ben presto l’epidemia
serpeggiò in città e nei borghi, giunta probabilmente dal contermine
Vicentino e raggiunse l’apice tra agosto e settembre. Ad ottobre il morbo iniziò a regredire e sul finire dell’anno i decessi divennero pochissimi.
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Il 23 gennaio 1632 fu emanato il decreto di liberazione dalla
peste, con pubbliche manifestazioni di giubilo nella popolazione e la
celebrazione di messe solenni e di processioni di ringraziamento alla
Divina provvidenza; furono adempiuti i voti espressi durante l’epidemia, tra i quali, il più importante, l’erezione in Duomo di una cappella
all’Altissimo e ai santi Bassiano, Clemente e Sebastiano.
Sembra che i morti, tra il 1629 e il 1632, siano stati 3.700 su
una popolazione di 8.100; cifre diverse sono enumerate dal Piva, che si
rifà al Montini, per il quale i decessi nel 1631 ammontarono a 2.300.
L’Ulvioni, riferendosi al Brentari, riporta 2.300 morti tra giugno e dicembre del 1631, con una punta massima di 1.060 a settembre (quest’ultimo dato era già stato segnalato dal Montini); lo stesso Autore cita
però una nota allegata ad un dispaccio del podestà Domenico Tron del
2 marzo 1632, a fine peste, quando erano rientrati coloro che erano
fuggiti nelle campagne al manifestarsi del morbo, in cui si dichiarano
4.080 abitanti contro i 7.050 dell’anno prima.
La peste a Oderzo fu preavvisata dal rettore di Treviso Giovanni Battista Sanudo, il quale aveva provveduto a diramare nel luglio
del 1630 disposizioni nel Trevigiano atte a premunirsi contro il pericolo del contagio. Ma anche qui, come in tutti gli altri centri, per il timore
di perdere gli interessi economici, si iniziò con una certa lentezza la
prassi di contumacia e quarantena prevista, persuadendo i mercanti sulla salubrità del luogo e sulla inconsistenza della sospetta peste, nonostante l’apparire dei primi casi del morbo. Il sinistro responsabile, additato poi dal Provveditore alla Sanità Giacomo Marcello, come il maggiore colpevole della sciagura pestosa, fu il medico della Comunità,
Pietro Grenis, il quale non volle attribuire al morbo i primi casi di decesso, non impartì disposizioni di isolare quanti erano venuti in contatto con i deceduti e non ordinò la disinfestazione delle case e degli arredi, favorendo così il rapido contagio tra gli Opitergini. Sconcertante anche l’atteggiamento del podestà Giovanni Zorzi, il quale, il 18 luglio
1631, affermava in una lettera di protesta inoltrata al Governo veneto
per la chiusura del transito di persone e merci effettuata dalle podesterie di Motta e di Portobuffolè, che «... Qui, per gratia di Dio, si ben il
concetto di molti è totalmente diverso dalla verità, godiamo buon stato
di salute» e che i pochissimi casi di peste erano stati causati dal contagio portato da fuori, ma «il tutto per oppra divina è anco suppito». In
autunno, in soli due mesi, i decessi registrati sul Libro dei Morti del
Duomo cittadino, ammontavano a 400, dei quali, ragionevolmente si
570
può pensare, che la maggior parte siano avvenuti a causa della peste; i
più resero, anonimi, l’anima a Dio nel lazzaretto.
Il 2 febbraio 1632 il podestà Gironimo Salamon annunciò la
fine della peste, essendo oramai due mesi che non si avevano contagi e
decessi a Oderzo.
In ringraziamento per la cessazione del morbo, il 21 gennaio
precedente si era deliberato in Consiglio di fondare la confraternita di
San Sebastiano, uno dei santi apotropaici della peste e, nel 1633, verrà
eretto in Duomo l’altare a lui dedicato.
Morirono circa 700 persone, un terzo dell’intera collettività
opitergina.
La peste a Motta e a Portobuffolè. I primi casi sospetti a
Torre di Mosto e la presenza della peste ad Oderzo anticiparono alla
fine del 1630 il completo isolamento di Motta (e Portobuffolè) che sarà
attuato nella primavera del 1631 nei confronti di quella podesteria già
infettata. Il 4 febbraio 1631 il podestà di Treviso, Giovanni Battista Sanudo, informava Venezia che continuavano «accidenti di suspetto: il
Podestà di Porto Bufolè non mi porta buoni avisi da quella parte, come
anco mi conferma li Dottor Barbieri di Oderzo, Provvedidor alla Sanità
di quella terra». A fine aprile, a Motta si era consapevoli dell’imminente pericolo pestoso; alcuni mesi prima si erano verificati alcuni decessi
a Torre di Mosto e da quella «villa» molto vicina a Motta, si temeva
che qualcuno si fosse rifugiato nel Trevigiano. In ottobre il podestà di
Portobuffolè, Gironimo Valier, chiedeva che il suo reggimento fosse
escluso dalla visita ispettiva degli ufficiali sanitari di Treviso, temendo
che arrivando, potessero propagare anche lì il contagio; egli affermava
che Terra e Territorio godevano di perfetta salute.
Non si posseggono altre notizie per stabilire se ci furono o no
casi di contagio e di decesso per peste nelle due podesterie di Motta e
di Portobuffolè. Il Faldon, a più riprese, afferma, genericamente, che
«A Oderzo, centro allora di circa due mila abitanti, i morti furono settecento (probabilmente riferendosi allo studio del Bellis). Molti perirono
anche a Torre di Mosto, mentre a Motta e Portobuffolè le cose andarono un po’ meglio»; anche l’Ulvioni è dello stesso parere, mentre per
Bellemo e Rorato, la peste non riuscì ad entrare nella podesteria di
Motta e, con buone probabilità, fu proprio così (forse vi furono pochissimi casi che non lasciarono memoria storica). I due Autori riportano
infatti che, nel 1632, fu proposto in una riunione del Consiglio di Motta, in ringraziamento al Cielo «havendola preservata da quella peste»,
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di restaurare ed abbellire, nella chiesa di San Nicolò, un altare sul quale si trovava un dipinto rappresentante l’Annunciazione, con farvi dipingere una nuova pala con l’immagine della Vergine, di San Nicolò e
di San Rocco, e presso detto altare erigere la Confraternita della Beata
Vergine del Carmine. L’esito della delibera non fu proprio plebiscitario,
poiché l’approvazione avvenne con 9 voti favorevoli e 4 contrari. Il
completamento del restauro dell’altare avverrà nel 1641 e la solenne
celebrazione il 2 dicembre di quell’anno.
La peste a Conegliano si manifestò alla fine di agosto del
1630. Se ne ebbe notizia ufficiale solo dopo la morte, avvenuta verso la
metà settembre, del cappellano della Cappella di Sant’Orsola in Duomo, don Francesco dalla Pieve, detto il Sordetto, e di suo nipote, Gasparo Mustacchi (che viveva con il sacerdote), servo di Giovanni Battista Maderni, vicario del podestà di Conegliano.
Il caso, venuto a conoscenza del rettore di Treviso, aveva determinato il blocco di ogni contatto con Conegliano e le conseguenti
proteste del suo podestà, Marco Soranzo, il quale, il 22 settembre successivo, inviò al Senato una lunghissima relazione in cui sosteneva,
corroborato dal parere dei medici, la negazione della peste e chiedeva
la revoca del provvedimento di Treviso, avvenuto tre giorni prima.
Nelle missive il Soranzo accennava alla morte di quattordici
persone, la prima il 29 agosto, quando era deceduto Domenico, altro
servo del vicario del podestà Giovanni Battista Maderni, entrambi di ritorno da Venezia.
In tutti questi casi, comunque, i locali Provveditori alla Sanità,
esaminati i cadaveri, avevano dichiarato che il decesso non era avvenuto per causa del morbo.
La peste scoppierà ufficialmente a Conegliano sul finire dell’ottobre successivo; a segnalarla furono i Provveditori alla Sanità, i
quali con lettera del 26 mese corrente, informarono il loro Ufficio che
il contagio era stato portato nella podesteria da un forestiero, forse un
Veronese proveniente dalla capitale, entrato nel Coneglianese con
«molte robbe» munito di una falsa «fede di sanità». Egli aveva preso
alloggio nella locanda di Tomasina Barellera, in contrada di Sarano, e,
alcuni giorni dopo, la titolare del pubblico esercizio si ammalò e morì;
il viaggiatore se ne andò immediatamente e fu detto «che avesse e che
si curasse alcune piaghe». Lì per lì il fatto non aveva avuto particolare
eco, ma quando si ammalarono i figli di Tomasina, assieme a «quasi
tutti quelli della casa Pasqualina» che li avevano aiutati a trasportare
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mobili e suppellettili all’abitazione di Marco Antonio Pasquali, detto
«Stranati», padre della locandiera, il quale viveva poco lontano, in borgo Sant'Antonio, ed emersero altri casi nell’abitazione di un certo Tommaso Amigoni, residente nella «villa» di Collalbrigo (a nord-ovest della città), il figlio del quale aveva dimorato nella stessa locanda, la presenza del morbo in Conegliano si fece palese.
Con l’inizio dei decessi, oltre alle azioni preventive in tema di
Sanità, non fu trascurata la richiesta dell’aiuto divino.
Nella seduta consigliare del 3 novembre venne chiamato in
causa il santo apotropaico Rocco, sollecitando la Comunità a riprendere subito la costruzione di una chiesa a lui dedicata (il progetto che era
già stato presentato e si era dato corso all’opera con lo scavo delle fondamenta e l’inizio dei lavori del sacro edificio sul Refosso); per finanziare l’iniziativa, oltre alle liberalità di privati ed alle elemosine da raccogliere all’interno della podesteria, la Comunità offriva 1000 ducati,
attraverso il gettito di una «colta» della durata di quattro anni. Analoghe manifestazioni religiose avvennero in altre parti della città e del
Coneglianese; la «villa» di Sarano fece voto ad un altro santo apotropaico, San Sebastiano, «promettendo a Dio di far la sua Festa il 20 del
Mese di Gennaio, et di comprar per una volta tanto una Lampada d’Ottone all’Altar del B. Marco nostro Cittadino Coneglianese, il Corpo del
quale si riposa in Conegliano nella Chiesa di San Francesco».
Nel gennaio 1631 si ritornò pian piano alla normalità e, il 20
del mese, giorno della festività dei Santi Martiri Fabiano e Sebastiano,
si fece una grande processione di ringraziamento per la cessazione della peste in città e nel territorio.
Poco prima della metà di febbraio Conegliano fu ufficialmente dichiarata libera dalla peste.
I problemi non finiranno comunque con la dichiarazione di
cessazione del male ed il transito per Belluno (attraverso Ceneda e Serravalle), Oderzo e Sacile sarà ancora inibito ai Coneglianesi, pur muniti delle «fedi di sanità». L’esasperazione raggiunse un tale limite per il
perdurare del divieto di passaggio verso il Bellunese opposto dai Serravallesi ai Coneglianesi, che, questi ultimi, così come relazionato a Venezia dal podestà il 2 marzo 1631, saputo che a Ceneda si sarebbe tenuta una rappresentazione teatrale alla quale avrebbero partecipato
come spettatori molti nobili Serravallesi, nel numero di «ottanta cavalli, armati d’arcobuggi, si sono inviati verso Ceneda, lasciandosi intendere di voler fare un vesparo siciliano», e solo a stento si riuscì poi a
calmare gli animi.
573
A giugno, col bel tempo, i focolai di peste si riaccesero a Treviso e il rettore di Conegliano ordinò il ripristino dei «restelli di
sanità»; probabilmente per l’insorgere di qualche caso di peste, peraltro
subito represso, vista la mancanza di ulteriori notizie in merito, gli abitanti della «villa» di Tezze, situata sul confine meridionale della podesteria, vennero sequestrati all’interno dei loro confini.
E’ pressoché impossibile stabilire, anche parzialmente il numero dei decessi avvenuti a Conegliano e nell’intera podesteria, per la
perdita di numerosi documenti e registri parrocchiali del tempo.
Una lodevole e - per quanto possibile - circostanziata ricerca è
stata effettuata dal Galletti, ma gli esiti finali sono insufficienti per stabilire, anche approssimativamente, il numero dei morti in loco per l’epidemia. Il Faldon riporta i risultati di una sua indagine svolta nell’Archivio del Duomo di Conegliano, sul Registro dei Morti, dal quale
emerge come dall’ottobre del 1630 al gennaio del 1631 siano morte di
peste nella parrocchia di San Leonardo circa 150 persone, delle quali
30 in ottobre e 104 in novembre; detta parrocchia, con giurisdizione
tutta entro il perimetro della cinta muraria di Conegliano, aveva, a quel
tempo, poco più di 800 anime.
E’ tutto quello che si sa.
La peste a Ceneda venne anticipata dalle periodiche ordinanze provenienti dall’Ufficio di Sanità di Venezia; così avvenne nell’agosto del 1613 e nel gennaio del 1623, quando il consiglio cittadino elesse tre Provveditori alla Sanità. Nel giugno del 1630, si andò a perfezionare nuovamente la necessità di istituire a Ceneda i tre Provveditori
alla Sanità e con questa elezione iniziarono i forti contrasti tra i funzionari e il Governo della contea, con proteste e dimissioni da parte dei
primi, che proseguirono con fasi fiacche ed acute fino allo scoppio della peste in città, ai primi di settembre 1631. Il nodo del contendere era
l’autonomia decisionale dovuta ai Provveditori alla Sanità in materia di
peste, non riconosciuta dal Consiglio cittadino, il quale faceva fronte,
nella quasi totalità, con il Vicario, «sede episcopali vacante» (il 7 aprile 1631, il vescovo Marco Giustiniani era stato traslato alla nuova sede
di Verona e solo a novembre del 1631 fu eletto al governo di Ceneda il
patrizio veneto, presule Marc’Antonio Bragadin), ed il Capitolo dei
Canonici, per limitare la libertà d’azione dei funzionari sanitari.
A nulla valse la protesta ufficiale dei Provveditori alla Sanità,
con lettera inviata ai capi del Capitolo dei Canonici ed al Consiglio di
Ceneda, e al rettore di Treviso (14 luglio 1631), poi trasmessa a Vene574
zia, «per l’intelligenza et concerto che passa fra li deputati per li loro
particolari interessi che hanno con detti ecclesiastici».
La peste era oramai alle porte e il 31 luglio 1631, previa convocazione d’autorità dell’Assise per il fuggi fuggi generale dalla città
dei componenti le cariche istituzionali, i Provveditori alla Sanità, impossibilitati ad esercitare completamente il loro mandato, con l’insusar
la peste d’ogni parte, decisero di rassegnare le dimissioni.
La peste formale, cioè ufficializzata, fu resa nota in Consiglio
il 7 settembre 1631.
Tre componenti della famiglia Barlò erano morti a quella data
ed un altro era stato contagiato; si provvide subito a sequestrare la casa
e l’intera famiglia per tentare di isolare il male.
Non è poi escluso, come parrebbe di capire dalle parole registrate dal Cancelliere sul Libro delle Parti, nella citata seduta del 31 luglio, che la peste fosse allora arrivata ai confini della città, se non già
entrata (pare, salvo errori, che a questa data sia la prima volta che il
termine peste sia stato proferito ufficialmente in Consiglio: vedendosi
insusar la peste d’ogni parte); saranno proprio gli inadeguati provvedimenti presi dai Provveditori alla Sanità, dovuti, come si è accennato,
alla scarsa autonomia decisionale in materia di prevenzione del contagio, la causa additata dal Provveditore generale alla Sanità, Giacomo
Marcello, alla Magnifica Comunità di Ceneda, per l’entrata della peste
in città, contenuta in una lettera inoltrata al Senato in data 29 novembre
1631.
Sul decesso dei Barlò si è avuto riscontro nelle registrazioni
delle sepolture, rilevate nel Registro dei Morti presso l’Archivio della
Cattedrale di Vittorio Veneto, stabilendo con buona approssimazione la
data in cui si manifestò il contagio in quella famiglia.
Considerato infatti che tra il 22 agosto e il 5 settembre furono
tumulati Francesco, Maddalena e Orsola di Paolo Barlò e che il decesso per peste (sicuramente fu nella forma «bubbonica») avveniva dopo
5/12 giorni dal contagio, si ritiene possibile che il morbo abbia colpito i
Barlò intorno alla prima metà del mese di agosto.
Dall’esame degli estimi di Ceneda si ricava che i Barlò abitavano sulla strada Rizzera, che si identificava nella porzione del tragitto
della medioevale Strada Regia (le attuali Pontebbana, proveniente da
Conegliano, e Alemagna), che, nella «villa di San Giacomo», si innesta(va) nella via proveniente dal Menarè (in antico Mellaré) per giungere a Ceneda, nel settore meridionale della città.
575
Ignote, allo stato attuale delle ricerche, le modalità con le quali avvenne il contagio pestoso nei Barlò.
A quanto pare, la comunità di Ceneda decise subito di affidarsi all’Altissimo, affinché scacciasse dalle sue contrade il male.
Quattro giorni dopo la seduta in cui era stata annunciata la
presenza della peste formale in città, l’11 settembre, fu nuovamente
riunito il Consiglio per pronunciarsi in merito ad alcune iniziative di
carattere spirituale da intraprendere in merito; per quanto ovvio, il risultato della votazione fu plebiscitario. Si decise di far celebrare tre
messe ogni settimana, cioè lunedi, mercore, et venerdi; una settimana
all’Altare di san Ticiano in questa Cathedrale, et l’altra alla Chiesa di
San Rocco, col solito stipendio; et anco di spendere Ducati vinti cinque in quello che detti signori Deputati stimerano piu neccessario, et
bisognoso per la Chiesa di san Rocco, al qual anco sia offerto un quadro col imagine di detto Santo.
Nella stessa giornata l’Assise deliberò una serie di concrete
iniziative per reperire fondi necessari ad affrontare il pericolo del propagarsi del contagio e per potenziare il numero delle guardie a presidio
del lazzaretto, e concesse maggiori deleghe ai Provveditori alla Sanità,
mitigando così, seppur tardivamente, i conflitti esistenti tra gli stessi e
le autorità governative.
La peste portò a Ceneda anche umane debolezze tra i componenti l’Ufficio di Sanità, tant’è che nella riunione del 28 ottobre, il
Consiglio dovette minacciare seri provvedimenti pecuniari per chi si
fosse rifiutato di assumere l’incarico di Provveditore alla Sanità o altri
ruoli inerenti al detto Ufficio. Fu allestito il lazzaretto e la sua ubicazione, allo stato attuale dei riscontri d’archivio, rimane ancora sconosciuta; certamente venne realizzato fuori città, in un luogo lontano da
abitazioni, ben areato e, normalmente, fornito di un vicino corso d’acqua. Tra le attuali frazioni Meschio e Costa, lungo la via Pontavai, si
dirama una strada che porta alle campagne di Vittorio Veneto e di Cappella Maggiore, chiamata via del Lazzaretto. Secondo il Maschietto il
nome della strada venne posto per ricordare il lazzaretto di Vittorio Veneto che esisteva in quei dintorni; lo Storico scrive che il fabbricato,
già casa Tonon, era stato acquistato dal Comune ed adattato allo scopo
nel 1866, per collocarvi d’urgenza e provvisoriamente, gli ammalati di
colera. Per ora, comunque, non è possibile ipotizzare che ivi, o nei
pressi, fosse stato realizzato anche il lazzaretto della peste del 1631; gli
unici indizi che convergono a favore di una possibile congettura in
questa direzione, sono il sito, per l’appunto isolato e ben areato dai
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venti provenienti a nord e la vicinanza al fiume Meschio; francamente
troppo poco.
I «restelli di sanità» approntati furono quattro; le fonti archivistiche fanno individuare l’ubicazione di due: uno sulla strada Rizzera e
l’altro nelle vicinanze della piazza cittadina, al termine della strada che
porta(va) al villaggio di Carpesica e a Confin, limiti della Contea con il
settore nord-occidentale della podesteria di Conegliano; gli altri due,
dovevano trovarsi, con ogni probabilità, nei pressi di Salsa, a nord, sul
confine con la podesteria di Serravalle, e l’altro in contrada di Meschio, in zona di Pontavai, sulla strada che porta(va) alle «ville» di Fregona e di Cappella (Maggiore) verso il Friuli, sul limite est con la stessa podesteria di Serravalle.
Sul finire di novembre, durante il tragitto per Serravalle, si
fermò a Ceneda il Provveditore generale alla Sanità Giacomo Marcello. Il suo altezzoso atteggiamento, volto a manifestare la preminenza
del Governo veneto sulla Contea anche nelle disposizioni riguardanti la
Sanità per il centro vescovile, si evidenziò poi il 2 gennaio 1632, quando ordinò ai deputati di raggiungerlo nei pressi della chiesa di San
Vito, adiacente al Convento francescano di Ceneda, sulla strada che più
velocemente raggiunge Serravalle, per sentire le sue disposizioni, senza degnarsi di salire fino alla Piazza principale ove avevano sede il governo civile e spirituale della Contea, rispettivamente il palazzo della
Magnifica Comunità, la Cattedrale e il sovrastante Castello vescovile
di San Martino. Il rapido spegnersi del focolaio di peste in città, reso
possibile (è il caso di dirlo, al di là delle critiche espresse dal Marcello
per gli inadeguati provvedimenti presi per arrestare il contagio) dall’impegno dei rappresentanti della Sanità locale, non renderà poi necessario il trasferimento a Serravalle di un delegato cittadino per ascoltare le disposizioni emanate dal Provveditore generale, da mettere in
pratica per eliminare il morbo a Ceneda.
L’11 gennaio successivo, il Consiglio decise di scrivere una
lettera al Serenissimo Prencipe di Venetia (la proposta ebbe un esito favorevole striminzito: favorevoli 17, contrari 16), per ringraziare il Governo veneto di aver mandato il Provveditore Marcello, il quale mediante la Divina gratia, il valore, et diligenza usata da sua eccellenza
Illustrissima, con l’ottimi rimedij, fruttuosi ordini, et provisioni Ceneda del tutto sij restata libera non solo dalla peste, m’ancora d’ogni sospetto di quella.
Le fonti storiche successive all’attacco pestoso parlano, in generale, di pochi decessi avvenuti a Ceneda.
577
Giorgio Graziani, nel 1633, scrisse che «ne morirono di tal
male ventiquattro; et sei con sospetto di tal male».
Giovanni Battista Mondini, sul finire del 1600, registrò che la
peste Giunse anche in Ceneda (sic, a. 1630), a Serravalle non arrivò,
dove toccò alcune poche case, che furono subito chiuse, et ben guardate, così che restarono l’altre immuni.
Carlo Lotti scrisse … et rursus an(no) 1630 quae cum saevissime debaccata plusquam octingenta millia hominum circumundique
absumpsisset, aliquas quidem domos Cenetae invasit, Serravalle tamen omnino abstinuit; quod non tantum hominum diligentia, quantum
aeris illius salubri mobilitati tribuendum videtur. Nella traduzione: …
e quando di nuovo nell’anno 1630 il contagio orrendamente imperversò per ogni parte, provocando la morte di ottocentomila persone, entrando anche in alcune case di Ceneda, esso si tenne lontano da Serravalle; la quale cosa sembra che sia stata dovuta non tanto alla diligenza
degli uomini, quanto alla salutare mobilità dell’aria di quel luogo.
Allo stato attuale delle ricerche d’archivio, non trova altro riscontro documentario l’affermazione del Provveditore generale alla Sanità Giacomo Marcello, riportata in una lettera del 29 novembre 1631,
diretta al Senato, nella quale riferì che questo villaggio (sic) … fa per
l’ordinario anime 900; sin hora ne sono morte cento quaranta delli
mali correnti in una parte della villa; che fù sanata doppo qualche
tempo da un tal dottor Bagazi, che esercità il carico di sanità. Salvo
errori, nelle indagini effettuate non si è incappati in tale medico Bagazi
e tutti i riscontri documentari esaminati riferiscono una perdita di vite
umane causata dalla peste, estremamente inferiore. Sicuramente vi furono casi di morte accertata per quel morbo; si è a conoscenza che venne allestito il lazzaretto e che in esso vi fu trasportata della gente («parte» del 28 ottobre 1631), ricoverata coattamente, con guardie a controllo di eventuali fughe e becchini per la tumulazione, ma il dato riportato
dal Marcello pare assolutamente esagerato.
La verifica effettuata presso l’archivio della Cattedrale, sul registro canonico dei defunti del periodo, sembra confortare l’ipotesi di
un numero di decessi assai contenuto; la consultazione del volume non
ha fatto emergere annotazioni sulla causa dei decessi, ma il fatto non
deve stupire più di tanto, perché in quei tempi non sussisteva l’obbligo,
da parte dei sacerdoti, di completare la registrazione della sepoltura
con tali annotazioni.
L’entità dei morti compresi negli anni 1630-1631 è di 195
(127 nel ’30 e 68 nel ’31).
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Prendendo per buona la notizia portata in Consiglio il 7 settembre 1631, cioè che … qualmente si ritrova la peste formale nella
casa di Paulo q. Andrea berlò, essendone già tre morti, et un ferito, e
che l’inizio dei decessi per peste sia avvenuto, come ipotizzato, nella
prima metà di agosto, si è verificato quante persone fossero decedute a
Ceneda dal primo di agosto 1631 a tutto, per buon conto, il mese di
gennaio 1632. Il riscontro è stato di complessivi 33 (forse 34) morti,
quindi assolutamente in linea con quanto riportato dal Graziani (24 decessi per peste e 6 con sospetto del male) e, in generale, dal Mondini.
Un’altra informazione complementare all’entità dei decessi di
Ceneda è stata ottenuta dalla verifica dell’incidenza dei nomi dei santi
apotropaici Rocco e Sebastiano, dati ai nati negli anni 1629-1635, in
altri luoghi segnale di espediente esaugurale allo scoppio di pestilenze.
L’indagine ha dato i seguenti risultati: a. 1629: 71 nati e nessun nome;
a. 1630: 50 nati e 1 Sebastiano; a. 1631: 93 nati e 1 Rocco; a. 1632: 89
nati e 1 Rocco; a. 1633: 79 nati e nessun nome; a. 1634: 115 nati e nessun nome; a. 1635: 111 nati e 1 Rocco e 1 Sebastiano; una percentuale
di nomi di santi «allontanatori di influssi malefici» del tutto insignificante.
Un’ultima annotazione sui ringraziamenti al Cielo.
A differenza di Serravalle che, per lodare la patrona della città, Santa Augusta, di averla preservata dal contagio della peste (ma,
come si vedrà, non fu proprio così, almeno per il territorio), si impegnò
nell’ampliamento dell’omonimo santuario e nell’edificazione delle
cappelle che ancor oggi si incontrano salendo la strada che porta alla
chiesa della Santa, la contermine Ceneda ringraziò la volta celeste in
misura assai più contenuta.
Con il vescovo Marco Giustiniani era stato emesso il voto
che, se la peste avesse risparmiato i Cenedesi, si sarebbe indetta una
processione annuale, dopo i vesperi della festività dell’Assunta alla
chiesetta di San Rocco, il quale divenne anche il compatrono della città
e della diocesi. Si ricorderà inoltre, come l’11 settembre 1631 il Consiglio cittadino avesse deliberato per la celebrazione di tre messe ogni
sette giorni, una settimana in Cattedrale e l’altra nella chiesa di San
Rocco, et anco di spendere Ducati vinti cinque in quello che detti signori Deputati stimerano piu neccessario, et bisognoso per la Chiesa
di san Rocco, al qual anco sia offerto un quadro col imagine di detto
Santo.
Nulla di più per Ceneda, città che aveva subìto, per quanto in
misura contenuta, la morte per peste di una trentina di suoi abitanti e
579
che, dopotutto, era anche, oltre che capitale di un comitato politico episcopale, soprattutto, sede dell’omonima diocesi in spirituale.
La peste a Serravalle venne anticipata, come per la contermine Ceneda, dalle periodiche ordinanze provenienti dall’Ufficio di
Sanità di Venezia per segnalare il pericolo dell’insorgere di nuovi focolai di contagio pestoso. Questi «avvisi» costituivano per le podesterie
aggravi municipali per l’elezione dei Provveditori alla Sanità, l’innalzamento dei «restelli di sanità», la nomina dei relativi guardiani, la realizzazione delle «fedi di sanità», operazioni tutte finanziate con il gettito di «colte».
Avvisaglie di possibile attacco del morbo si ebbero, ad esempio, negli anni 1612, 1620, 1623, 1625-1626, 1628-1629.
Nei primi mesi del 1630 si venne informati dell’avvicinarsi
della peste nel territorio Trevigiano e lo stato di allerta crebbe in tutte
le podesterie della Marca.
La preoccupazione si fece palese nella riunione consigliare
dell’8 aprile 1630, quando i locali Provveditori alla Sanità resero edotta
l’Assise delle comunicazioni in materia, giunte dal rettore di Treviso. I
fatti precipitarono nella seconda metà di ottobre e il Maggior Consiglio
deliberò una serie di provvedimenti per potenziare l’organizzazione sanitaria del territorio. Si decise di aumentare il numero dei Provveditori
alla Sanità da tre a sei, di (ri)aprire i due lazzaretti, fuori le mura di
Serravalle, alle periferie meridionali e settentrionali della città, rispettivamente in una parte dell’edificio ove insistevano l’abitazione del parroco della chiesa pievanale di Sant’Andrea e la casa dell’omonima
Fabbrica, sulla via che conduce(va) per Costa verso Fregona, Cappella
(Maggiore) ed il Friuli, e fuori del Borgo di Sopra, nei pressi della
Strada Regia che porta(va) a Belluno.
Erano i giorni in cui era stata dichiarata la peste formale a Conegliano, ufficializzata dai Provveditori alla Sanità e medici municipali
il 26 ottobre e, conseguentemente, furono attivate tutte quelle azioni
preventive per scongiurare l’entrata del morbo a Serravalle.
Per quanto riguarda l’ubicazione dei «restelli di sanità» a Serravalle, essi furono riposti in opera poco lontano dalle tre porte cittadine, sulle strade che giungevano in città; così uno fu innalzato in Calcada, nei pressi del convento dei Cappuccini, sulla strada proveniente da
Cappella (Maggiore) e dal Friuli; uno nel Borgo di Sopra, sulla Strada
Regia per Belluno; uno nei pressi del Convento di San Girolamo, sulla
via che arriva(va) da Ceneda.
580
Per quanto ovvio, in tutto il territorio della podesteria serravallese, nei pressi delle «ville» situate lungo strade importanti furono
innalzati «restelli di sanità»; cito qui a mo’ d’esempio quelli di Cappella, sulla via per il Friuli, e di Gai, nei pressi di Castello Roganzuolo,
sulla strada Ongaresca (ora Pontebbana), arteria che conduce(va) anch’essa verso il Friuli.
Drammatico fu il tenore della «parte» approvata nella riunione dell’Assise del 28 ottobre, quando venne dichiarato che, per timore
di contagio, il Consiglio non si sarebbe potuto riunire. Quattro giorni
dopo, il primo novembre, alla presenza del podestà, i Provveditori alla
Sanità presenti: Ferdinando Casoni, Marzio (?) Pancetta, Silvio Cittolini e Gregorio Sarmede, prese le opportune decisioni, ordinarono l’interdizione, pena anche la vita per i rei, di ogni contatto con Conegliano
ed il ritiro immediato di tutte le «fedi di sanità» in bianco esistenti nelle
«ville» della podesteria.
Forse, in quel periodo, la peste fece capolino a Serravalle.
A metà del mese di novembre, infatti, il podestà di Feltre, Andrea Pisani, scriveva a Venezia come in una «villa» distante circa un
miglio dalla città di Belluno, era deceduto un giovane proveniente da
Serravalle, giunto fin lì con un carico di canapa, seguito, due giorni
dopo, dal fratello con evidenti segni del morbo «veduti e riconosciuti».
E a suffragare quella che pare più di una tragica possibilità di
contagio per Serravalle, si innescò in quell’ultimo periodo del 1630,
una intricata situazione di competenze decisionali, in particolare tra
Serravalle e Sacile, riguardo alle competenze di Sanità per l’interdizione di persone e merci tra le due podesterie. Nello specifico, dai podestà
di Sacile e di Motta, veniva opposta all’autorità per il Trevigiano del
Provveditore generale alla Sanità Carlo Contarini, quella del luogotenente del Friuli Bernardo Polani, che agiva con rigidità per evitare il
contagio su quelle podesterie poste sul «limes» tra «Trevisana» e Patria. Il 14 novembre, il podestà di Serravalle, Giordano Dolfin, scriveva
a Venezia chiedendo «provisione per il loro vito, et particolarmente di
oglio et salli, la condotta de’ qualli li viene impedita dalli provveditori
della sanità di Sacille ... sotto dubbio d’infettione in mal contaggioso»;
ne seguì l’intervento da parte del Senato e le giustificazioni di Sacile.
Alla lettera del Dolfin, «Pregadi» rispose, il 30 novembre successivo,
con un’intimazione al podestà di Sacile di lasciare aperto il transito tra
le due podesterie, ma questi, il 4 dicembre successivo, rispose: «Sapia
dunque la Sublimità vostra come, l’odatto Iddio, questa terra et territorio sono totalmente liberi da ogni sospetto di peste, quello che non è in
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altri luochi circonvicini, che per ciò si usa ogni possibil diligenza per
preservali tali» ed è per questo che il luogotenente Polani «ha lasciato
ordine espresso in questo loco, che non sia recapitato alcuno che sij
fuori della patria». E a nulla valse il richiamo del 12 dicembre, da parte
del Senato nei confronti del Luogotenente del Friuli, nel quale si dichiarava di non approvare il suo comportamento, che causava gravi disagi economici per la podesteria di Serravalle. Il Consiglio era gravemente preoccupato per la mancata soluzione della vertenza; infatti, non
solo Sacile ma anche la limitrofa Contea di Cordignano, situata immediatamente prima del limite occidentale della Patria del Friuli, aveva risolto di chiudere il passo ai Serravallesi, bloccando ogni tipo di transito
e di commercio, scegliendo, ancorché all’interno della Marca Trevigiana, di unirsi alla vicina Sacile e di assoggettarsi alle norme sanitarie
emanate dal Luogotenente del Friuli. L’ufficializzazione del grave problema economico era avvenuto nella riunione del Maggior Consiglio di
Serravalle del 3 dicembre, quando si era deciso di far intervenire il
Provveditore generale alla Sanità Carlo Contarini per far rientrare nell’orbita del Trevigiano la Contea di Cordignano e ripristinare il passaggio di uomini e merci.
L’alto funzionario veneziano giunse in città intorno alla prima
decade di dicembre ma la sua venuta non risolse alcunché; il 20 dicembre egli era costretto a scrivere a Venezia che Serravalle era ancora
bloccata, sottolineando che le podesterie di Sacile e di Portobuffolé «liberamente hanno ricusato a me ogni obedienza, come ha fatto S. Cassano, Motta, sottoposti senza dubio à questa giurisditione, particolarmente dalla parte di qua della Livenza».
A giustificazione del loro comportamento, i due podestà, che
erano stati chiamati in causa da Venezia ancora agli inizi di dicembre,
si difesero sostenendo che quelle aree geografiche erano «parte della
Patria del Friuli, in tutto et per tutto separata dal Trivisano» e che il
luogotenente Polani, «con ducali di 8 novembre passato venne elletto
proveditore per la materia di sanità non solo per tutta la patria ma della
Mota, Porto Buffolé, Sacille et altri luochi».
Alla fine il Senato impose la sua autorità al di sopra del Provveditore generale alla Sanità Carlo Contarini e del luogotenente del
Friuli Bernardo Polani, ordinando il 18 gennaio 1631, il ripristino del
libero transito dei Serravallesi per Cordignano, Sacile, etc.
Sull’atteggiamento assai prudente dei centri confinanti con la
podesteria di Serravalle, quali appunto la Contea di Cordignano e il
reggimento di Sacile, appare probabile, al di là delle scarne notizie
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emergenti dalla lettura della carte ufficiali, che tali comportamenti fossero stati ingenerati da informazioni avute su casi di contagio scoppiati,
se non proprio a Serravalle, in una o più «ville» del territorio.
In tutte le realtà esaminate, ad una levata di scudi di un centro
podestarile contro un altro colpito dal contagio, corrispondeva una veemente protesta rivolta all’autorità centrale da chi si sentiva «ingiustamente» colpito, soprattutto per il venir meno dei propri affari economici, e anche Serravalle non fu da meno.
In dicembre fu la volta delle iniziative rivolte al Cielo, per impetrare la preservazione dalla peste di Serravalle e territorio; la mediazione fu affidata alla patrona Santa Augusta, che, secondo i concittadini, nei secoli passati aveva, per sua intercessione, sempre ottenuto l’interessamento divino affinché alla città fossero risparmiati gli attacchi
pestosi.
Il promotore municipale fu, con mirabile oratoria nella riunione consigliare dell’11 dicembre, il provveditore, cav. Guido Casoni:
In questi calamitosi tempi per li tanti flagelli mandati dalla
mano di Dio, di sterelita dei terreni, di fame, di mortalita per varie infermita, di guerre et al presente di peste, che va distruggendo le Citta,
et che hormai e poco distante dai confini del nostro Territorio, non puo
diligenza humana ben guardare questa Terra, onde bisogna ricorrere
alla misericordia, e providenza Divina, perche nisi Dominus custodierit civitatem frustra vigilat, qui custodit eam.
E come ella e statta sempre in tutti i seculi dalla clemenza di
Dio signor nostro custodita, e difesa dalla Peste per intercessione,
come parimente dobbiamo credere della protettrice nostra Santa Augusta, la quale si come è natta in questa Terra et ascesa Vergine, et
martire da questa Patria Terrena alla Patria Celeste, cosi habbiamo in
tutti i pericoli nostri sentiti gli affetti della sua protettione. E pero l’andara Parte posta per me Guido Casone Cavalier Proveditore che sia
fatto Voto perpetuo per noi, et per li posteri nostri, che la Festivita di
Santa Augusta la quale è da noi celebrata nel giorno di vinti doi d’agosto, et e statta sempre da Nostri maggiori venerata, come si vede
dallo Statuto nostro anticho 1360. Cosi per l’avenire sia con ogni solenità osservata, nel qual giorno sia visitato il suo Tempio con solene
processione dalle … , Religioni, e Scole della Terra, con l’assistenza
delli Proveditori della Terra che saranno per tempo, et ivi cantata una
Messa solene in giustissimo rendimento di gratie a Dio, alla Santissima Vergine et alla Beata Augusta che dall’anno della salute nostra
410 fino a questo tempo ci ha fatto godere n’i bisogni di questa Terra i
583
frutti della sua intercessione, et siano spesi Ducati trecento in honor di
Dio, et d’essa santa nostra Protettrice, dovendosi andar luni di prossimo procesionalmente a santa Augusta et ivi fare il Voto solenemente
cantata prima la Messa Grande dello Spirito Santo et poi fare la deliberatione in questo Conseglio intorno al modo di spender li Ducati
trecento e tal parte balotata hebbe voti pro tutti … .
Per la solennità tutta Serravalle si strinse attorno alle reliquie
di Santa Augusta e le autorità rappresentanti il Consiglio cittadino, proferirono, inginocchiate nel santuario, gremito di fedeli, il voto solenne:
Li molto Illustrissimi et eccelentissimi signori Guido Casone
Dottor Cavalier, et Giacomo di signori conti da Cesana Proveditori
della magnifica Communita di Serravalle, per essecutione della parte
presa nel maggior Conseglio di essa Terra à nome universale di questa
Patria, et del Territorio unitamente co’l Reverendo clero, et con l’assistenza , et approbatione dell’Illustrissimo et reverendissimo monsignor
Marco Giustiniano Vescovo nostro di Ceneda, alla presentia di numerosissimo popolo, postisi in genochi inanzi l’Altar maggiore in questo
Sacro Tempio di santa Augusta nostra protetrice, inter Missam Solemnia, fanno Voto publico, solenne, e perpetuo a Dio clementissimo signor nostro d’osservare, e santificare la Festivita di santa Augusta, nel
giorno vigesimo secondo d’agosto ogn’anno, et in esso giorno visitare
questa Chiesa, invitato il Reverendo Clero, Religiosi Regolari, con tutte le Scole processionalmente et in essa fare celebrare una messa solenne. Et in oltre di spender delli denari del publico di questa Terra
Ducati trecento in honore di essa Nostra beatissima Custode e protetrice, pregando humilmente il Dio delle misericordie, che si degni hora
e sempre conservare libera questa Terra e tutto il suo Territorio dalla
Peste, porgendo humili pregiere a questa gloriosa Santa, che si degni
continuare nella protettione nostra: E Come per mille, e ducento anni
ha con la sua intercessione guardata dalla Pestilentia questa sua Patria, dalla quale con l’Aureola della virginita, e con la Palma del Martirio ascese alla patria del Cielo, cosi impetri da Sua Divina Maesta,
che questi popoli hora, e i suoi posteri in perpetuo laudino, et essaltino
la grandezza della Misericordia di Dio, liberi dai presenti immenentissimi pericoli di peste, e da simile flagello per tutti i tempi venturi.
Presenti li molto Illustrissimi et Molto Reverendissimi signori
Alberto Piazzone Achidiacono, Francesco Pancetta Canonico, et Marco Marchi Canonico et li molto Illustrissimi et eccellentissimi Proveditori Gregorio Sarmede, Lucretio Racola, Nicolo San Fior, et Gieronimo Marchi, con altri quasi infiniti.
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Publicato dal Reverendo Molto pre Antonio Cadurino benefficiato in essa chiesa di santa Augusta.
Compiuta la cerimonia al santuario per il voto solenne, con
grande adifficatione degli animi, restava da deliberare circa il modo
col quale s’ha da impiegare li Ducati trecento in honore della Santa
Vergine, et Martire Augusta nostra protetrice. Il progetto venne presentato da uno dei provveditori della Comunità, Guido Cesana, nella riunione del Maggior Consiglio del 20 dicembre successivo. I programmi
erano ambiziosi e prevedevano la costruzione di due cappelle, laterali
alla navata della chiesa, e, col sussidio di altre offerte, oltre ad un’oblazione di 100 ducati già promessa, l’erezione di una cupola nella chiesa
e la realizzazione di alcuni oratori lungo il percorso che portava al sacro tempio.
Alla fine di aprile, prossima alla scadenza del reggimento del
podestà in carica, Giordano Dolfin, la comunità di Serravalle si interrogò su dove far risiedere il nuovo eletto, Angelo Loredan, il quale, provenendo da Venezia, ove infieriva la peste, era tenuto a sottoporsi al
necessario periodo di contumacia; l’argomento venne posto all’ordine
del giorno del Maggior Consiglio dell’8 maggio e il funzionario veneto
uscente si offrì di cedere una stanza dei suoi alloggi nel Palazzo pretorio per servitio publico nell’ocasione della venuta del novo Reggimento, sottolineando comunque i molti pericoli da quali si doveva procurar di guardiani, etc.; la proposta fu vagliata dal Maggior Consiglio
nella riunione successiva dell’11 maggio e accolta favorevolmente due
giorni dopo. Il 21 seguente il nuovo podestà Loredan fece il suo ingresso a Serravalle, accomodandosi per la contumacia all’interno del Palazzo pretorio. E’ interessante notare che, tre giorni dopo, la prima riunione del Minor Consiglio, presieduta dal Loredan, venne fatta, come di
consueto, in palazzo nella Sala Grande alla presentia dell’illustrissimo
signor Angelo Loredano podestà et delli infrascritti, con la debita cautela, et distantia per la contumacia nella quale detto Illustrissimo signore si ultima per esser venuto.
Come si è già visto, la peste formale era stata ufficializzata a
Ceneda con la riunione del Consiglio del 7 settembre 1631. Ancorché
la Contea fosse limitrofa alla podesteria di Serravalle, non sono stati
evidenziati particolari provvedimenti assunti dai locali Provveditori
alla Sanità nei suoi confronti, se si escludono poche righe emergenti
nella riunione consigliare del 14 settembre successivo, ove venne stabilito: Dove fatti lungi et importanti discorsi in proposito di Sanita in
congiuntione cosi vicine di Ceneda finalmente fu terminato che li si585
gnori proveditori alla Sanita debbano abocarsi con i proveditori di ceneda per veder di ritrovar qualche repiego a negocio cosi importante.
In dicembre giunse a Serravalle il nuovo Provveditore generale alla Sanità Giacomo Marcello.
Tra le disposizioni da lui emanate al suo arrivo, una riveste
particolare importanza, cioè la costituzione di un Archivio della Sanità
per la podesteria di Serravalle che, se fosse pervenuto fino ad oggi,
avrebbe fatto la felicità dei ricercatori e, in particolare, mia personale.
Con la fine del 1631 Serravalle, pur vigilando per allontanare
il pericolo del contagio dalla città, ricominciò pian piano a vivere nella
normalità.
Si diradarono di molto le disposizioni in materia di Sanità e la
vita cittadina riprese il suo corso, anche in tema «diplomatico».
Infatti, nella riunione del Maggior Consiglio del 22 dicembre,
venne proposto che, per il battesimo del figlio del podestà, dovendosi
dar segno di qualche grattitudine per memoria di tanto fervore fu posta parte che sia fatto dono al figliolo di scudi sessanta, d’esser spesi
in una collana, ò altro Regale per segno della riverentia, et ottimo governo dell’illustrissimo signore suo Padre, et questi con denaro di colta d’ocorrente dovendo li molto illustrissimi signori proveditori asister
al detto Battesimo a nome di questa magnifica Comunita qual parte
hebbe votti pro 26 contrari 2.
Il sacro rito fu poi celebrato il 30 dicembre successivo nella
chiesa di Santa Maria Nova di Serravalle; ecco l’atto:
Giovanni Battista Giorgio figliolo dell’illustrissimo signor
Anzolo Loredan podestà di questa Terra et dell’illustrissima signora
Anzola sua consorte. Padrino fù al fonte l’illustrissimo et eccellentissimo signor Giacomo Marcello proveditor alla Sanità in Trevisana et il
molto illustrissimo et eccellentissimo signor Gironimo Marchi con il
molto illustrissimo signor Gironimi Cesana suo collega proveditori
della communita di questa terra di Serravalle intervenendo questi per
nome della Magnifica Comunità et conmadre fu la molto illustrissima
signora Livia Casoni, fù battezato da me Giacomo Ciriano pievano.
Le benemerenze acquisite dal podestà Loredan durante il suo
reggimento a Serravalle furono poi tangibilmente riconosciute dalla
Comunità, con la decisione, nella seduta consigliare del 2 luglio 1632,
di immortalare il suo reggimento in uno stemma.
Le fonti storiche locali dichiarano compatte che a Serravalle
la peste non entrò.
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Forse fu così per la città, ma il territorio, benché limitatamente ed in zone circoscritte, fu attaccato ed ebbe alcuni decessi causati dal
morbo.
Si è già accennato ai due fratelli serravallesi morti di peste nei
pressi di Belluno, a metà novembre del 1630. L’esame dei registri canonici di Serravalle non ha fatto emergere alcuna prova certa di decessi
avvenuti in città per peste, tranne due registrazioni, l’una del 29 giugno
1630 quando fu sepolto Jseppo Riggoni [che] morse di morte repentina
cascando da quel bruto mal e soprattutto l’altra, il 20 ottobre 1630, in
cui venne tumulato Jacomo d’Antonio foresto venuto da Venetia [che]
morse in Fadalto, et fu sepolto a S. Justina.
In località Fadalto, appunto, era stato installato un (altro? Forse si trattava di quello localizzato nel Borgo Superiore, in prossimità
dell’attuale Porta Cadore) lazzaretto con tanto di guardia stipendiata,
nel 1630-1631, tale Andrea Crucis deputato guardiano alla Sanita in
Fadalto e nel 1631 tale mastro steffen Crucis guardiano al casello di
Fadalto, e di «restello di Sanità» per i viaggiatori provenienti dal Bellunese: era situato tra l’antica torre di San Floriano e l’attuale Centrale
elettrica dell’Enel, in località Nove di Fadalto, dove il passaggio della
Strada Regia era assai dirupato.
In questo lazzaretto furono ospitati degli ammalati, come documentato dalle seguenti registrazioni: item deve haver per contadi per
mandato 22 aprile 1631 per contadi a mastro Nicolò munari per farina
et formazzo datto a quelli del lazzeretto di Fadalto Lire trenta tre soldi
cinque;
item deve haver per contadi per mandato 17 aprile 1631 per
trovare di condur robbe in fadalto a i sequestrati Lire quatro soldi sei;
item deve haver per contadi con mandato 22 marzo 1631 a
mastro Nicolo munaro per farina datta alli miserabili nel fadalto …
Lire 17 soldi 10;
item deve haver per contadi con mandato 8 maggio 1631 a
mastro Giacomo dal Tio per spese fatte alla sua hostaria da Gregorio
daneletto, in piu volte et piu tempi per servitio delli sequestrati in Fadalto Lire trentuno;
item deve haver per contadi con mandato di doi zugno 1631 a
mastro Antonio del Tio per farina datta a quelli di Fadalto Lire 60:
sorgo turco a soldi 4 Lire 12;
item deve haver per contadi con mandato 3 zugno 1631 a domino pompeo Fundra speciaaro per medicine datte in piu volte alli …
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in Fadalto ordinate dall’eccellentissimo signor Sindico, come dalla
sua polizza lire quaranta sette soldi dodesi;
item per eborsati per aconti (?) a mastro Andrea Ciroicho per
sua mercede d’haver veduto quelli del Fadalto Lire quatro;
item deve haver per contadi con mandato primo zugno 1631
per pagar silivatione hautte dall’Hebreo da Ceneda per dar a quelli
del Fadalto cosi da cordo dalli signori provveditori Racola, et piazzone Lire sessanta;
item per spesi in ocasione di far sepelir doi cadaveri mandati
al lazaretto 6 et 7 agosto 1631 d’ordine di signori proveditori Lire vinti sei;
item per contadi a Tadio fais per far buse a dui cadaveri al
lazaretto 7 agosto 1631 Lire tre.
Per certo in una zona del territorio soggetto alla podesteria di
Serravalle ci furono dei casi di contagio di peste.
Ne è prova la seguente registrazione: item per pagati con
mandato (manca la data di registrazione; la precedente è del 27 settembre 1631 e la successiva del 7 marzo 1632) a mastro Mattio dal Fol
speciaro per medicine datte alli apestati a san Martino cosi versate
Lire quindesi soldi diciasette.
Vien fatto di pensare che si tratti della località Gai, ove esiste
ancora un’antica chiesa (sec. XIII) intitolata a San Martino, poco a sud
di Castello Roganzuolo, in territorio podestarile serravallese.
Durante la dominazione veneziana l’odierno comune di San
Fior, di cui fa parte la frazione di Castello Roganzuolo, era suddiviso
tra le podesterie di Serravalle e di Conegliano; la linea confinaria era
determinata dalla strada «Ongaresca», ora Pontebbana: a sud di essa il
villaggio di San Fior di Sotto soggetto al rettore di Conegliano; a nord i
villaggi di San Fior di Sopra, Castello Roganzuolo e Gai di pertinenza
del podestà di Serravalle.
Proprio a Gai, nella seconda metà di febbraio 1631, era stato
incendiato il «restello di sanità» che era stato innalzato su disposizione
del Provveditore generale alla Sanità Carlo Contarini; il fatto era accaduto di notte ed al manufatto erano state asportate, prima di essere dato
alla fiamme, le sarature cadenazzi, et altri feramenti.
Dubbiosa rimane la morte per peste del serravallese, canonico
mons. Camillo Pancetta; insegnante di Diritto Canonico all’Università
di Padova, dal 1624 con cattedra primaria, abbandonò nel 1630 il centro patavino con la presenza in città dell’epidemia, rientrando nella terra natia e ivi morì, il 25 dicembre 1630, di peste (FACCIOLATI, 1767).
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L’atto di sepoltura, registrato a Serravalle il 26 dicembre 1630, non è di
alcun aiuto a dirimere la questione: 26 ditto [dicembre 1630] L’illustrissimo et eccellentissimo Reverendo Don Camillo pancetta fu sepolto alla pieve. Morì li 25 ditto avuti li sacramenti.
Il decesso avvenuto per causa pestosa è stato, recentemente,
completamente rigettato (TOFFOLI, 2005) perché, se così avvenuto,
avrebbe avuto risonanza in loco per un personaggio sì illustre.
Forse non fu così perché Serravalle aveva tutti i vantaggi per
tacere su quei pochi morti per peste avvenuti nel suo territorio. Gli improrogabili motivi di ordine economico, sostenuti dalle antiche affermazione di purezza e di salubrità dell’aria che avevano preservato Serravalle dagli attacchi pestosi nei secoli, erano, senza ombra di dubbio,
una valevole, locale, «ragion di stato».
Il «pensiero medico» sulla peste, da Ippocrate al sec. XVII. Egoismi terreni, iniziative, cure e ricerca del sacro
Vediamo ora rapidamente il «pensiero medico» riguardo alle
epidemie, prima tra tutte la peste.
Inizialmente la medicina si basò sull’eredità scientifica lasciata da Ippocatre (Cos, 460 ?-Larissa ?, 370 a.C. ?), il quale, in sintesi
scrisse che l’analisi sulle epidemie si basava «… su quanto vi è di comune e quanto di individuale nella natura umana; sulle malattie, sul
malato, sulla dieta e su chi la prescrive (che da ciò dipendono sviluppi
favorevoli o funesti); sulla costituzione generale e specifica dei fenomeni celesti e di ciascuna regione; sui costumi, sul regime, sul modo
di vita, l’età di ognuno; sui discorsi, i modi, i silenzi, i pensieri; sul
sonno e sull’insonnia, sui sogni - come e quando -; sui gesti involontari
- trapparsi i capelli, grattarsi, piangere -; sui parossismi, le feci, le urine, gli sputi, il vomito …».
Si intendeva così unificare il malato, la malattia, il medico e,
in particolare, integrare l’unità fisica e psichica dell’essere con la complessità socio-culturale e fisico-geografica dell’ambiente che lo circondava. Nello specifico, per le epidemie, la variazione delle condizioni
atmosferiche e climatiche erano a capo delle loro origini e ne regolavano la ciclicità, vale a dire che quelle che sorgevano in inverno si estinguevano d’estate e viceversa.
Ippocrate raccomandava quindi al medico «lo studio delle stagioni dell’anno, gli influssi che ognuna di esse può esercitare; e inoltre
i venti e caldi e freddi, innanzitutto quelli che sono tipici di ciascuna
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regione. Deve ancora indagare le qualità delle acque, perché così come
esse differiscono nel gusto e nel peso, altrettanto ne sono ben diverse le
proprietà. … E col trascorrere del tempo e dell’anno egli sarà in grado
di dire quali malattie epidemiche colpiranno la città e d’estate e d’inverno. … Così chi abbia riflettuto e compreso in anticipo le circostanze
del tempo, possiederà una piena conoscenza di ogni singolo caso e
molto otterrà nel difendere la salute e non piccoli successi conquisterà
nella sua scienza».
Nei secoli successivi il «lascito scientifico» ippocratico mutò
e venne abbandonato il fondamento del suo pensiero, cioè «gli intendimenti animatori dell’osservazione e della interpretazione del fenomeno
a sollievo del malato» e si presero come cardine alcune considerazioni
marginali del suo discorso che saranno le basi pre concettuali per nuove affermazioni e considerazioni tecnico-mediche.
Un altro grande medico greco, Galeno (Pergamo, 130-ivi, ca.
200), che esercitò a Roma come medico di corte, rafforzò ulteriormente
la teoria che la peste era una malattia prima dell’aria e secondariamente
dell’uomo, originata dalle condizioni ambientali calde ed umide che
provocano l’eccitazione dei corpi; causa primaria era l’ispirazione e,
tra le condizioni generali, in particolare l’enorme massa di cadaveri
non tumulati o solo parzialmente cremati in tempo di guerra, la putrefazione dei corpi e i vapori che si liberano dal terreno ed inquinano rispettivamente l’acqua e l’aria, le esalazioni delle paludi e delle acque
stagnanti in estate, e, in generale, tutte quelle localizzate condizioni climatiche che favoriscono la putrefazione, mutando così la qualità dell’aria rendendola pestilenziale.
Galeno, a fianco di tali condizioni, introdusse nuove considerazioni, che andranno poi ad influenzare sostanzialmente tutte le affermazioni medico-filosofiche per molti secoli, vale a dire che ogni essere
vivente con la morte avvia un naturale processo di putrefazione e, per
conseguenza, le pestilenze dipendono dalla composizione umorale del
corpo umano; e che è il peso del regime e della dieta che determina la
predisposizione degli umori alla putrefazione. In ogni caso, comunque,
Galeno affermò che, pur nella consapevolezza dell’esistenza delle cause ambientali e contingenti, è la predisposizione del corpo umano ad
ammalarsi che cagiona l’insorgere del male (una dichiarazione della
valenza dei «geni» di ogni essere umano ante litteram), per cui l’intervento medico sul corpo del paziente potrà eliminare gli effetti delle
cause superiori, rendendo gli esseri umani indifferenti alle malattie.
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Ecco così insorgere le terapie mediche raccomandate dai medici come cardine primario della profilassi individuale per difendersi
dagli attacchi epidemici: essiccare i corpi caldi e umidi, mantenere in
equilibrio armonico gli umori, diminuire con i salassi l’eccedenza ematica, favorire l’evacuazione con la purga, stimolare la diuresi.
Nel Trecento, col comparire della peste in Europa, il «metodo
galenico» si era oramai dogmatizzato e aveva caratterizzato la medicina scolastica dei Padri della Chiesa, ma, nel contempo, l’evoluzione
degli studi si era rafforzata con l’apporto di quelli orientali, greci ed
arabi, che avevano cominciato a fare breccia in Occidente, scalfendo la
rigida scienza medica, purgata dei testi classici. Insomma, la conoscenza degli studi di Avicenna [il medico e filosofo persiano Abū ‛Alī alHusayn ibn Sīnā (Afshana, presso Buchara, 980, Hamadān, 1037)], di
Averroè [il fisolofo arabo Abu’l walid ibn Muhammad ibn Rushd (Córdoba, 1126-Marrakech, Marocco, 1198)], di Rhazes [il medico, filosofo
e matematico arabo ar-Rāzī, Abū Bakr Muhammad ibn Zakāriyyā’(Persia, ca. 864-probabilmente Baghdād 925 o 934)] e l’introduzione di
scritti finora sconosciuti del filosofo greco Aristotele (Stagira, Grecia
sett., 384-Calcide, nell’Eubea, 322 a.C.), nonché le trascrizione arabe
dei testi di Ippocrate e Galeno non alterati, consentiranno il lento riaffermarsi dell’osservazione e della sperimentazione nella medicina, volto ad indagare, attraverso le leggi e le cause naturali, le radici rigorosamente scientifiche dei fenomeni, integrando gli studi di Ippocrate e di
Galeno con i fenomeni astrologici legati alla disposizione degli astri
nella volta celeste.
Al posto di spiegazioni antiscientifiche, fortemente legate a
credenze di natura spirituale, miracolistica, esoterica, demoniaca, si
inizierà a spiegare l’avvento delle epidemie come causate dall’influenza delle leggi degli astri, delle fasi lunari, dei «corpi naturali, strumenti
ed intermediari tra il divino superiore e il mondo inferiore».
Così risultava speculare al macro, il micro-cosmo, e le dodici
costellazioni dello zodiaco venivano poste a difesa delle diverse parti
del corpo umano e, quindi, esiti diversi erano vaticinati a seconda del
momento in cui veniva effettuata la cura o l’intervento chirurgico; inoltre si credeva che le piante usate per produrre medicinali avessero ottenuto le loro virtù curative dalle costellazioni e dai pianeti e, allo stesso
modo, pietre e metalli acquisivano efficacia preventiva e curativa delle
malattie grazie agli influssi stellari; e, ancora, che la disposizione dei
componenti della volta celeste procurava l’insorgenza della peste assieme alle cause cosiddette terrestri, poiché per tale effetto le putrefazioni
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sottoterra salivano in superficie ed i miasmi umidificavano e avvelenavano l’aria che i venti, particolarmente quelli provenienti da oriente,
trasportavano da luogo a luogo.
A questi insegnamenti ed ad altri, tra i quali anche che l’origine della peste dipendesse dalle eclissi di luna, dalla congiunzione dei
pianeti, soprattutto di Marte e Saturno con le altre stelle fisse o il loro
raduno in uno dei segni zodiacali dell’uomo, erano cresciuti i medici
del Trecento e la loro ferma ed assoluta convinzione era che il precipuo
pericolo dell’insorgere della peste si dovesse ricercare nella cattiva
qualità dell’aria e nei mefitici odori trasportati dai venti respirati dai
polmoni e assorbiti tramite i pori, regolati dal calore del corpo, della
pelle. I medici non erano invece accomunati sulle cause della corruzione atmosferica; c’era chi sottolineava l’effetto delle alterazioni climatiche e dei periodi di umidità; altri davano rilevanza all’accumulo di
sporcizia sul terreno e alle acque stagnanti; altri ancora esaltavano
l’influsso delle congiunzioni planetarie.
A partire dalla grande epidemia della metà del Trecento, la
scuola medica veneta cominciò a promuovere ininterrotti dibattiti
scientifici, nei quali l’apporto dei suoi rappresentanti ebbe valenza qualificativa.
I testi più significativi e diffusi della scuola medica veneta, incentrata sull’insegnamento all’Università di Padova, furono i seguenti:
il Modus vivendi tempore pestilentiali di Giovanni Dondi dall’Orologio
(1318-1389), la Metodus de regimine sanitatis in tempore pestilentiali
di Marsilio da Santa Sofia (ca. 1367-1405), il De preservatione a peste
et eius cura di Michele Savonarola (ca. 1385-1464), il Consiglio per la
peste di Piero di Tossignano, pubblicato a Venezia nel 1491 nel Fasciculus medicinae di Johannes de Ketham, il De observatione in pestilentia di Alessandro Benedetti (ca. 1450-1512).
Nell’orbita dell’influenza medica veneta, le principali regole
per preservarsi dal contagio pestoso consistevano nel trovare una via di
fuga dall’area colpita dal morbo e quando ciò non era possibile veniva
suggerito ai potenziali malati di depurare l’aria con i fumi derivanti
dall’incendio di legni aromatici, di portarsi addosso sacchetti contenenti sostanze odorifiche ed amuleti, usare abbondantemente l’aceto che
combatte la putrefazione e dell’acqua di rose; era inoltre consigliato di
porre i vetri ai telai delle finestre oppure di coprirli con tela cerata, e di
spalancare le aperture solamente quanto soffiava il fresco vento dal
nord. Naturalmente nella profilassi preventiva trovava grande spazio la
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pratica del salasso e della purga e particolare attenzione doveva essere
data ad impedire tutti quei fattori che potevano predisporre la putrefazione e la corruzione degli umori; molto rigide erano le diete e si dovevano evitare nella maniera più assoluta i cibi facilmente deperibili. Persino l’attività sessuale era proibita, come ogni altra forma di esercizio
fisico, in quanto avrebbero causato un aumento della ventilazione polmonare e corporea con il dichiarato pericolo di far entrare la corruzione. Alle preaccennate concezioni mediche, che inizialmente stabilivano
che la peste era causata dagli astri, in particolare dalla congiunzione di
Marte e Saturno con le altre stelle fisse, e dalla corruzione dell’aria, nel
tardo Quattrocento, con l’avvento dell’Umanesimo, negli scritti del fiorentino Marsilio Ficino, Consiglio contra la pestilentia del 1478 e di
Alessandro Benedetti di Legnago, De observatione in pestilentia, edito
a Venezia nel 1493, iniziò un progressivo declino delle «cause astrologiche», ed emersero e si svilupparono nella quotidianità dei compiti degli Uffici di Sanità quelle azioni contro la peste, quali l’isolamento, la
quarantena e l’espurgo, frutto della convinzione che il morbo si trasmetteva da luogo a luogo tramite il contagio delle persone e delle
merci e l’aria è solo il veicolo e non la fonte della malattia; sarà poi il
medico veronese Girolamo Fracastoro a fornirne, nel 1546, una compiuta definizione nel suo trattato De contagione et contagiosis morbis
et eorum curatione.
La peste del 1575-1577 trovò «valido aiuto» nei medici patavini Girolamo Mercuriale e Girolamo Capodivacca, rispettivamente titolari di medicina pratica in primo loco e in secundo loco.
Il 10 giugno 1576 i due, assistiti da altri tre medici padovani:
Mariano Stefanelli, Niccolò Corte e Bernardino Paterno, furono chiamati dalla Repubblica a Palazzo Ducale, nella Sala del Maggior Consiglio, ad esprimersi su che tipo di morbo vi fosse a Venezia ed essi, contro il pensiero degli esponenti della classe medica veneziana presenti e
dei Provveditori alla Sanità, e la riluttanza dei tre assistenti ad mettere
un verdetto definitivo, negarono che l’epidemia fosse dovuta a vera peste, ma fosse frutto solamente di febbri epidemiche favorite dalla denutrizione dei ceti popolari, e ciò con soddisfazione palese della maggioranza dei rappresentanti presenti del Governo veneto.
Ben presto però, con l’espandersi inarrestabile della malattia, i
due caddero in disgrazia.
Rientrato a Padova, il Mercuriale cercò di rendersi ancora utile alla Repubblica, nonostante il siluramento, suggerendo la realizzazione di una baraccopoli solamente per i ricchi di Terraferma (non rite593
nendo conveniente che essi dividessero con i poveri i letti dei lazzaretti) e poi di una tendopoli capace di contenere 10.000 persone alla Fusina, località alle foci del fiume Brenta, ricca di acque pure e agevole per
il rifornimento.
Egli non cambierà comunque sostanzialmente idea sulla peste
e, nel gennaio del 1577, farà stampare a Padova un trattato sulla malattia, forte delle sue lezioni universitarie, in cui darà del morbo una definizione vaga e sfuggente.
Con la peste del 1575-1577 fiorirono altre pubblicazioni in
materia che non diedero nuovi contributi allo studio della malattia, ma
trattarono di elementi escatologici (eziologia del morbo, influssi astrologici, causalità divina, peccati umani e giusta punizione dai cieli, rapporti tra cause «prime» e «seconde») riferiti al contrarre la peste; le più
significative furono: il Trattato della peste et delle petecchie nel quale
s’ingegna il vero modo che si dee tenere per preservarsi et curare ciascuno opresso da tali infermità di Gioseffo Daciano, pubblicato a Venezia nel 1576, il Discorso di peste di Andrea Gratiolo, Venezia 1576,
la Compilatione delli veri et fedeli rimedi da preservarsi et curarsi dalla peste, con la cura degli antraci, carboni et giandusse di Giambattista Cavagnino, Brescia 1576, Il summario delle cause che dispongono
i corpi de gli huomini a patire la corrotione pestilente del presente
anno MDLXXVI di Antonio Glisente, pubblicato probabilmente a Venezia nel 1576, sempre del Glisente la Risposta fatta per il summario della caue pestilenti alla apologia dell’ecell. M. Anibal Raimondo Veronese, Venezia 1576, il Trattato del reggimento del vivere et delle altre
cose che devono usare gli huomini per preservarsi sani nelli tempi pestilenti continuato dalla cognitione delle cause che producono la peste,
Venezia 1576, il De peste libri tres di Antonio Porto, Venezia 1580, il
De peste libri duo di Alessandro Massaria, medico legato agli ambienti
ereticali, Venezia 1579.
A contraltare di questi autori emersero gli scritti di Annibale
Raimondo, il Discorso di Annibale Raimondo Veronese nel quale chiaramente si conosce la viva et vera cagione che ha generato le fiere infermità che tanto hanno molestato l’anno 1575 et tanto il 76 acerbamente molestano il popolo dell’invitissima città di Vinetia, pubblicato a
Padova nel 1576 e del bresciano Gerolamo Donzellino (già luterano e
poi nicodemita, morto annegato in circostanze non chiare nel 1587), il
Discorso nobilissimo e dottissimo preservativo et curativo della peste,
Venezia 1577.
594
In queste edizioni, il Raimondo negava gli influssi astrali e
dava spazio alle cause naturali come la povertà, la pessima alimentazione del popolino, l’incuria verso i poveri infermi, l’inquinamento dei
pozzi avvenuta con l’invasione di acqua salsa nell’ottobre del 1574; il
Donzellino consegnava alle cause «seconde» e «umane» l’origine della
peste, quindi una malattia curabile con la medicina, concludendo però
il suo scritto con un deciso richiamo all’unica vera causalità del morbo,
vale a dire quella divina e che, quindi, in ogni caso, quando la peste è
voluta da Dio senza concorso di altre cause superiori o inferiori e sia
l’astrologia sia la medicina sono impotenti sulle rispettive cause, non
resta che affidarsi all’Altissimo per il rimedio curativo e preservativo,
con le preghiere al fine di placare la sua giusta ira determinata dagli
umani peccati.
A nulla serviranno il metodo curativo e la somministrazione
dei prodotti farmaceutici del tempo, ed il fallimento porterà ad un profonda sfiducia dell’opinione pubblica. In questo clima trovarono spazio
e massiccia collocazione una miriade di antidoti, rimedi pseudo scientifici e magici, ai quali la popolazione si aggrappò disperatamente per la
quotidiana sopravvivenza; farà la sua parte anche la pubblica autorità
che permetterà la loro sperimentazione a malati ricoverati nei lazzaretti, gente volontaria, perfino sana.
Gli elisir furono prodotti per lo più da medici, la cui segreta
brama era di cogliere, col successo, l’eterna fama scientifica, come il
bresciano Annibale Girardi, il quale morì appena giunto al lazzaretto di
Venezia, prima di sperimentare i suoi rimedi, ed i colleghi Francesco
Rodano, Andrea Martorelli, Gasparo Tolentino, Ascanio Olivieri, Giacomo Freschi Olivi, tutti preoccupati di presentare al Senato o al Consiglio dei X i rispettivi antidoti; ma anche i ciarlatani stranieri ebbero
la loro ribalta, tra tutti il fiammingo Antonio Gualtiero che propinò, autorizzato dal Consiglio dei X il 18 luglio 1576, quando la mortalità era
all’apice, ai sani urina, aceto e ruta per prevenzione e sterco agli ammalati per medicina. Avventurieri spregiudicati e medici realizzatori
della «vera medicina» faranno la loro parte un po’ dovunque nella Terraferma, somministrando i loro antidoti che non faranno altro che accelerare la morte dei pazienti.
Nulla cambierà sulla conoscenza della malattia pestosa e negli
interventi curativi tra la peste del 1575-1577 e l’epidemia degli anni
1630-1631, e cadrà nel vuoto la proposta del medico pesarese Galeazzo
Cairo di istituire una cattedra universitaria ed un’accademia per lo studio mirato del morbo.
595
In questa sede viene fatto un accenno al medico fisico bellunese Giovanni Stefani (Belluno, fine ‘500-Venezia, 1653/1656), che
esercitò a Ceneda poco dopo il 1620 e fino al 1632, quando lascerà il
centro della Contea, chiamato a Venezia per la eco della sua grande
esperienza e notorietà in campo medico. Egli aveva trovato casa in
contrada Cavertino, a nord della Cattedrale, alle pendici del colle ove si
trova il Castello vescovile di San Martino, in affitto dallo speziale Ottavio Marescalchi di Conegliano.
Pur di non perdere i suoi servigi, il 25 marzo 1630, la comunità di Ceneda aveva preso la decisione straordinaria di concedergli la
cittadinanza, timorosa per le avanches portate avanti da Serravalle, che
lo voleva colà medico condotto a tutti i costi. Le trattative erano già a
buon punto tra i rappresentanti del Consiglio serravallese e lo Stefani,
il quale si era già impegnato per trasferirsi nella città attraversata dal
fiume Meschio; il rifiuto poi del medico a portarsi ivi sarà accolto con
disprezzo dal Maggior Consiglio di Serravalle, il quale nella riunione
del 27 marzo 1630 lascerà ai posteri la seguente precisazione:
Constatato che esso Medico s’ha fatto lecito mancar di parola onde dall’eccellentissimo signor proveditore et spetabile signor Mario Giustiniano fu posta parte che sij cassatta, retratatta, et annulata
essa condotta dai libri nostri publici come se mai fatta non fusse qual
parte hebbe votti pro 23 contrari 2.
Giovanni Stefani fu eletto Provveditore alla Sanità di Ceneda
il 28 ottobre 1631, quando già era stata dichiarata la peste formale in
città, applicandosi con scrupolo alla cura degli ammalati. Oltre ad esercitare la professione di Ippocrate, durante la sua esistenza si dedicò anche alle lettere con indirizzo medico, pubblicando una ventina di opere,
la prima: De contagionis natura libellus, del 1624, che, assieme alle altre successive, verrà poi raccolta nell’Opera universa, edita a Venezia
nel 1653. La pubblicità dei suoi scritti varcherà i confini dello Stato
Veneto e la sua presenza, in qualità di insegnante, sarà richiesta dai Licei di Pavia e di Messina. Tra le sue edizioni, si segnalano per l’argomento che stiamo trattando, la Historia febrium cenetensium anni 1629
(Storia delle febbri a Ceneda nell’anno 1629), presumibilmente scritta
a Ceneda ed il Pestiferae contagis Prophilactice (Profilassi del contagio pestilenziale), un poemetto in esametri latini pubblicato a Venezia
nel 1635 presso Marco Antonio Brogiollo, in calce a In Hippocratis
Coi libellum de Hominis structura commentarius (Commento all’operetta di Ippocrate di Cos sulla disposizione delle ossa dell’uomo). Nel
presentare l’opera, il tipografo (forse lo stesso Stefani) afferma che il
596
testo fu scritto a Ceneda mentre infieriva la peste (grassante peste) e
plaude ai Cenedesi per avergli dato ospitalità e per non aver permesso
che fosse chiuso nella «valle» (Serra>valle). Recentemente è stato affermato (TOFFOLI, 2005) che «Probabilmente l’accenno si riferisce a
un ordine del Provveditore veneziano Giacomo Marcello che, venendo
nel 1630 a Serravalle (Serra«valle»), avrebbe voluto “che (i cenedesi)
mandassero Persona appostata a Serravalle, dove sarebbe stata ricevuta
per non obbligarlo a moltiplicare gli ordini, che colà si fermasse per riferire ciò che da lui fosse comandato per il buon governo” (in nota, citazione da G.B. MONDINI, Storia della città di Ceneda …, sub a.
1630). Ma i cenedesi non obbedirono all’ordine e non fecero spostare il
loro medico. Di qui la gratitudine dello Stefani, che sta bene a Ceneda,
tanto che le scioglie, con le parole del tipografo, un piccolo inno di
lode».
Sulla felice intuizione dello Studioso riguardo alla individuazione nello Stefani della persona scelta per trasferirsi momentaneamente a Serravalle, è però da evidenziare che il Provveditore generale alla
Sanità Giacomo Marcello non fu a Serravalle nel 1630, ma l’anno
dopo, in novembre/dicembre, e anche il Mondini afferma lo stesso:
Fu questa Città [Ceneda, n.d.r.] sospetta tutto l’anno seguente
(a. 1631): nel qual tempo venne a Serravalle d’ordine del Senato il
Provveditor Giacomo Marcello, et nel passaggio fece chiamare vicino
alla Chiesa di San Vitto, hora di San Francesco, li Deputati, et ordinolli, che mandassero persona apostata a Serravalle, dove sarebbe
stata ricevuta, per non obligarlo a moltiplicare gl’ordini, et che colà si
fermasse per riferire ciò che fosse da lui comandato per il loro buon
governo.
E’ poi inesatto scrivere che i Cenedesi non obbedirono all’ordine del Provveditore Marcello; essi decisero solamente, nella riunione
consigliare del 4 gennaio 1632, di sospendere tuttavia per convenienti
rispetti l’essecutione della presente parte sin alli 14 corrente, et perche
anco fratanto liberandosi sua eccellenza illustrissima conforme à suoi
comandi non fosse per riuscire tal deliberatione per certo modo supperflua; nel frattempo la peste abbandonò Ceneda e, pertanto, tale disposizione divenne appunto, inutile.
La nuova, terrificante, ondata dell’«idra venefica» del 16301631, troverà una società rassegnata all’impotenza di ogni mezzo terreno per sconfiggere il cavaliere dell’Apocalisse, ed anche i volgari ciarlatani e i medici cosiddetti innovatori, illusi o in mala fede, verranno
597
accolti con maggiore incredulità, anche se la farmacopea popolare
avrà ancora un suo duraturo spazio nel tempo a divenire. Si cita, solo
per curiosità, la proposta del medico Bartolomeo Tiboni, che intendeva
far sterminare tutti i colombi di Venezia perché li considerava «una
delle più pestifere cosse», ma nessuno gli diede ascolto.
La peste si manifestò con sintomi assai spaventosi: bubboni di
varie dimensioni e dolorosità all’inguine, alle ascelle o sotto le orecchie, carbonchi in varie parti del corpo, macchie di colore rosso, nero,
violetto, con il corpo che rivelava delle segnature come fossero state
subìte delle frustate; l’ammalato provava sete, aveva mal di testa ed
alta temperatura corporea, vomitata, a volte delirava ed evacuava feci
fetide e spesso piene di vermi.
Altrettanto terrificanti erano le cure secondo le condizioni mediche acquisite.
Si immagini ad un paziente così prostrato il seguente trattamento medico, considerato che la medicina del tempo «pensava» che si
dovesse estrarre dal corpo il veleno del male.
L’appestato subiva - è il caso di dirlo - una tortura intesa a fin
di bene, con l’applicazione del salasso, tramite sezione della vena o
l’appoggio di sanguisughe, o coppe, o mediante una serie di incisioni
sulla pelle; si applicavano sostanze irritanti sulla cute, che producevano
vesciche, le quali erano poi fatte scoppiare per far uscire ciò che si riteneva fosse veleno; i bubboni ed i carboni, preventivamente ammorbiditi con unguenti, venivano incisi con la lancetta oppure cauterizzati. E,
per finire, allo stesso scopo, si somministravano clisteri e lassativi.
Le uniche terapie preventive che in qualche modo, dove applicate con rigore, sortirono effetti positivi furono: la contumacia delle
persone in transito da e per Venezia e da e per ogni luogo della Terraferma e provenienti dall’estero, previo rigoroso controllo delle «fedi di
sanità»; l’immediato isolamento delle persone colpite dalla peste e,
dove possibile, il loro ricovero coatto nei lazzaretti, operazioni alle
quali seguivano, con il trasferimento altrove degli ammalati o con la
morte degli appestati, la disinfestazione degli abitati e la distruzione
col fuoco di oggetti ed arredi ivi esistenti, la quarantena e l’espurgo
delle merci in transito.
Operazioni che ebbero apprezzabili risultati solo dove furono
rigidamente applicate - e, come si è visto, Ceneda si salvò appunto così
dal dilagare del contagio e Serravalle ne resterà quasi del tutto immune
-, poiché interessi personali, particolarismi individuali, «ragion di sta-
598
to» e quant’altro ancora, fecero affievolire o resero del tutto inutile
l’efficacia di tali provvedimenti.
La gente, di qualsiasi classe sociale, di fronte a quelle gravi
epidemie dimenticò ogni tipo di solidarietà umana, di censo, di comunità, impegnata a salvare solo se stessa a danno o, quantomeno, indipendentemente, del prossimo, paralizzando così la vita commerciale e
finanziaria, indebolendo le relazioni politiche e facendo scricchiolare
paurosamente l’apparato amministrativo dello Stato.
Ai perentori ordini emanati dalla Dominante per assicurare
alla capitale quotidiani rifornimenti di generi alimentari, legna, carbone, calce, etc., anche con esenzione dalla contumacia e della quarantena, la Terraferma, in blocco, reagì con i sui apparati sociali-nobiliari, da
sempre esclusi dal potere politico centrale e, quindi, avversi alla Repubblica, con scarsa coscienza degli interessi generali dello Stato; solo
con difficoltà i rettori veneti riusciranno, quando anch’essi non saranno
coinvolti in uno spietato isolamento per la tutela della propria podesteria a discapito di ogni solidarietà con le altre città della Terraferma, a
dar corso alle disposizioni ricevute dal Senato.
Allo stesso tempo Venezia dimostrerà grande sensibilità nei
confronti dei poveri, ma questa particolare attenzione sociale sarà dettata da un calcolato disegno politico, che poco o nulla avrà a che fare
con la carità cristiana, poiché, mentre i nobili fuggivano dalla capitale e
dalle città di Terraferma in campagna, ondate di miserabili derelitti invadevano la dominante, prima per la carestia (1628-1629) e dopo per la
peste, contagiandosi e contagiando, e minacciando seriamente la sopravvivenza del centro lagunare. Il Senato reagirà a questa autentica invasione imponendo tasse ed aggravi ad enti pubblici e privati, ed agli
strati sociali più elevati, affinché versassero fondi necessari per l’assistenza dei poveri; la consapevolezza generale da parte delle istituzioni
che i poveri erano predestinati a morire di peste per il loro misero «status», la potenziale fonte di disordini che potevano arrecare ed il pericolo che diffondessero l’epidemia anche nelle più alte classi sociali, col
rischio di stravolgere la Repubblica, indurranno il Governo veneto ad
una politica di soccorso a favore dei derelitti, posti coattamente nei lazzaretti o sequestrati nelle (poche) case di loro proprietà
Di tutt’altro parere le città della Terraferma ove, come si è appena accennato, l’insensibilità della nobiltà indigena per gli interessi
generali dello Stato, susciterà nella classe dirigente locale un profondo
disinteresse verso il problema della povertà, in particolare quella forestiera. Gli esempi di Verona e di Treviso, la prima che provò ad espel599
lere, senza successo, durante il contagio tutti gli stranieri dalla città, la
seconda che espulse tutti i poveri forestieri durante la carestia del 1629,
sono esemplari per evidenziare come il particolarismo cittadino manifestò, oltre che scarsa sensibilità morale verso i miserabili, totale assenza di lungimiranza per contenere quelle spinte disgregatrici interne che
col loro agire potevano minare l’integrità della Repubblica.
Per ultimo, un accenno agli atteggiamenti spirituali, in generale, di tutte le classi sociali, sia veneziane sia di Terraferma, caratterizzati dal massiccio ricorso alla pratica del culto esercitata in occasione
delle due grandi pesti del Cinquecento e del Seicento.
Per il Seicento si è accennato alle iniziative religiose pubbliche e private portate avanti a Venezia e nelle podesterie di Terraferma,
mentre per gli attacchi pestosi precedenti si ritiene di dover dire qualcosa perché, di fronte alla constatazione dell’insuccesso della medicina terrena (comunque in entrambi i drammi secolari) non rimase altro
che affidarsi alla «farmacopea celeste».
Va subito sottolineato che la pratica religiosa, in particolare le
processioni, era considerata anche prima delle pesti cinque-seicentesce
un ottimo strumento per placare l’ira divina in tutta Europa. Nella realtà, pur con il massimo rispetto verso quelle maree di credenti che, durante tutto l’arco della storia del Cristianesimo, fino ad oggi, hanno intrapreso e tuttora intraprendono con devozione questi pii cortei, bisogna interrogarsi sulla pericolosità di quei contatti interumani, vere e
proprie occasioni di contagio comune.
Papa Clemente VI sollecitò la cristianità tutta ad un pellegrinaggio collettivo a Roma nel 1348, promettendo l’indulgenza plenaria
a tutti quelli che sarebbero periti durante il viaggio; rispose una moltitudine di fedeli, un milione e duecentomila. Peccato che non sappiamo
quanti ne morirono di peste!
Da più parti, anche dalla dirigenza politica veneziana, emerse
tanto nel 1575-1577 quanto nel 1630-1631, la consapevolezza che il
morbo era stato mandato da Dio contro la Repubblica ad espiazione
della colpa collettiva per l’eccesso dei peccati terreni commessi.
L’angoscia comune si riversò in iniziative penitenziali, caritatevoli, processionali, liturgiche, promosse sia dal Senato e dal Patriarca, sia dai singoli cittadini, e trovarono completa analogia e filo conduttore con gli stessi esponenti delle città di Terraferma. Queste attività
spirituali furono accompagnate da istanze pseudo religiose, atti di religiosità popolare e di superstizione, e ad eccessi di esaltazione tutti voluti, più che altro, dal basso popolo, che invocava l’aiuto dei cieli per
600
proprio conto, organizzando processioni in diversi luoghi della capitale
ed installando altari provvisori agli angoli delle calli e dei campielli,
dove si assisteva con grande devozione alla celebrazione della messa
solenne, nella convinzione che la preghiera, il pentimento e le invocazioni a Dio ed al coro celeste, dovevano essere effettuati vicino o presso i luoghi colpiti dalla peste, con lo scopo di ottenere, con rapidità,
l’attenzione dell’Altissimo.
In questi casi le autorità ecclesiastiche e laiche praticarono
un’attenta vigilanza per ricondurre entro i binari dell’ortodossia ogni
manifestazione spirituale (ma anche culturale) già praticata dalla classe
dirigente, a saldatura dell’impegno tra fede e vita politica al quale, da
sempre, tendeva il patriziato veneziano.
Il grande voto della Signoria per l’erezione della chiesa intitolata al Redentore, su progetto di Andrea Palladio (Parte del Senato del
4 settembre 1576), evidenziò il carattere corale dell’impegno religioso
dei Veneziani, ispirato ai dettami della pietà collettiva emanati dal Concilio di Trento.
Esso consentirà, ancora una volta, di far esaltare il ruolo della
Repubblica agli occhi delle potenze straniere; rafforzerà, se ne fosse
stato bisogno, la potenza della capitale nei confronti dei sudditi di Terraferma, ove nessuna città riuscirà a far innalzare un tempio di tale magnificenza e ratificherà, con la devozione pubblica alla fede dei padri,
l’immagine di uno Stato che era capace di fronteggiare, anche con
mezzi umani, le peggiori situazioni politiche e sociali.
Per tutto il resto del Seicento e del Settecento, Venezia non
subirà più vasti e significativi attacchi pestosi e l’esperienza accumulata durante le terribili pestilenze del 1575-1577 e del 1630-1631, consentirà alla Repubblica di perfezionare il proprio apparato sanitario nella prevenzione del morbo, attraverso i Provveditori alla Sanità, funzionari di una Magistratura attiva ed efficiente, invidiata e presa a modello
dai più potenti stati d’Europa fino alla caduta della Serenissima, alla
fine del Settecento.
I dibattiti, gli studi e le ricerche sul contagio e sui miasmi
continueranno in tutta Europa fino a che, nel 1894, il progredire della
ricerca epidemiologica e microbiologica riuscì a venire a capo della
malattia per merito dei medici e batteriologi A. Yersin e S. Kitasato e,
nel 1898, di P. L. Simond, che scoprirà il ruolo della pulce nella trasmissione della malattia.
Finalmente si era trovato ciò che fino ad allora era sfuggito,
cioè che la potenza del bacillo patogeno aveva il suo grande alleato
601
nell’Uomo, con le condizioni igieniche in cui viveva e che i portatori
erano i ratti; si era compreso il ruolo delle pulci nella propagazione
della «peste bubbonica», favorito nelle case, nelle quali le finestre erano state prive di vetri fino al XVII secolo, soprattutto negli strati più
bassi della società, ove si era continuato a dormire vestiti degli stessi
indumenti portati durante il giorno, facilitando così l’attacco dei parassiti al corpo, usato come fonte di calore. Quando poi invalse l’uso di
cambiare gli indumenti per la notte e, in generale, subentrò una migliore pulizia personale, furono effettuate le campagne di derattizzazione,
etc., e, per finire, si arrivò alla scoperta del bacillo, la situazione iniziò
a mutare radicalmente e si riuscì a sconfiggere la «falce nera» che, per
oltre duemila anni, aveva parato ogni tentativo volto a distruggerla, a
cominciare, a quanto si conosce, dai pensieri e dall’operato di Ippocrate.
L’ultima peste che toccò l’Europa fu quella che partì dallo
Yunnan, una provincia della Cina meridionale, sul confine con il Vietnam, il Laos e la Birmania, nel 1855, per giungere ad Hong Kong nel
1894 ed a Bombay nel 1896. Da questi porti internazionali la «falce
nera» arrivò in tutti gli scali mondiali e, per quanto riguarda quelli del
vecchio continente, in Portogallo nel 1899, a Glasgow nel 1900, a Marsiglia, Amburgo e Parigi nel 1920.
Questa fu la peggiore di tutte le pandemie pestose e, tra il
1898 e il 1948, falcidiò nella sola India più di 12 milioni di esseri viventi.
602
Condotte mediche a Conegliano dal 1608 al 1750
Comunicazione agli Atti del Convegno
presentata da
Luisa BOTTEON
I due documenti trascritti, datati Luglio 1750, riportano le
condotte mediche a Conegliano dal 1608 al 1750. Provengono dall’Archivio di Stato di Venezia, Fondo Provveditori alla Sanità, Lettere ai
Provveditori, busta 524, Trevigiano – Conegliano 1730-1796.
Ill.mi ed Ecc.mi SS.ri Provv.ri alla Sanità
Conegliano 11 Luglio 1750
Appena mi pervennero le commissioni di VV.EE. espresse nelle venerate di loro lettere 10 Giugno passato, che ò rillasciati gli ordini più opportuni per raccogliere nel proposito delle condotte de Medici di questa città quei Lumi, de’ quali elle sono venute d’incaricarmi colle lettere medesime.
Ma perche ho fatto mio debito d’impiegare la diligenza maggiore, così
si è dovuto spendere il tempo, che fin d’allora è corso; onde poi riuscito essendomi d’avere le notizie più fondate, posso di presente rassegnarle a VV.EE. compilate chiaramente ne’ due annessi fogli.
Potrano da questi rillevare costume essere sempre stato di questa città
servirsene di Medici cittadini fino all’anno 1666, tempo in cui l’Autorità dell’Ecc.mo Senato venne di permettere, che, quando sodisfazion
fosse di questi cittadini, proveder si potessero anco Medici forestieri,
come spicca dalle Venerate Ducali 9 Ottobre di detto anno da che poi
ebbe origine la non mai alterata prattica di condur sempre a benefizio
di questo pubblico, senza che s’abbia memoria, che le condotte siano
state partecipate a cotesto Ecc.mo Mag.to, due medici di qualunque
età essi si siano, uno cittadino, l’altro forestiere coll’onorario, e con
quelle condotte, che rissultano dall’annesso foglio n.1.
Per quante diligenze poi siano state usate da questi Cancellieri di Comunità e Sanità ne’ respettivi loro Offizij, possono assicurarsi VV.EE.
non essersi ritrovato Decreto dell’Ecc.mo Senato ne terminazione del
loro Ecc.mo Magistrato, che deroghi questa consuetudine, la quale
fin’ora è stata in un intiera non mai interrotta osservanza. Anzi perché
d’ogni cosa ne siano intere VV.EE. mi cale d’aggiungere che, mancato
in Mag.to Vst. passato il fu Ecc.mo N. Nicolò Graziani era medico cit603
tadino condotto, questo pubblico non ha pur anco proveduto di chi in
suo luoco subentri.
Eseguite così le Comissioni di VV.EE. ingiontemi colle preacennate di
loro Lett.re rimane ancora impegnato il mio dovere d’andar consumando l’esecuzione delle di loro precedenti 15 Mag., di che ne sarò
per porgere a momenti li riscontri a VV.EE., a quali bacio umilm.te le
mani.
Conegliano 11 Lugl. 1750
Pius Ant.o Balbi Pod.à e Cap.
N. 1
Serie delle condotte de Medici così cittadini come forestieri à servizio
in questa città di Conegliano dall’anno 1608 fino al presente 1750, da
esser rassegnata al Mag.to Ill.mo ed Ecc.mo alla Sanità di Venezia in
essecuzione à commandi espressi nelle venerate lettere 10 Giugno
prossimo passato, ed à me infra Cancelliere commessa dalli Nobb. Signori Provveditori di questo Off.o di Sanità.
Con parte presa nel Maggior Conseglio li 8 Aprile 1608 fù condotto in
publico Medico l’Ecc.mo Sig. Ottavian Graziani di questa città per
anni nove con salario di ducati quattrocento […]all’anno; nell’anno
1619 fù ricondotto in tutto come sopra; e nell’anno 1623 attesa la sua
età avanzata accompagnata da incomodi, vi fù così parte presa in esso
Conseglio dar in aiutto l’Ecc.mo Sig. Domenico Graziani suo figlio
pure Medico, nel qual anno in Agosto morto il vecchio Medico, restò
nella detta figura il giovine figlio per terminar la condotta paterna.
Nell’anno 1624 furono con parte presa in Conseglio condotti in Medici
per anni cinque esso Ecc.mo Graziani con salario di ducati duecento
cinquanta, et l’Ecc.mo Sig. Pietro Paolo Buffonelli ambi cittadini con
salario questo di ducati cento e cinquanta. Nell’anno 1629 furono essi
Sig.ri Medici ricondotti per altri anni cinque col sud.to salario. Nell’anno 1630 - 21 Maggio con Parte fù accresciuto il salario all’Ecc.mo Graziani in ducati tresento, ed all’Ecc.mo Buffonelli in ducati cento e settantacinque; e nell’anno 1631 – 29 Marzo fù con parte accresciuto il salario all’Ecc.mo Buffonelli à ducato duecento. Nell’anno
1634 seguì la ricondotta de’ med.mi coll’accrescimento del loro salario. A Graziani ducati 320 ed al Buffonello ducati 220: nell’anno 1639
seguì la di loro ricondotta per altri anni cinque col sudetto salario;
così nell’anno 1644 per altri anni cinque e medesimamente nell’anno
1649.
604
Nell’anno 1651 - 3 Febraro fù con parte condotto l’Ecc.mo Sig. Pietro
Farienti di questa città con salario provisionale di ducati cento, attesa
la morte dell’Ecc.mo Buffonelli.
Nell’anno 1652 – 13 Giugno fù condotto in Medico, l’Ecc.mo Sig. Pietro Benzoni forestiere con salario di ducati tresento unito all’Ecc.mo
Farienti, e nell’anno 1657 seguì la ricondotta de’ medesimi per altri
anni cinque, e col salario sudetto.
Nell’anno 1658 – 17 Marzo seguì per anni cinque la ricondotta dell’Ecc.mo Farienti in primo Medico con salario di ducati duecento all’anno; ed in Medico secondo, prima condotta per anni cinque dell’Ecc.mo Sig. Ottavian Graziani cittadino di questa Patria con salario
di ducati cento.
Nell’anno 1666 – 28 Settembre fù preso parte in Conseglio di ritrovar
medico forestiere, inherendo alla Publica mente con ducali 9 Ottobre
1666, copia delle quali si rassegna unita alle presenti.
Nell’anno 1673 fù presa parte per la condotta dell’Ecc.mo Sig. Giuseppe Chisini ferestiere, con salario di ducati duecento e cinquanta all’anno, ed affitto di casa, per anni cinque e colla essebizione simile di
essi ducati 250 all’Ecc. Sig. Fran.co Giusti cittadino.
Nell’anno 1674 – 26 Luglio fù dal Conseglio accettata la rinoncia di
esso Ecc.mo Chisini, e furono deputati due soggetti di quel corpo à ritrovar altro Medico forestiere, che fù l’Ecc.mo Sig. Fran.co Alfonso
Bonoli condotto per anni cinque dal giorno della sua venuta con annuale stipendio di ducati tresento ed affitto di casa.
Nell’anno 1679 – 17 Novembre fù condotto l’Ecc.mo Sig. Giovanni
Crissafida forestiere per anni cinque colla provisione dell’Ecc.mo Giusti […] di ducati duecento e cinquanta all’anno.
Nell’anno 1680 fù ricondotto, l’Ecc.mo Bonoli per altri anni cinque
coll’accrescim.to di ducati cinquanta, in tutto ducati 350.
Nell’anno 1683 – 4 Maggio l’Ecc.mo Crissafida è ricondotto in figura
di primo Medico con salario del ducati 300, attesa la partenza del Bonoli destinato Lettore di Medicina in Padova.
Nel sud.to anno 1683 – 30 Maggio l’Ecc.mo Sig. Marzio Giusti nostro
cittadino è condotto per anni cinque in Medico con salario di ducati
cento all’anno, e colla esenzione della […] de’ Medici, indi ricondotta
dell’Ecc.mo Carissafida per anni cinque, il dì suddetto 4 spirante col
pred. Suo salario, principiante.
Nell’anno 1688 – 20 Luglio Ricondotta dell’Ecc.mo Giusti per anni
cinque coll’accrescimento di altri ducati cento all’anno, e colla esenzione della colta de’ Medici: e detto Ecc.mo Crissafida ricondotto per
605
anni cinque coll’accrescimento di ducati trenta annui, sino ogni anno
ducati 330.
Nell’anno 1690 – 22 Aprile l’Ecc.mo Sig. Girolamo Perucchini, forestiere fù provisionalm.te condotto can salario, non si legge espresso; e
ciò attesa la morte dell’Ecc.mo Crissafida.
Nell’anno 1696 – 30 Settembre. Ricondotta dell’Ecc.mo Giusti con salario di ducati tresento, e colla esenzione sud.tto de’ Medici.
Nell’anno 1709 – Per la morte dell’Ecc.mo Perucchini furono condotti
in Medici per anni cinque senza distinzione di grado l’Ecc.mo Sig.
Gio. M. Giusti, e l’Ecc.mo Sig. Gio Batta Pizzutti forestiere con uguale
salario di ducati 300 all’anno per cadauno, colla provisione al Pizzutti di onesta casa ed al Giusti colla esenzione delle pub.e gravezze.
Nell’anno 1724 – Per la morte dell’Ecc.mo Giusti restò condotto in secondo Medico l’Ecc.mo Sig. Nicolò Graziani nostro cittadino per anni
cinque colla provisione annuale di ducati cento e sessanta, e colla
esenzione della gravezza del Medico.
Nell’anno 1729 fù detto Ecc.mo Graziani ricondotto, per altri anni
cinque colla provisione annuale di ducati duecento e colla esenzione
della detta gravezza de’ Medici.
Nell’anno 1731 attesa la morte dell’Ecc.mo Pizzutti fù condotto in Medico per anni tre, che continuò fino 1739 l’Ecc.mo Giovanni Zuccarelli
forestiero con provisione di ducati duecento all’anno, e coll’affitto di
casa e nell’anno 1739 fù ricondotto per anni tre con provisione di ducati 250 all’anno, oltre il sudetto affitto di casa.
Nell’anno 1742 – Fù condotto in Medico forestiere per anni tre l’Ecc.mo Sig. Pietro Ciotti, attesa la partenza dell’Ecc.mo Zuccarello, con
salario annuale di ducati duecento e cinquanta, compreso l’affitto di
casa, che fù nel tempo col solito suo salario, ed esenzione ricondotto
l’Ecc.mo sig. Graziani.
Negli anni 1744 e 1745 furono li sud.ti: Ecc.mo Graziani cittadino nostro, ed Ecc.mo Ciotti forestiere ricondotti, ò sino confirmati col stesso
a cadauno precedente salario, esenzione al fitto detta casa de’ Medici,
et compreso l’affitto della casa al secondo.
Dell’anno corrente 1750 – Corre la sola condotta dell’Ecc.mo Ciotti
col solito fin’ora suo salario, essendo mancato a vita l’Ecc.mo Graziani cittadino il 24 Maggio.
Pietro Antonio Rota Cancellier della Città
In fede li 15 Luglio 1750
606
1753 Officio di Sanità di Conegliano: apertura
di due cadaveri nella Villa di Cittadella
Comunicazione agli Atti del Convegno
presentata da
Luisa BOTTEON
Vengono trascritti quattro documenti del XVIII secolo provenienti dall’Archivio di Stato di Venezia, Fondo Provveditori alla Sanità, Lettere ai Provveditori, busta 524, Trevigiano – Lettere al Magistrato Conegliano 1730-1796.
I primi due, del 1753 riguardano la relazione di un incidente
avvenuto durante la torchiatura del mosto nella Villa di Cittadella (vicino a Bocca di Strada) e la descrizione dell’AUTOPSIA su due cadaveri,
fatta dal dott. Antonio Agostini. L’esame era stato voluto dall’Officio
di Sanità di Conegliano per indagare sulle cause della morte, nel timore
che si trattasse di una epidemia.
I due documenti successivi sono stati scritti nel 1769. Il primo
è costituito dalla lettera di accompagnamento da parte dell’Officio di
Sanità di Conegliano alla relazione del dottore Antonio Agostini. Questo riferisce sulla sua attività di medico nella città di Conegliano e nel
contado, ricordando, tra gli altri, anche l’incidente della Villa di Cittadella.
[I]
Conegliano 18 Ottobre 1753
La morte istantanea successa il dì 12 Ottobre corrente verso le ore disdotto nelle persone di Giacomo Vettori d’anni 48 e di Andriana sposata Silvestro Vettori di lui cognata d’anni 45 nella villa di Cittadella
di questo territorio posta nella Pianura di Levante, e non molto discosta dalla Piave con grave pericolo di vita di due altre persone, chiama
607
il mio dovere a rendere minuto conto del fatto all’E.E. V.V., che nel
tempo stesso vi mostreranno quanto ho creduto di dover operare nel
caso per tutti i riguardi della cauttella maggiore nell’importante materia di Sanità.
Stava sotto un teza, per altro spaciosa e tutta aperta dalla parte verso
mezzogiorno un tinazzo della tenuta di lonzi venticinque circa, in cui
nel dì del 11 era stata provisionalmente riposto del mosto bianco, fino
ad essere quasi ripieno, e nel luoco medesimo stavano parecchie altre
tine con zarpa, da cui era stato estratto il mosto medesimo.
Tanto nel dì del 11, quanto nel susseguente del 12 dal tinazzo stesso in
repplicate volte fù estratto tutto quel mosto, che potè per la spina a
basso sortire, in modo che non ne era rimasto, che non che circa un
mastelletto forse il più viscido, e feccioso, e mescolato con poche zarpe deposte.
Crede esso Giacomo di calarsi nel tinazzo per estraere col secchio anche quel poco residuo, che spontaneamente sortir non poteva, altera la
piana posizione del tinazzo medesimo onde accintosi all’operazione, e
posta mano all’estrazione, per quel che si puo credere cadde boccone,
senza moto e senza vita.
Restituitesi da lì a poco in quel luoco essa Andriana, e Marietta moglie di Vendramin Vettori donna di anni 25, e cercando di lui, che momenti prima avevano lasciato, affacciattesi all’orlo del tinazzo lo viddero in quella figura, e situazione, e credendolo bensì tramortito, ma
non mai estinto, essa Andriana più pronta saltò dentro per sollevarlo,
ma appena abbracciatolo cadde essa pure nel mosto medesimo, rimanendo senza voce, senza moto, e senza segno di vivere.
In tanto l’altra che al di sopra e fuori era spettatrice del caso, non arrischiandosi purché gravida di percipitosamente saltar nel tinazzo, ma
volendo tuttavia prestar quell’ajuto che pur le parea di poter prestare,
chiamando a nome la compagna, calò nel medesimo una rustica scala,
e per quella discendendo nel voler solevare uno de’ già estinti, senza
sensi cadde sopra i medesimi e lo stesso fece Anzoletta d’anni 14 figlia della gia morta Andriana, che all’oggetto stesso era giù discesa.
Ivi stettero per il corso di quesi mezzora, finocchè chiamato dalle strida e dalle voci d’un fanciullo di casa, che lo avea spinto fuori a chiamar ajuto una donna, che giaceva puerpera in una camera contigua
alla tezza, e che sebbene più non sentia parlar, o moversi d’alcuno,
senza saper precisamente di che temere, s’era accorta d’un qualche
grave accidente, v’accorre Batta Stringher meriga di d.a villa, il quale
era ne campi non molto lontani, e avvertito dalla donna stessa così in
608
confuso, presentatosi alla bocca del tinazzo giacer li vidde tutti quattro, come estinti.
A vista d’un spettacolo in fatti degno di tanta compassione fattosi non
ostante corraggio, saltò dentro e benchè si sentisse indebolito, ed alcun poco occupato dall’effumazione, tuttavia ebbe forza di sollevare le
due vittime cadute, che erano al di sopra degl’altri, e che appena davano segni di vita, e le sostenne finocche sopravvenute altre persone
vicine, mosse dalle strida disperate del fanciuletto che non finia di
piangere e gridare, poterono estraerle destitute per altro, ed affatto
prive dell’uso de sensi, estraendo in seguito li cadaveri de due primi
gia estinti.
Distesero Anzoletta sul pavimento della tezza, ed esposta all’aria, ajutata con bagno d’acqua fresca alla fronte, dopo un quarto d’ora riebbe, e posero l’altra sul letto in una camera, la quale non riacquistò
moto, e cuore se nonche dopo un’ora, e più, senza che ne l’una ne l’altra sapesse render conto di cosa, che fosse successa d’allora, che caddero tramortite, fino a quel tempo che si erano riavute.
Venuto in diligenza il Dep.o di quella villa ad esporre a quest’Officio
di Sanità il fatto, unitamente a questi Ill.mi Procuratori ho immediate
ordinati li sequestri delle persone, e casa, che ho fatta guardare da dodeci persone della villa con rissoluta commissione d’impedire l’accesso, ed eggresso a chiunque; e nella mattina susseguente coll’assistenza d’uno di questi medici, e del Cancelliere di Sanità oltre li bassi
Ministri, Chirurgo e Fante, ho fatta pratticare coi debiti riguardi di
Sanità la visione, ed incisione dei cadaveri, onde liquidata la causa
della loro morte senza sospetti Lode a Dio di male epidemico, o contaggioso, come avrano voce dall’opinione dell’ecc.te medico, la quale
in iscritto con queste Le accompagno, ò creduto di poter permettere la
comunicazione alle persone sequestrate; ordinando per altro rispetto
al tino, e poco mosto in quello rimasto le massime cautelle.
Nel tempo, che rendo conto a VV. EE. della doverosa attenzione e diligenza da me usata nell’emergenza posso anche far Giustizia alla prontezza di questi Ill.mi Procuratori di Sanità nel concorrere con zelo aj
riguardi della comune Salute.
E benchè nel caso non vi abbia forse alcun motivo, che impegni i providi riflessi del loro ecc.mo Mag.to pur tuttavia avrà la rassegnazione
mia a venerare qualunque Comissione, che mi venisse dall’Eccellenze
Vostre, a quali baccio divotissimamente le mani.
Conegliano 15 Ottobre 1753
609
[ II ]
Ecc.mi Ill.mi SS.ri Provv.ri alla Sanità
Venezia
Adi 12 Ottobre Giacomo Vettori dopo aver cavato il mosto, che per
molte ore in un tino avea fermentato, entrò nel medesino per estrarre
un mastello, di materia crassa e fecciosa, che era ivi rimasta, ma appena entrato cadde boccone e rimase senza parola.
Accorse Andriana moglie di Silvestro Vettori, ma restò essa pure ne la
medesima maniera oppressa. Entrata allora nel tino Maria Vettori rimase subito priva di sentimenti, finalmente accorsa anche Angela figlia di Silvestro cadde essa pure sopra gli altri. Dopo mezz’ora arrivaro il Meriga, ed affacciatosi al tino sentì un fumo, che entratogli per
la bocca, ed il naso lo stordì, onde prima munitosi col fazzoletto
estrasse Angela, che lavata coll’aqua fresca dopo un ¼ d’ora rinvenne, indi cavata Maria la pose in letto, che dopo un’ora ripigliò i sentimenti, ma ne l’una ne l’altra si ricordavano più del fatto, finalmente
estratte le altre due persone, che eran co la testa nel mosto le ritrovò
morte.
D’ordine di sua Eccellenza Podestà, e degli Ill.mi Deputati a la Sanità
essendo stati da me diligentemente considerati questi due cadaveri ho
ritrovate le seguenti cose.
Era l’uomo raggrinzato, e nepur con forza muover si potevano le articolazioni. La donna era tesa, ed inflessibile come una statua. La cute
di tutti due era coperta di macchie spaziose livide, una de le quali essendo stata da me tagliata gettò fuori un sangue sciolto, nericcio,
scorrevole, come l’aqua, aveano il ventre alquanto gonfio, ed era uscito ad ambidue sterco dall’ano. Aperto l’addome dell’uomo, e considerate diligentemente le viscere del medesimo si ritrovarono tutte senza
difetto senonche escirono dal taglio con impeto gl’intestini alquanto
più gonfi dell’ordinario. Indi aperto il torace si viddero lividi, dilatati i
polmoni coi vasi ripieni d’un sangue spumoso al maggior segno, nel
resto simile al descritto. Il cuore era sanissimo; finalmente lavato il
cranio si ritrovarono i vasi del cerebro, e cerevello turgidi d’un sangue parimente sciolto, e nericcio.
Dopo aperto il cadavere de la donna si ritrovarono l’istesse mutazioni
morbose.
La maniera ne la quale questo fatto è accaduto, i segni di convulsione
sopradescritti la lesione principale ritrovata nei polmoni, e nel cervel610
lo mostrano chiaramente che tenue al maggior segno, e che in forma
di vapore si è introdotta nei polmoni, e nel cerebro la cagion di queste
due morti. Ciò non sembrerà strano a chi considera quanto sensibile è
la nostra machina e quanta forza essercitino sopra questa varie specie
di vapori. L’aria sotterranea chiusa per lungo tempo la farina volatile
di certo fongo, il fumo di solfo, e di carboni accesi tolsero più di una
volta vita a i mortali, perciò con ragione dal Boenhaan paragraph.
1145, e dal Govreu paragraph. 283 queste cose vengon poste nela
classe dei veleni, e ne la medesima classe apunto vien posto quel liquido sottilissimo detto dal’ Helmonzio Gas silvestre, che esala da tutti i
corpi, sien vini, o birre, allorche è nel suo maggior vigore la fermentazione. Questo è di rarra forza, che dal Boenhaan che m. p. 2a. pagin
99 è chiamato spiritus acer acredine narus furiens subacidulus, mire
elasticus incoercibilis, vasa fere quecumque immensa sua vi displodens. Ala videnza di questo spirito credo, che con ragione attribuir si
possa la morte di queste persone.
La storia medica ci somministra molte osservazioni di morti per questa
cagione accadute molte de le quali si possono leggere nell’Haller paragraph. 507 . not. 11 paragraph 591. not.2*
*Il fatto si lega ne gl’ altri del’accad. di Parigi.
Nel cadavere d’un uomo, che morì per aver bevuta gran quantità di
birra, nell’atto che fermentava, si ritrovarono gli intestini gonfij al
maggior segno da flati; il che pruova, che acre al sommo ed elastica
era la materia spiritosa di quella birra e che il vigor de la paura acre
eccitò spasmi negl’intestini, in vigor dell’elastica dilatandosi enormemente gonfiò i medesimi. Ma acre apunto, ed elastico si puo raccogliere da suoi effetti che sij stato quel vapore, che cagionò questei due
morti. Le convulsioni indicano la sua acrimonia. La dilatazione dei
polmoni, il sangue sciolto e spumoso ivi trovato, l’elevazione del ventre, la gonfiezza degl’intestini mostrano la sua elesticità. La ragione
poi per la quale non così frequentemente succedono tali disgrazie è
perche difficilmente si uniscono tutte quelle circostanze, che a questo
effetto richiedonsi. Cioè che alcuno entri in un tino a mischiare un liquor fermentante allorche questo è nel vigor dela sua fermentazione,
che il luogo, dove è la tina da una sola parte riceva aria, che questa
da niun vento sij agitata, che il cielo sij anuvolato, nel qual tempo
poco s’alzano l’esalazioni, che la tina sij circondata da altri vasi ripieni parimente di mosti fermentanti, che questa sij riposta in un angolo
del portico, che la persona sbalordita caddi boccone sul mosto, e non
riceva altri aliti se non quei che escono dal medesimo, le quali circo611
stanze tutte si unirono nel caso nostro. E questo ho scritto per obbedire
ai comandi di sua Eccellenza Podestà, e degli Ill.mi Deputati, e per dimostrare, che non è da temersi ne d’epidemica ne di contagio.
Antonio Agostini
[ III ]
Conegliano 16 Marzo 1769
L’ecc.te Sig.r Ant.o Dr, Agostini stimato Medico pubblico di questa
Città, che in parecchie occasioni si è impiegato per quest’Officio di
Sanità, stantecchè il p.mo Medico da qualche tempo è alquanto affetto
nella vista, presentò a quest’Officio stesso l’acclusa supplica ad effetto, che vengano in qualche modo premiate le sue fatiche, ciò che fin ad
ora non fù fatto. Non avendo alcun Fonte quest’Officio, onde trarne il
denaro, che si rende assolutamente necessario e per le cose che giornalmente succedono e massimamente per adempiere alle Terminazioni
e Proclami nati in cotesto Eccellentissimo Magistrato, ed in conseguenza qui diffusi, perciò li Illustrissimi Provveditori di quest’Officio
di Sanità mi hanno porte le loro fervorose insistenze affinchè le rassegni a VV.EE. ad oggetto, che da codesto ecc.mo Magistrato venga
provveduto alle ristrette circostanze di quest’Officio in quella maniera
e misura che credessero opportuna tanto per la ricognizione ad esso
eccellente Agostini quanto a questo Nodaro di Sanità e di cui pero
stanno gli obblighi tutti in tal materia, che le vere terminazioni di VV.
EE. si sono di molto accresciuti. Vi è anco questo Fante che nulla ha di
stabilito e che implora di essere riconosciuto pel suo impiego […]
Conegliano, dall’Officio di Sanità, 16 Marzo 1769
[ IV ]
Ill.mi ed Ecc.mi signor Pod.a e Cap.o
Nob.mi Dep.ti all’Off.o di San.tà
Avendo io avuto l’onore di servir questo Officio per varii motivi, e non
essendomi stata data per questi miei servigii veruna ricognizione, per612
ciò mi piglio ora il coraggio di portare alla Generosità e Benignità
loro le mie umilissime supplice acciò che in qualche maniera riconoscano le mie fatiche.
Le cose per me per questa cagione in varii tempi operate sono le seguenti:
Una volta fui mandato nella Villa di Cittadella per far l’esame di due
persone le quali dall’esalazione del vin fermentante furono private per
qualche tempo di senso, e di moto ed a far parimenti l’esame ed a soprantendere all’apertura dei cadaveri di due altre persone che dallo
stesso veleno furono soffocate.
Di più dovrei scrivere la relazione di questo fatto e fare un breve discorso sopra la natura di questo veleno per far vedere, che questa, e
non da altra cagione era nato questo accidente.
In tempi che c’era una epidemia fui mandato da questo Officio nella
Villa di Campolongo per esser presente all’apertura d’un cadavere e
riconoscere meglio la natura del male, che dominava.
Per una simil cagione fui mandato un altra volta a far lo stesso nella
villa di Collalbrigo.
Nella medesima villa mi fù comandato un altra volta d’andare per fare
la stessa cosa nel cadavere d’un uomo, ch’era morto con sospetto di
veleno. Ciò per altro non ben mi ricordo, destinato per comando di
quest’Officio o dell’Officio Criminale.
In tempo che v’era mortalità d’animali bovini fui condotto da uno dei
notabili Illustrissimi Deputati all’Officio di Sanità nella Villa delle
Tezze per essere parte all’estrazione d’alcune pietre che si fece fare
dall’uretra d’un manzo e per assicurare il Beccajo che la difficoltà
d’orina da questo sofferta dipendeva da questa sola cagione, e che l’uso delle carni del medesimo non poteva essere dannoso alla salute.
Una volta fui chiamato a quest’Officio per fare l’esame delle Chine,
che in queste Speciarie si trovavano. Un altra volta fui mandato in 4
Speciarie a purgare tutte le chine dalle porzioni pregiudicate che in se
contenevano.
Una volta fui mandato nella villa di Monticella a far l’esame d’una
Persona, che si credeva morta improvvisamente.
Un altra volta fui mandato nella stessa Villa per fare tutti i sperimenti
e tentativi comandati dagl’Illustrissimi ed Eccellentissimi Provveditori
e Provveditori alla Sanità per ravvivare una fanciulla, che trovata
sommersa in un fosso.
Questo è quanto ho fatto per obbedir ai venerati comandi dei nobili Illustrissimi Deputati a quest’Officio di Sanità e per il q.te presento ora
613
questa mia umilissima supplica, sperando dalla generosità e cortesia
loro una qualche riconoscenza alle mie povere fatiche.
A casa 16 marzo 1769
Antonio Agostini
614
Sulle cause di morte e sui bambini dati in affido a San Vendemiano
Comunicazione agli Atti del Convegno
presentata da
Antonio PERIN
Durante l'undicesima seduta del Concilio di Trento, nel novembre del 1563, si stabilì di "fare obbligo" ai parroci di registrare tutti
i matrimoni e tutti i battesimi. Solo qualche anno più tardi l'obbligo fu
esteso anche alla registrazione degli atti di morte.
Per questo, nella parrocchia di San Vendemiale vescovo a San
Vendemiano, il primo registro dei morti risale al 1610 mentre a San
Pietro di Zoppé il registro dei morti più antico esistente fu redatto solo
a partire dal 1676.
Questa comunicazione si propone di portare all'attenzione del
lettore l'evoluzione della formula usata dai parroci nel corso del tempo
per registrare gli atti di morte e descrivere le cause del decesso.
615
Questo studio riguarda le parrocchie di San Vendemiale e di
Zoppé a partire dal XVII secolo fino alla fine del XIX secolo.
Sembra che in un primo momento ai rettori delle parrocchie
premesse registrare la regolarità nelle operazioni di sepoltura e, da questo punto di vista, la formula dell'atto subì interessanti cambiamenti.
Inizialmente le annotazioni riportate negli atti di morte si riducevano a scarne registrazioni anagrafiche. Nel 1610 "Andrea fu sepolito", nel 1623 "Antonio filio di Zuane Zussa fu sepelito nel cimitero di
questa chiesa d'anni 6 incirca"e poi nel 1629 "Anzola figlia di Tadio
Milanese et di Zuana sua mojer fu sepelita nel cimiterio di questa chiesa ad età d'anni 3 incirca". Vent'anni più tardi la mera registrazione
dell'atto si arricchiva di dettagli e così il parroco scrive il 26 aprile
1649: "Morì la sig.ra Marieta moglie del sig. Otto Marchetollo, di
morte repentina, o subitato come hanno affermato gli sui di casa, et li
27 detto fu sepolta nel Cemiterio di questa chiesa accompagnata alla
sepultura da me Pre Domenico Rasera - di anni 26". Col tempo i redattori si destreggiano con crescente sicurezza nel descrivere il semplice
atto di morte che acquista molti dettagli e nel 1678 si scriveva "Vendeman Dal Pos d'età d'anni 39 in circa, havuti li Santissimi Sacramenti
di confessione, comunione et olio Santo morì nel Sig.re questa mattina
in ore 8 in circa, et fu sepolto nel Cemiterio di San Vendemiano col intervento di me P. Giorgio Canciani economo". Finché i particolari consentono di ricostruire il quadro completo degli avvenimenti e delle circostanze che hanno causato il decesso come nel caso di “Giacomo Rovere da Vigonovo, ... abitante a Fossamerlo di anni 18 incirca" che l'11
luglio del 1686 " morì di morte accidentale et improvvisa essendo stato tirato lungo tratto di terreno da un paro di manzi, essendo egli cinto
con una corda, qual era legata alli carri di detti manzi, fu veduto et licenziato dalla giustizia, e fu sepolto nel cimiterio di San Vendemiano.”
Verso la fine del XVII secolo, all'elenco dei dati anagrafici e
genealogici del defunto e alle note professionali religiose (ricevimento
dei sacramenti e regolare sepoltura) si unisce una dicitura che definisce
la causa della morte, sintomo delle ansie e della più intima spiritualità
dell’epoca.
Ad esempio a San Vendemiale nel 1679 si legge per la prima
volta "morì all’improviso", mentre a Zoppè nel 1688 "passò da questa
a miglior vita”.
Il primo decesso di cui si conosce la causa precisa risale al 20
febbraio del 1724 e si legge nella parrocchia di San Vendemiale: "morto per febbre maligna … a 23 anni, sepolto a Venezia”.
616
Col passare degli anni avvicinandosi all'età dei lumi, la precisione e la sicurezza dei redattori si affinano con termini scientifici che
danno meticolose indicazioni sullo stato di salute della popolazione.
L'elenco che segue mostra un significativo campione di queste
voci dal quale è possibile dedurre anche il numero di decessi per vaiolo
nella parrocchia di San Vendemiale dal 1797 al 1801.
ANNO
ETA'
CAUSA DELLA MORTE
1724 di anni 16
"morte improvisa”
1731 di anni 15
"negata nella Cervada”
1732 ?
"volò al cielo”
1732 ?
"passo a miglior vita”
1733 ?
"ferita mortale"
1736 ?
"improvvisamente da dolori”
1738 di anni 18
"ucciso dalli Sbirri”
1738 di anni 34
"archibugiato dalli Sbirri"
1740 di anni 15
"flusso di sangue di naso"
1742 di anni 27
"accidente appopletico"
1742 di anni 33
“parto”
1742 di anni 65
“postema"
1743 di anni 70
”cattaro”
1757 di anni 28
”delirio”
1758 di anni 80
“asmo”
“ di anni 68
“mal cronico”
“ di anni 70
"mal di febre”
“ di anni 31
"male di regurgito”
“ di anni 10
"mal d’idropisia”
1759 di anni 55
"abbrustolito dal fuoco di un fulmine”
1760 di anni 41
"mal di punta”
“ di anni 65
1771 di anni 15
“ di anni 11
“ di anni 72
"mal tisico”
"male di rabbia”
"infiammazione di golla”
"infiammazione di petto"
1773 di anni76
"colpo appopletico”
1775 di anni 75
"colpo di percusia”
617
ANNO
ETA'
CAUSA DELLA MORTE
1776 di anni 38
"colica”
1776 di anni 3
"male di spasimo”
1785 di anni 35
"cancrena ”
1797-1801 da mesi 2 a 7
"vaiolo" 18 bimbi
1797 di anni 46
"attacco epiletico”
1797 di anni 47
"dissenteria sanguigna”
1797 di anni 65
“malatia articolare”
1797 di anni 80
“perniciosa”
1797 di anni 45
“chachesia”
1800 di anni 80
“idrope”
1801 di anni 3
“asma”
1801 di anni 52
“male nervoso”
1801 di anni 30
“rachitide”
1801 di anni 70
“febbre neseuterica”
1801 di anni 38
“neorisma”
1801 di anni 81
"dissenteria”
1802 di anni 68
"polmonia”
1803 di anni 24
"tisi polmonare”
1806 di anni 13
"putrido verminoso”
1808 di anni 64
"putrido maligno”
1811 di anni 60
"tumor interno”
1813 di anni 33
"pellagra”
1817 anni 48
"inedia”
1817 anni 69
"colera"
1817 anni 44
"paralisi gutturale"
1818 anni 66
"morbo nervino"
1822 anni 35
"aneorisma"
1824 anni 78
"tosse cattarale"
1824 anni 32
"piaga cancerosa in golla"
1824 anni 24
"tisi linfatica"
Fino al 1815 molti atti mancavano di indicazione circa la causa di morte e quelle riportate nell'elenco precedente erano spesso ripetute.
618
Si può ritenere non fosse obbligatorio questo dettaglio e spesso il sacerdote non conosceva il reale motivo del decesso.
A partire dal 1816, durante la dominazione austriaca del Veneto, fu imposto ai parroci di tenere un libro nel quale avrebbero dovuto
registrare necessariamente anche la causa della morte dei defunti.
Quest'obbligo durò fino al 1871, anno nel quale venne istituita
l’anagrafe comunale nel Veneto.
L'uso della terminologia scientifica usata in ambito medico
per descrivere le cause di decesso comincia la sua evoluzione proprio a
partire dal primo ventennio dell'Ottocento.
La precisione scientifica degli esempi riportati riguarda episodi limitati; fino alla metà del XIX secolo le conoscenze mediche dei
parroci restano piuttosto limitate e viene fatto frequente uso di locuzioni
generiche quali: “morto improvvisamente” o “morte improvvisa” ,“volò
al cielo”,“passò a miglior vita”.
Se nel 1824 un bambino di due anni moriva di "maligno" o di
"scottatura", nel 1846 si moriva a 37 anni di "migliara e infiammazione” oppure di "ritenzione d'orina" a 67 anni.
Nel '49 la causa di morte può essere il "riscaldo" riferito ad un
anziano o il "gastrico verminoso" riferito ad un bambino. In seguito,
tra il 1855 e il 1895, le informazioni mediche si fanno più rigorose e le
cause si moltiplicano differenziandosi in: "scarlattina" (di anni 5),
"emiplagia” (di anni 68), "scorbuto” (di anni 67), "cholera” (di anni
46), "rachitide" (di anni 2), pleuritide” (di anni 52), "congestione celebrale" (di anni 22), "pneumonite" (di anni 52), "enterite cronica”
(di anni 50), "tisi polmonare" (di anni 32), "febbre gastromeningea”
(di anni 32), "tubercolosi polmonare” (di anni 32), "bronchite cronica” (di anni 82), "parto immaturo” (di giorni 11), "emiplegia" (di anni
67), "febbre tifoidea con bronchite” (di anni 42), "stringimento del piloro” (di anni 49), "idropericardite” (di anni 22), "angina” (di anni 4),
"epatite” (di anni 53), "tifo maligno” (di anni 27), "colica fulminante”
(di anni 34), "difterite" (di anni 6), "appoplesia" (di anni 7), "tifo infettivo" (di anni 13).
La prima citazione di causa di morte nella parrocchia di San
Pietro di Zoppé compare nel 1692 nel libro degli atti di morte.
Anche per la parrocchia di Zoppé le cause di morte sono spesso ripetute uguali.
L’elenco riportato in seguito è molto simile a quello della parrocchia di San Vendemiale e di molte altre della diocesi.
619
ANNO
1701
1701
1704
1706
1710
1724
1737
1738
1739
1739
1739
1740
1761
1790
1790
1792
1797
1805
1805
1808
1808
1808
1814
1816
1818
1819
1819
1828
1831
1831
1833
1833
1838
1838
1839
1840
1842
1843
1844
620
ETA'
di anni 76
di anni 38
di anni 31
di anni 34
di anni 25
di anni 26
di anni 52
di anni 15
di anni da 1 a 7
di anni 70
di anni 74
di anni 3
di anni 78
di anni 35
di anni 34
di anni 66
di mesi da 5 a 24
di anni 45
di anni 35
di anni 33
di anni 43
di anni 74
di anni 60
di anni 55
di anni 70
di anni 68
di anni 64
di anni 40
di anni 17
di anni 25
di mesi da 1 a 2
di anni 50
di anni 74
di anni 2
di anni 33
di anni 40
di anni 46
di anni 84
di anni 65
CAUSA DELLA MORTE
“canato popletico”
“mal interno"
"per una ferita"
“soldato di Conegliano"
"oppresso da un carro carico di arbori"
“affogò nel fosso"
“male cronico “
“male impetuoso"
“vaiuolo“ numero 15 bambini
“morbo idropico"
“postema"
“spasimo”
“febbre e mal di petto"
“tisi"
“febbre mesenterica"
“morbo dissenterico"
“vaiolo" numero 3 bambini
“pleuritide"
“cancrena"
“ristagno d’urine"
“pelagra"
“decupito"
“floglosi o morbo biligo o colica flaulenta"
“febbre scorbutica"
“inflammatoria biliosa"
“asma"
“ernia"
“stasi nella testa"
“tose pagana"
“polmonia"
"vaiolo" numero 2 bambini
“male di fegato"
“cancro"
“scarlatina"
“riscaldo uterino"
“emoragia"
“morbo miliare"
“languor senile"
“annasarca"
ANNO
1849
1850
1851
1854
1855
1855
1857
1857
1858
1859
1859
1859
1862
1862
1863
1863
1863
1863
1863
1863
1863
1867
1870
1871
1875
1875
ETA'
di anni 35
di anni 50
di anni 28
di anni 23
di anni da 26 a 51
di anni 29
di anni 56
di anni 11
di anni 85
di anni 3
di anni 22
di anni 42
di anni 6
di anni 63
di anni 69
di anni 56
anni 65
anni 44
anni 45
anni 65
anni 30
anni 30
mesi 6 ad anni 11
anni 57
anni 6
anni 3
CAUSA DELLA MORTE
“vaiolo"
“infiamazione cerebrale"
“febbre tifoidea"
“epatizazione polmonare"
“cholera" numero 9 persone
“meningite"
“pellagra"
“morbillo"
“bronchite cattarale"
“febbre nervina"
“flogosi polmonare"
“tubercolosi polmonare"
“encefalite"
“scorbuto"
“gotta"
“stasi cerebrale"
“pleuritide"
“chrup"
“cancro al petto"
“gastrite"
“epilessia"
“fungo intestinale"
“morbillo" numero 5 bambini
“scarlattina"
“angina"
“orchite"
1.
621
2.
3.
Immagini 1, 2, 3
Evoluzione della formula dell’atto di morte : dalla mera descrizione dell’atto di sepoltura nel 1625 ai dettagli circa l’ora del decesso, i sacramenti conferiti e la sepoltura con il nome del prete nel 1707 fino alla precisa descrizione del decorso della malattia e della causa della morte nel 1775 (“da qualche tempo infermizia e mancanza
di respiro, con dieci giorni di febbre munita dei SS. Sacramenti morì iersera alle ore
una di notte”).
622
Ritengo opportuno proporre in chiusura di questa breve trattazione un cenno alle tracce relative agli infanti abbandonati e dati in affido dai brefotrofi alle famiglie locali. Dagli atti di morte delle due parrocchie di San Vendemiano è possibile ricostruire il collegamento tra
l'istituto addetto alla cura dei bambini abbandonati di Venezia e l'entroterra. A giudicare dal numero di decessi di bambini provenienti dal Pio
Ospedale della Pietà di Venezia tra il 1689 e il 1807, è verosimile ritenere che la parrocchia di San Vendemiale abbia ospitato una cospicua
quantità di neonati che, affidati alle famiglie del luogo per evitare l'indigenza, morivano di malattia o di stenti. Negli atti di morte dei piccoli
dati in affidamento a mamme che allattavano, e che potevano quindi
mantenere anche un’altra creatura, viene specificata la provenienza dal
“Pio Ospedale della Pietà di Venezia”. Il collegamento con il trevigiano si intende meglio considerando che in quell'epoca le parrocchie suddette facevano parte della forania che il patriarcato di Venezia governò
fino al 1818, sebbene l'attività dei brefotrofi si avviasse già dal Settecento verso una sempre maggior laicità, considerata l'ingerenza dell'autorità civile sull'istituto. "L'ospizio avviava già nel Settecento la trasformazione del suo ruolo da caritativo ad assistenziale" ricorda Casimira Grandi e questo aspetto ci pare riguardi non solo i piccoli esposti
ma anche il tessuto sociale nel quale venivano inseriti, dato che per
ogni bambino "dato a lattare in casa di…” le famiglie percepivano un
compenso, detto ”baliatico”, che il Pio Ospedale pagava. L'affido alle
famiglie avveniva sotto il controllo del parroco del paese, che a sua
volta veniva ricompensato con un premio in denaro per il "collocamento" del bambino. Questi bambini venivano contrassegnati con una “P",
marchiata a fuoco sotto il tallone di un piedino, per distinguerli dai figli
legittimi della coppia cui venivano affidati. Questa terribile pratica, che
fu abolita il 14 ottobre del 1783 ma che riprese il 13 novembre 1790
con un’altra modalità, consentiva di verificare che il bambino restasse
in vita e di conseguenza che il compenso dovuto fosse legittimato.
Convento e orfanatrofio, il Pio Ospedale della Pietà fu fondato a Venezia nel 1346 in seguito all'aumento del numero di neonati abbandonati in strada per indigenza o nascita illegittima ed è attualmente
conosciuto con il nome di “Santa Maria della Pietà”. Presso questo
istituto i bambini venivano allevati ed educati e crebbe sempre più per
l'aumento indiscriminato degli abbandoni.
Le delicate questioni morali e sociali sollevate dall'abbandono
di bambini e dal loro inserimento nella società, che spesso li denigrava,
sono oggetto di vasta letteratura. Ai piccoli veniva dato un nome, spes623
so umiliante, al quale venne aggiunto un cognome alla fine XIX secolo
ed un numero di matricola con il quale venivano registrati al momento
del ricevimento alla "ruota".
Molti dei bambini dati in affidamento alle famiglie dell'entroterra morivano prima di essere restituiti al compimento del decimo
anno, come da regolamento degli affidi. Gli esposti morti in tenera età
dal 1689 al 1807 nelle parrocchie di San Vendemiano sono 500, da uno
a venticinque all'anno. Nella formula dell'atto di morte dei bambini in
affido, dopo la descrizione dell'età del bambino si trova indicato sempre il termine “incirca". In qualche caso non viene neppure specificata
l'età e neppure il nome della famiglia cui viene affidato. Prima del
XVIII secolo, talvolta viene citato nell'atto il numero di matricola riferito al numero di registrazione presso il Pio Ospedale.
Per qualche ignoto motivo i funerali dei piccoli venivano officiati sempre dal rev. cappellano e mai dal parroco che neppure registrava
l'atto.
Immagine 4
Atto di morte della parrocchia di San Vendemiale vescovo: nel 1732 Emiliana “del
Pio Ospitale della Pietà di Venezia di mesi 18 in circa volò al cielo”
624
Immagini 5, 6
Registri degli atti di morte della parrocchia di San Vendemiale e di Zoppé.
Di seguito viene riportato l'elenco dei bimbi in affido sepolti a
San Vendemiano, specificando la data di morte, il nome, l'età e la famiglia che lo ha ospitato.
Tabella 1.
Bambini registrati prima del XVIII secolo nella parrocchia di San Vendemiale (le femmine
sono segnate in corsivo)
data di morte
nome
età (incirca)
famiglia che tenne “a lattare”
14 .XI.1689
FELICITA
di mesi 1
?
3.VI.1690
LIBERA
di mesi 9
Santina Bignucolo
17.10.1690
FELICITA
di mesi 1 e mezzo
?
13. VIII.1691
ZACHARIA
di mesi 11
Domenega Zambenedetti
24.VI.1692
GIACINTA
di mesi 3
?
9. II.1693
GREGORIO
di anni 1 e mesi 3
?
25.III.1693
ARNESTA
di anni 1 e mezzo
?
15.I.1694
IGNATIO
di anni 1 e mesi 5
?
31.XII.1694
CLEMENTE
di misi 3
?
625
data di morte
nome
età (incirca)
famiglia che tenne “a lattare”
21.I.1695
VENTURINO
di mesi 2
?
9.III.1695
ALBERTO
di giorni 24
?
13.IV.1695
BADATO
di mesi 7
Antonio Gardenal
3. VIII.1695
MARCO
di mesi 3
?
28.XI.1696
FIORENZA
di mesi 2
?
20.I. 1697
VICENZO
di mesi 2
?
21.I.1697
ADAMO
di mesi 9
?
29.IX.1697
ORATIO
di giorni 15
Bernardina Girardo
15.X.1697
FAUSTINA
di anni 3
Andrea Scottà
6.XII.1697
MARCELLA
?
Andrea Gardenal
2.II.1698
VENANTIO
di anni 2
Domenico Scottà
25.III.1698
BATTISTA
di giorni 16
?
4.VII.1698
EUSTACHIO
di mesi 2
?
21.VII.1698
ALVISE
di anni 1 e mesi 3
?
16.VIII.1698
ALVISE
di mesi 2
?
24.X.1699
AMBROSIA
di mesi 6
Domenico Gaiotti
Tabella 2.
Bambini defunti registrati dal XVIII secolo nella parrocchia di San Vendemiale
(le femmine sono segnate in corsivo)
data
nome
età
famiglia che tenne “a lattare”
con baliatico
10.II.1701
PAULO
di mesi 2
Alvise Saccon
6.IV.1701
FORTUNATO
di mesi 2 e mezzo
Alvise Saccon
6.IX.1701
LORENZA
di mesi 1
Giacoma Breda
27.X 1701
VITTORIA
di mesi 2
Cattarina Dalla Nese
1.XI.1701
LUCIETTA
di mesi 2
Zuana Montagner
15.XI.1701
GIULIA
di mesi 3
Pasqua Benedetti
28.XI.1701
RODOLFO
di mesi 3
Zuana Gaiotti
29.XI.1701
MARCOLINA
di mesi 3
Pasqua Zussa
16.XII.1701
AMBROGIO
di mesi 1 e mezzo
Cattarina Dalla Nese
8.I.1703
TOMASINA
di mesi 4
Maria Donadello
26.VI.1703
HIPPOLITA
di mesi 3
Anzola Zanbenedetti
28.VI.1703
FILIPPO
di mesi 3
Zuana Gaiotto
20.VIII.1703
VIENA
?
Anzola Zanbenedetti
1.XI.1703
BIASIO
di mesi 2
Pasqualin Zambenedetti
20.XII.1703
CLAUDIA
di mesi tre
Frasia Saccon
13.XII.1704
MATTIO
di mesi 1 e giorni 13
?
12.II.1705
SANTO
di mesi 2 e mezzo
?
626
data
nome
età
famiglia che tenne “a lattare”
con baliatico
?
7.V.1705
PAULA
di mesi 3
14.VI.1705
ANGELICA
di mesi 2
?
15.XI.1705
PAULINO
di mesi 5
?
30.I.1706
PERINA
di mesi 2
Andrea Chiesurin
6.VI.1706
MARCO
di mesi 14
Valentin Bortoloso
26.VII.1706
CELESTINA
di mesi 5
Domenico Gaiot
10.VIII.1706
ISEPPO
di mesi 1
Domenico Gaiotto
1.IX.1706
HELENA
di anni 1 e mezzo
Domenico Gaiotto
22.IX.1706
GASPERO
di mesi 2
Valentint Bortolora
28.IX.1706
GERONIMO
di mesi 6
Pasqualin Zaccariot
7.II.1707
PAULA
di mesi 5
Mattio Fiorin
11.II.1707
COSTANTINO
di mesi 8
?
28.II.1707
SANTO
di mesi 5
Pasqualin Zambenedetti
31.III.1707
MARTHIA
?
Francesco Mazzer
14.IV.1707
HIUSTINA
?
Antonio Cardinal
14.4.1707
GIACINTA
di giorni 20
Antonio Cardinal
20.VII.1707
HIUSTINA
?
Simon Baldesseretto
31.VII.1707
MARZIA
di mesi 4
?
6.VIII.1707
VICENZO
di anni 1
?
4.X.1707
SGUALDINA
di mesi 4
Antonio Cardinal
4.X.1707
VALERIO
di mesi 8
?
13.XI.1707
EUFEMIA
di mesi 7
?
16.II.1707
LORENZA
di mesi 6
?
20..XI.1707
IGNATIO
di anni 3
Lucia Saccon
5.12.1707
AURELIA
di anni 1
?
29.III.1708
ALBA
di mesi 2
Stefano Tomasella
20.IV.1708
FRANCESCO
di anni 3 e mesi 3
?
26.VII.1708
STEFANO
di mesi 8
Antonio Cardinal
26.VII.1708
LORENZO
di mesi 7
Pietro Girardi
6.X.1708
STEFANO
di mesi 4
Antonio Gaiotto
3.XI.1708
FABIANA
di mesi 9
?
23.XI.1708
ANDREA
di mesi 1
Pietro Stradot
14.XII.1708
VIDAL
di mesi 5
?
9.I.1709
AURELIA
di giorni 10
?
23.IV.1709
APOLONIA
di mesi 2
?
27.V.1709
CORNELIA
di mesi 18
Iseppo Perochin
10.VI.1709
MAURILIO
di mesi 2
Iseppo Gaiot
11.VI.1709
POTEMIA
di mesi 2
Stefano Fachin
627
data
nome
età
famiglia che tenne “a lattare”
con baliatico
29.VII.1709
EVARISTO
di mesi 7
Tidio Saccon
6.VIII.1709
VENDRAMIN
di mesi 6
Iseppo Perochin
23.IX.1709
DORICO
di mesi 18
?
9.XI.1709
SAMUEL
di mesi 1
?
6.XII.1709
SUSANA
di mesi 16
?
14.XII.1709
FIORINO
di mesi 4
?
22.XII.1709
CLEMENTE
di mesi 5
?
18.I.1710
BORTOLO
di mesi 1
?
8.II.1710
GIULIO
di anni 1
?
31.III.1710
IGNATIO
di giorni 12
?
31.VIII.1710
COSTANZA ISABETTA
di mesi 4
?
28.X.1710
OLINO
di mesi 17
Andrea Grando
(imposto dalla Pietà di Venezia)
18.XI.1710
PAULO
di mesi 1
?
22.XII.1710
ANASTASIA
?
?
9.I.1711
CASARO
di mesi 20
?
9.II.1711
ZUANE
di mesi 2
?
23.III.1711
ZUANE
di anni 15
Giacinto Saccon
5.IX.1711
CALIDONIA
di mesi 9
?
8IX.1711
VENTURA
di mesi 11
?
24.X.1711
GASPERO
di giorni 40
?
4.XI.1711
NADALIA
di giorni 45
?
12.XI.1711
DIONISIO
di mesi 4
?
22.XI.1711
MARIETTA
di mesi 8
?
24.XI.1711
GIULIO
di mesi 10
?
16.XII.1711
CLAUDIA
di mesi 2
?
21.XII.1711
VICENZO
di giorni 40
?
1.I.1712
MONICA
?
?
8.I.1712
VALENTINA
di mesi 2
?
5.II.1712
22.II.1712
24.II.1712
PAULINA
di mesi 1
?
ORTENSIA
di giorni 15
?
BEATRICE
di mesi 2
?
8.III.1712
EVARISTO
di mesi 3
?
5.IV.1712
MARIO
?
?
4.VII.1712
BIASIO
di mesi 3
?
23.VIII.1712
AMBROSIO
di mesi 5
?
10.IX.1712
CANCIANA
di mesi 3
?
10.IX.1712
VITTORIA
di mesi 4
?
628
data
nome
età
famiglia che tenne “a lattare”
con baliatico
9.XI.1712.
FABIANA
?
?
25.XI.1712
ELISABETTA
di mesi 2
?
25.III.1713
ANDREANA
di anni 3
?
24.V.1713
AMBROSIO
di mesi 2
?
25.VII.1713
LAVINIA
di anni 3
?
13.VIII.1713
IUSTINA
di giorni 20
?
15.VIII1713
TEODORO
di mesi 4
?
15,IX,1713
GIROLAMO
?
?
19.IX.1713
TERESIA
?
?
22.X.1713
MODESTA
di giorni 54
?
23.X.1713
APPOLONIO
di anni 8
?
14.XI.1713
DANIEL
di giorni 41
?
15.XI.1713
RAIMONDO
di mesi 3
?
19.XI.1713
VICENZO
di giorni 34
?
26.XI.1713
MARGARITA
?
?
5.XII.1713
LAURA
?
?
16.I.1714
CANCIANA
di mesi 2
?
17.I.1714
ALESSIO
di giorni 7
?
18.I.1714
MARTA
di mesi 1
?
18.I.1714
EUGENIA
di mesi 2
?
30.I.1714
PAULINA
di mesi 2
?
27.I.1714
BOBBO
di mesi 2 e mezzo
?
22.II.1714
ANASTASIO
di mesi 7
?
3.IV.1714
DARIA
di mesi 2
?
4.IV.1714
BASILIO
di mesi 2 e mezzo
?
5.IV.1714
COSTANTINA
di anni 1
?
8.IV.1714
GABRIELLA
di giorni 21
?
28.VI.1714
PAULA
di mesi 2e mezzo
?
29.VI.1714
GASPARO
di anni 2
?
15.VII.1714
DANIELA
di mesi 1
?
7.VIII.1714
PROSPERO
di mesi 14
?
22.VIII.1714
BERNARDA
di mesi 4
?
5.IX.1714
ZUANE
di mesi 19
?
12.IX.1714
HIPPOLITO
di anni 25
Zuanne Gaiotto
13.IX.1714
DANIELA
di mesi 7
Zuanne Gaiotto
20.IX.1714
SOFFIA
di mesi 10
Zuanne Gaiotto
15.X.1714
GASPERINO
di mesi 18
Tomaso Saccon
14.XI.1714
SPERANZA
di mesi 8
Iseppo Pasquot
629
data
nome
età
famiglia che tenne “a lattare”
con baliatico
1.XII.1714
GIOVANNA
di mesi 2
Iseppo Pasquot
14.XII.1714
CHERUBIN
di mesi 9
Iseppo Pasquot
24.XII.1714
ZORZI
di anni 2
Bernardino Girardo tenuto in casa di
12.I.1715
LUNARDO
di mesi 8
Pietro Gaiotto
22.II.1715
ORATIO
di giorni 24
Iseppo Perrochin
25.V.1715
GIACOMO
di mesi 14
Antonio Saccon
15.VI.1715
OLINO
di mesi 2
Anzolo Saccon
6.VII.1715
ORTENSIA
?
Pietro Armellin
21.VII.1715
GOTTARDA
di mesi 2
Iseppo Perrochin
5.IX.1715
IUSTINA
di anni 2
Simon Baldesseretto
12.X.1715
ANDREA
di mesi 2
Anzolo Cellotto
27.XI.1716
LAURA
di anni 2
Zuanne Stringher
13.XII.1716
FELICITA
di anni 3
Domenico Begnucolo
6.I.1717
PROSDOCIMO
di mesi 1
Domemenico Begnucolo
14.X.1717
ANASTASIA
di mesi 1e mezzo
Piero Gaiotto
17,XII.1717
GASPERO
di mesi 2
Zamaria Grando
13.II.1718
EUGENIA
di anni 1e mezzo
Zamaria Grando
8.VIII.1718
APPOLONIA
?
?
31.III.1719
ODOARDO
?
Antonio Gardenal
2.VI.1719
PASQUA
di mesi 1e mezzo
Stefano Tomasela
20.II.1719
GASPERINA
di mesi 5
Stefano Tomasela
16.I.1720
FLAMINIA
?
Stefano Tomasela
21.VIII.1720
CIPRIAN
?
Antonio Saccon
16.III.1721
ANDREANA
di giorni 5
Andrea Chiesurin
28.VI.1721
DEODATO
di mesi 3
Lunardo Saccon
2.IX.1721
LIBERA
di mesi 3
Valentin Perin
13.IX.1721
FAUSTIN
?
Antonio de Biasio
15.VII.1722
ZANETTA
di anni 1
Antonio Saccon
5.X.1722
HONOFFRIO
di mesi 1
Valentin Perin
31.V.1723
MARINA
di mesi 2
Agostin Bressan
20.X.1723
ONOFRIO
di mesi 11
Valentin Perin
7.I.1724
BRIGITA
di mesi 2
Tomaso Saccon
23.1.1724
MARINO
di mesi 2
Domenico Zaccariot
7.II.1724
MICHIEL
di mesi 3
Bastian Zambenedetti
26.10.1725
NICOLATO
di mesi 3
Roco Marcateli
15.III.1726
BIASIO
di mesi 9
Domenico Benedetti
29.III.1726
ANZOLA
di mesi 2
Domenico Dall’Anese
9.IV.1726
DEODATO
di mesi 1e mezzo
?
630
data
nome
età
famiglia che tenne “a lattare”
con baliatico
6.VI.1726
LIBERA
di mesi 2e mezzo
Domenico Dall’Anese
26.VI.1726
GIO:BATTA
di mesi 3
Mattio Celot
ANDRIANO
5.VII.1726
Valentin Perin
di mesi 3
GUGLIELMO
13.VII.1726
BARBARA
di mesi 3
Domenico Cima
18.VII.1726
MICHIELE
di mesi 1
Domenico Mazzer
29.VII.1726
LEONILDA
di anni 3
Tomaso Grando
2.VIII.1726
ONORIA
di mesi 4
Francesco Altinier
10.X.1726
POLISSANA
di mesi 1e mezzo
Domenico Cancian
14.XII.1726
SCOLASTICA
di mesi 5
Domenico Dall’Anese
19.I.1727
GIULIO
di mesi 5
Bastian Zambenedetti
3.IX.1727
ANTONIA
di mesi 11
Domenico Cancian
28.IX.1727
BENVENUTA
di mesi 14
Mattio Fiorin
19.X.1727
IGNATIO
di mesi 3 e mezzo
Michiel De Biasi
28.X.1727
FRANCESCA MM. M.
?
Domenico Zambenedtti
29.XI.1727
IPOLITA
di mesi 16
Francesco Barro
4.I.1728
PAULINA
di mesi 1 e giorni 7
Francesco Barro
8.II.1728
GABRIEL
di giorni 27
Francesco Barro
3.IV.1728
VENERANDA
?
?
10.VI.1728
ORATIO
di anni 2
Piero Armellin
29.VI.1728
MARCOLINA
di anni 3
Bernardino Girardo
4.VII.1728
DOROLICE
di mesi 6
Giò-Maria Ferro
9.VI.1729
GREGORIO
?
Francesco Michelet
3.VIII.1729
ADONIO
di anni 1 e mesi 3
Giò-Batta Dal Pos
20.II.1730
ALESSIO
di mesi 1 e giorni 9
Sebastiano Zaccariotto
18.IV.1730
ANASTASIA
?
Giò:Maria Ferro
22.XI.1730
BASTIANA
?
Pellegrin Celloto
14.III.1732
CATARINA
di mesi 1
Tizian Mazzer
24.VII.1732
RAIMONDO
di mesi 4
Tizian Mazzer
12.VIII.1732
EMILIANA
di mesi 18
?
12.XII.1732
RAIMONDO
?
Bortolomio Gelmo
22.XII.1732
PANTALEONE
di mesi 8
Giuseppe Saccon
19.IX.1733
VENTURINA-F.
di anni 1e mesi 4
Bernardina Girardo
22.VI.1734.
ROMANA
?
Santo Saccon
6.X.1734
VALERIA-M.N.
?
Mattio Fiorin
12.X.1734
ROMILDO
?
Andrea Altenier
19.II.1735
VITTORIA
di mesi 1e mezzo
Andrea Felet
2.IV.1735
DOMENICO
di giorni 13
?
631
data
nome
età
famiglia che tenne “a lattare”
con baliatico
12.VII.1735
VANESIO
di mesi 4
Pietro Gelmo
23.VII.1735
DEODATA
?
Mattia Saccon
25.VII.1735
NICOLITA
di anni 2
?
30.III.1736
FELICE
di anni 40
?
17.V.1741
PASQUA
di mesi 17
?
24.VIII.1749
GIULIA
?
Batta De Vido
2.IV.1755
ANTONIO
di anni 20
Antonio Barro
21.III.1758
MATIO
di anni 2
Elisabetta Zoppas
11.VII.1758
ALBERTO
di anni 10
?
11.XI.1758
UBALDO
di anni 42
Anzolo Michelet
11.V.1759
PETRONILLA
di anni 5
Giovanni Mazer
5.VI.1759
AMBROSIO
di anni 4
Antonio Dal Bò
11.III.1765
MARGARITA
di mesi 20
Giuseppe Saccon
20.VIII.1765
BASTIANA
di anni 6
Mattio Chiesurin (a sue spese)
2.IX.1765
LUCA
di anni 3
Mattio Chiesurin (a sue spese)
19.IX.1765
SUSANA
di anni 6
Valentino Fontana (a sue spese)
18.IV.1766
Un bambino
di anni 3
Giacomo Cancian
25.VI.1768
ANTONIA
di anni 2 e mezzo
Margarita Furlaneta
12.VII.1768
ANDREA
di anni 2
Mari e Tomaso Fael
6.VIII.1768
FABRICIO
di anni 2 e 7 mesi
Bortolo Zambenedetti
7.VIII.1768
TITO
di anni 1 e 7 mesi
Maria e Batta Cancian
30.VIII.1678
MAGNO
di anni 2
Maria e Tomaso Fael
2.XI.1768
ALBERTO
di anni 1e1 mese
Maddalena e Domenico Saccon
6.XI.1768
TADEO
di anni 2
Giovanna e Pelegrin Silan
12.XI.1768
NADAL
di anni 5
Maddalena e Domenico Saccon
25.XII.1768
VALERA
di mesi 1e 24 giorni
Valentina e Bastian Zambenedetti
2.I.1769
BONNA
di anni 2
Lucia e Vettor Pin
2.I.1769
DONADA
di anni 1e 2 mesi
Mattia e Giacomo De Vido
2.I.1769
VICENZO
di mesi 2
Maria e Leonardo Vettorel
13.I.1769
FEBONIA
?
Valentina e Sebastian Zambenedetti
2.II.1769
FABIANA
di anni 3
Camila e Bastian Bisson
6.IV.1769
BENEDETTA
di anni 1
Madalena e Giacomo Benedet
7.X.1769
PAOLINA
di anni 2 e 6 mesi
Maria e Antonio Baldisseret
18.X.1769
ONOLA
di anni 3
Anzoleta e Domenico Dalla Nese
21.X.1769
GREGORIA
di mesi 9
Valentina e Sebastiano Zambenedetti
30.X.1769
MAURO
?
Zanetta e Piero Zanette
12.V.1770
INOCENTE
?
Maria e Antonio Baldisseret
10.VIII.1770
BASILIO
di anni 4
Maddalena e Domenico Saccon
632
data
nome
età
famiglia che tenne “a lattare”
con baliatico
26.I.1771
PAOLO
di anni 5
Gioconda e Giordano Benedos
4.II.1771
DOMENICA
?
Zanetta e Pellegrin Silan
8.III.1771
DONATO
di anni 15
Zanardo Vettorel
31.V.1771
VENERANDA
di anni 4
Pasqua e Lorenzo Venturin
8.X.1771
SANTINA
di anni 3
Valentina e Bastian Zambenedetti
7.XII.1771
GIUSTINA
di anni 2 e mesi 5
Francesca e Zuane Cellot
19.XII.1771
FRANCESCA
?
Mattia E Giacomo De Vido
15.I.1772
DOROTEA
di anni 2
Anzola E Giuseppe Saccon
9.VIII.1772
FERIGO
?
?
12.IX.1772
CARLO
di anni 3
?
13.IX.1772
VENANZIO
di mesi 19
?
22.IX.1772
BONIFACIO
?
Pasqua e Francesco Venturin
3.X.1772
MODESTA
?
Francesca e Zuane Cellot
10.XI.1772
SABBINA
di anni 4
Angela e Domenico Dasll’Anese
14.XI.1772
NICOLOSA
di anni 8
Camilla e Sebastiano Bisson
25.XI.1772
FIORINA
di anni 1e1 mese
Lucia e Domenico Armellin
30.XI.1772
DOMENICO
di anni 1e2 mesi
Pasqua e Lorenzo Venturin
15.XII.1772
SPERANDIO
di anni 3e mezzo
Elisabetta e Giacomo Cancian
8.IV.1773
BENEDETTO
di anni 15
Elisabetta E Giacomo Cancian
8.VIII.1773
ANIBALE
?
?
16.VIII.1773
GOTARDO
di anni 1e4 mesi
?
21.VIII.1773
PLACITA
di anni 1e10mesi mesi
Mattia e Giacomo De Vido
3.XI.1773
PETRONILA
di anni 1e3 mesi
Pasqua e Lorenzo Venturin
12.XI.1773
SEBBASTIAN
di anni 2
Angela e Domenico Dall’Anese
28.I.1774
CATTERINA
di anni 1
?
11.IV.1774
INOCENZIO
di anni 10
?
11.V.1774
MATTIA
di anni 1e mezzo
Paola e Mattio Chiesurini
12.VII.1774
VALENTIN
di anni 6
Domenica e Andrea Piccin
2.VIII.1774
GIUSTINA
di anni 6
Lorenzo Venturin
24.IX.1774
BENEDETTA
?
Elisabetta e Giacomo Cancian
9.X.1774
MARCO
?
Zaneta e Piero Marchesin
16.XI.1774
ANZOLETA
?
Zaneta e Piero Marchesin
30.XII.1774
ANTONIA
di anni 8
Andreana e Andrea Burniot
4.I.1775
ANTONIO
di anni 4
Giacomo Saccon
27.I.1775
FLAMINIA
?
Giacomo Saccon
5.II.1775
GRAZIA
?
Domenica e Andrea Piccin
2O.VI.1775
MARCO
di mesi 10
Batta Nadal
29.VIII.1775
ANDREA
?
Domenico Scotà
633
data
nome
età
famiglia che tenne “a lattare”
con baliatico
17.IX.1775
FANTINO
di anni1
Giacomo De Vido
17.IX.1775
CARLO
?
Antonio Zambenedetti
22.IX.1775
BASILIA
di anni 3
Giuseppe Zambenedetti
30.IX.1775
ERCOLE
?
ZanBatta Modolo
18.I.1776
EUGENIA
?
Orsola e GiòMaria Marchesin
26.IX.1776
GIACINTA
?
?
1.II.1777
OSANA
di mesi 16
Maria e Giuseppe Fiorin
8.VI.1777
IMPERIA
di mesi 6
Pasqua e Francesco Bianchi
28.VII.1777
FIORIN
di mesi 14
Caterina e Bortolo Marchesin
20.IX.1777
TECLA
di mesi 2
Caterina e Antonio Zambenedetti
30.IX.1777
ANTONIO
di mesi
Maddalena e Nadal Martorel0
23.X.1777
ELISABETTA
?
Mattia e Giacomo De Vido
29.X1777
TRANQUILLO
di mesi 5
Lucia e Placido Casagrande
30.12.1777
LEOPOLDO
?
Pasqua e Francesco Cociol
24.I.1778
FIORINA
?
Pasqua e Francesco Cociol
24.II.1778
FERDINANDO
?
Margarita e Zamaria Cuzuol
29.III.1778
NICOLETTA
di anni 3
Andriana e Andrea Burniot
31.VII.1778
IMPERIA
?
Mattio Chiesurin
3.VIII.1778
ALESSANDRO
?
Anna e Giuseppe Sossai
8.XI.1778
LORENZO
?
Orsola e Giò:Maria Marchesin
12.VI.1779
MARCO-ANT.
di anni 2
Angelo Mazzer
12.X.1779
GIACOMO
di anni 1
Lucia e Placido Casagrande
26.XI.1779
CAMLLO
?
Maria e Giuseppe Fiorin
5.X.1780
AGOSTINA
?
Martina e Piero Scotà
14.XI.1780
LUCIA
di anni 2
Pasqua e Bortolo Brait
7.I.1781
CARLO
?
Orsola e Zamaria Marchesin
12.I.1781
EVARISTO
di anni 2
Appolonia e Giuseppe Fiorin
16.I.1781
MARINA
di giorni 26
Orsola e Zamaria Marchesin
27.VI.1781
ALESSIO
?
Anna Maria e Filippo Valeri
25.IX.1781
DORALICE
di anni 4
Margarita e Francesco Breda
2.X.1781
ILARIA
di anni 2
Appolonia e Giuseppe Fiorin
2.III.1782
PETRONILA
di mesi 13
Orsola e Zamaria Marchesin
31.III.1782
MARIO
di mesi 2
Maria e Nicolò Benedos
6.XI.1784
FELIZIANO
di mesi 18
?
30.I.1785
MATTIO
di giorni 12
Augusta e Giacomo Marchesin
13.IX.1785
FELICE
di mesi 16
Lucia e Antonio Celot
5.XII.1785
VERONICA
di mesi 18
Filippo Valeri
11.I.1787
TIBERIO
di mesi 16
Maria e Ippolito Saccon
634
data
nome
età
famiglia che tenne “a lattare”
con baliatico
23.XI.1787
EUFEMIA
?
Margarita Benedos
2.I.1788
FAUSTINO
di anni 2e mezzo
Grazia e Giovanni Furlanetto
3.I.1788
TEODORA
?
Lucia e Vettor Pin
8.VI.1888
RAIMONDA
di mesi 7
Anna Valeri
9.VII.1788
GIUSTINA
di anni 3
?
14.IX.1788
LUCREZIA
?
Lucia e Vettor Pin
9.XI.1788
BASILIO
?
Antonia e Mattio Pivet Tenuto in casa di
18.I.1788
VINCENZO
di mesi 4
Maria e Nadal Casagrande
22.I.1889
GREGORIO
?
Giovanna e Giò:Batta Moretti
20.II.1789
TIBERIO
di mesi 18
Appolonia e Giuseppe Fiorin
20.II.1789
DANIELLO
?
Maria e Nadal Casagrande
5.III.1789
LODOVICA
?
Lucia e Giovanni Furlanetto
2.IV.1789
Una cretura
(Senza libretto)?
Antonia e Mattio Pivet
22.VI.1789
DOMENICA
di mesi 4
Lucia e Vettor Pin
9.VII.1789
ZEBRONIA
di anni 4
Margarita e Mattio Tonon
10.VII.1889
LODOVICO
di anni 1e mezzo
Lucia e Vettor Pin
25.VII.1789
MATILDE
?
Maria e Nadal Michelet
27.IX.1789
IRENE
di anni 5
Anna e Filippo Valeri
2.XII.1789
SANTA
di anni 1
Angela e Piero Zanibon
7.I.1790
INNOCENZIA
di anni 6
Giacobba e Giuseppe Dall’Ava
14.VIII.1790
BIANCA
di anni 1e 9 mesi
???Maria e Puiero Marchesin
18.VIII.1790
GIACINTA
di mesi 1
Giacoma e Giuseppe Dall’Ava
5.IX.1790
DORALICE
di anni 1
Maria e Nadal Casagrande
29.VII.1791
IRENE
di mesi 7
Virginia e Mattio Baccichet
12.X.1791
VIRGINIA
di mesi 5
Cattarina e Domenico Dall’Ava
14.X.1791
PAOLINA
?
Virginia e Mattio Baccichet
24.V.1796
TERESA
di mesi 16
Augusta e Nicolò Pecin
13.VII.1796
MATTIA
di mesi 15
Maddalena e Girolamo Benedos
29.XII.1796
DAMIANO
di anni 2
Giacominsa e Giuseppe Dall’Ava
21.II.1797
CATTARINA-M.
TV?
Cattarina Csagrande
20.I.1798
PACIFICO
di anni 3
?
26.X.1798
ANDREA
di giorni 80
Lucia e Antonio Marchesin
6.IX.1800
CANCIANA
di mesi 26
Andriana e Tizian Marchesin
28.XII.1800
CIRO-ANDREA
TV?
Angela e Tizian Bodat
28.II.1801
ROSALIA
TV?
Francesca e Michele Pianca
26.XI.1801
LUNARDO
TV di anni 1
?
29.VI.1803
NAZARIO
di mesi 4
Maria e Giuseppe Dal Pos
5.X.1803
MAGNO
?
Lucia e Antonio Marchesin
635
11.XI.1803
CAMILLO
di mesi 6
Cattarina e Giò:Maria Celot
22.VII.1806
CANDIDO
di anni 13
Bortolo Perin
19.IX.1807 TV
ZANAIDE-FILONILLA
di anni 3 e mezzo
Maria e Angelo Piccolo
8.IX.1860 VE
EULALIA GRANI
di mesi 18
?
14.X.1865 TV
MARIANNO
UGOLEMI
di mesi 17
?
27.XII.1871
FANTINA CALIFFI
di anni 3
Luigia e Angelo Citron
27.IX.1876 TV
POLICRONIO ZORONCHI
di mesi 13
Bernardo Soligon
27.I.1879 VE
BASILIO DOLFINI
di anni 3
Luigia e Angelo Fulin
26.V.1883 VE
CASATI MARGHERITA
di anni 15
Catterina e Giuseppe Fullin
9.II.1886 VE
CERGOTTI
GIUSEPPE
di mesi 1 e mezzo
Catterina e Vido Fullin
14.X.1887 VE
CIRILLO
di anni 3
Giò. Fullin
27.XII.1891 TV
PERONOSPORA
RAFFAELLA
di anni 9
Teresa Fullin
Tabella 3.
Bambini defunti dal XVII secolo nella parrocchia di San Pietro a Zoppé
(le femmine sono segnate in corsivo)
data
nome
età
famiglia che tenne “a lattare”
con baliatico
30.IX.1691
GHIRARDO
di giorni 10
Anzola e Silvestro Bonatel
20.X.1691
RAIMONDO
di mesi 4
Malgarita e Giò-Batta Botolo
15.XI.1691
SALVADOR
di giorni 20
Pasqua e Battista Padoan
20.VIII.1692
COSTANTINO
di mesi 8
Lucia e Zuanne Barazuol
4.X.1692.
CHIARA
di mesi 3
Domenica Madd. e Zuane Celot
26.X.1693
ZAMARIA
di anni 1
Maddalena e Lorenzo Citron
6.III.1694
BERNARDO
di giorni 8
Cattarina e Battista Modolo
30.VIII.1694
MARA
di mesi 5
Cattarina e Battista Modolo
9.IV.1695
BERNARDINA
di mesi 4
Teresa e Domenico Lot
25.III.1696
MALGARITA
di mesi 9
Maddalena e Lorenzo Citron
20.VII.1696
ISIDORO
?
Cattarina e Giacomo Fioretto
19.I.1697
ADAMO
di mesi 2 e mezzo
Anzola e Antonio Lanza
23.III.1697
COSMO
di giorni 5
Orsola e Martin Neno
3.VIII.1698
NICOLOSA
di mesi 6
Lucia e Zuane Pandin
7.IX.1698
DOMENICO
di anni 1 e mezzo
Lucia e Bortolomio?
17.IX.1698
LUCETA
di mesi 2 e mezzo
Marta e Andrea?
9.X.1698
BERNARDINA
di anni 1 e mezzo
Domenica Ortolan
30.VI.1699
VERGINIA
di mesi 3
Anzola e Antonio Lanza
24.VII.1699
BENETTO
di mesi 3
Agaiacomina e Bortolo Michelot
636
data
nome
età
famiglia che tenne “a lattare”
con baliatico
17.IX.1699
GREGORIO
di mesi 5
Elisabetta e Michel Marta
5.X.1699
PAULO
di anni 1 e 7 mesi
Angela e Antonio Lanza
23.X.1699
CHRESTINA
di anni 1
Maria e Andrea Sotera
24.X.1699
LUNARDO
di mesi 2
Jacoma e Domenico Dall’Anese
3.V.1700
PAULINA
di mesi 2
Angela e Odorigo Zanchettin
2.VII.1700
ROMANA
?
Maria e Domenico De Gabriel
12.VIII.1700
FABRICIO
di mesi 3
Madalena e Lorenzo Citron
29.IX.1700
LAURETTA
di mesi 2 e mezzo
Maria e Andrea Michelet
18.II.1701
DAMIAN
di giorni 5
Elisabetta e Michel Marta
6.IV.1701
MARTA
di anni 2 e mesi 4
?
9.IV.1701
BERNARDA
di mesi 3
Maria e Zamaria Dal Pos
28.V.1701
ALISIO
di mesi 1
Elisabetta e Michel Marta
3.IX.1701
NICOL0’
di anni 2
Giacoma e Bortolomio Michelet
11.IX.1701
SERAFINA
di anni 2 e mesi 3
Maria e Andrea Michelet
6.X.1701
BORTOLO
di anni 3 e mesi 6
Paula e Zamaria Furlan
7.XI.1701
ORATIO
di mesi 7
Pasqua e Agnol Zanutto
24.II.1702
AGATA
di mesi 9
Bernardinae Zuane Sessol
14.III.1702
EUGENIO
di mesi 3
Pasqua e Agnol Zanutto
6.VII.1702
DANIEL
di anni 2
Maria e Bortolomio Michelot
1.IX.1702
PAULO
di mesi 6
Pasqua e Agnol Zanutto
26.II.1703
INOCENTIA
di mesi 4
Lucia e Zuane Buriot
6.V.1703
BASTIANA
di anni 3
Lucia e Zuane Buriot
29.VIII.1703
MALGARITA
di anni 2 e mesi 9
Mario e Martin Dal Pos
8.III.1704
TEODORA
di anni 1 e mesi 4
Maria e Domenico Gabriel
19.III.1704
MADALENA
di anni 2
Angela e Lorenzo Gabriel
13.V.1704
EUGENIA
di mesi 1 e mezzo
Maria e Domenico Gabriel
30.V.1704
ELISABETTA
di mesi 2
Andriana e Bortolomio Meneghin
30.VII.1704
TEODORA
di giorni 20
Maria e andrea Rasera
30.I.1705
SALVADOR
di mesi 10
Paula e Biagio D’Antonio
9.X.1705
MASSIMO
di mesi 1
Maria e Giacomo Dal Pos
17.X.1705
MAFIO
di giorni 15
Domenica e Lorenzo De Gabriel
6.XII.1705
MATTIO
di mesi 2
Domenica e Lorenzo Gabriel
24.XI.1707
MARIA
di giorni 16
?
6.XII.1707
ANZOLA
di anni 2
?
25.X.1708
TECLA
di anni 1
?
6.III.1709
GIULIA
?
?
25.IV.1709
BIASIO
?
Andriana e Bortolo Meneghin
637
data
nome
età
famiglia che tenne “a lattare”
con baliatico
28.VIII.1709
SEBASTIAN
di giorni 10
?
11.IX.1709
VIENA
di mesi 2
?
18.IX.1709
MARIO
?
Maria e Tizian Marchesin
27.IX.1709.
ALVISE
di anni 3
?
12.X.1709
MONICA
?
Domenica Marta
17.X.1709
BERNARDO
?
?
14.XI.1709
ZANNETA
?
Angela Canciani
23.XI.1709
LERIDA
di esi 7
Angela Canciani
2.XII.1709
?
di giorni 7
?
20.I.1710
?
di mesi 2
?
30.I.1710
SANTINA
di mesi 5
?
17.II.1710
MARIETTA
di mesi 3
?
24.II.1710
EUGENIO
di mesi 6
Maria Rovere
3.III.1710
GIACOMINA
di mesi 7
Bortolo Dal Saso
9.IV.1710
CALLISTO
di mesi 1 e mezzo
Lorenzo De Biasi
15.IV.1710
ISEPPA
di mesi 4
Antonio Piasentin
8.V.1710
GHIRARDO
di mesi 2
Bortolo Da Ruos
23.V.1710
ZANETTA
di anni 2
?
29.VI.1710
CORNELIA
di mesi 7
?
17.VII.1710
COSTANZA
di anni 2
?
12.VIII.1710
AURELIO
di anni 1
?
19.IX.1710
VENTURINO
di anni 3
Benedetta Filetta
31.XII.1710
VALENTINA
di mesi 7
Antonio Gardenal
10.I.1711
BASTIANA
di mesi 2
Lorenzo Gabriel
23.III.1711
ZUANE
di anni 16
?
23.XI.1711
MARCOLINA
di giorni 27
Benedetto Gaiot
20.I.1712
MIONE
di mesi 6
?
22.I.1712
PATRICIO
di anni 2
?
1.VI.1713
DIONISIO
di mesi 2
?
8.VIII.1713
BIASIO
di mesi 10
?
15.IX.1713
VINCENZO
di anni 3
?
30.IX.1713
FAUSTINO
di anni 1 e mezzo
?
3.XI.1713
ANA
di mesi 2
?
5.XII.1713
DIANONI
di mesi 9
?
29.XII.1713
GIACOMO
di giorni 15
?
6.I.1714
FRANCESCHINA
di anni 2
Giò:Maria Furlan
6.I.1714
GABRIEL
di mesi 10
?
638
data
nome
età
famiglia che tenne “a lattare”
con baliatico
9.II.1714
ANTONIO
di mesi 6
?
17.V.1714
MARINA
di mesi 2
?
27.V.1714
RAIMONDA
di mesi 2
?
17.VIII.1714
DIANISIO
di anni 6
?
5.IX.1714
GIULIO
di anni 1 e 3 mesi
?
17.I.1715
CELESTINA
di anni 1 e 2 mesi
?
19.II.1716
VALERIO
di mesi 1
Agnese e Valentino Caner
1.XII.1736
TIZIAN
di mesi 3
Antonio Zanchetta
1.I.1737
EMILIA
di giorni 15
Cattarina e Antonio anchettaZ
19.VI.1738
FEDORA
di pochi mesi
Zuane Nadin
31.VIII.1738
CIPRIAN
di anni 2
Lisandro Camerin
18.III.1739
CAMILLO
di anni 1
Bastian Benedetti
24.III.1739
DIONISIO
?
Domenica e Domenico Modolo
16.II.1746
CLEMENTINA
di mesi 4
Lucia e Zaccaria Zambenedetti
24.11.1746
FRANCESCA
di mesi 1
?
1.V.1748
VENERANDA
?
?
22.XI.1748
Una putella
?
Andrea Cettolin
16.II.1749
GRATIOSO
di anni 2 e mesi 2
Alessandro Camerin
6.XII.1749
ITALIA
di anni 2
Giuseppe Fantin
18.I.1751
FAUSTINA
di mesi 6
Zaneta e Antonio Baro
25.V.1751
Un putello
?
Anzolo Rossot
21.IX.1751
ZIERCA
di mesi 6
Domenico Zana
26.I.1752
LUCIETA
di mesi 11 e mezzo
?
10.IX.1752
ARCO
di anni 2
Zammaria Citron
12.XI.1752
ROBERTA
di mesi 6
Luigia Marta
28.VI.1753
MARIO
di anni 1 e mesi 6
Zammaria Zambenedetti
4.I.1754
IMPERIA
?
Zanmaria Citron
21.III.1754
ELEONORA
di anni 1
Giacomo Felttrin
23.III.1754
SANTINA
di mesi 10
Iseppo Pandini
21.VI.1754
VALERIA
?
Zanmaria Citron
13.VIII.1755
LOUISA
di anni 1 e mezzo
Maria Citron
4.IX.1755
SOGRENA
di anni 2
Cattarina Benedetti
25.IX.1755
ANDREA
di mesi 2
Ana e Anzol Daniot
13.X.1756
TOMASA
di anni 1 e mesi 1
?
22.I.1756
AGNESE
?
Zuane Dal Sant
24.XI.1756
Una creatura
?
Antonio Masot
8.IX.1759
CORNELIO
?
Gianmaria Citron
639
data
nome
età
famiglia che tenne “a lattare”
con baliatico
14.X.1759
BERNARDA
?
Pasqua e Angelo Saccon
5.XI.1759
FIORENZA
di anni 2
Francesco Bonaldo
4.XII.1760
ALBERTO
di mesi 13
Giovanni Marchesin
21.VII.1761
TECLA
di giorni 5
Zaneta e Antonio Baro
14.VIII.1761
CALLISTO
di giorni 9
Margarita e Giovanni Citron
28.IX.1761
VITTORIA
di anni 13
?
28.XI.1761
MATTIO
di mesi 2
Bernardina e Giò:maria Marchesin
15.II.1762
URBANO
di mesi 2
Bernardina e Giòmaria Marchesin
15.VII.1762
EUSTACCHIO
di mesi 10
Elena e Lunardo Furlan
15.VIII.1762
TIMOTEO
di anni 5
Margarita e Zammaria Citron
22.VIII.1762
MADALINA
di anni 1 e mezzo
Margarita e Angelo Grando
19.IX.1762
ELISABETTA
di anni 1 e mezzo
Margarita e Zammaria Citron
13.XI.1762
ANTONIO
?
Pellegrina e Giovanni Meneguz
8.XII.1762
MAGNO
di anni 4
Augusta e Olino Moretti
4.VIII.1763
FORTUNATO
di anni 1 e mezzo
Maria e Zuane Marchesin
17.I.1764
GIULIO
di giorni 16
Zneta e Antonio Baro
22.II.1764
MARINA
di mesi 2
Zaneta e Antonio Baro
10.V.1764
LUCIA
di mesi 3 e mezzo
Margarita e Zanmaria Citron
4.VIII.1764
VIDO
di anni 2 e mezzo
Zaneta e Batta Modolo
5.IX.1764
GIROLIMO
di anni 1 e mezzo
Andrea Cestari
19.IV.1765
SERAFINA
di mesi 5
Domenica e Lorenzo Macuglia
16.VI.1765
VITTO
di anni 3
?
4.VIII.1765
ALBERTO
di mesi 13
Margarita e Angelo Grando
25.VIII.1765
PASQUA
di mesi 2 e mezzo
Domenica e Lorenzo Macuglia
15.I.1766
EUGENIA
di mesi 10 e mezzo
Domenica e Lorenzo Macuglia
9.IX.1766
FISINA
di anni 5 e mezzo
Maria e Pietro Bassetto
15.X.1766
DAVIAN
di anni 1 e 8 mesi
Mattio Bellotto
13.II.1767
TOMASA
di anni 2
Andrea Cetolin
30.IX.1767
AGNESE
di giorni 20
Margarita e Angelo Grando
6.X.1767
MARCOLINA
di anni 6
Gianmaria Citron
22.I.1768
EUGENIO
di mesi 13
Bortolo Brocca
7.IV.1768
MICHIEL
di mesi 9
Lorenzo Brocca
4.X.1768
GAETANA
di mesi 18
Lorenzo Brocca
29.X.1768
ELENA
di mesi 7 e mezzo
Girolamo e Domenico Tesa
20.XII.1768
ROSA
di mesi 11
?
4.I.1769
SANTINA
di mesi 7
Margarita e Antonio Dal Sant
1.II.1769
MARIA
di anni 2
?
640
data
nome
età
famiglia che tenne “a lattare”
con baliatico
26.VII.1769
ORSOLA
di anni 2 e mezzo
?
21.VIII.1769
LORENZA
di mesi 1 e mezzo
Antonio Modolo
29.IX.1769
VICENZA
di anni 2 e mesi 2
?
13.X.1769
COSTANTINA
di anni 2
Angelo Grando
25.1.1770
MATTIO
di mesi 1
Gaetana e Domenico Marchesin
22.IX.1770
ELEONORA
di mesi 4 e mezzo
Margarita e Antonio Mrta
27.X.1770
ONOFRIO
di anni 2 e mezzo
Anamaria e Michiel Marta
7.VII.1771
GREGORIO
di mesi 7
Anamaria e Michiel Marta
28.VII.1771
ELLENA
di giorni 40
Zuane Meneghel
27.VIII.1771
ELLEONORA
di anni 1 e mesi 8
Zanmaria Citron
28.VII.1772
CHIARA
di anni 1
Cattarina e Lorenzo Brocca
19.IV.1773
CLEMENZA
di pochi giorni
Iseppo Campardo
25.V.1773
LORENZO
di anni 9
?
16.II.1774
IPPOLITA
di anni 1 e mesi 3
?
8.X.1774
AUGUSTINA
di anni 1
Zuane Dal Sant
14.I.1775
ONESTO
di mesi 2
Orsola e Domenico Miotto
16.III.1775
AGOSTINA
di mesi 1 e mezzo
Orsola E Domenico Miotto
23.VI.1775
VIMIO
di anni 1
Elena e Lunardo Furlan
7.IX.1775
ORAZIO
di anni 2
?
8.VIII.1777
ELEONORA
di anni 1 e mesi 3
Margarita e Antonio Marta
30.VIII.1777
LEOPOLDO
di anni 2 e mesi 4
Francesco Fioretto
18.X.1777
DIEGO
di anni 1 e mesi 5
Lorenzo Brocca
24.X.1778
SEBASTIANO
di anni 1 e mesi 7
Zammaria Piazzon
4.VI.1779
PETRONILLA
di anni 3
Tiziano Saccon
13.VII.1779
BERNARDINO
di anni 3
Lorenzo Brocca
10.IX.1779
BERNARDO
di anni 5 e mezzo
?
11.X.1779
LUIGI
di anni 2 e mezzo
Zuane Dal Sant
23.VII.1782
AURELIA
di anni 2 e mesi 3
Antonio Marta
28.XI.1782
SABINA
di mesi 4
Paulo Andreeta
15.VIII.1783
ANCILLA
di mesi 2
Pasqua e Andrea Dal Sant
20.XI.1783
IOCONDO
di mesi 6 e mezzo
Orsola e Antonio Daniotto
23.XI.1784
DAVID
di giorni 10
Paulo Andreeta
28.XII.1784
IGNAZIA
di mesi 4 e giorni 1
Andrea Feltrin
27.I.1785
FRANCESCO
?
Lucia e Domenico Mason
11.X.1785
MARINO
di anni 4
Pellegrin Jacuzzo
12.XI.1785
FIORINA
di mesi 10
Paulo Andreeta
2.XII.1785
BARBARA
di mesi 3
Giuseppe Fiorin
641
29.III.1790
DAMIANA
di anni 12
Florian Zoppasso
19.IX.1790
LEONARDO
di anni 44
Visentin –Muner
8.VIII.1796
MAGNO
di anni 2 e mesi 7
Augusta e Domenico Peruch
10.VII.1797
IGNAZIA
di anni 5
?
19.VI.1797
LUCIA
di anni 3
?
23.XII.1873
CORINA DONETTI
di giorni 38
Catterina e Antonio De Vido
27.XII.1873
ANTONIO PINELLI
TV di anni 6
Luigia e Leopoldo Dal Cin
Bibliografia
- AP San Vendemiale vescovo – Morti 1610 - 1903
- AP Zoppè di San Vendemiano – Morti 1676 – 1877
- C. Grandi (a cura di), Benedetto chi ti porta maledetto chi ti manda, Ed.
Fondazione Benetton Studi Ricerche/Canova, Treviso 1997
- A. Perin, I documenti dell’archivio raccontano la nostra storia, San Vendemiano 2005
Immagine 7
Licenza di seppellimento della parrocchia di San Vendemiale vescovo.
642
Dai Libri dei Morti della Parrocchia di
San Tomaso di Colle
Comunicazione agli Atti del Convegno
presentata da
Maurizio LUCHESCHI
L’esame di un archivio parrocchiale per un appassionato di
storia locale è una continua fonte, ricca di notizie inaspettate e base di
ulteriori approfondimenti. Venti anni fa ho controllato con l’amico dottor Pino Palugan quello della parrocchia di San Tomaso di Colle, che
ho rivisto rapidamente anche negli anni passati. L’archivio è tenuto con
cura, ma mi auguro che dalla Direzione dell’Archivio Diocesano venga
catalogato e riordinato secondo criteri moderni come è già stato fatto in
diverse parrocchie della nostra diocesi.
Nella raccolta attuale risulta ad esempio mancante l’elenco dei
battezzati del XVI secolo citato nell’opuscolo stampato nel 1708 per
sostenere il titolo di matrice spettante alla Pieve di Colle nei riguardi di
quella di San Martino; a carta 6 si accenna ad un librum Baptizatorum
con scritte almeno dal 1579.
Ora il primo libro dei battezzati che troviamo, inizia nel 1620.
Questo fa presumere che anche altri libri dei morti antecedenti agli attuali siano esistiti, o esistano in qualche parte. Il professor Netto mi diceva che una lista di documenti afferenti alla parrocchia potrebbe trovarsi nel fondo “Subeconomato benefici vacanti” dell’Archivio di Stato di Treviso relativo alla pieve di Colle.
Elenco qui i registri dei morti da me visti e relativi ai secoli
XVII, XVIII, e prima metà del XIX, tralasciando quelli più recenti.
-
“Morti 1656-1697” cm 20,5 x 15 ca., di ca. 100 carte non numerate, copertina grigia e sovracopertina verde marmorizzata,
condizioni discrete.
“Registro dei morti 1706-1774” formato vacchetta cm. 42 x
16, di carte 93 parzialmente numerate, rilegatura cartone ricoperto pergamena, tracce di legacci. Al piatto anteriore titolo +
altre scritte parzialmente leggibili. Conservazione buona, a parte alcune lacerazioni nella parte inferiore del dorso.
643
-
-
-
“Registro morti 1774-1797” formato vacchetta cm 48,5 x 16,5,
di carte 46 non numerate, rilegatura cartone coevo con dorso in
pergamena. Titolo sul piatto anteriore su motivo calligrafico, ricoperto parzialmente da etichetta; piatto posteriore con titolo
“Registro morti dall’anno 1774 all’anno 1797”. Condizioni
buone.
“Registro morti 1797-1827” formato vacchetta cm 44 x 15,5,
pp. numerate 185 + 9 carte non numerate per l’indice, rilegatura pergamena con macchie di umidità e d’inchiostro. Titolo al
dorso su vernice nera ed al piatto anteriore. Conservazione discreta, parzialmente slegato.
“Registro morti dall’anno 1828 all’anno 1862” formato vacchetta cm 44 x 15,5, pp. parzialmente e irregolarmente numerate – carte n. 127. Rilegatura cartone con titolo al piatto anteriore, a quello posteriore e al dorso con inchiostro bianco su
fondo di vernice nera. Conservazione buona.
E’ quindi un periodo di circa duecento anni quello preso in
esame. La popolazione della Pieve di Colle sale tra il 1650 e il 1869 da
poco più di 800 anime a 1300; l’aumento è modesto fino agli inizi dell’Ottocento e si fa più consistente negli ultimi tempi. Non sono solo le
ricorrenti epidemie a limitare la crescita, ma in misura maggiore influisce l’emigrazione della forza lavoro verso i centri vicini, Conegliano,
Ceneda, Serravalle, e naturalmente verso Venezia. Controllando i registri delle nascite e delle morti, si riscontra quasi sempre una prevalenza dei nati di molto superiore all’aumento della popolazione risultante
dai vari censimenti e stati delle anime, conteggi indubbiamente non
sempre precisi, ma indicativi in quanto non si discostano di molto l’uno dall’altro.
Nei libri dei morti vengono annotate le sepolture di coloro che
muoiono nella parrocchia, siano essi del posto o stranieri, la data del
decesso, e con quali sacramenti e benedizioni sia stato confortato il
morituro. Nel Settecento viene completato lo scritto per ogni defunto
con alcune parole sulla causa della morte ed anche talvolta sulla vita
del medesimo, se persona importante, naturalmente secondo il giudizio
del pievano.
A Colle il cimitero, come ben si può vedere nella mappa dell’inventario dei beni della pieve di San Tomaso disegnata dall’agrimensore Stefano Segato, si trovava attorno alla chiesa ed era delimitato
da un muro, chiamato cortina; aveva tre entrate, che guardavano la
644
fronte, il retro e il fianco sinistro della chiesa. Come in ogni camposanto, c’era la colonna con la croce, punto di riferimento per determinate
funzioni religiose, ed erano individuate alcune zone, quella degli stranieri, quella degli infanti, ma spesso veniva scritto che l’inumazione
avveniva“tra i suoi antenati”.
Altre tombe, le arche, erano situate in chiesa e sotto il portico;
erano quella dei sacerdoti e quelle delle famiglie più abbienti (degli
Scoti poi passata ai Gomeni, degli Arnosti e poi dei de Nores, dei
Gamba, dei Piasentini). La nobile famiglia Fabris aveva la propria
tomba nella cappella di San Liberale a Col di Manza, e nella chiesa abbaziale di San Pietro trovavano riposo alcune persone legate da incarichi particolari a questo ente già monastico.
Naturalmente la legislazione napoleonica sulle sepolture porta
ad un radicale mutamento: il vecchio cimitero cessa di funzionare e da
Agosto 1808 si apre quello nuovo ad un centinaio di metri dalla facciata della chiesa sul terreno chiamato “il roccolo”, già proprietà della famiglia Cattaneo.
Ritengo ora interessante riportare una varietà di note e scritti
rilevati dall’esame dei registri che ci ricordano la vita e i problemi di
alcuni secoli fa. Sono per lo più fatti un po’ fuori dall’ordinario che anche al loro tempo probabilmente furono oggetto di discorsi e discussioni.
Seguo l’ordine cronologico e chiedo venia al lettore per questo lugubre elenco, ma la morte è l’unica cosa certa e vale la pena di
vederla con un certo distacco.
-
-
Abbiamo la prima annotazione “Adì 7 Ottobre 1656 – Orsola
moglie di Bernardino Perino passò da questa a miglior vita li 6
detto, et il suo corpo fu sepelito nel Cemeterio di S. Tomaso di
Colle tra suoi essendogli prima da me D. Gio. Maria Cristofori suo Parocho stato administrati tutti li Santissimi Sacramenti necessari”.
Il 7 Novembre 1659 Lodovica contessa de Nores, morta di mal
caduco, è seppellita in chiesa nell’arca degli Arnosti.
Adì 15 7bre 1661 – Elisabetta Camparda di anni 76 in circa
passò da questa a miglior vita havendo prima ricevuti li Santissimi Sacramenti per mano di me D. Bartolomeo Fadelli Pievano di Colle, et il dì 16 detto il suo cadavere fu sepolto nel Cemeterio di S. Tomaso di Colle con le debite esequie tra (i) morti
di Francesco Antoniazzi suo zenero.
645
-
-
-
646
Il 16 Novembre 1665 viene sepolto Tomaso Fadelli d’anni 62
mesi 8 giorni 20 dilettissimo padre del parroco Bartolomeo Fadelli.
Adì 19 Giugno 1677 circa le hore 23 – Nicolò figlio del q. Mattio Viecer d’età d’anni 30 in circa passò da questa a miglior
vita improntamente, che Dio ci guardi, essendo stato colpito da
saetta caduta sopra il campanile, mentre sonava le campane in
compagnia di Gregorio Arnosti, et Andrea q. Zuane Perin, i
quali pure cadero a terra come morti e con qualche offesa, ma
si sono poi tanto ambedue riahuti, et al predetto Nicolò da me
Pievano, che nel medesimo tempo mi attrovavo in chiesa a benedire il tempo, notati segni di contrizione, li diedi l’assoluzione sacramentale, gli amministrai il sacramento dell’estrema
unzione, gli raccomandai l’Anima, e li diedi l’assoluzione del
Santissimo Rosario, il che seguito, rese l’Anima al Sommo
Creatore, et adì 20 Giugno oltre tutto al tardo fu sepolto il di
lui cadavere in questo cemeterio fra suoi antenati con le debite
esequie.
22/XII/1706 – Antonio del q. Bartolomeo Perin in età d’anni 28
ritrovandosi nel quartier di Verona, cioè di P. Zen, in servizio
pubblico come soldato delle Cernide del territorio di Serravalle, dove licentiato per indispositione contrata e infermità nel ritorno alla propria casa accompagnato ed assistito da suoi fratelli, passò a miglior vita cinque miglia discosto da Verona,
come mi hanno riferito li detti suoi fratelli essendoli stati prima
amministrati li SS.mi Sacramenti.
Il giorno 11 Gennaio 1708 è sepellito Piero figlio del q. Michiel
Zara d’anni 20 colpito da febre con variole (vaiolo).
Il 25 Agosto 1708 l’illustre signor Zuane Gomeni figlio di Demetrio, di Ceneda, viene sepolto nella chiesa di Colle nella
tomba della nobile Andriana Scotti.
3 Giugno 1710. E’ sepellito Zorzi q. Gio. Batta Bolzan di 38
anni morto a seguito di un colpo di archibugio che aveva in
mano.
22 Agosto 1710. Muore Gio. Batta figlio di Michele d’Antoniazzi di anni 22 colpito da una pietra mentre si trovava sopra il
campanile di Godega per ripararlo assieme a suo padre. Restava
mortalmente offeso avendo anche perduta la loquela, purtuttavia mostrava segni di pentimento (quindi il Paradiso era assicurato).
-
-
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29 Ottobre 1711. E’ sepolta nella chiesetta vicina all’abitazione
dei suoi, Leonina figlia dell’ill.mo sign. Liberal Fabris, di anni
2 colpita da vaiolo.
Il giorno 8 Luglio 1716 muore Lucia figlia di Francesco Pagotto, giovane di diciotto anni, sotto la rosta del molin di S.Giacomo di Veglia..
Il 30 Agosto 1726 è sepolto Domenico di Tizian Alpago d’anni
9, caduto nel pozzo tirando su un secchio.
3 Luglio 1738. L’ill.mo sign. Liberal Fabris da Conegliano, venuto nella sua casa domenicale a Col di Manza per ricever il
beneficio dell’aria, sopragiuntole nova febre …. rese l’anima
al creatore. Il suo cadavere è portato a Conegliano nella chiesa
di S. Sebastiano.
Il 19 agosto 1753 diventa arciprete di Colle don Paolo da Re di
Osigo; i suoi necrologi si fanno notare per la completezza delle
informazioni, per l’ordine e per la calligrafia chiara ed elegante.
Il primo ottobre viene sepellito Francesco q.m Giommaria Salamon in età d’anni cento mancato ai vivi nella sua casa la notte antecedente per vecchiaia.
Ai 15 ottobre 1760.Valentino q. Martin Perin, in età d’incirca
37 anni in atto d’estraer un secchio d’aqua dal pozzo di questa
mia canonica, iersera all’ore 24 andanti precipitosamente non
si sa come, rovesciatosi nel pozzo stesso ivi pesto e nell’aqua
sepolto, mancò a vivi; era peraltro d’ottimi costumi, e come
frequentava ogni mese i Santiss.mi Sacramenti,così aveasi anche da me confessato e comunicato nella immediatamente passata Domenica che fu 12 andante due giorni innanzi l’ultima
sua fatale disgrazia; e questa sera fu seppelito il di lui cadavere in questo Cemeterio di Colle nel sito dei suoi antenati colle
solite essequie ed assistenza del sig. D. Bortolo Fadelli Cappellano di commissione di me Paolo da Re Arciprete.
Li 4 Luglio 1761. Angelo figlio di Domenico Perin detto Vido,
in età d’anni otto et un mese, andato al pascolo con una vitella,
legatosi a mezza vita colla cavezza fu dalla stessa gettato a terra, e strascinato a rompicollo per lungo strada, sinchè fracassato rese l’anima a Dio; ed oggi licenziato dalla Giustizia il di
lui cadavere fu seppellito in questo Cemeterio colle solite esequie ed assistenza del sig. D. Bortolo Fadelli Cappellano di
commissione di me Paolo da Re Arciprete.
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Addì 24 Settembre 1780 – Il Re.mo Sig.r D. Gaetano del q.m
Domenico Santantonio di questa Pieve di San Tommaso Apostolo di Colle – fu Parroco a Carpesega – in età d’anni settantasei e mesi quattro, ricevuti li Ss.mi Sagramenti di confessione, comunione, olio santo, raccomandazione dell’anima, benedizione pontificia ricevuta da S. Ecc.za Re.ma Monsig.r Marco Zaguri Vescovo di Ceneda, ed assistenza sino all fine, ieri di
notte alle ore cinque in circa passò da questa a miglior vita; e
oggi fu seppellito il di lui cadavere nel monumento arcibretale
di questa Parrocchia con le solite esequie e assistenza di me
Piero Ballarini Vicario.
Il primo Luglio 1785 è sepolto Bartolomeo Sebastiano figlio
del Nobile Sig.r Nicolò Conte di Cesana abitante in Serravalle
ed ora in villeggiatura nella pieve di Colle, di anni due.
Il 24 febbraio 1794 è sepolto nel cimitero di Colle Valentino figlio del q. Domenico Santantonio, di anni 89. E’ caduto dalla
scala mentre provvedeva a prendere fieno per il bestiame; non
ha avuto fratture, ma non si è più riavuto. Secondo il medico,
colpo apoplettico; sul finire del Settecento in quasi tutti i decessi viene citato il medico o l’ufficio di sanità. Voleva per testamento essere sepolto nel cimitero di Castello Roganzuolo,
come tanti suoi avi, ma una publica legge sovrana l’ha impedito.
Il 20 Marzo 1794 Pietra figlia di Gio. Batta Fregonese della
villa di Lutran, e moglie di Paulo Bolzan di Colle, da più di un
anno mentecatta fu ieri montata sopra una finestra delle più
alte della sua abitazione, che è di ragione de’ Nob.Gera di Conegliano, da pazza come era, si precipitò. Sopravisse qualche
ora ……. ma la altezza del sito, da dove precipitò, il terreno
sassoso su cui andò a fermarsi, rese la caduta mortale. L’arciprete Antonio Antonioli arriva che ella è già spirata, ma scrive:
essa era donna di ottimi costumi, e il di lei cadavere con licenza
dell’ufficio pretorio di Serravalle viene sepolto.
Il 21 Maggio 1794 muore Giacomo figlio del q: Pietro Arnosti
che ferito da se con un ferro nel lavorare un legno, in un ginocchio, usò delle stampelle per quasi tre anni, finalmente vedendo
crescere e la gonfiezza e il male, pensò di venire ad un taglio,
che dal chirurgo fu fatto e da cui professava di sentirne vantaggio. Quando attaccato da mal di flusso si rese infermo e rese
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l’anima a Dio. Il suo corpo fu sepolto nell’arca della sua famiglia nella chiesa di Colle.
3 7mbre 1795 Colle – Angelo figlio di Antonio q. Gio. Batta
Bolzan in età d’anni 29, nel demolire l’oratorio della famiglia
Gera di Conegliano, di cui il defunto era affituale, restò morto
sotto le rovine di un pezzo di muro, che gli cadde addosso. Il
suo cadavere licenziato dall’off.o Pretorio di Serravalle, come
apparisce dal chirografo di quella cancelleria, che appongo in
fine di questo libro, fu sepolto oggi in questo cemeterio ….
L’undici Aprile 1797 ha sepoltura Margherita figlia di Vettor
Brunetta e moglie di Giacomo Zambon, ed ecco cosa le ha causato la morte: da un anno e mezzo circa principiò a manifestare
una alterazione di fantasia, che in qualche occasione pareva
affatto senza senno. Questa proveniva, si dice, dalla scabie mal
curata dalla quale egualmente procedeva l’isterico a cui andava soggetta. In questo stato non si potè cogliere tanto lucido
tempo da poterla sacramentare, tantoppiù ch’era attaccata da
tosse colvulsiva che la faceva espellere continui sputi; tuttavia
ho potuto udire più volte la sua confessione ………
Adì 6 Giugno 1798 Colle – Paulo figlio di Giovanni Antoniazzi
dell’età d’anni 26, caduto da un alto moro, dove era salito per
provveder la pastura ai Bacchi da seta, nel giorno 29 scaduto,
riportò una mortale percossa nel capo principalmente, per la
quale, oltre a crudeli dolori, patì ancora forti vanneggiamenti,
…….. jeri ha dovuto morire …
Adì 14 Agosto 1801 Colle – Giovanni Casorti di Conegliano,
uomo di 70 e più anni, il quale era solito di condurre sopra una
carretta li transmessi della Posta da Conegliano a Ceneda, e
da Ceneda a Conegliano, nella passata notte, alle ore cinque,
partito da Ceneda con la indicata carretta, fu in questa mattina, prima del levar del sole, trovato morto sotto l’enorme peso
della carretta stessa rovesciata, e cadutagli sul petto. Essendo
il luogo del funesto accidente sotto a questa mia cura, ho mandato il Meriga con attestazione del fatto all’ill.mo Officiale di
Sanità di Serravalle …. …. alle spese occorse il Postiere di
Ceneda sig. Bortolo Fontebasso.
Addì 24 Agosto 1805 - Gio. Battista q.m Liberal Santantonio,
attual Meriga di questo Commune, d’anni 48 e mesi 9, accidentalmente caduto giù del ponte del Mellarè di ragione della
Nob.e Famiglia Amigoni di Conegliano, al Gaj nella sera de’
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19 corrente, per cui contrasse una gravissima universal contusione con rottura de’ vasi nella cavità del torace, fu quindi portato a stento nella vicina Famiglia Soldera sotto Castel Roganzuolo, e munito dei SS. Sacramenti di Penitenza, Viatico ed
Oglio Santo, nonchè degli altri spirituali soccorsi da’ Sacerdoti
di quella Parrocchia, jeri mattina all’ore 12 c.a rese l’anima a
Dio. Il di lui cadavere … a questa Parrocchial Chiesa condotto, cantata la Messa de Requiem presente corpore e fatte le
consuete esequie da me Arciprete suddetto, all’ore 14 c.a si tumulò nel nostro Cimitero, previa Fede del S.r D.r David Luzzato di Ceneda, … …
Memoria - In Ottobre 1808 partì da questo paese e fu arrolato
alle truppe Austriache Domenico di Bartolomeo q.m Domenico
Fadelli d’anni 31, e quindi inoltratosi in Croazia fermossi in
Carlytoch capitale di quella provincia. Colà nel Gennaio susseguente ammalossi, e morì, come fu attestato da persone, che
furono testimonij oculari della morte, e riconosciute le loro deposizioni dalla Curia Nostra Vescovile.
Hanno luogo a Colle nel Dicembre 1808 le prime vaccinazioni
regolari contro il vaiolo.
Il 18 Agosto 1815 muore Angelo Camerino d’anni 17 e mezzo
avendo ricevuto un morso alla mano destra dal gatto che teneva
sulla spalla; scoppiato il venefico miasma nel braccio medesimo, che dilatossi nella spalla e nella gola, per cui abborriva la
bevanda d’acqua, preso da orribile delirio cessa di vivere.
31 Ottobre 1816 - E’ ritrovato morto in un casone di paglia incendiato nella località Salis uno sconosciuto che si pensa fosse
un disertore.
Il 9 Luglio 1818 hanno luogo i funerali di Angela del fu Gian
Batta Corte e di sua figlia Caterina. Le infelici avevano cercato
rifugio a una pioggia dirottissima sotto il portico della casa di
Angelo Fioretto detto Betot, ma ad un tratto il tetto di paglia,
colpito da una rovinosa folgore, si incendia e tutto rovina. Arrivano i soccorsi, ma per le poverette non c’era più nulla da fare.
Termino qui questo breve excursus che da un’idea di cosa si
può trovare nei registri e di come scrivevano i nostri benemeriti parroci, a prescindere dalle tristi notizie che ci danno.
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Foto 1
La canonica della Pieve di Colle nei primi anni del novecento
Foto 2
L’inizio del libro dei
morti del 1774
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Foto 3
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Il necrologio dell’ottimo giovane Pietro Pigatti
Amor di patria, amore per la scienza:
il medico Giuseppe Baldissera (1837-1884)
tra Cordignano e Udine
Comunicazione agli Atti del Convegno
presentata da
Stefania MIOTTO
Nei primi anni Settanta dell’Ottocento esercitò la condotta a
Cordignano il medico Giuseppe Baldissera1. Nato a Udine il 30 marzo
1837, compiuti gli studi liceali si era iscritto alla facoltà di Medicina
dell’Università di Padova; allo scoppio della seconda guerra d’indipendenza disertò le file nemiche dell’Austria ed emigrò in Piemonte, arruolandosi come volontario nel 40° reggimento di fanteria (brigata
“Bologna”)2. Nel 1860, col grado di sergente, prese parte alla spedizione delle Marche: distintosi nel combattimento di Monte Pelago, si segnalò per intrepido ardimento, che gli valse una menzione onorevole,
dopo aver rialzato sotto il fuoco nemico il tricolore inalberato sul forte
di Monte Pulito presso Ancona, abbattuto da una cannonata. Con il suo
reggimento prese poi parte, nel 1861, alla campagna contro il brigantaggio e fu segretario della Corte marziale a L’Aquila. Nel 1862, lasciata la divisa militare, ritornò agli studi e si laureò in Medicina e Chirurgia all’Università di Bologna il 2 luglio 1863, dissertando Dell’ipertro1
L’unica biografia ad oggi pubblicata del medico Giuseppe Baldissera è la voce
compilata da C. Lagomaggiore nel Dizionario del Risorgimento nazionale dalle origini a Roma capitale. Fatti e persone, I, diretto da Michele Rosi, Milano 1930, 156.
L’autore ha attinto le notizie dai seguenti scritti celebrativi: Commemorazione del
dott. Giuseppe Baldissera letta alla Società di Scienze Mediche di Conegliano nella
seduta del 1° febbraio 1884 dal Presidente Dr. Pietro Spangaro medico-chirurgo in
Cordignano, Udine 1884; Commemorazione del socio ordinario dott. G. Baldissera.
Lettura del Presidente G. Clodig, «Atti dell’Accademia di Udine 1881-1884», II serie, volume VI, Udine 1884, pp. 175-178.
Il profilo di Baldissera non compare nel recente monumentale Nuovo Liruti. Dizionario biografico dei friulani. 3: L’età contemporanea, curato da C. Scalon, C.
Griggio e G. Bergamini, Udine 2011. Ai quattro tomi dell’opera si rimanda, al fine di
non appesantire l’apparato di note, per i seguenti personaggi citati nel testo: Giovanni
Battista Cella, Fabio Celotti, Giuseppe Chiap, Emidio ed Enrico Chiaradia, Fernando
Franzolini, Andrea Perusini (brevi notizie nel profilo del figlio Gaetano, anch’egli
medico), Andrea Giulio Pirona, Girolamo Puppati.
2 G.C. Corbanese, Il Friuli, Trieste e l’Istria nel periodo napoleonico e nel Risorgimento. Grande atlante storico-cronologico comparato, Udine 1995, p. 447.
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fia del cuore; nel dicembre dell’anno successivo fu ammesso all’Associazione Medica Italiana. Con l’annessione al Regno d’Italia del Veneto e Friuli, poté finalmente rientrarvi dedicandosi alla professione.
Per alcuni anni esercitò lodevolmente la medicina e la chirurgia a Cordignano3; durante il suo soggiorno nel Veneto, nel 1875 fu tra
i fondatori della Società di Scienze mediche di Conegliano.
Nel 1874 pubblicò nel «Giornale veneto di scienze mediche»
lo studio Entero-epiplocele crurale strozzata: storia clinica4, in cui riferiva l’esito felice di un’erniotomia su una giovane paziente cordignanese (Severina Tollot, di 32 anni), intervento effettuato alla presenza di
due colleghi, il dottor Pasquale Foti di Colle Umberto e l’udinese Fernando Franzolini5. Quest’ultimo, medico chirurgo a Sacile dal 1866,
vantava a sua volta una nutrita serie di articoli e pubblicazioni; anch’egli socio del sodalizio coneglianese, vi lesse nel 1876 una relazione citando i positivi risultati di ventidue cistotomie eseguite nel centro liventino, una delle quali effettuata materialmente dal Baldissera stesso,
al quale il collega aveva offerto per cavalleria chirurgica gli strumenti6.
A Cordignano, dove aveva condotto la sua sposa Teresa Sinigaglia, Baldissera visse gioie e drammi familiari: qui vennero alla luce
i figli Tommaso (nato il 26 aprile 1872) e Giovanni Luigi (nato il 9
agosto 1874), ma il secondogenito a poche ore dalla nascita volò in
cielo, seguito alcuni mesi dopo dalla madre7.
3
Il soggiorno di Baldissera a Cordignano è documentato dal 1872 al 1875; la distruzione dei fascicoli ottocenteschi dell’Archivio Comunale, a seguito dell’invasione
austro-tedesca del 1917, non ha permesso ad oggi di individuare con precisione gli
anni della condotta cordignanese.
4 Il Baldissera spiegava nella premessa che aveva deciso di dare alle stampe tale
storia clinica, non scevra di interesse pratico, poiché la raccolta dei fatti e la certezza
che dessi sono il più grande tesoro che possediamo, deve incorare ogni medico a tenerne conto, ed a renderli, come può di pubblica ragione. Nello studio egli riferiva
anche di un altro caso visto in consulto col dott. Benedetti, medico comunale di Godega, in cui l’ernia era stata curata usando il cloralio, senza ricorrere all’intervento.
5 Dopo la laurea conseguita a Padova nel 1863, Franzolini fu dapprima medico
chirurgo comunale a San Quirino di Pordenone, poi a Sacile dal 1866 al 1877, quando rinunciò alla condotta essendo stato eletto a chirurgo primario dell’Ospedale di
Udine.
6 Si tratta della Relazione chirurgica fatta alla Società di scienze mediche di Conegliano dal s. o. dott. Fernando Franzolini di Sacile sopra ventidue operazioni per
pietra in vescica senza mortalità e presentazione dei calcoli estratti, s.l. 1876.
7 AP San Cassiano del Meschio - Cordignano, Batt., ad dies; Morti 1860-1891,
atto 31 gennaio 1875.
654
Rimasto vedovo, il Nostro tornò a Udine dove divenne capo
dell’Ufficio medico municipale e nel 1879 convolò a seconde nozze
con Emilia Chiaradia8 di Caneva di Sacile, forse conosciuta negli anni
trascorsi nella limitrofa Cordignano (o tramite l’amico medico Giuseppe Chiap, il cui fratello gemello Valentino aveva sposato nel 1874 Margherita Chiaradia9, cugina di Emilia). Le nozze vennero omaggiate da
due pubblicazioni d’occasione10 - due lettere indirizzate allo sposo, rispettivamente, dal farmacista Giovanni Pontotti e dai già nominati colleghi Fernando Franzolini e Giuseppe Chiap, insieme a Carlo Marzuttini11, Fabio Celotti, Giovanni Rinaldi e Andrea Perusini - che ci offrono
lo spunto per alcune considerazioni sulla sua cerchia di amicizie.
Sia Pontotti, tra i protagonisti dei moti friulani del 186412, che
alcuni firmatari della seconda pubblicazione vantavano con orgoglio, al
pari dello sposo, trascorsi patriottici: Celotti si era arruolato volontario
nella campagna del 1859, organizzando in seguito i Comitati veneti per
la liberazione dall’Austria, Perusini nella guerra del 1866 si era offerto
per allestire a Udine ospedali per i feriti, il garibaldino Marzuttini aveva fatto parte nel 1867 del valoroso gruppo di nove friulani che, alla
guida di Giovanni Battista Cella, compì l'assalto di Porta San Paolo,
quasi un preludio alla breccia di Porta Pia.
D’altra parte, la stessa sposa Emilia era nata nel febbraio 1849
a Venezia, durante l’assedio della città lagunare, dove il padre Simone
era fuoriuscito rendendosi irreperibile alle autorità austriache13.
8
Emilia Chiaradia di Simone e Giuseppe Baldissera si unirono in matrimonio,
nella parrocchiale di Caneva, il 15 settembre 1879 (AP Caneva, Matr. 1797-1883, ad
diem). Rimasta vedova, Emilia si risposò con il notaio Carlo Vascellari di Conegliano.
9 Il matrimonio tra l’avvocato Valentino Chiap, fratello gemello di Giuseppe, e
Margherita di Bortolo Chiaradia (fratello di Simone) fu celebrato a Caneva il 15 aprile 1874 (AP Caneva, Matr. 1797-1883, ad diem). Altre notizie sul rapporto tra le famiglie Chiap e Chiaradia in: S. Miotto, «Dividiamo col cuore dei veri amici il vostro
meritato trionfo»: Luigi Nono, Domenico Mazzoni e i Chiaradia di Caneva, «La
Loggia», n.s., 13 (2010), pp. 7-16.
10 Nozze Baldissera-Chiaradia (lettera di Giovanni Pontotti allo sposo), Udine
1879; Nozze Baldissera-Chiaradia (lettera dei colleghi allo sposo), Udine 1879.
11 Carlo Marzuttini di Spilimbergo si laureò in Medicina e Chirurgia a Bologna
nel 1869; massone, fu presidente della Società Veterani e Reduci di Udine (G. Comino, Uomini e fatti del Risorgimento friulano 1848-1870, s.l. 1960, pp. 87-88).
12 Cfr. D. Barattin, Mazzini a Navarons. Friuli 1864, Udine 2004, con bibliografia
precedente.
13 Il nome di Simone Chiaradia compare in un Secondo elenco de’ giovani allontanatisi clandestinamente dalla Provincia del Friuli diramato in data 10 gennaio
1849 (cfr. Raccolta degli atti ufficiali dei proclami ecc. emanati e pubblicati in Mila655
Gli amici non mancavano inoltre di sottolineare nell’epistola
le doti connaturate alla famiglia Chiaradia, la saliente superiorità dell’ingegno, la nobiltà seria dell’animo: perché fai moglie tua la sorella
di Emidio, di Eugenio, di Ernesto, e dell’altro che fu grande ed infelice, Evaristo, i primi tre combattenti nelle battaglie dell’Indipendenza e
l’ultimo, ordinato sacerdote nel Seminario di Ceneda, morto a Napoli
nel 1871 dopo essersi allontanato dal Veneto per le sue simpatie irredentistiche14.
Con l’annessione al Regno d’Italia, si erano aperte per gli
amici del Baldissera le possibilità della professione: la condotta medica, la direzione di reparti ospedalieri, le ricerche e le pubblicazioni, anche a più mani. Alcuni si stavano distinguendo nello studio delle malattie nervose, in particolare nel campo delle nevrosi collettive, come la
celebre epidemia di istero-demonopatie di Verzegnis15, che nel 1879
vide protagonisti Chiap e Franzolini, con la collaborazione di Celotti,
in quegli anni interessato altresì a sperimentare la tecnica dell’ipnosi
come terapia. Notevoli furono anche i progressi nella chirurgia: Franzolini, primo tra i colleghi veneti a introdurre in sala operatoria l’asepsi
secondo Lister, adottando pure precocemente l’anestesia generale, nel
1881 effettuò la prima splenectomia eseguita con successo nella penisola.
Interessi comuni e predominanti tra la classe medica, nel giovane Regno d’Italia flagellato da nord a sud da tassi di mortalità elevatissimi, erano la medicina preventiva, incentrata in particolare sulle
vaccinazioni, e l’attuazione di riforme igieniche: ad esse rivolse i suoi
sforzi lo stesso Baldissera, confutando nei suoi scritti, con stringente
logica argomentativa, errori del passato e pregiudizi popolari spesso
sostenuti dalla religione, allo scopo di emancipare la società da qualunque giogo, che non sia quello dell’interesse sanitario degli uomini16.
no dalle diverse autorità durante l’I.R. Governo Militare dal 6 agosto 1848 al 31
marzo 1849, I, Milano 1849, p. 485).
14 Sulla famiglia di Emilia Chiaradia, il cui esponente più celebre è il fratello scultore Enrico, autore del Monumento equestre a Vittorio Emanuele II al Vittoriano, mi
permetto di rinviare a S. Miotto, La diaspora dei Chiaradia. Una famiglia canevese
dal Risorgimento all’Italia unita, «La Loggia», n.s., 14 (2011), pp. 137-153.
15 Sulla vicenda, di cui i due medici stilarono una relazione storico-scientifica che
trovò ampio apprezzamento nelle riviste specialistiche italiane e straniere, cfr. P. Spirito, Le indemoniate di Verzegnis, Milano 2000; L. Borsatti, Le indemoniate. Superstizione e scienza medica. Il caso di Verzegnis, Udine 2002.
16 G. Baldissera, Una questione di igiene, Udine 1876, p. 3 (in essa l’autore confutava in particolare la prescrizione del vitto di magro in quaresima).
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In qualità di relatore della Commissione nominata dal Comune di Udine per lo studio del quesito sulla cremazione dei cadaveri che annoverava l’amico Franzolini, all’epoca primario del reparto di
chirurgia del nosocomio cittadino, il naturalista Andrea Giulio Pirona,
il professor Francesco Poletti preside del locale ginnasio, l’ingegnere
capo del Municipio Girolamo Puppati - Baldissera ribadì nel 1879 la
validità di tale pratica, poiché essa allargando la libertà individuale,
costituisce un progresso civile. La relazione sull’argomento fu letta dal
Nostro anche all'Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Udine, cui era
stato ascritto, come Franzolini, due anni prima. La Commissione sollecitò inoltre la nascita di un apposito sodalizio, che raccolse circa 140
adesioni (in primis i membri della stessa) e consegnò al Comune la somma iniziale per la costruzione del crematorio nel cimitero della città17.
Vinto da una breve malattia, compianto per la distinta coltura
scientifica e letteraria, ma nondimeno per la premurosa puntualità e
l’amore disinteressato per la scienza, Baldissera morì nella sua città il
13 gennaio 1884, a soli 46 anni; un destino doppiamente avverso, con
la prematura scomparsa, gli negò la possibilità di consacrare anche col
proprio esempio i suoi profondi convincimenti professionali e scientifici, poiché il crematorio udinese, già ultimato, entrò in funzione soltanto
nel mese successivo. Il commosso addio fu accompagnato dalle parole
dell’amico Celotti e dell’avvocato Augusto Berghinz18, che da due anni
presiedeva la Società Veterani e Reduci.
Come ricordava nella commemorazione presso la Società di
Scienze Mediche di Conegliano il dottor Pietro Spangaro19, presidente
della stessa e a sua volta medico chirurgo in Cordignano, preferì onorare Dio nel modo migliore consentito all’uomo, con il lavoro assiduo,
dignitoso, onesto e benefico, […] riluttante alle farisaiche parvenze ed
17
Cfr. F. Conti, Aspetti culturali e dimensione associativa, in La morte laica. Storia della cremazione in Italia 1880-1920, Torino 1998, pp. 3-105: p. 35.
18 L’udinese Augusto Berghinz (1845-1912), volontario con Garibaldi nel 18661867, aveva fatto parte, con Marzuttini, del valoroso gruppo di assalitori di Porta San
Paolo. Laureatosi in Legge a Bologna, sposato con una figlia del farmacista Giovanni
Pontotti, fu consigliere comunale di Udine e aderì al sodalizio in favore della cremazione. Presiedette la Società Veterani e Reduci dal 1882 al 1884, quando prese la via
dell’emigrazione in Sudamerica (E. Franzina - M. Sanfilippo, Garibaldi, i Garibaldi,
i garibaldini e l’emigrazione, «Archivio Storico dell’emigrazione italiana», 4 (2008),
pp. 23-52: p. 40 con bibl. precedente).
19 Pietro Spangaro, nativo di Ampezzo (UD), aveva condiviso con Baldissera sia
gli studi liceali e universitari che l’arruolamento volontario e le sofferenze dell’esilio;
si laureò in Medicina e Chirurgia a Bologna l’11 luglio 1863, pochi giorni dopo l’amico, dissertando Del tetano.
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alle umilianti concessioni, e sdegnoso di accettare e subire le liberticide assurde dottrine di intermediari ministri, che cospirarono sempre e
tuttodì congiurano ai danni della Patria. Frasi che sottendono, oltre
alla cultura positivista dell’epoca venata di anticlericalismo, una tensione tra laicità e libertà della scienza, medica in particolare, e vincolanti richiami religiosi che, oltre un secolo dopo, è ben lungi dall’essere
risolta.
PUBBLICAZIONI DI GIUSEPPE BALDISSERA
- Entero-epiplocele crurale strozzata: storia clinica/del dott. Giuseppe Baldissera - Venezia, Grimaldo e C., 1874 (Estr. da: «Giornale veneto di
scienze mediche», ser. 3, t. 21).
- Una questione di igiene/[dott. G. Baldissera] - Udine, Tip. G.B. Doretti e
soci, 1876 (Estr. da: «Giornale di Udine», 98, 99 e 100 - aprile 1876).
- Statistica dei morti del Comune di Udine nell'anno 1876/redatta dal d.r
Giuseppe Baldissera medico municipale - Udine, Tip. G. Seitz, 1877.
- Le strade e le case della città di Udine: studio di igiene applicata. Lettura
pubblica fatta a beneficio dei Giardini d'Infanzia/[Giuseppe Baldissera] Udine, Tip. Jacob e Colmegna, 1877.
- Relazione sulla cremazione dei cadaveri/[Giuseppe Baldissera relatore] Udine, Tip. Jacob e Colmegna, 1879.
- Del veneficio per solfato di ferro: studj dei dottori Fernando Franzolini e
Giuseppe Baldissera di Udine - Milano, F.lli Rechiedei, 1882 (Estr. da:
«Annali universali di Medicina e Chirurgia», vol. 261, fasc. 781 - luglio
1882).
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Ostetriche, Medici, Farmacisti.
Aspetti della Sanità a Tarzo tra XVII e XIX secolo
Comunicazione agli Atti del Convegno
presentata da
Bruno MICHELON
Sigillo della Comunità 1772 (fonte: APT)
INTRODUZIONE
Più si scorrono a ritroso nel tempo anagrafi, relazioni e documenti diversi e più emerge la dura realtà della vita nei secoli passati.
Il miglioramento delle condizioni di vita delle comunità di città e di campagna, fu reso possibile dall'aver messo in pratica “sul campo” le scoperte scientifiche che via via si imponevano.
Le incognite nel portare a termine la gravidanza, la alta mortalità infantile in special modo nei primi giorni di vita, il diffondersi di
focolai di malattie epidemiche come peste, tifo e colera, morbillo, influenza, le cui ricomparse mietevano molte vittime e fra tutte le età,
scadenti condizioni igieniche e per molti l'impossibilità di avere un'alimentazione sufficientemente adeguata ed equilibrata, portavano ad una
età media di vita molto bassa che via via aumentò in special modo tra
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l'Ottocento e il Novecento se si pensa che il paese nel 1805 aveva 2442
abitanti che passarono nel 1869, dopo solo 65 anni a 3494.
Oltre ai progressi della ricerca medica, nel territorio la risposta a tutte queste difficoltà fu il dotarsi di un efficiente apparato sanitario strutturato su quattro professionisti.
Ostetrica approvata, medico fisico, medico chirurgo sono le
figure importanti a cui nel tempo si affiancherà a supporto, lo speziale
successivamente chiamato farmacista che troverà modo e mercato per
stabilirsi ed avviare la propria attività anche in piccole realtà come i
nostri paesi trasformandosi lentamente da negozio per poche famiglie
abbienti, a realtà di cui sempre più famiglie riusciranno a beneficiare
perlomeno per le situazioni veramente necessarie.
Oltre ad ostetriche, medici e farmacisti, sottolineiamo quell'attività di monitoraggio e conforto spirituale data dal Parroco e dai suoi
sottoposti e il lavoro svolto dai Deputati alla sanità eletti in seno alla
Banca dei Quaranta annualmente, in numero di quattro uno per “regolato”1.
Queste sono le figure emerse dalle ricerche, altre “sotto-figure” tipo flebotomi, barbieri o negozianti di droghe e spezie, guaritori
etc. presenti in altre realtà, non sono state rilevate per il periodo preso
in causa, sono da evidenziare inoltre vari casi ed aspetti che per la loro
gravità/rilevanza sono stati annotati e registrati in anagrafi e documenti vari ed hanno richiesto soluzioni più radicali, tipo le malattie epidemiche con l'istituzione di commissioni miste per seguirne i casi ed il
fenomeno (più di matrice socio/sanitaria), chiamato baliatico, degli affidamenti degli esposti alle famiglie, dagli Istituti che li avevano accolti.
L'OSTETRICA
Il supporto dato alle partorienti nella qualità di donne “approvate” nella funzione di ostetrica (citata pure con i sinonimi di levatrice o mammana), è consuetudine molto antica, per Tarzo si trova menzione di queste figure nelle anagrafi canoniche dove atti di battesimo o
di morte di qualche bimbo, annotano sporadicamente, di qualche ostetrica approvata che in caso di periculum mortis somministrava il battesimo al bimbo sostituendosi momentaneamente al sacerdote per evidente necessità, in casa del nuovo nato.
1
660
APT Libri delle parti 1795.
L'Ostetrica di Tarzo, Gioconda Bortot (da collez. Pro-loco Tarzo)
Ostetriche “approvate”2
1660
1671
1672
1676
1677
1678
1682
1686
Maddalena Da Riema da Fratta
Pasqua moglie di Batta Michelon da Introvigne
Maria Rosso
Lucia Cibello da Tarzo
Maria di Giovanni Del Bon
Antonia Pancot da Tarzo
Maddalena moglie di Bortolo Silan da Tarzo
Lucia moglie di Leonardo Dal Molin da Corbanese
2
APT anagrafe canonica, battesimi e atti di morte, AMT delibere del 1909,
AMMC Monterumici.
661
1692
1713
1727
1728
1733
1733
1737-41
1741
1741
1772
1772
1772-76
1788
1820
1839
1859
1865-69
1909
1920-57
1924
1924
Francesca moglie di Bortolo Del Zot da Colmaggiore
Margarita Da Parè
Franceschina moglie di Francesco Andreetta
Maria vedova del fu Tomasi Tomaso da Nogarolo
Lucia moglie di Francesco Borca da Tarzo
Catta Rossi da Fratta
Antonia moglie di Andrea Nogarol da Nogarolo
Antonia Dal Gobbo da Colmaggiore
Angela Cancian da Tarzo
Caterina di Giacomo de Coppi da Nogarolo
Margherita di Antonio Dell'Agnolo da Tarzo
Angela de Lorenzi da Fratta
Augusta Battistel
Angela q.m Filippo Dal Ponte da Fratta
Maria Morandin da Tarzo
Domenica Cibello Galeazzi da Tarzo
Anna Da Riz Romanel
Giovanna Grava
Gioconda Bortot
Franceschet Angela (per il reparto di Corbanese)
Franceschet Maria (levatrice supplente)
Prima dell'istituzione delle apposite scuole, un'ostetrica si formava seguendo una consuetudine secolare “sul campo”, per affiancamento all'esperta che esercitava la professione.
Nel Settecento Venezia aveva una sua scuola per la formazione a questa professione3.
Il 5 settembre 1806 venne emanato per decreto legge, il Regolamento di Polizia Medica, Sanità Continentale e Sanità Marittima4
con cui si regolamentarono tutti gli aspetti della sanità.
La Commissione di Sanità istituita stilò gli elenchi anche per
le ostetriche abilitate, che a loro volta, dovettero giustificare di fronte
alla commissione dipartimentale5 stessa di averne preso l'esercizio per
3
Vanzan Marchini, LE LEGGI DI SANITA' DELLA REPUBBLICA DI VENEZIA pag.
136-144 (si ringrazia L. Botteon per le informazioni).
4 AMMC sez. B, busta 345, ref. II.
5 AMMC Bollettino delle leggi del Regno d'Italia. Titolo II sez. III. Le commissioni dipartimentali erano composte da Prefetto, due primi consiglieri di prefettura,
dal presidente del Tribunale di prima istanza, da un Medico, da un Chirurgo e da uno
Speziale.
662
tempo, al ché la commissione rilasciava una patente (per le ostetriche
gratuita) che ne legittimava l'abilitazione; chi non risultava iscritto negli elenchi non poteva esercitare6.
Frontespizio del regolamento della scuola per Ostetriche di Venezia (AMMC)
Successivamente, durante il regno Lombardo-Veneto, con sovrana risoluzione del 24-08-1839 venne istituita la Scuola di Ostetricia
in Venezia (sul modello di quella di Milano) presso l'ospedale civile a
partire dal 1-10-1841.
Il regolamento della scuola fu approvato dalla commissione
aulica degli studi in data 22-05-1841, il corso era di 9 mesi: 6 mesi di
teoria e 3 di pratica con esame finale, si dette così una formazione
scientifica anche alle nuove ostetriche7.
6 AMMC Bollettino delle leggi del Regno d'Italia. Parte III dal 1 settembre al 31
dicembre 1806, sez. II Dell'Abilitazione al libero esercizio nei vari rami dell'arte medica.
7 AMMC Regolamento del 1841 a stampa.
663
Lo stipendio annuo al 1908, dato all'ostetrica comunale Giovanna Grava, era di £ 426,67 che dal 1° gennaio 1909 passarono a £
500 per delibera.
Giuramento per gli insegnanti della scuola di Ostetricia
in coda al regolamento del 1841 (AMMC)
664
IL MEDICO
Nel XIII secolo cominciò a diffondersi in quell'orizzonte geografico che oggi si chiama Italia, la figura del medico condotto8; nello
stesso periodo, l'Università andò a regolarne il percorso formativo con
precisi “curricola” di studio9 e la professione andò così differenziandosi dal precedente modo di esercitare.
Il medico, inteso come “scientificus e perfectissime doctus”10
portò nella professione il carattere scientifico dei suoi studi in antagonismo a guaritori ed a un'arte medica empirica portata avanti all'interno
di circoli o in ambiti famigliari11 secondo la tradizione.
Il medico fisico di Tarzo, Dr. Ettore Pancotto (coll. Bacichetti)
8 D. Bartolini MEDICI E COMUNITA' esempi dalla terraferma veneta dei secoli
XVI e XVII.
9 Ivi.
10 Ivi.
11 Cacciavillani, La sanità, op. cit.
665
Le Università sono state fondamentali in questa svolta e l'Ateneo patavino fu di importanza primaria, riferimento in Italia ed in Europa.
Le condotte mediche gradualmente si diffusero nel cosiddetto
“stato da terra”12 di Venezia, nelle città ed in campagna, con il passare
del tempo, anche i piccoli paesi si divisero tra loro le prestazioni di un
medico, non potendo economicamente sostenere una condotta piena.
Tarzo in questo periodo era una Vice contea, parte integrante
della Contea di Ceneda e Tarzo, con propri Statuti e proprio apparato
burocratico formato da Visconte, Cancelliere ed Ufficiale di corte; la
materia sanitaria era trattata all'interno della “Banca dei Quaranta” o
“Regola di Quaranta”13, organismo in cui si votava e deliberava su tutte
le questioni della Vicecontea, anche in materia sanitaria.
Nei “Libri delle parti” della Banca, troviamo al 15 gennaio
1795 la delibera in cui (tra l'altro) si elegge il Medico “in caso di disgrazie di morti improvise” ed il Chirurgo14.
Bendetto Moretti di Giulio, da Valmareno, fu eletto nel 1795
medico della Vice contea di Tarzo con la mercede di £ 8 a prestazione “giusto quanto viene corrisposto in altri luoghi”15;
sposato con Augusta Manarini di Serravalle)16.
Agostino Moretti, (Valmareno 1775 - 1846) figlio di Benedetto ed Augusta Manarini. Compì i primi studi alla scuola del sacerdote Enrico Moretti e dell'Abate Paolo Bernardi, nel 1793
passò all'Università di Padova dove si laureò in medicina, seguì
la scuola di perfezionamento a Bologna, fece il tirocinio medico tra Treviso e Padova.
12 Cacciavillani, “Venezia e la Terraferma”. Con le prime dedizioni alla “Dominante” del 1300 andò formandosi quel nucleo poi sempre più grande di città e paesi
della terra ferma veneta che per Venezia era appunto lo stato da terra.
13 Banca dei Quaranta: assemblea di 40 persone elette in 10 per ognuno dei 4 regolati Tarzo, Corbanese, Arfanta e Fratta con Colmaggiore in cui si portavano a ballottazione e deliberavano tutte le questioni riguardanti il buon governo della contea.
14 APT I Libri delle Parti della Banca dei Quaranta ne dimostrano l'attività che è
testimoniata da documenti diversi dal 1337 alla caduta della Serenissima 1797, la serie che la riguarda è molto incompleta ed il materiale presente è per lo più settecentesco.
15 Ibid.
16 V. Ruzza Dizionario Biografico Vittoriese e della sinistra Piave, pag. 265.
666
Medico condotto per 8 anni a Tarzo dal 180917 al 1817, successivamente, alla morte del padre, va ad esercitare a Cison (182332), a Miane e Follina.
Persona di vasta cultura e professionalmente molto stimato,
amabile e simpatico, fu discreto poeta nel dialetto “rustico”,
sposò Margherita Colles da cui ebbe il 31-08-1814 in Tarzo il
figlio Lorenzo Gustavo 18 19.
Particolari tratti dal “Libro delle parti” della
“Banca dei Quaranta” dell'anno 1795 (APT)
17 APT Anagrafi canoniche, serie battesimi è citato come medico e successivamente come medico condotto di questa comune.
18 APT Anagrafi canoniche, serie battesimi. CSUNIPD Lorenzo Gustavo di Agostino Moretti si laureò in Medicina nel 1841.
19 V. Ruzza Dizionario Biografico Vittoriese e della sinistra Piave pag. 265. Divenne pure lui medico laureandosi in Medicina e Chirurgia a Padova nel 1841 sostenendo la tesi “De piloro utilitate” pure data alle stampe e successivamente svolse l'attività di medico.
667
Francesco Gajotti (Serravalle 1790) del nobile Dr. Giacomo e
della nobile S.ra Chiara Cittolini, prese la condotta medica di
Tarzo nel 1817 20, si stabilì in Tarzo ancora da celibe, si sposò a
Valmareno sempre nel 1817 ed in Tarzo ebbe i suoi figli, lasciò
la condotta intorno al 185021.
Ettore Pancotto di Leonardo e Anna Dal Molin (Tarzo 1819
Ceneda 1892), compì i primi studi dalle Marcelle22 e successivamente nel Seminario Vescovile di Ceneda, si iscrisse alla facoltà di Medicina a Padova verso il 1838 e qui si laureò il 20
luglio 1843.
I dottori opponenti lo interrogarono sulle tesi 1.2.5 stampate in
fine alla dissertazione23.
La sua dissertazione si intitola De combustione spontanea ed è
stampata a Padova, Typis Penada, MDCCCXLVIII24.
Dopo aver tenuto condotta medica a Revine Lago dal 184425,
prese la condotta di Tarzo successivamente al Gajotti (quindi
intorno al 1850)26.
Nel 1870, per la condotta, aveva uno stipendio annuo di £
1481.4827. Lasciò l'incarico verso la metà degli anni '70 e successivamente si trasferì a Ceneda, dove la moglie aveva il palazzo di famiglia, i nobili Graziani.
20
APT Anagrafi canoniche, serie battesimi nel 1818 tiene a battesimo il proprio
figlio Ferdinando Giacomo Bartolomeo, APT pubblicazioni matrimoniali nel 1817 a
seguito sue pubblicazioni di matrimonio è citato come medico condotto in questa comune, avrà per moglie la S.ra Anna Tonelli di Vincenzo di Valmareno.
21 Anno desunto da APT anagrafe canonica mancando per quel periodo le delibere comunali.
22 Dato tratto da memoriale scritto di suo pugno (archivio Graziani della Dott.sa
Bacichetti Franca discendente del medico) altro non sappiamo sulle “Marcelle”.
23 Il fascicolo contiene una copia della dissertazione, gli attestati universitari di
diligenza dello studente e gli attestati semestrali rilasciati dal Seminario Vescovile di
Ceneda. CSUNIPD, Padova, AGA, Archivio dell’Ottocento, Facoltà medico chirurgico farmaceutica, Serie Laureati in medicina dal 1818 al 1847, fasc. Processo verbale
Pancotti Ettore.
24 Aveva sostenuto il primo esame rigoroso il 7 marzo 1843 alle ore 6.30, il secondo esame rigoroso il 27 giugno 1843 alle ore 8.00.
25 Dato tratto dal memoriale sopracitato.
26 Anno desunto da APT anagrafe canonica mancando per quel periodo le delibere.
27 AMMC Monterumici Stipendiati comunali.
668
Laurea del Dr. Ettore Pancotto, Università di
Padova 1844 (coll. Bacichetti)
Marco Ghetti è medico fino all'ottobre 1898.
Arturo Vascellari di Luigi sostituisce in via provvisoria il
Ghetti con mensili £ 208.33.
Gio. Battista Giacomini è medico dal 190228 al 190629, in
quell'anno da le dimissioni da medico chirurgo, ostetrico e ufficiale sanitario30.
Vercelli Libero di Mira31 è medico dal 1906, ad inizio 1907
viene emesso il nuovo capitolato di igiene pubblica di 22 articoli32 e nello stesso anno il Vercelli dà le dimissioni33.
28
29
30
31
32
AMT Delibera n° 8 del 1904.
AMT Deliberazioni aggiunte n°26 in cui chiede una licenza dalla condotta.
AMT Delibera n°50 e del. aggiunta n° 69 del 28-10-1906.
AMT Delibera n°74 e del. aggiunta n° 60del 1906 come medico interinale.
AMT Deliberazioni aggiunte n° 9 del 1907 e Delibera n°16 del 1907 “Capitolato al servizio della condotta Medico-Chirurgica, Ostetrica”. Nella delibera si accenna a epidemie di morbillo e di influenza e si annota: “bisogni sanitari straordinari“.
33 AMT Deliberazioni aggiunte n°31 del 1907 e nelle delibere al 14-05-1907 viene annotato: Dimissioni Dr. Vercelli, viene assunto in sostituzione il Dr. Marcolongo
Giuseppe di Padova anche con ulteriore deliberaz. aggiunta n°33 del 1907. Nel frattempo, dall'1 giugno è assunto il Dr. Marco Michielini di Conegliano.
669
Marcolongo Giuseppe, Michielini Marco, Morello GioBattista34 sono tre medici che nella condotta rimangono per poco
tempo, dal maggio 1907 al 1908.
Davide Fulgenzio Panizza (Lierna (CO) 1881-Tarzo 1962) di
Tomaso, nel novembre del 1908 fu nominato medico provvisorio35, passerà interinale e sarà medico condotto di Tarzo in seguito.
Umberto Rigacci (toscano) Medico interinale tra 1921-22.
De Bertolis Michele (1897-1950) nato in Primiero (TN), laureato a Padova nel 1922, fu medico a Tarzo dal 1923 prima interinale, in seguito condotto.
Di seguito sono descritti laureati medici tarzesi con diverso incarico:
Pietro Livio Mondini (Tarzo 1660-1731) di Giacomo36.
Pietro Giovanni Mondini di Andrea e Francesca Cossettini
(Tarzo 24-08-1817-Tarzo 1889)37, compì gli studi filosofici nel
Seminario Vescovile di Ceneda (l'assolutorio è del 7 settembre
1838). Si iscrisse all'Ateneo di Padova dove conseguì la promozione e la laurea in Medicina il 25 luglio 1844, con una dissertazione intitolata: De luce, pubblicata per i tipi Officina Sociorum Titulo Minerva, 1844. Fu interrogato sulle tesi 1.3.8 stampate in fine alla dissertazione stessa38. L'8 giugno 1855 per l'istituita commissione sanitaria del comune, il Mondini è citato
34 Di quest'ultimo la Delibera n° 48 del 1907, la sua condotta terminerà nel 1908
con deliberazione aggiunta n°37 del 1908.
35 AMT Deliberazioni aggiunte 15-11-1908, nella deliberaz. aggiunta n° 2 del
1909 gli viene dato “Certificato di lodevole servizio”.
36 APT Anagrafi canoniche.
37 APT Anagrafe canonica. CSUNIPD In altri documenti compare Ceneda al posto di Tarzo.
38 CSUNIPD Aveva sostenuto il primo esame rigoroso il 16 gennaio 1844 alle
ore 6.30 e il secondo esame rigoroso il 15 maggio 1844 alle ore 9.00. Il fascicolo
contiene la carriera di studente con gli attestati di diligenza, una copia della dissertazione a stampa e l'assolutorio degli studi filosofici compiuti presso il Seminario Vescovile di Ceneda. (Padova, AGA, Archivio dell’Ottocento, Facoltà medico chirurgico farmaceutica, Serie Laureati in medicina dal 1818 al 1847, fasc. Processo verbale
Mondini Pietro).
670
come medico chirurgo39, nel 1871 è citato come medico del
paese come Ettore Pancotto40. Da notare che le due funzioni
erano diverse, con un percorso universitario differente e con stipendi diversi.
Pancotto Cesare di Leonardo (fratello di Ettore), (Tarzo 1831Vittorio 1909), conseguì la laurea in medicina presso l'Università di Padova il 31 agosto 1858, con la dissertazione su “Diagnosi differenziale tra anemia e clorosi”, data alle stampe in
Padova, Tipografia Luigi Penada, 1858. I dottori opponenti lo
interrogarono sulle tesi 1.2.3 stampate in fine alla dissertazione
inaugurale. Visse per un periodo a Barbisano il che ci fa supporre che avesse condotta medica lì nel 1865, poi fu medico
condotto ad Orsago, nel 1868-6941, citato pure come condotto
in Vittorio42, dove abitò.
Andrea Mondini (Tarzo 1838-1902) di Giovanni Battista, si
laureò in Medicina e Chirurgia a Bologna il 20-07-1865, ebbe
condotta medica a Pennabilli (Pesaro e Urbino) prima e Coriano (Rimini) poi43, per ritornare in Tarzo con tutta la famiglia negli anni '90 del 1800.
Pancotto Francesco (Tarzo 1856 Vittorio Veneto 1920) di Ettore, immatricolato nell'anno 1874-75 presso l'Università di Padova, laureato dottore in medicina e chirurgia il 7-8-188044.
Ebbe condotta medica in Vittorio.
39 APT comunicazione al Rev.ndo Arciprete di Tarzo e come chirurgo anche in altri documenti.
40 Da elenco del 10-04-1871 della Regia Prefettura di Treviso. Su Monterumici
del 1870 non è fra gli stipendiati comunali.
41 CSUNIPD Aveva sostenuto il primo esame rigoroso il 7 giugno 1858 alle 1
pom., il secondo il 28 agosto 1858 alle ore 12. Il fascicolo contiene gli attestati di frequenza ai corsi, il diario di due casi clinici e l'esercitazione sulla redazione di una perizia medica disposta da tribunale (Padova, AGA, Archivio dell'Ottocento, Facoltà
medico chirurgico farmaceutica, Serie Laureati in medicina dal 1847 al 1865, fasc.
Processo verbale Pancotto Cesare).
42 B. Michelon, G. Tomasi, Gente di Tarzo, pagg. 85-86-87.
43 Comune di Coriano, Comune di Pennabilli e Prof. Mattei Gentili Luigi di Pennabilli che qui ringraziamo.
44 CSUNIPD Il fascicolo in questione oltre alla consueta documentazione relativa
alla carriera di studente, contiene il diario di 4 casi clinici e un processo verbale di sezione.
671
Nel 1902 è medico condotto del riparto esterno di Ceneda (S. Giacomo, Carpesica, Cozzuolo)45.
Laureandi in Medicina dell'anno 1880, fra questi è
presente il Dr. Francesco Pancotto (coll. Bacichetti)
45
V. Ruzza Dizionario Biografico del Vittoriese ed informazioni personali della
nipote Dott.ssa Bacichetti Franca che qui ringraziamo.
672
IL FARMACISTA, LO SPEZIALE
A partire dalla seconda metà del XV secolo Venezia era modello e riferimento per tutte le Comunità facenti parte del Dominio;
l'organizzazione sanitaria veneziana andò definendosi nel XVI secolo,
sia negli ordini professionali che nelle istituzioni assistenziali.
Il sistema aveva come riferimento i Provveditori alla sanità e i
due collegi medici: quello dei fisici e quello dei chirurghi.
Il Farmacista di Tarzo Luigi Uberti (coll. Orlandi)
Nel 1565 sorse il collegio degli speziali, collegio che all'inizio
del secolo seguente raccoglieva già un centinaio di farmacie, esso regolava i prezzi e il sistema di formazione che si basava sull'apprendistato.
673
Le Speciarie erano periodicamente visitate da una commissione, nelle piccole città erano investiti di questo ruolo il medico fisico ed
i Deputati alla sanità eletti46.
La Comunità di Tarzo nel Settecento ha la presenza di uno
“Speziale” che opera in loco, non ci risultano notizie di altri qui operanti in precedenza.
Giuseppe Bissoni (1750 -Tarzo 1811) di Domenico47 originario
di Cison In Tarzo lo troviamo citato come “Speziale di Tarzo”
in un atto di battesimo del 1789 dove fa da padrino, successivamente è nominato Chirurgo della comunità (nella delibera della
Banca dei Quaranta inserita sopra), è citato in atti successivi sia
come Chirurgo48 che come Speziale, probabilmente portava
avanti tutte e due le cose assieme.
Non è presente fra gli scolari matricolati 1771-1790, non è fra i
licenziati in chirurgia e neanche tra gli atti di approvazione dei
farmacisti dell'Università di Padova49, quindi dovrebbe aver seguito i corsi di altro Ateneo.
Bissoni Andrea Domenico (n. Tarzo 1794) di Giuseppe e di
Elisabetta Moz, laureato il 26 ottobre 1822 alle ore 11, sostenne
gli esami rigorosi alla presenza dei signori dott. Rinaldini (Direttore), dott. Malacarne (Decano) e I professori Bonato, Melandri, Renier; invitato esterno il farmacista Leopoldo Fabris.
Bissoni fu esaminato alle seguenti materie: botanica, chimica,
storia naturale, materia medica. Voto: un sufficiente e cinque
bene, venne quindi dichiarato approvato e abilitato al libero
esercizio della professione farmaceutica e prestò seduta stante
giuramento di fedeltà e sudditanza.
Dai documenti a fascicolo risulta che aveva compiuto la pratica
quinquennale presso uno speziale approvato ed era stato ammesso quindi allo studio farmaceutico (assolutorio del 17 otto46 D. Bartolini, Medici e Comunità esempi dalla terraferma veneta dei secoli XVI
e XVII.
47 APT anagrafe canonica, atti di morte 1811. Il Bissoni da Cison si trasferì in
Tarzo con famiglia già negli anni 80 del Settecento. A Cison svolgeva il mestiere di
Speziale che era mestiere di famiglia, un Bortolo Bissoni sul finire del Seicento è speziale di quel paese.
Egli era in amicizia con la famiglia notabile Rossi di Fratta, fu padrino a battesimo per quattro volte dal 1689 a bimbi di questa famiglia.
48 APT anagrafe canonica, battesimi 1801.
49 CSUNIPD Fascicolo non rintracciato, non risulta tra i matricolati.
674
bre 1822). Il 25 ottobre dello stesso anno sosteneva presso il
Pubblico Laboratorio le consuete operazioni chimiche con la
preparazione del kermis universale e dell’acido idrosolforico.
Nella sua richiesta di ammissione agli esami di rigore supplicava tempi brevi nella giornata in quanto “capo di famiglia”50.
Fu speziale in Tarzo dal 1823 al 1845, qui sposò Giulia Mondini di Andrea51.
Uberti Luigi di Giacomo (Pieve di Soligo1819-Tarzo 1893),
sostenne l’esame rigoroso di farmacia il 14 agosto 1844 alle ore
11.30. Venne esaminato in botanica, chimica, storia naturale e
materia medica.
Presso il pubblico laboratorio eseguì le operazioni chimiche in
acido idroclorico e ammoniaca liquida. Il fascicolo contiene gli
attestati di frequenza ai corsi prescritti dal programma di studi52.
Nel 1846 subentrò al Bissoni nella Farmacia, costruì l'attuale
palazzetto De Bertolis dove portò la farmacia e che in quel posto rimase fino al 1925.
Muttarello Carlo presente perlomeno nel 187153.
Andreetta Giuseppe (Ceneda 1853-Vittorio Veneto 1905) di
Sebastiano, risulta iscritto a Farmacia per l'anno 1873-74, all'età
di 20 anni, la residenza padovana era ai Carmini n. 448854.
Conseguì il diploma di abilitazione all'esercizio della professione di Farmacista il 16 agosto 1877. Convocato per l'esame pratico il 10 agosto 1877 alle ore 7.55 eseguì la prova pratica consistente nell'analisi qualitativa del preparato n. 49. Superata la
prova con esito di 35 punti favorevoli contro 15 contrari, fu ammesso all'esame finale.
50 CSUNIPD Padova, AGA, Archivio dell’Ottocento, Facoltà medico chirurgico
farmaceutica, Serie Farmacisti approvati dal 1818 al 1847, fasc. Processo verbale
Bissoni Andrea.
51 APT anagrafi canoniche.
52 CSUNIPD Padova, AGA, Archivio dell’Ottocento, Facoltà medico chirurgico
farmaceutica, Serie Farmacisti approvati dal 1818 al 1847, fasc. Processo verbale
Uberti Luigi.
53 Regia prefettura di Treviso aprile 1871.
54 CSUNIPD (Padova, AGA, Archivio dell'Ottocento, serie iscrizioni 1872-73 e
1874-75).
675
Andreetta estrasse a sorte, su 40 temi, il benzoato di calcio e
l'alcoolato d'oppio, per i prescritti preparati farmaceutici. Il 16
agosto nella prima parte dell'esame presentò i due preparati,
nella seconda venne invitato a riconoscere le piante medicinali
e le droghe che gli vennero presentate, nonchè ad illustrare i
metodi con cui aveva ottenuto i preparati e l'arte di preparare e
spedire le ricette.
La Commissione esaminatrice lo abilitò alla professione con la
votazione di 35 voti favorevoli contro 15 contrari su 5055.
Si sposa in Tarzo con Cecilia Uberti di Luigi nel 1889, nell'atto
è annotato: “fu in vari paesi quale farmacista ed ora da molti
anni domiciliato in Tarzo”56.
Maccari Ferdinando presente perlomeno nel 1908.
Quadrio Uberti Giuliano condusse la farmacia dal 2-03-1915
al 1925. In seguito Farmacia Cooperativa dal 15-05-1925
all'11-09-1925.
Mondini Paride (Pennabilli (PU) 1869 Tarzo 1938) di Andrea,
si laureò presso l'Università di Bologna in Medicina Veterinaria
il 28-06-1893. Ritornò con la famiglia a Tarzo, sposò a Pienza
(SI) nel 1904 Megali Adalgisa.
Condusse la Farmacia del paese dall'11-09-1925 al 1938 spostando la sede fisica dell'attività da palazzo Uberti (ora De Bertolis) a casa Mondini (ora Bernardi).
Elvino Pagotto laureato in chimica-farmacia, rilevò la farmacia
il 18-05-1938, ne fu titolare la moglie Giacometti Gina di questa farmacia che perlomeno nel Novecento era denominata
“San Gaetano”57, il Dr. Pagotto in seguito, si trasferisce a Cison
per condurre la farmacia di quel posto58 59.
55 CSUNIPD (Padova, AGA, Archivio dell'Ottocento, Scuola farmaceutica, serie
Esami finali dal 1875, fasc. Protocollo degli esami generali sostenuti dal signor Andreetta Giuseppe fu Sebastiano).
56 APT Anagrafe canonica matrimoni.
57 AMT Deliberazione n°18 del 1908.
58 Informazioni tratte da copia di questionario per l'Ordine dei Farmacisti della
Prov. di Treviso, si ringrazia la Prof.sa Flavia Mattarolo (vedova del Dr. Franco) per
le informazioni.
59 Da informazioni personali della figlia Giuseppina che qui ringraziamo, anche
per le foto.
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Il Farmacista Dr. Elvino Pagotto all'interno della farmacia che
fu del Dr. Paride Mondini 1940 (coll. Pagotto)
Angelo Mattarolo dal 1943 entrò in qualità di collaboratore del
Pagotto nella farmacia tarzese di cui divenne nel 1951 responsabile e quindi titolare dal 1969.
Di seguito riportiamo i diplomati farmacisti tarzesi che non
furono farmacisti in Tarzo:
Pancotto Vincenzo (Tarzo 1823) di Leonardo, dopo aver compiuto lo studio farmaceutico nell’anno 1849-1850, fu ammesso
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a sostenere l’esame rigoroso in farmacia il giorno 21 agosto
1850 alle ore 6 pom. Venne esaminato nelle consuete materie:
botanica, storia naturale, chimica, materia medica. Per le operazioni di metodo eseguì il regolo d’antimonio e flusso-nero60.
Nel 1856 risulta essere farmacista in Godega61.
Uberti Giacomo (Pieve di Soligo 1845 Refrontolo 1910) di
Luigi, Conseguì il diploma di Maestro in Farmacia il 18 agosto
1868, alle ore 1 pom. Aveva sostenuto nei giorni 3 agosto 1867
e 13 agosto 1868 i due primi esami rigorosi del Magistero in
Farmacia per poter sostenere quindi il terzo esame dove fu esaminato in farmacognosia, chimica generale inorganica e organica, chimica farmaceutica e ordinanze mediche per i farmacisti.
Non risulta abbia seguito poi questo mestiere62.
Uberti Giuseppe (Tarzo 1846) di Luigi, conseguì il diploma di
Maestro in Farmacia il 13 maggio 1873 alle ore 12 dopo essere
stato esaminato in farmacognosia, chimica generale inorganica
e organica, chimica farmaceutica e ordinanze mediche per i farmacisti. Aveva sostenuto il primo esame rigoroso il 3 agosto
1867 e il secondo il 6 agosto 1869, sempre di Magistero in Farmacia. Nel laboratorio chimico si esercitò sull’ossido di rame e
lo ioduro d’anile63.
Questi sono i soggetti incontrati nei documenti che riguardano Tarzo e la prima cosa che si nota nell'Ottocento è l'accrescersi del
numero di medici e farmacisti rispetto a Settecento e Seicento, da autentiche mosche bianche, a presenze di laureati anche in paesi relativamente piccoli.
Al di là dei progressi famigliari compiuti da qualche famiglia
borghese locale, che contribuì o subentrò al declino delle vecchie fami60 CSUNIPD (Padova, AGA, Archivio dell’Ottocento, Facoltà medico chirurgico
farmaceutica, Serie Farmacisti approvati dal 1847 al 1865, fasc. Processo verbale
Pancotto Vincenzo).
61 APT Anagrafe canonica.
62 CSUNIPD (Padova, AGA, Archivio dell’Ottocento, Facoltà medico chirurgico
farmaceutica, Serie Farmacisti approvati sistema austriaco dal 1866, fasc. Processo
verbale Uberti Giacomo).
63 CSUNIPD (Padova, AGA, Archivio dell’Ottocento, Facoltà medico chirurgico
farmaceutica, Serie Farmacisti approvati sistema austriaco dal 1866, fasc. Processo
verbale Uberti Giuseppe).
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glie nobili con spinte più vigorose anche nel senso culturale64, nell'Università di Padova la popolazione studentesca aumentò di molto negli
anni venti dell'800, se si pensa che nell'anno accademico 1813-14 la
popolazione totale degli studenti era di 215 soggetti, passati nel 182324 a 900 e nel 1843-44 a 1930!
Proprio durante la seconda dominazione austriaca si ha il picco demografico che si andrà relativamente a stabilizzare verso gli anni
'40. Per quanto riguarda la facoltà medico chirurgica, nell'anno accademico 1824-25 c'erano 518 iscritti, l'anno 1844-45 ha il picco di 751
studenti che nei due anni successivi però diminuiscono.
La popolazione studentesca dell'Ateneo patavino era (in quel
periodo) in prevalenza veneta, se si considera che nell'anno accademico 1829-30, su 1347 studenti, erano veneti 1048, 199 lombardi, 24
trentini, 71 fra goriziani, dalmati e istriani, 3 austriaci, 1 boemo, 1 tedesco65.
Se prendiamo in considerazione gli anni accademici della facoltà medico-chirurgica-farmaceutica che vanno dal 1817-18 in poi, si
osserva che i corsi erano strutturati in 5 anni di studio.
Nel primo anno le materie di studio erano quattro: introduzione allo studio medico chirurgico ed anatomia umana, mineralogia e
geognosia66, zoologia e botanica, gli studi del primo anno seguivano
complessivamente 20 ore di lezione settimanale in lingua italiana.
Nel secondo anno due: anatomia sublime e fisiologia, chimica
generale, animale e farmaceutica, ogni materia era svolta per un'ora
tutti i giorni, l'anatomia in lingua latina, la chimica in lingua italiana.
Nel terzo anno quattro: terapia generale e materia medica e
patologia generale, introduzione allo studio della chirurgia e della
64 Il fenomeno, qui visto nel particolare di un paese (allora) di terza classe (con
meno di 3000 abitanti), è comunque generale in quel periodo di declino delle vecchie
famiglie nobiliari, a favore di famiglie emergenti di artigiani o comunque sviluppatesi
attorno ad un mestiere.
Da sottolineare in questo caso il salto di qualità fatto da famiglie che portano
avanti i mestieri di osti/bottegai/agrimensori/agenti (questo il progresso lavorativo)
ancora verso la fine del Settecento, primi dell'Ottocento e che in una generazione porta alla laurea (intorno metà Ottocento) due medici e al diploma un farmacista, contribuendo così a questo fenomeno di ricambio nelle funzioni più di spicco per quel periodo.
65 Tutti i dati demografici sono tratti da G. Berti, L'Università di Padova dal
1814 al 1850, Crocetta del Montello 2011.
66 Geognosia: termine in uso alla fine del XVIII secolo per indicare la geologia
descrittiva, che comprendeva allora litologia, stratigrafia, paleontologia e oggi talora
usato per indicare lo studio e la conoscenza delle caratteristiche dei terreni (si ringrazia Giovanni Michelon per la ricerca del termine).
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chirurgia teorica e farmacologia, veterinaria teorica e pratica, ostetricia, clinica ostetrica ed esercizi pratici. Le ore settimanali di lezione
erano 20, patologia e la materia medica erano dettate in lingua latina,
chirurgia ed ostetricia in lingua italiana.
Nel quarto anno quattro: Clinica medica o istruzione medicopratica al letto dell'ammalato, terapia speciale delle malattie interne,
clinica chirurgica, operazioni chirurgiche; la clinica medica e la terapia speciale erano dettate in lingua latina, clinica chirurgica e le operazioni chirurgiche in lingua italiana per un monte ore settimanale di
lezione di 20 ore.
Nel quinto anno sette: clinica medica, terapia speciale, medicina legale, oculistica teorica e pratica, insegnamento dei mezzi di
soccorso per asfittici, clinica e operazioni chirurgiche ed istituzioni di
chirurgia, polizia medica; gli insegnamenti di clinica medica e terapia
speciale erano dettati in latino, tutti gli altri in italiano per un monte
ore settimanale di 30-35 ore.
L'impostazione poneva alla base dell'insegnamento la biologia, nei vari aspetti dell'anatomia, della fisiologia e nella storia naturale (con zoologia, botanica e chimica), successivamente poneva come
base medicina e chirurgia.
Questo percorso, le cui materie cambiarono più volte di titolazione e la struttura leggermente modificata nel 1834, prevedeva una
laurea distinta per i medici e per i chirurghi, in comune c'erano i primi
tre anni poi i percorsi si differenziavano, le differenze più rilevanti erano le esercitazioni pratiche, maggiori per i chirurghi.
Nell'eventuale volontà di qualche studente volta ad ottenere
entrambe le lauree, doveva sottoporsi ad ulteriori esami integrativi.
La facoltà aveva inoltre attivato altri 2 percorsi formativi: uno
quadriennale dove era necessario aver compiuto gli studi ginnasiali,
volto a formare i chirurghi maggiori ed uno triennale dove bastava
avere la licenza di Umanità67, volta a formare i chirurghi minori o chirurghi civili provinciali per le zone di campagna e di montagna.
Il quadro dei corsi nella facoltà si completava con quello per
farmacisti e con quello per i veterinari (che però terminò con l'anno accademico 1817-18).
Il corso per farmacisti era della durata di un unico anno fino
all'anno 1833-34, l'anno successivo, con la riforma degli studi passò
biennale ed in quello stesso anno (1834-35) si istituì la laurea in chimi67
nasio.
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Nell'organizzazione scolastica il corso di Umanità era inferiore rispetto al Gin-
ca, il corso fu stabilito della durata di anni tre ed andava a esaudire richieste fatte già dal 1816, sull'esempio delle Università di Praga e
Vienna68.
Riguardo la distinzione tra medico fisico e medico chirurgo: le
due professioni erano diverse e retribuite in modo diverso69 la prima
aveva una funzione più “generale” nella cura della persona, la seconda
era più “pratica” con la cura di ferite ed operazioni di vario genere.
In data 25-02-1904 fu promulgata la legge sui concorsi dove
lo stipendio del medico (compreso di indennità alloggio e mantenimento del cavallo) era fissato in annue £ 3500 che comprendevano £ 2800
per cura dei poveri e £ 700 per cura degli abbienti (con a seguire molte
altre indicazioni)70.
In paese, prima che ci fosse il chirurgo Dr. Pietro Mondini,
troviamo nel 1842 e 1844 2 casi in cui si è avuto l'intervento del chirurgo Fontebasso di Serravalle su due partorienti71.
Tutti questi operatori nel campo della sanità, si trovavano di
fronte a malattie per le quali ancora la scienza non riusciva a trovare rimedi. I passi avanti cominciavano ad essere importanti, ma ci si trovava di fronte a situazioni dove il rimedio non c'era o le risposte erano
ancora insufficienti, a epidemie o pandemie, che non si riuscisse a circoscrivere l'espandersi della malattia e tutto questo ancora nell'Ottocento.
Nel 1810 e nel 1855 è documentata per due volte l'istituzione
di una commissione sanitaria, quella del 1810-20 per un'epidemia di
Tifo72, quella del 1855 non è specificato il motivo dell'istituzione della
commissione (probabilmente Colera)73.
Sono citati i soggetti che fecero parte della commissione del
1855: il medico condotto Dr. Ettore Pancotto, il medico chirurgo Dr.
Pietro Mondini, il chirurgo maggiore Dr. Da Re Matteo, il deputato comunale Baldo Giuseppe, Tomasi Giobatta di Francesco possidente,
Don Andrea Celotti Arciprete di Corbanese, Don Bernardo Meneghini
Curato di Arfanta e l'Arciprete di Tarzo Don Giacomo Frare74.
68
69
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71
72
Tutti i dati sui percorsi di studio, sono desunti da G. Berti, op. cit..
Vedi delibera della Banca dei quaranta riprodotta sopra..
AMT serie delibere 1904.
APT anagrafe canonica serie battesimi 1842-44.
APT la documentazione riguardante non specifica i nomi dei soggetti facenti
parte tal commissione, si accenna inoltre di persone isolate per tifo.
73 APT la documentazione riguardante, in questo caso la lettera da parte della Deputazione Comunale all'Arciprete di Tarzo in cui è stato nominato membro di tal
commissione, non specifica per quale motivo fu istituita anche se proprio in quel periodo c'era stato un riacutizzarsi di focolai di colera in vari paesi.
681
Lettera della Deputazione Comunale di Tarzo con cui si avverte
l'Arciprete del far parte della Commissione Sanitaria 1855 (APT)
Nei primi anni dell'Ottocento anche la pellagra (per la sua incidenza sulla popolazione) era tra i problemi sanitari primari, in un do74 APT da notare che i Medici sono citati col proprio ruolo effettivo: Dr. Pancotto
Ettore Medico condotto, Dr. Pietro Mondini Medico Chirurgo, Dr. Da Re Matteo Chirurgo Maggiore di cui abbiamo specificato in precedenza I vari percorsi formativi.
682
cumento dei primi anni del 1800 sulla situazione della Parrocchia di
Tarzo, il Parroco Don I. Costantini dice che da 2 anni la malattia “infierisce”75 e nei primi anni del 1900 sono citati nelle anagrafi per l'incidenza che hanno avuto sulla popolazione, casi di morbillo ed influenza.
Altro aspetto importante del panorama socio-sanitario del paese fu il fenomeno che va sotto il nome di “Baliatico”, che per il numero
di affidamenti di bimbi registrato, è fra gli aspetti da porre in primo
piano.
Tra il 168176 ed il 177977 sono annotati negli atti di morte 440
bimbi affidati alle varie famiglie della Parrocchia, di cui 101 tra il 1681
ed il 1738 e 339 tra il 1738 ed il 177978, inoltre dal censimento della
popolazione del 177979, i bimbi in affido risultavano essere 98, provenienti dagli istituti di Venezia e Treviso.
Oltre agli Istituti di Venezia e Treviso, segnaliamo la presenza
di “ruote” per l'accoglienza dei bimbi abbandonati, in diverse città, una
si trovava a Serravalle tra il Settecento e l'Ottocento80.
Tutta la questione era regolata da precise normative81, la figura che seguiva gli affidamenti tra Istituto e famiglia era il Parroco, la
famiglia riceveva per il bimbo che teneva, una somma di denaro detta
appunto “baliatico” importante per l'economia famigliare visto i moltissimi affidi avuti in paese82.
75 APT L'arciprete di Tarzo Don Ignazio Costantini stila una lista dei “pellagrosi”
su richiesta di ente superiore scrivendo che: .. la malattia infierisce progressivamente
che alla primavera si può infallantemente presagire che ne sia duplicato il numero in
ogni stadio .. (il decorrere della malattia nella persona, era divisa in tre stadi).
76 APT Anagrafi canoniche atti di morte, nelle anagrafi del 1681 cominciano a
comparire questi bimbi a cui davano come cognome Dal Pio Luogo, Della Pietà, Casagrande (nel senso di Casagrande della Pietà di Venezia, Treviso...); molti di loro
morivano nei primissimi giorni di vita.
77 Abbiamo preso a campione gli anni fino al 1779 perché in quell'anno c'è pure il
censimento della popolazione in cui sono annotati gli esposti affidati alle famiglie
della Parrocchia di Tarzo, sappiamo quindi quanti fossero in quel momento.
78 Gli affidamenti continuarono anche negli anni seguenti, il fenomeno però andò
col tempo a diminuire per arrivare all'Ottocento quando si registrarono pochi casi.
79 APT è presente il libretto: "Stato delle Anime che sono sotto la Parrocchia, o
sia Pieve di S. Maria di Tarzo fatto nell'anno 1779 8 marzo". Questa rilevazione fu
stilata famiglia per famiglia e per ognuna sono annotati (staccati ed evidenziati con la
dicitura "Del Pio Luogo di Treviso o di Venezia") gli affidati che la famiglia tiene.
80 Si ringrazia la Prof. L. Imperio per l'informazione.
81 APT “Norme e discipline per l'esterno baliatico dell'Istituto degli Esposti di
Treviso” in libretto.
82 Sulla somma di denaro data alle famiglie non sono state ritrovate ricevute per il
Seicento e il Settecento in (APT).
683
Particolare del censimento 1779 con i bimbi
affidati alle famiglie annotati in basso (APT)
684
Frontespizio del regolamento dell'Istituto di Treviso (APT)
Per concludere, focalizziamo in seno ai soggetti che in qualche modo si occuparono di problemi sanitari la figura del Parroco e dei
suoi sottoposti che nei secoli presi in considerazione tennero costante
monitoraggio non solo in casi straordinari (come la presenza nelle
commissioni sanitarie) ma dove ne risultava la necessità e le anagrafi
parrocchiali ne sono testimoni83.
83
Per esempio: APT atto di morte del 3-01-1764 in cui è descritto questo “monitoraggio”.
685
RINGRAZIAMENTI
Si ringraziano qui
Dr. Giovanni Tomasi
Dott.ssa Maria Grazia Bevilacqua del Dipartimento per la storia
dell'Università di Padova
Dr. Giampaolo Brizzi dell'Università di Bologna
Dott.ssa Elena Pessot
Dott.ssa Francesca Girardi
Comune di Tarzo
Parrocchia di Tarzo.
BIBLIOGRAFIA
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● D. Bartolini, Medici e Comunità esempi dalla terraferma veneta dei secoli XVI
e XVII, Venezia 2006.
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(secc. XIII-XVI) Venezia 1981.
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1860-1960 immagini della nostra storia, Godega S. Urbano 2009.
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1998.
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(TV) 1870.
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● B. Sartori, Tarzo “Signor d'antica terra” Vittorio Veneto 1975.
● N.E. Vanzan Marchini, “Le leggi di Sanità della Repubblica di Venezia” Canova ed.
ABBREVIAZIONI
ADVV
AMMC
AMT
APS
APT
APV
ASTV
CSUNIPD
UNIBO
686
Archivio Diocesano di Vittorio Veneto
Archivio Municipale Moderno di Conegliano
Archivio Municipale di Tarzo
Archivio Parrocchiale di Serravalle
Archivio Parrocchiale di Tarzo
Archivio Parrocchiale di Valmareno
Archivio di Stato di Treviso
Centro per la Storia dell'Università di Padova
Università di Bologna
Finito di stampare
nel mese di novembre 2012
dalle
Grafiche De Bastiani
Godega di Sant'Urbano (TV)