Giorgio Pannunzio
Di pestilenze romane e d’altri morbi consimili: Antonio Coppi tra erudizione e letteratura
I.
Non posso dire che l’attività scolastica sia diminuita, da quando questo impiccione di virus mi sta tenendo
segregato in casa. È una reclusione forzata, ché l’eremitaggio sociale deve essere sempre una scelta e non
un obbligo, ma i miei cari studi li vedo ormai persi in un futuro indistinto, lontanissimo, come se il
proseguirli sia una sorta di mito storico ormai indimostrabile. Eppure, io non mi arrendo: da docente di
trincea (e non cederei ad altri l’alto onore di condurre i miei allievi al cimento, in questa guerra psicologica
che tutti travolge), non posso non acquisire i tratti d’un’ufficialità militare, coinvolta nel conflitto anche
da in punto di vista, se non ideologico, almeno post-ideologico. Me ne sento degno e, come tale, voglio
dimostrare coraggio anche nella mia attività di indagatore della letteratura, di comparatista, di semiologo
– e soprattutto semasiologo – dei contenuti letterari. Se infatti cedessi allo sconforto e alla reclusione del
pensiero, se mi facessi sovrastare da una visione suicidiaria e millenaristica della ricerca (vale a dire, come
ho sentito in questi giorni, la predicazione stolta del concetto per cui un la cultura, davanti ai mali del
tempo presente, è una dissennata stupidaggine di cui certo non val la pena parlare), smarrirei
completamente le ragioni della mia stessa esistenza. Come dicevano gli antichi, mi comporterei come
colui che vorrebbe “propter vitam, vivendi perdere causas”. Ma, ci tengo a dichiararlo una volta per tutte,
io non sono l’hegeliano “pensatore astratto”: vivo nel mio tempo, come tutti ascolto i telegiornali, leggo
– come tutti – i periodici “online” per tenermi informato. E dunque? Dunque, ho deciso di contaminare
positivamente (“absit iniuria verbo”) le due cose, occupandomi di un testo poco noto d’inizio Ottocento.
Si dirà: che c’entra? C’entra, perché in esso si trovano descritte, con dovizia di particolari, una gran parte
delle epidemie che colpirono l’Europa in epoche trascorse (o almeno fino alla pubblicazione del testo
medesimo), con esemplificazioni tipologiche – o semi-tipiche – tali da renderlo interessante e foriero di
riflessioni e spunti critici.
II.
Antonio Coppi era, pressappoco, un autodidatta1. Dopo aver appreso i primi rudimenti della scrittura e
della lettura nelle locali scuole di Andezeno e Riva di Chieri, preferì istruirsi privatamente, anche perché
– nella sua casa – egli aveva a disposizione la ricca biblioteca del prozio materno, un gesuita che era morto
nel 1790. Il Coppi, infatti, non aveva avuto la possibilità di continuare gli studi presso il seminario di
Torino, a cui era stato ammesso nel 1799 e che era stato chiuso poco dopo dai Francesi quando essi
avevano occupato il Piemonte. Nel 1803 si recò a Roma, città ove visse quasi sempre fino alla morte.
Dopo la laurea in utroque iure alla Sapienza, nel 1811 collaborò con l’erudito Nicola Maria Nicolaj alla
stesura della Storia de' luoghi una volta abitati nell'Agro Romano, iniziando un periodo di accurate indagini
archivistiche e bibliotecarie da cui ricavò il materiale poi utilizzato nelle sue pubblicazioni successive. In
seguito, lavorò anche con Antonio Nibby, quando quest’ultimo trascrisse le epigrafi site nella basilica di
San Paolo. Nel 1813 fondò – diventandone poi il primo presidente – il sodalizio degli accademici tiberini,
a cui propose di stampare una Storia di Roma, che avrebbe dovuto partire dal primo anno del regno di
Odoacre (476) fino al pontificato di Clemente XIV (1769-1774), e una Storia letteraria, che andava dal
primo anno del regno di Odoacre fino al secolo XIX. Sollecitato da Filippo Colonna, a partire dal 1816 si
occupò dell'amministrazione patrimoniale del principe e dei suoi familiari, recandosi sovente si recò
in Sicilia, dove costoro avevano vasti possedimenti, e interessandosi – tra le altre cose – ai reperti
archeologici di Tindari. Nel 1818 fu assunto da Margherita Colonna, figlia di Filippo e moglie del duca di
Zagarolo Giulio Cesare Rospigliosi. Divenuto autosufficiente dal punto di vista economico proprio grazie
a questo nuovo incarico, Coppi incrementò la sua produzione erudita, continuando gli Annali
d'Italia di Ludovico Antonio Muratori e conducendoli fino al 1861. Una certa fama, anche all’estero, ebbe
1 Debbo le notizie in oggetto essenzialmente da due fonti: N. RONCALLI, Necrologia del cavaliere Antonio Coppi, Roma, Tipografia
Salvucci, 1870; e il lemma di A. RUSSI, in Dizionario Biografico degli italiani online (d’ora in poi DBI online), vol. 28 (1983), con
bibliografia. Da esse, ma soprattutto dalla seconda (in ampia citazione), deriva questa parte biografica.
2
il libro Vittoria Savorelli. Istoria del secolo XIX, pubblicato anonimo a Parigi, ma a lui attribuito, consistente
nella biografia romanzata – a tinte romanticheggianti – d’una nobildonna forlivese morta per una
delusione d'amore. Di aver plagiato il Vittoria Savorelli, ad esempio, fu poi accusato Edmond About, col
suo romanzo Tolla. Il Coppi, peraltro, era sostanzialmente un erudito, non un poligrafo. A parte il testo
sulla Savorelli, che peraltro può esser forse – e al massimo – configurato come un romanzo storico, non
si conoscono narrazioni di fantasia o volumi di liriche dovuti alla sua penna, ma esclusivamente saggi
storico-biografici a cui, talvolta (come accadeva anche e soprattutto nel XVIII secolo, immediatamente
precedente a quello in cui egli operò), vennero affiancati studi di carattere socio-economico, forse
connessi alla sua attività di amministratore delle ricche tenute dei Colonna. Proprio su una delle sue
compilazioni storiografiche vuole appuntarsi il mio interesse, e – in particolare – sui Cenni Storici di Alcune
Pestilenze, che il nostro pubblicò nel 1832 e che appare ricco di notizie inedite sugli eventi epidemiologici
(alcune tratte anche da loci essenzialmente mitografici quali quelli biblici) degni di menzione in letteratura
dalle origini fino ai suoi giorni2. In preventiva disamina, va rilevato subito un punto: il vocabolo
“pestilenze” è usato dal Coppi in modo molto allargato, comprendendo in esse non soltanto le pandemie
dovute al bacillo della peste, ma anche quelle relative al tifo petecchiale, al colera, alla lebbra e alla febbre
gialla (per citarne solo alcune). Il che fa pensare che la cultura coppiana fosse ancora legata ad esempi
antiquari, se non a una dimensione pre-scientifica, non pari ai tempi in cui egli stesso scriveva3.
III.
Il testo del Coppi, assai denso di notizie, mostra in molte parti quella connessione tra assembramenti,
sopravvenuta sorveglianza e dissennatezza di comportamento collettivo che si può notare anche oggi. Lo
scrivente, a fronte delle tante notizie d’ogni epoca raccolte dall’erudito piemontese, si limiterà a un breve
primo sondaggio, esclusivamente relativo alle epidemie dell’antichità romana, anche per ragioni inerenti
la cifrata complessità degli specimen storiografici utilizzati dal nostro autore. Prendiamo, per dare inizio
all’analisi, questa citazione tratta dalle Antichità Romane di Dionigi di Alicarnasso (con estroflessione
liviana) relativa alla pestilenza del 290 a.C.4:
«Nell'anno duecento e novanta si vide il cielo come ardente per molto fuoco, e nel seguente vi fu
intemperie e pestilenza. Incominciò il morbo tra gli armenti de’ cavalli e de' buoi, e quindi delle capre
e delle pecore, e distrusse quasi tutti tali quadrupedi. Poscia attaccò i pastori ed i coloni. Si aggiunse,
che per timore di nemici questi rustici rifugiaronsi in Roma coi loro bestiami, e tale addensamento e
mescolanza di animali d'ogni sorte molestava i cittadini coll'insolito puzzo, non che i contadini in
angusti, tetti stivati. Tale contatto propagò tanto più il morbo. Morirono i due con soli, e la maggior
parte dei patrizi, e de' giovani atti alla guerra. La forza del male si distese più largamente sulla plebe.
Gli stessi senatori, a cui lo permettevano l'età e la salute, facevano la guardia. La ronda si eseguiva
dagli Edili della plebe, nelle cui mani era in quella confusione ricaduto il sommo potere. Secondo
Cfr. Cenni Storici di Alcune Pestilenze Raccolti da A. Coppi, Roma, Tipografia Salviucci, 1832. Si noti, a margine, che l’editore è lo
stesso presso cui venne pubblicato il necrologio del Roncalli nel 1870.
3 Gli interventi critici sull’uso di modelli predeterminati nella descrizione della peste, anche soltanto in letteratura, sono davvero
molti. Mi limiterò a citare, per adesso e per la parte latina, G. PISI, La peste in Seneca tra scienza e letteratura, Roma Bulzoni, 1989
(a cui si aggiunga, doverosamente e in qualche modo anche per la parte greca, A. FILIPPETTI, “Il linguaggio della peste, la
centralità di Ovidio”, in Belfagor, 61/4, 2006, pp. 4033-419; e G. SERRA, Edipo e la peste: politica e tragedia nell’Edipo re, Padova,
Marsilio, 1984); e – per quel che concerne la produzione in lingua italiana – A. DI VEROLI, La peste: colpa, peccato e destino nella
letteratura italiana, Torino, ETS, 2014, entrambi con vasta bibliografia. Dal punto di vista storico-religioso, cfr. I. DE MICHELIS,
Apocalissi e letteratura, Roma, Bulzoni, 2005 (dove vedasi soprattutto l’intervento di I. TUFANO, “Boccaccio, Petrarca e i cronisti:
immagini della peste”, pp. 65-80), a cui aggiungerei – sulla peste nera del 1348. K. BERGDOLT, La peste nera e la fine del Medioevo,
trad. it., Casale Monferrato (AL), Piemme, 2002; e G. BENVENUTO, La peste nell’Italia della prima età moderna. Contagio, rimedi,
profilassi, Bologna, CLUEB, 1996. Dal punto di vista storiografico, rimanderei all’ormai classico J. LEGOFF, J.C. SOURNIA, Per
una storia delle malattie, trad. it., Bari, Dedalo, 1985; mentre – da un punto di vista storico-scientifico – si veda essenzialmente J.
BOURRIAU, a cura di, Le catastrofi, trad. it., Bari, Dedalo, 1992 (ma i fenomeni epidemiologici vi sono toccati abbastanza di
sfuggita). Sulla peste manzoniana, invece, vedi F. NICOLINI, Peste e untori: nei Promessi sposi e nella realtà storica, Bari, Laterza,
1937. Altra bibliografia verrà citata strada facendo.
4 Cfr. Cenni Storici, cit., p. 16, con citazione delle fonti antiche, in particolare LIVIO, Ab Urbe condita, III.6-8 e DIONIGI
D’ALICARNASSO, Ῥωμαικὴ ἀρχαιολογία (o Antiquitates Romanae, come da qui in avanti), IX.67.
2
3
Livio, passata l'intemperie più nociva, coloro che erano rimasti in vita incominciarono a ricuperare le
forze, ed il morbo, nello stesso anno cessò. Secondo Dionisio cominciò il morbo ai primi di settembre
e proseguì per un anno intero».
Come si vede, Coppi privilegia in questo caso la descrizione dell’enorme affollamento creatosi nella città
di Roma a seguito di questa non ben precisata pestilenza, ma anche il ruolo repressivo e contenitivo da
parte della magistratura poliziesca degli Edili, che tentò con ogni mezzo di mantenere l’ordine e di
rafforzare le misure di isolamento a cui ammalati e non, anche in quel periodo, dovevano sottoporsi.
Esattamente come sta avvenendo in questi giorni, ma con un’anticipazione di 2310 anni rispetto al
periodo nostro e con mezzi certamente più primitivi, anche dal punto di vista squisitamente medico. Già
in quel periodo, si contano tra le vittime del morbo anche i cosiddetti “capri espiatori”, con funzione –
parafrasando René Girard, squisitamente religiosa5. Eccone una chiarissima testimonianza, che sembra
riecheggiare le vicende della progenitrice dei Romani Rea Silvia6:
«Narra Dionisio che, sotto il consolato di L. Pinario e di P. Furio, Roma fu spaventata da molti
portenti, e che dopo non molto venne sulle donne un morbo chiamato contagioso. Attaccava
specialmente le gravide, le quali partorendo prole immatura e già morta, perivano con essa. Soggiunge
lo storico, essersi scoperto che Orbilia Vestale continuava a sagrificare, sebbene non fosse più
vergine. Quindi fu condotta con pompa lugubre per la città, e poi sepolta viva. Allora cessò il morbo
femminile».
La natura del morbo, che colpiva esclusivamente le donne, appare poco chiara, perché nessuna malattia
infettiva affligge soltanto gli appartenenti ad un solo sesso (anche se, nella curva epidemiologica, possono
esservi – per ragioni casuali o meno – prevalenze di genere anche abbastanza corpose): tuttavia, il fatto
che il morbo descritto dal Coppi implichi aborto e morte della partoriente, lascerebbe ipotizzare
un’epidemia di rosolia o di varicella, malattie del tutto incurabili con i mezzi terapeutici dell’epoca, anche
se le notazioni proposte (di Dionigi prima e, al seguito, del Coppi) sono troppo incerte e indefinite per
poter dire qualcosa di più. Molto simile a situazioni poi riproposte anche nel Medioevo, è la pestilenza
situata da Livio nel 415 a.C7:
«Tre anni dopo perirono di uno stesso male molti fra i principali cittadini di Roma, e questa volta si
desiderò che tutti quelli fossero realmente morti di pestilenza. Imperciocch[é] antichi annalisti hanno
scritto che una serva rivelò ai magistrati[ “p]atire la città per frode donnesca; cuocersi veleni dalle
matrone”. Di fatto essersene sorprese alcune, le quali cuocevano tali mortifere pozioni, e ne tenevano
anche riposte. Venti furono chiamate in giudizio, e sostenendo essere quelle composizioni salubri, le
bevettero e morirono tutte. Dopo un tal atto furono arrestate molte altre matrone, e ne furono
condannate cento e sessanta. Livio descrisse il fatto, senza confermarlo o negarlo, deplorando essere
stato sciagurato quell'anno o per intemperie dell'aria, o per umana malizia».
5
Cfr., su questo, R. GIRARD, Il capro espiatorio, trad. it., Milano Adelphi, 19988, con bibliografia.
Cfr. Cenni Storici, cit., p. 15, citando le solite Antiquitates Romanae (IX.40-42). In precedenza, a p. 14, il Coppi aveva ricordato
(sempre menzionando la stessa fonte in IV.69) che «a tempi di Tarquinio Superbo proruppe una peste insolita sulle vergini e
sui fanciulli che in copia ne perivano; e più terribile ancora, e men curabile sulle donne gravide, le quali talvolta cadevano
morte col proprio feto per le vie. In tale occasione il Re mandò i propri figli a consultare l’oracolo di Delfo». Anche in questa
occasione, l’eziologia del morbo appare del tutto sconosciuta. Sulla natura sacrale delle pestilenze narrate da Dionigi
d’Alicarnasso, cfr., ad esempio, F. MORA, Il pensiero storico-religioso antico: autori greci e Roma. Volume 1: Dionigi d’Alicarnasso, Roma,
L’Erma di Breitschneider, 1995, passim, con bibliografia.
7 Vedi Cenni Storici, cit., pp. 22-23, traducendo quasi integralmente LIVIO, Ab Urbe Condita, VIII.18 (le integrazioni, dovute a
evidenti mende tipografiche, sono di mia mano). Sul trattamento riservato a questo tipo di reati femminili nell’antica Roma,
anche in riferimento ad episodi d’avvelenamento, cfr. A. RAMON, Repressione domestica e persecuzione cittadina degli illeciti commessi
da donne e ‘filii familias’, in L. GAROFALO, a cura di, Il giudice privato nel processo civile romano. Omaggio ad Alberto Burdese. Vol. III,
Padova, CEDAM, 2015, pp. 617-678, in part. pp. 650 sg. Tuttavia, io non credo che qui si possa parlare di veneficium, dato il
gran numero di donne implicate nell’affare, ma di persecuzione nei confronti di qualche sorta di stregoneria (come peraltro si
potrebbe arguire da L. PEPE, Processo a un’avvelenatrice: la prima orazione di Antifonte, in «Index», 40, 2012, pp. 131-144). Eva
Cantarella, citata dalla Pepe, parla di una certa familiarità delle matrone romane con le piante officinali, sostenendo che esse
«avevano imparato a conoscere le proprietà buone e cattive delle erbe, delle bacche e delle spezie» (vedi ivi, p. 131), esattamente
come accadeva con le donne accusate di stregoneria nell’epoca medievale.
6
4
Il pogrom delle matrone sembra ricordare analoghe azioni complottistiche del tardo Medioevo, nelle quali,
al posto di queste donne romane probabilmente imprigionate per gli stessi motivi stregoneschi poi
diffusissimi in epoca successiva, si possono trovare anche lebbrosi ed Ebrei, quali ennesimi capri espiatori
per giustificare una normalità violata da un morbo allora del tutto incomprensibile ed assurdo8. Sempre
da Livio, viene mostrata l’indiretta connessione tra pestilenza e guerra che, in un secondo momento e
secondo molte interpretazioni simboliche, verrà posto in essere anche nell’immagine dei quattro cavalieri
così come rappresentata nell’Apocalisse di Giovanni (in particolare il cavallo nero e quello grigiastro o
verdastro, secondo una tradizione diffusa ed ormai acclarata all’epoca in cui il Coppi scrisse la sua
compilazione9).
«Nel sesto secolo di Roma di altre sei pestilenze ci conservarono similmente la memoria gli storici.
La prima fu in Siracusa, allorquando Marcello avevane di già preso in parte la città, ed i siciliani, col
soccorso de[’] cartaginesi, difendevano ancora quella parte che chiamavasi Acradina, La malattia
derivò da intollerabile calore, e dall'aria cattiva in autunno. Primieramente si ammalavano e morivano
per vizio della stagione, ma poi la stessa cura ed il contatto propagò il morbo; di modo che quelli che
cadevano in fermi o morivano negletti e abbandonati, o si traevano seco pieni dello stesso veleno co
loro che gli assistevano o li curavano. I morti furono tanti, che in fine lasciaronsi per le case e per le
vie i cadaveri insepolti al co spetto di coloro che somigliante morte aspettavano. Così i morti
struggevano gli ammalati, e questi i sani col terrore, colla putredine e col pestifero puzzo. I soldati
siciliani, appena si accorsero della pestilenza, ripararono ai propri paesi, ed i cartaginesi perirono quasi
tutti coi loro condottieri Ippocrate ed Imilcare».
In questo caso particolare, è possibile sottolineare anche un altro locus communis a tali narrazioni, come
l’abbandono dei cadaveri insepolti per strada, il quale – per la costitutiva ed antropologicamente collocata
essenza a cui fa riferimento da sempre la civiltà occidentale10 – costituisce un immondo sacrilegio che
contribuisce a rendere ancora più empio e contaminato il quadro dipinto da Coppi. Un’altra descrizione
degna di nota coinvolge un passo di Livio in cui, addirittura, i morti erano sdegnati anche dagli animali
(soprattutto volatili) che avrebbero dovuto divorarli11:
«[L]i ammalati rare volte oltrepassavano il settimo giorno, e coloro che li superavano rimanevano
intrigati in lunga malattia, particolarmente di quartana. Morivano specialmente gli schiavi, ed erano
ingombrate di cadaveri tutte le strade. I ministri non bastavano n[é] anche a mortori de liberi. I
cadaveri, senza esser tocchi da corvi e dagli avoltoj, erano consunti dalla tabe: si osservò che n[é] in
quell'anno, n[é] nell'antecedente, in tanta strage di animali, non si era mai veduto un avoltojo […]».
Cfr., su tali questioni, l’ormai classico C. GINZBURG, Storia notturna, Torino, Einaudi, 1989, in part. pp. 5-61, con estesa
bibliografia. Nel testo del Ginzburg, peraltro, non si trova cenno a questo pur cruentissimo episodio.
9 Cfr. Apocalisse, VI.1-8. Per un testo esplicativo d’epoca quasi coeva e di larga diffusione anche in periodi precedenti, si veda
ad esempio Svegliarino Cristiano, Divino, ed Eucaristico di Varj Discorsi etc. Del Dottore D. Giuseppe De Barcia e Zambrana etc. Tradotto
dalla Lingua Castigliana dal P.M. Gio. Antonio Panceri etc. In Venezia, MDCCXXII. Presso Giovanni Malachin all’Insegna di
Sant’Ignazio, p. 118: «Vediamo per fondare questo timore una misteriosa visione del sesto dell'Apocalisse. Ivi vidde
l'Evangelista Profeta quattro ammirabili Cavalieri, che ne di stinti colori de suoi cavalli indicavano misteri molto grandi alla
considerazione. Il primo era bianco; rosso il secondo; il terzo nero: ed il quarto pallido. Veniva nel bianco un Personaggio
vistoso con un'arco (sic!) nella mano, e con una corona in capo […]. Senza passare più oltre, supponiamo con la sentenza
comune, che questo coronato Capitano è Gesù Cristo nostro Signore, di cui scrive, che uscì vittorioso per vincere […]. Degli
altri tr[e] Personaggi […] e chi sono? Quello del cavallo rosso, la guerra; quello del nero, la fame; e quello del pallido, la peste».
10 Per una definizione di questa dimensione antropologico-culturale (ma anche letteraria), cfr. C. QUESTA, Il morto e la madre.
Romei e Persiani nelle Storie di Agazia, in «Lares», 55, 1989, pp. 375-405, a cui si aggiunga, con ulteriore bibliografia, N.
ZAMBARBIERI, La Persia nelle Storie di Agazia: costruzione dell’alterità e polemica interna, in «Adamantius», 23, 2017, pp. 263-277. In
una dinamica tipica delle società a sfondo bellicistico, il rimanere insepolti era considerato un atto infamante («L'abbandono
alle fiere che, divorandolo, smembrano il corpo e lo privano della sua unità e della sua essenza, è la sorte più atroce per il
guerriero. In tal modo infatti egli perde la possibilità della bella morte ricercata sul campo di battaglia, foriera di gloria e di
ricordo eterni […]. L'abbandono del cadavere del nemico ai cani, a sua volta, sarebbe la sostituzione mitigata del desiderio più
selvaggio di divorarne le carni», e cfr. P. GAGLIARDI, Il tema del cadavere nei lamenti funebri omerici, in «Gaia: revue interdisciplinaire
sur la Grèce Archaïque», 13, 2010, pp. 107-136, in part. – per la citazione – p. 125).
11 Cenni Storici cit., p. 25. Il testo liviano ascende a Ab Urbe Condita, XLI.21.
8
5
In questo caso, ci si trova di fronte o ad un’iperbole di tipo squisitamente letterario (ché – normalmente
– non sarebbe ragionevole pensare ad un divoramento delle carcasse dei morti da parte degli animali
saprofagi), oppure alla testimonianza di un evento realmente accaduto, plausibile soltanto che i saprofagi
medesimi trovassero intollerabile il nutrirsi dei corpi morti degli appestati (probabilmente per ragioni
dovute al fatto che essi erano percepiti come cibi velenosi o letali). Eventi importanti, secondo il Coppi
(che cita stavolta Dione Cassio) si verificarono nel periodo del dominato di Commodo12:
«Nell'anno cento ed ottantanove ritornò la peste in Italia, e poscia si comunicò nuovamente oltre i
monti. Essa fu micidiale non meno agli uomini che alle bestie. Dione, testimonio di vista, narra che
in Roma morivano duemila uomini al giorno. Alla peste si aggiunse prima l'uso abbominevole
(prevalso di già in quasi tutto l'impero sotto Domiziano) di certi aghi attossicati, coi quali si dava la
morte a molti individui. Sopraggiunse poi la carestia. Commodo, che allora regnava, ritirossi per
consiglio de’ medici a Laurento per ripararsi coi lauri contro l'infezione dell'aria».
In questa occorrenza, è interessante più d’un particolare. Il primo è quello degli «aghi attossicati», che
altri autori – senza connetterli al periodo di Commodo – pongono invece nel periodo di Domiziano,
come il Crevier-Rollin tradotto da un anonimo13:
«In fine io non deggio tralasciare una specie di scelleratezza singolare, e fin’a quel punto inudita, che
divenne un flagello per Roma, e per tutto l'Imperio. Alcuni malvagi s'immaginarono di armarsi di aghi
avvelenati, co’ quali fecero morire gran numero di persone, ch'erano d'improvviso ferite dove meno
se l'aspettavano. Molti di questi assassini furono scoperti, e pagarono col supplizio la nerezza del loro
misfatto».
O come il Corradi, che – in un suo breve trattato sulle epidemie – mette insieme le due versioni
mantenendo però fede al fatto che gli eventi sarebbero avvenuti nel regno dell’ultimo imperatore flavio 14:
«Regnando Domiziano (che divertivasi ad infilzare le mosche con uno spillo d'argento), una congrega
di scellerati in quasi tutto il mondo, con aghi avvelenati la gente pungeva, dando così morte, senza
che neppur le vittime se n'accorgessero. Forse allora vagava qualche malatia, che lo Jahn, niun
argomento per altro adducendo in prova, crede essere stato carbonchio: nulladimeno molti del delitto
imputati ebbero in pena l'estremo supplizio».
Da notare anche il riferimento, tanto nel testo coppiano che nei suoi antecedenti classici, alle proprietà
terapeutiche che sarebbero state possedute dall’alloro, con una testimonianza che avrebbe poi fatto molta
strada in epoche successive15. Altresì degna di nota è la testimonianza, del tutto aneddotica, secondo cui
Domiziano uccideva le mosche con uno spillo d’argento, che trovasi anche altrove16 e che pare derivata
12
Cfr. Cenni storici, cit. p. 30.
Cfr. pp. 66-67. La notizia in questione aveva la sua origine in un passo contenuto proprio negli Annali muratoriani di cui il
Coppi era stato continuatore (e vedi ad esempio Annali d’Italia dal Principio dell’Era Volgare Fino all’Anno MDCCL. Compilati da
Lodovico Anton io Muratori etc. In Roma. MDCCLIII. Nella Stamperia, ed a Spese degli Eredi Barbiellini etc., p. 252: «Entrò in
questi tempi una fierissima Peste in Italia e per le poche precauzioni, che si costumavano allora, si diffuse ben tosto per tutte
le Città, e passò anche oltramonti. Questo di raro avea essa, che non men gli uomini che le bestie perivano. In casi tali quanto
più vaste e popolate son le Città, tanto maggiormente infierisce il malore nella folta misera plebe. Così fu in Roma. Dione
testimonio di veduta, asserisce, che per lo più ogni dì vi morivano duemila persone. Rinnovossi in oltre allora l’uso di certi
aghi attossicati, co’ quali fu data la morte a non pochi. Commodo per consiglio de’ medici si ritirò a Laurento, [l]uogo fresco
alla [m]arina, e pieno di [l]auri, creduti allora per l’odor loro un possente [s]cudo contro la [p]este».
14 Cfr. A. CORRADI, Le epidemie in relazione con la vita de’ popoli, in «Il Politecnico», XXVI/CX-CXI, 1865, pp. 214-233 e 241260, in part. p. 222. Il testo del Corradi sembra essere, a prima vista, in parte derivato dalla compilazione del Coppi, ma si
nutre anche di talune cifre e dati che ne fanno qualcosa di più d’una semplice compilazione erudita.
15 Cfr. su questo, unico testo da me reperto sulla problematica, A. CORSINI, I disinfettanti gassosi, Firenze, Tip. e libreria
Claudiana, 1909, pp. 4 sg.
16 Cfr., ad esempio e nello stesso anno di pubblicazione del volume di Coppi, Delle Idiosincrasie. Opuscolo che […] pubblicava in
Occasione di Laurea Medica Pietro Accordi da Mantova. Milano. Coi Tipi di Giovanni Pirotta. 1832, p. 42: «[…] Domiziano […]
pareva mirasse ad acuire la sua naturale inclinazione al sangue nella caccia delle mosche, che infilzava entro uno spillo
13
6
da Svetonio, noto diffusore di pettegolezzi storiografici di poco valore documentario17. Come si vede,
esiste una contaminazione anche letteraria, con un accavallarsi di fonti che sembrerebbe dimostrare come
gli storici dell’epoca del Coppi non avessero ben chiaro il panorama storiografico che andavano
descrivendo, anche per la loro preparazione essenzialmente erudita, che non lasciava spazio a moderne
tecniche di studio critico, ma soltanto ad una composizione fantasiosa e personale di notizie che trovano
il loro interesse nel dato letterario, più che nell’analisi storiografica. Il Coppi, in questo passo, menziona
anche l’archeologo e filologo tedesco Otto Jahn (con ogni probabilità, e nonostante la giovane età, è lui
lo Jahn colà menzionato18): la velata polemica sottintesa nell’escerto sembra voler sottolineare l’assoluta
inspiegabilità, date le fonti, degli eventi narrati dagli storici antichi e al contempo la necessità di fidarsi
delle loro conclusioni, certo non acriticamente, ma senza tentare di forzare l’interpretazione del testo
introducendo, per palese inesperienza, fattori che esso, evidentemente non offre. Ultimo evento degno
di nota è certamente quello riferibile a una pestilenza accaduta negli anni immediatamente precedenti la
data universalmente designante la fine del potere romano propriamente detto19:
«Idaico (sic!) e Marcellino Conte narrano, nelle loro cronache essersi veduta (nell'anno di nostra salute
quattrocento e quaranta due) una insigne cometa, alla quale seguì la peste che si diffuse in tutto il
mondo. Di altra particolare, accaduta in Roma nell'anno quattrocento e sessantasette, ne fa menzione
Gelasio Papa nel suo libro contro Andronico (sic!)».
Questa finale testimonianza possiede al suo interno un incrocio di due fonti non sempre facile da
districare, essendo esse rimontanti a testi di tipo religioso e non facilmente ascrivibili all’interno del pur
vasto panorama delle narrazioni storiche antiche. In effetti, per quell’anno – erano consoli Eudossio e
Dioscoro – la cronaca di Marcellino riporta soltanto la presenza della cometa, senza far menzione alcuna
della peste («[s]tella quae crinita dicitur per plurimum tempus ardens apparuit»20). L’equivoco potrebbe
essere sorto perché lo stesso Marcellino, all’anno successivo e imperanti i consoli Massimo e Paterio,
ascrive una nevicata enorme e persistente che avrebbe provocato molte vittime a causa del gelo («[h]is
consulibus tanta nix cecidit, ut per sex menses vix liquesci potuerit: multa hominum et animalium milia
frigoris rigore confecta perierunt»21). La seconda fonte, il Chronicon del vescovo galiziano Idazio di Limica,
riporta sì l’apparizione della cometa con connessione con una pestilenza, ma tale evento viene registrato
per il mese di dicembre di quell’anno, in modo stranamente coincidente con quello narrato nei testi
evangelici in occasione della nascita di Cristo («[c]ometae sidus apparere incipit mense decembri, quod
per menses aliquot visum subsequentis in pestilentia plagae, quae fere in toto orbe diffusa est, praemisit
ostentum»22). Per quel che concerne la terza ed ultima fonte, collocata nell’anno 467 d.C. e desunta
d’argento». Si tenga presente che l’episodio aveva ispirato, in epoca antecedente, anche la Moscheide di Giovanni Battista Lalli,
un poema eroicomico seicentesco dove l’imperatore veniva messo alla berlina proprio per questa sua curiosa usanza (sul Lalli
[1572-1637], rimatore umbro d’epoca manieristica, cfr. il lemma di E. RUSSO, in DBI online, vol. 63, 2004, con bibliografia).
17 Cfr. SVETONIO, Vita Domitiani, 3: «[i]nter initia principatus cotidie secretum sibi horarum sumere solebat nec quicquam
amplius quam muscas captare ac stilo praeacuto configere […]». Ho riscontrato il testo in SVETONIO, Vita di Domiziano, Roma,
Edizioni dell’Ateneo, 1991, p. 19 (è l’edizione critica a cura di F. Galli).
18 Sullo Jahn (1813-1869), che fu anche valente musicologo, cfr. W. CALDER, H. CANCIK, B. KYTZLER, a cura di, Otto Jahn:
1813-1868. Ein Geisteswissenschaftler zwischen Klassizismus und Historismus, Stuttgart, Steiner, 1991; e C.W. MULLER, Otto Jahn: mikt
einem Verzeichnis seiner Schriften, Stuttgart-Leipzig, Teubner, 1991. L’ipotesi menzionata dal Coppi trovasi evidentemente in
un’operetta giovanile (non ben precisata), vista la data di pubblicazione del volumetto coppiano.
19 Cfr. Cenni storici, cit. p. 31.
20 Su Conte Marcellino, (in latino, Marcellinus Comes), cronista illirico morto circa nel 534, cfr. essenzialmente B. CROKE, a cura
di, The Chronicle of Marcellinus: A Translation and Commentary: (with a Reproduction of Mommsen's Edition of the Text), Sidney, AABS,
1995, passim, con bibliografia. La citazione, riferita proprio all’anno 442 d.C. trovasi a p. LXII, ma con parole che sono utilizzate
anche in altri loci (e vedi ad esempio le pp. XXXVI e LIII, senza alcun riferimento a pestilenze o a qualsivoglia altro morbo).
Queste notizie risultano del tutto assenti, allo stesso anno e sotto gli stessi consoli, in Le Dignità de’ Consoli, e de[’] gl’Imperadori,
e i Fatti de’ Romani, e dell’Accrescimento dell’Imperio. Ridotti in Compendio da Sesto Ruffo, e similmente da Cassiodoro, e da M. Lodovico Dolce
Tradotti et Ampliati. In Vinegia. Appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, MDLX, p. 718.
21 Vedi ivi, p. LXIV.
22 Cfr. Idatii Episcopi Chronicon Correctionibus, Scholiis et Dissertationibus Illustratum a Johanne Mattheo Garzon etc. ex Codice Autographo
Bibl. Regiae Bruxellensis. Edidit P.F.L. [D]e Ram etc. Bruxellis, Excuderat M. Hayez, Reg. Acad. Typographus. 1845, pp. 81-82.
Secondo il De Ram, che adduce complesse motivazioni cronologiche legate al calcolo degli anni secondo il sistema biblico, gli
eventi descritti da Idazio risalirebbero al 441 d.C. e non al 442, forse anche per spiegare l’assenza – nella compilazione
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dall’Epistula contra Andromachum di papa Gelasio I sui Lupercalia, va subito rilevato che il testo originario
connette strettamente la festa romana – presuntamente sacrilega – alle pestilenze, sostenendo che esse,
diversamente da quel che si pensava in antico («nec propter morbos inhibendos commemorata», citando
indirettamente Livio a sostegno del fatto che la festa sarebbe nata per combattere la sterilità femminile)
si sarebbero invece verificate ogni volta che la festa era stata celebrata (per motivazioni legate alla sua
natura licenziosa). Gli argomenti di Gelasio, ovviamente afferenti alla polemica «contra paganos» ancora
presente nella letteratura religiosa dell’epoca, erano venati di elementi apologetici non indifferenti e si
nutrivano anche di paredre che possono senz’altro essere annoverate all’interno della letteratura antiereticale23:
«Quando Anthemius imperator Romam venit, Lupercalia utique gerebantur, et tamen pestilentia tanta
subrepsit, ut toleranda vix fuerit. Nu[m]quid per Campaniam Lupercalia gerebantur, quae sublata
morbos illic et pestilentia procrearent? Sed dicturi estis ad Romam ta[m]quam ad caput omnia
pertinere, et quod hic factum non est, diversis provinciis ad eam pertinentibus obfuisse».
Andrebbe forse sottolineata, sulla scia delle ipotesi del Ginzburg, una proto-connessione tra i Lupercalia
e le pestilenze, intesa questa come implicita condanna delle usanze pagane alla stregua di quanto sarebbe
accaduto secoli dopo con la stregoneria24, ma non è questa la sede per discuterne. Quello che interessa
notare qui è che le argomentazioni di Gelasio non vengono raccolte dal Coppi, che si limita a riportare la
notizia datandola sulla base del nome dell’imperatore in essa citato, il quale fu imperatore dal 467 al 472
(il verbo «venit» presente nel testo di Gelasio sarebbe dunque da intendere nel senso di «salì al potere»).
IV.
Come si è potuto riscontrare, per una definizione organica dei paradigmi eruditi utilizzata dallo scrittore
di Andezeno bisogna mettere in opera una disamina delle sue origini, la quale tenga conto sia delle
diversità – a volte radicali – tra fonte e fonte, sia del fatto che la narrazione degli eventi non è più connessa,
come nei secoli precedenti, a forme pregiudiziali di tipo religioso. Tuttavia, scavando a fondo, non si può
non rilevare che Coppi privilegia, almeno in questa prima parte della sua opera, la menzione di eventi
significativi che rendono comunque divina la radice delle pestilenze (apparizione di comete, fatti
inspiegabili come l’uso di sostanze tossiche, sottolineatura d’abitudini animali insolite), rivestendo essi un
valore simbolico che rende la spiegazione scientifica dei morbi in questione ancora molto al di là dal
venire.
annalistica marcelliniana citata anche dal suddetto De Ram – di ogni riferimento alla pestilenza menzionata invece in Idazio.
Anche e soprattutto per l’anno 441.
23 Cfr., in assenza di altre edizioni, Patrologia Latina, 59, coll. 110-116, in part. col. 111 e 110 (per la citazione precedente). A
margine, nel testo proposto, va notata la speciosa spiegazione sul perché la pestilenza avrebbe attaccato Roma e non la
Campania, patria dei Lupercalia, perché essa era la capitale dell’impero. Sui rapporti tra cristianesimo e paganesimo, non idilliaci
neppure dopo l’editto di Costantino, cfr. P. BROWN, R.L. TESTA, a cura di, Pagans and Christians in the Roman Empire: The Breaking
of a Dialogue: (IVth-VIth Century A.D.). Proceedings of the International Conference at the Monastery of Bose (October 2008), Berlin, Lit
Verlag, 2011. Per il testo gelasiano, cfr. https://web.archive.org/web/20160419080854/http://documentacatholicaomnia.eu/01p/04920496,_SS_Gelasius_I,_Epistolae_Et_Decreta,_MLT.pdf, ult cons. 28 marzo 2020.
24 Cfr. GINZBURG, Storia notturna, cit., p. 177, 241-243 e 246, con bibliografia.