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Damiano Oberoffer

Le suggestioni della tavola


Storie e ricette di pietanze e personaggi

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Damiano Oberoffer
Le suggestioni della tavola
Storie e ricette di pietanze e personaggi
Copyright © 2016

In copertina:
particolare da “Déjeuner de chasse”, Jean-François de Troy, 1737
(Museo del Louvre, Parigi)

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PREFAZIONE

“La cucina di una società è il linguaggio nel quale


essa traduce inconsciamente la sua struttura.”
Claude Levi Strauss

Quando al termine della scuola alberghiera, negli anni ’60,


incominciammo a lavorare nei grandi alberghi europei,
eravamo dotati di un’ampia conoscenza enogastronomica, che
ci permetteva di spiegare ai clienti, senza alcuna esitazione, a
seconda del nome che aveva il piatto nelle principali lingue, la
preparazione dello stesso, che metodicamente veniva prodotto
nel medesimo modo in tutte le cucine del globo.
Oggi, nelle scuole alberghiere d’Italia, si continuano a
insegnare (o almeno spero) le composizioni e gli ingredienti
dei piatti della cucina classica, regionale e internazionale, ma
nel frattempo sono cambiati, e di molto, i piatti proposti dai
vari menu, offrendo al posto dei classici - che tutti amavano e
conoscevano - preparazioni dettate spesso dalla fantasia dei
cuochi, che cambia al variare del livello del ristorante, della
locazione, delle mode e così via, in alcuni casi spiazzando i
clienti e rendendo pressoché inutilizzabile il bagaglio
enogastronomico acquisito nei cinque anni di scuola,
rimettendo tutto costantemente in discussione.
Le cucine di un tempo si classificavano semplicemente in:
regionale, nazionale, internazionale; oggi, in seguito appunto
agli innumerevoli cambiamenti, potremmo così suddividerle
(per difetto): in base alla provenienza (del territorio, regionale,
nazionale, etnica, classica, del mercato, fusion), in base alle
mode (nouvelle, molecolare, sifone, creativa, destrutturata,
ecc.), in base alla religione (kosher, ecc.), in base a uno stile
salutare (kusminiana, vegana, vegetariana, macrobiotica,
eubiotica, ecc.).

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Uno dei motivi principali di tutta questa evoluzione? I cuochi
in passato, in generale, avevano una bassa scolarizzazione,
oggi sono usciti dalle cucine, si presentano in media più
preparati sui prodotti del mondo e le tecniche di cottura,
usano e mescolano facilmente le loro conoscenze, creando e
ricreando i loro personali piatti (alcune volte divergenti dai
gusti preferiti dai clienti), spesso partendo da ricette già
codificate da altri per poi apportare le loro modifiche, più o
meno interessanti.
Per quanto concerne i clienti, potremmo dire che in passato
chi andava al ristorante era in genere una persona con una
buona cultura, per cui leggere Saint Germain sul menu faceva
tornare subito alla mente una pietanza a base di piselli.
Guardiamo i menu che ci propongono oggigiorno: i nomi
classici se ne sono andati e al loro posto ci sono interminabili
elenchi di ingredienti per descrivere le “innovative” pietanze.
Il ristorante, oggi, è infatti alla portata di tutti: per chiunque sia
in grado di leggere, e pagare… Di fronte a certe moderne
descrizioni (in taluni casi al limite dell’assurdo e del ridicolo),
comunque, anche una persona di ampia cultura potrebbe
rimanere spaesata, diciamocelo! E’ come mettere a confronto
un dipinto di Michelangelo e una tela cubista: per non fare
brutta figura e apparire ignorante, anch’io direi che entrambe
le opere sono bellissime e hanno un enorme valore, anche se
la seconda, da uomo comune, faccio fatica a comprenderla…
Un altro importante problema, a parer mio, che ha causato il
proliferare dei vari stili di cucina e di piatti più o meno
creativi, è l’impossibilità di pregustare ciò che si ordina, non
potendo quindi immaginare in precedenza che quello che ci
verrà servito è proprio ciò che desideriamo, dal momento che
spesso è frutto della fantasia di chi cucina, con la conseguente
incapacità di giudicare se quel determinato piatto è preparato
in modo adeguato oppure no, dal momento che abbiamo
sempre meno mezzi di paragone.
Non fraintendetemi, è giusta la ricerca di nuovi sapori e
accostamenti, anche Escoffier a suo tempo fu un innovatore:

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ma ricordiamoci di non esagerare, e soprattutto di non
smarrire il nostro patrimonio culinario distratti dalla bramosa
ricerca del nuovo a tutti i costi. La vera originalità, oramai, è
merce rara, riservata solo ai Grandi.
Come tutte le cose, anche la cucina rappresenta il tempo che si
sta vivendo: un momento del mondo questo, potremmo dire,
in preda al caos e alla schizofrenia.
Vi auguro una buona lettura, che possa servirvi per mettere
alcuni punti.
Ernesto Alberti Violetti

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INTRODUZIONE DELL’AUTORE

“Il piacere della tavola è di tutte le età, di tutte le condizioni sociali,


di tutti i Paesi e di tutti i giorni; può associarsi a tutti gli altri piaceri,
e resta ultimo a consolarci della loro perdita.”
Jean Anthelme Brillat-Savarin

Potremmo battezzarla “confusion”, la cucina del giorno


d’oggi. Un cocktail di tradizioni, sapori, colori, tecniche di
cottura e preparazioni più o meno innovative, contaminazioni
di vario genere, fantasia… Un arricchimento, certo, ma in
alcuni casi potrebbe assomigliare più a uno smarrimento, il
rischio della perdita di un’identità, che in un mondo
globalizzato ha comunque senso di esistere. Le lasagne di
crespelle, l’amatriciana di mare, la carbonara di verdure che appaiono
su alcuni menù di certi ristoranti, rispecchiano la strada
culinaria già tracciata e in costante evoluzione; necessaria e
legittima, sia chiaro. Ma in tutto questo rimaneggiamento
continuo delle ricette, non si rischia fors’anche di rimaneggiare
la storia, l’identità di un popolo? La millefoglie è una torta creata
dal famoso chef francese Marie Antoine Carême, ma il
termine viene oggi usato anche per descrivere un piatto
composto da strati di verdure o, peggio, di carni. Il carpaccio è
stato realizzato per la prima volta negli anni ’50 del ‘900 da
Giuseppe Cipriani, dell’Harry’s Bar di Venezia, in occasione di
una mostra pittorica sull’artista Vittore Carpaccio, dedicando
la preparazione (rigorosamente a base di manzo) al pittore
stesso. Tuttavia troviamo in abbondanza in molti locali o su
libri carpacci di polpo, di salmone, di cervo e così via, come se
l’originale termine carpaccio, dato da Cipriani, significasse
necessariamente una fetta di qualsiasi pesce o carne molto
sottile. Il che, sappiamo, non è vero. Sono i cuochi succedutisi
negli anni ad averne usato e abusato il nome, senza pagarne

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per giunta i diritti d’autore…
La domanda, qui, sorge spontanea: è corretto, eticamente e
storicamente, prendere in prestito denominazioni di alcuni
piatti o tagli di carni o preparazioni specifiche, per applicarli
ad altre e nuove creazioni, magari per donargli quell’enfasi,
quella nomea già conosciuta e utile solo a incrementarne la
vendibilità? I favorevoli e i contrari si dividono
continuamente. A mio modesto parere il rispetto delle ricette
classiche e tipiche va mantenuto: la violenza, soprattutto di
alcuni, è sempre da esorcizzare. Rispettare una ricetta,
l’ortografia con cui si scrive sulla lista delle vivande, ovvero
modificarla solo “quanto basta” per mantenerla in linea con i
gusti e le mode che cambiano, significa infatti rispettare chi ci
ha preceduti, chi l’ha pensata e realizzata per la prima volta,
chi o cosa le ha permesso di svilupparsi. Vuol dire tutelare la
nostra storia - che è già ieri - le materie prime e le lavorazioni
andate affinandosi nel tempo.
Questo libro vuole provare a mettere un po’ di ordine nel
racconto di oltre duecento fra le più note pietanze della cucina
regionale italiana, francese e internazionale. Per tentare di
ristabilire un sincero e naturale rapporto con le loro origini,
spesso impregnate di leggenda, ma non per questo poco
credibili o autentiche.
La verità in tasca non ce l’ha nessuno. Lo scrivente non è uno
storico, né vuole apparirne una pallida imitazione. Ciò che
rappresenta quest’opera - una fra tante - è il semplice tentativo
di suggestionare e di stimolare la nostra sana curiosità intorno
alla storia dei piatti che amiamo degustare o cucinare o
rivisitare consapevolmente. Perché apprendere l’origine delle
ricette, o presunta tale, le basi dell’evoluzione storica della
cucina, le impronte che hanno dato a questa arte numerosi
personaggi del passato, oltre a farci vivere un’esperienza e
accrescere le nostre conoscenze, può aiutare a incrementare in
noi proprio la consapevolezza dell’inestimabile valore di ciò
che mangiamo, di ciò che serviamo.
Damiano Oberoffer

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TRACCIA STORICA DELLA CUCINA,
DEL SERVIZIO A TAVOLA
E DELLA CIVILTA’

La storia della cucina è la storia del mondo.


Anonimo

La civiltà iniziò con il pane, quando le comunità della


Mesopotamia abbandonarono il nomadismo e divennero
stanziali, grazie alla scoperta dell’agricoltura e alla coltivazione
dei cereali, con la conseguente giacenza di provviste per
l’inverno dovuta ai raccolti abbondanti. Quand’ebbe il pane e
la birra, l’uomo ebbe anche la casa. Il fuoco illuminò i focolari
e nacque la vita sociale.
Erodoto, lo storico greco definito da Cicerone “il padre della
storia”, disse che gli Egizi impastavano il loro pane coi
piedi… Per certe cose gli Antichi rimasero rozzi, anche se
sapevano tagliare e spostare la roccia per farne gli obelischi, i
mausolei e i templi che i nostri occhi possono tutt’oggi
ammirare.
Oltre al pane, spesso azzimo, il cibo essenziale dei tempi
mitici era la carne, cruda o arrostita al fuoco, quasi sempre
all’aperto.
Sobri erano gli Ebrei, che si nutrivano di pane azzimo e
ripudiavano la carne di maiale e di altri animali ritenuti
“impuri”; ma amavano gli arrosti di bue, vitello, capretto, e i
dolci, benché rudimentali.
La povera gente greca mangiava cereali e se desiderava un po’
di carne doveva accontentarsi di quella dura e tigliosa
dell’asino; i ricchi, invece, potevano concedersi il maiale, il
pollo, la selvaggina.
Al contrario della città di Roma, la sobrietà degli Antichi
Romani non fu “eterna”. Cominciò con la pappa di farro,

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arricchita da legumi quali fave, ceci, lenticchie, ma si
compromise negli anni, quando si iniziarono a confezionare
pesci e carni di ogni tipo, nei modi più svariati.
In Grecia e per molto tempo anche a Roma, il cuoco era un
libero professionista. Andava dove lo chiamavano, con gli
strumenti del suo lavoro. Ma durante l’Impero ogni famiglia
patrizia aveva il suo bravo chef, l’archimagirus, con una vera e
propria brigata di cucina al seguito, che comprendeva i pistores,
che facevano il pane; i formacari, che attendevano al forno; gli
opsonatores, che si occupavano delle spese; i coqui, addetti alla
preparazione di diverse sostanze; i dulciarii, i cruciari, i crustulari e
i placentari, tutti antesignani della pasticceria, arte che doveva
ancora sfidare i secoli.
Col gusto della tavola nacque anche quello del banchettare.
Il banchetto omerico era una riunione degli eguali: il re e i suoi
uomini erano dei pari. Si trattava di un rituale sociale, in
quanto il condividere il cibo assicurava a tutti i partecipanti di
far parte di un gruppo, di una stessa comunità. Le donne,
però, erano escluse da queste riunioni e non potevano
neanche essere presenti nelle sale.
Il banchetto si svolgeva nella sala principale del palazzo reale,
i l mègaron, o, in occasione di cerimonie importanti, potevano
essere scelti dei luoghi specifici legati alle divinità.
I convitati mangiavano seduti su un seggio, con davanti una
piccola tavola su cui venivano poggiate le vivande;
consumavano principalmente carne e vino miscelato ad acqua.
Erano anche intrattenuti da diverse forme di spettacolo come
gli aedi, che declamavano poesie epiche, o danzatori e
giocolieri.
I Greci, finito il pranzo vero e proprio, cominciavano il
simposio, coronandosi di fiori e cospargendosi di unguenti.
Più raffinati, almeno in questo campo, i Romani cominciavano
col gustus, l’antipasto, generalmente formato di olive e pesci in
salsa piccante; passavano, quindi, al pasto vero e proprio,
durante il quale venivano servite portate diverse, concludendo
poi con le secundae mensae, ovvero frutta e vari prodotti adatti a

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sollecitare la sete. Così come i Greci avevano il simposio, i
Romani, dopo cena, avevano il commissatio e bevevano agli
ordini del Rex convivii.
Nel frattempo progredirono i cuochi, tanto si fecero
competenti ed esigenti i buongustai.
Dopo il crollo dell’Impero Romano, la tavola del medioevo
presentava due aspetti diversi e contrastanti: era parca oltre il
verosimile, in genere tra i religiosi; ricca, varia e abbastanza
fine nei castelli e dove si riunivano le liete brigate.
I Barbari non si smentirono nemmeno a tavola: fatta qualche
eccezione, il loro era un pasto di soldataglie affamate e
assetate. La stessa rozzezza la si riscontrò a lungo nelle
popolazioni, un po’ a causa della generale arretratezza dei
costumi, un po’ per colpa della miseria diffusa. Ma, come già
ricordato, nei castelli dei Signori e sì, anche nei conventi, poco
a poco si cominciò a mangiare meno frugalmente e la cucina
pose i primi passi verso le conquiste dei secoli successivi. Le
pietanze erano aromatizzate con le spezie, portate dai
naviganti dall’Oriente: lo zafferano, il ginepro, la cannella, il
pepe, la noce moscata; comparvero i primi pasticci di carne o
di pesce; si crearono salse piccanti; eccetera.
Fece il suo ingresso nel mondo anche la pasta. Anticamente
conosciuta e consumata dai Cinesi, da noi la prima notizia
certa si può trovare soltanto nella terza novella dell’ottava
giornata del Decamerone. Boccaccio cita infatti dei
maccheroni e dei ravioli, assegnando loro un posto
preminente tra le meraviglie del Regno di Bengodi.
Bizantini, Arabi e Principi cristiani, influenzati dai costumi
d’Oriente, conferirono nuova dignità e raffinatezza alla tavola.
Carlo Magno fu l’ultimo interprete dell’alto medioevo:
mangiava il necessario, con regale sobrietà, senza frastuoni e
allegria. Ma dopo l’anno Mille non ci fu festività che non
venne solennizzata a tavola, ricominciando quello che era il
gusto e l’arte del banchetto.
La qualità delle vivande servite non fu sempre tale da poter
sollecitare il nostro rimpianto, anche se la loro quantità ci

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impressiona ancor oggi. Al banchetto offerto ad Avignone da
Papa Giovanni XXII per le nozze di una pronipote furono
mangiati la bellezza di settecento polli, cinquecentottanta
pernici, duecento conigli, tremila uova, otto buoi,
cinquantadue montoni, quattro cinghiali, otto maiali, duecento
capponi, e furono grattati venti quintali di formaggio.
In altri banchetti, invece, ci colpisce la sontuosità della
messinscena, il fasto del servizio, la ricchezza dei doni ai
convitati, come nel banchetto offerto da Carlo V di Francia a
Carlo IV di Germania, durante il quale venne rappresentata la
conquista di Gerusalemme da parte dei Crociati; o nel
banchetto offerto nel 1368 da Galeazzo Visconti, durante il
quale tutte le diciotto imbandigioni furono accompagnate da
regali diversi, quali gioielli, stoffe, cavalli e cani.
La pasticceria progredì più lentamente. Per lungo tempo fu
coltivata soltanto dalle monache, le quali producevano dolci
semplici, elementari, quasi infantili; alcuni dei quali, tuttavia,
sono giunti fino ai nostri giorni. Ma nel ‘300, in conseguenza
al maggior benessere grazie allo sviluppo dei commerci, anche
la pasticceria si sviluppò e si raffinò. Così, alla fine dei
banchetti, cominciarono ad apparire dolci di proporzioni
spettacolari, rappresentanti castelli, montagne, paesaggi,
spesso con quelle “sorprese” di cui saranno maestri i pasticceri
dei decenni successivi.
Nel Rinascimento, senza mai rinunciare all’abbondanza, si
cercarono la misura, l’armonia e l’eleganza.
Sul finire del ‘400, il menu, pur rimanendo copioso, divenne
anche più organico e meglio congegnato: si partiva con cibi
più delicati (dolci, frutta candita, uova) per passare a piatti di
maggior sostanza, come il pesce e la carne arrostita, gli spiedi
di selvaggina, per poi terminare con frutta e liquori.
Ostriche, frutti di mare, trote, salmoni, lepri, pernici, fagiani,
quaglie, capponi, pesche, asparagi: sono solo alcuni fra i cibi
più apprezzati dell’epoca.
Gli stessi gusti passarono dal ‘400 al ‘500, il secolo della
grande cucina, l’epoca d’oro della gastronomia italiana, non

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ancora traviata dagli spagnoli, né sorpassata dagli abilissimi
francesi. Questi, allora, erano così poco considerati in questo
campo, che Caterina de Medici ritenne opportuno portarsi
con sé non soltanto i cuochi, ma anche i panettieri toscani. I
gusti gastronomici italiani passarono così, trionfalmente, a
Parigi, che assorbendoli, ebbe il merito di ingentilirli e di
imporli all’attenzione del mondo.
Il banchetto, in quest’epoca, assunse gli aspetti di un
grandioso spettacolo. Lo scenografo divenne alleato del
cuoco, e talvolta era l’artista maggiore di Corte a pensare come
abbellire la sala e a studiare le “attrazioni”, come fece ad
esempio Leonardo da Vinci per le nozze di Gian Galeazzo
Sforza con Isabella d’Aragona, nel 1489.
I dolci aprivano e chiudevano il pranzo, alla tavola dei signori
del Rinascimento. Lo zucchero divenne d’uso comune e la
possibilità di servirsene con una certa larghezza favorì
l’affermarsi di quei dolci tipici che ancora oggi conosciamo,
come gli amaretti del Piemonte, il panettone di Milano, i
torroni di Cremona, le fritole di Venezia, i marzapani e i
canditi di Genova, le brassadelle emiliane, le cialde e le
schiacciate di Firenze, i panforti di Siena, i taralli e le pastiere
di Napoli, i cannoli siciliani, e così via. Non si può dire che il
gelato sia stato creato nel ‘500: gli Egizi pare lo conoscessero
già e gli Arabi ne erano ghiotti (non per niente la parola
“sorbetto” è di origine araba), ma la fabbricazione del gelato
con caratteristiche simili a quelle odierne risale proprio a quel
periodo.
Il lusso della tavola giunse a tal punto che alcuni governanti
cercarono di arginarlo, emanando norme che limitassero l’uso
dello zucchero, in particolar modo quello per le decorazioni di
pasticceria. Ma le cose continuarono come prima: non si
rinunciò affatto agli splendori della tavola come non si poteva
rinunciare al palazzo, alla villa, al giardino, alle opere d’arte,
alle vesti sontuose, secondo il costume del tempo. Stupisce
piuttosto che quei gentiluomini e quelle dame stessero così
male a tavola. Il galateo della mensa, infatti, era rimasto molto

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indietro all’evolversi della gastronomia e in generale
all’eleganza della casa e dell’abbigliamento. Monsignor
Giovanni della Casa, col suo Galateo ovvero de’ Costumi, dovette
raccomandare di non sporcarsi troppo le mani, mangiando.
Michel de Montaigne si meravigliò molto quando, ospite ad
un pranzo di nobili, osservò i commensali servirsi del
cucchiaio; la forchetta cominciò solo allora a prendersi il suo
spazio; gli avanzi si gettavano tranquillamente sotto la tavola;
bastava un solo piatto per convitato, anche quando si
servivano pietanze su pietanze. Ma, a parte questo, l’amore
della buona cucina e il piacere di convitare progredirono
continuamente.
Nel ‘600 la tavola era sempre apparecchiata. Mentre nei due
secoli precedenti si erano visti non pochi grandi artisti
occuparsi della mensa, ora se ne occupavano tutti, a
cominciare dai regnanti, dalle loro favorite e da altri
personaggi. Luigi XIII si vantò delle sue abilità gastronomiche
e tenne a far sapere che era in grado di cuocere le uova in
cento modi differenti. Luigi XIV, il Re Sole, quando ordinava
un banchetto ufficiale prevedeva almeno una trentina di
portate, mentre nell’intimità si accontentava di tre minestre,
un paio di arrosti, un buon piatto di prosciutto e poi verdure,
dolci e frutta.
In questo periodo pose le sue basi la cucina classica, il cui
capostipite fu François Pierre de la Varenne, il quale nella sua
opera Le Cuisinier François parlò per la prima volta dei fondi di
cucina e utilizzò per primo il bouquet garni. Iniziarono a essere
tenute in considerazione le carni tenere di animali giovani,
alcune varietà di prodotti ortofrutticoli come cetrioli, cavoli,
verze, cicorie, lattughe, piselli. Vennero introdotte nuove
pietanze e altrettante salse. Si cucinavano ghiotte fricassee di
pollo, si faceva tesoro dei prodotti forestieri, si generalizzava
l’uso di caffè, tè e cioccolato. Anche la pasticceria conobbe un
periodo di grande splendore e di innovazione con la
preparazione di sfoglie, amaretti, cialde e petits fours. In Italia ci
fu il boom della gelateria e della torrefazione del caffè. Nella

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cucina popolare si diffuse il mais. Al contrario della Francia, la
comparsa del pomodoro diede origine alla preparazione di
creme e salse per il condimento della pasta.
Il Reggente Duca di Orléans tenne ad essere - a differenza del
formidabile mangiatore Luigi XIV - un buongustaio e un
rispettabile gastronomo: voleva cibi saporiti ma delicati, non
sdegnava i grandi banchetti nei quali l’arte gastronomica
poteva sfoggiare tutte le sue magnificenze, ma preferiva i petits
soupers, che adunavano poche persone particolarmente gradite
e di palato raffinato.
Luigi XV si vantava di saper fare insuperabili pasticci e creò
un nuovo tipo di pane, che prese il suo nome. Personaggi di
corte, cardinali e persino finanzieri, sull’esempio del Re,
contribuirono direttamente o indirettamente ai progressi della
gastronomia: il consommé e i polli à la Reine furono forse
creazioni di Maria Ledszezynska; le costolette d’agnello e i
filetti di pollo en Belle vue vennero ispirati da Madame de
Pompadour; la béchamel fu creata dal cuoco del finanziere
Béchameil, mentre la maionese prese il nome da Mahon, città
assediata dal Cardinale Richelieu, che proprio là avrebbe
inventato questa celebre salsa.
Il gusto della buona tavola guadagnò anche la borghesia,
mentre celebri cuochi e gastronomi lo arricchirono e lo
nobilitarono. Parmentier introdusse l’uso delle patate, con
convinzione e fantasia. Apparve e trionfò Brillat-Savarin, che
alla trattazione della gastronomia diede luce di cultura, finezza
di gusto, calore di poesia.
Brutalmente, sull’eleganza del ‘700, cadde la scure
insanguinata della Rivoluzione francese. Luigi XVI e la sua
consorte Maria Antonietta d’Austria vennero ghigliottinati e
l’aristocrazia sterminata. La borghesia impose i suoi costumi:
era laboriosa, seria, amava la famiglia e il risparmio, si ispirava
ai gusti e ai decori degli antichi Romani.
Accanto alle locande e alle osterie aprirono i primi ristoranti.
Molte cose cambiarono durante il Consolato e l’Impero, ma i
costumi della vecchia Corte non tornarono più. La nuova

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Corte era ricca, brillante, magnifica, ma non dissipatrice.
Napoleone aveva gusti semplici, soldateschi. La colazione gli
portava via pochi minuti, il pranzo un quarto d’ora, e quando
era a tavola si interessava poco del mangiare: se non si
intratteneva su faccende di Stato, c’era almeno il bibliotecario
che lo informava degli ultimi libri o di ciò che dicevano i
giornali.
Scomparve o quasi la mensa aristocratica e si affermò quella
delle nuove classi produttrici: industriali, commercianti,
finanzieri. L’eleganza della tavola passò dai palazzi alla strada.
Ma in questa grande trasformazione non tutto fu decadenza,
piuttosto evoluzione, adattamento ai tempi, e, in buona parte,
progresso.
La cucina dell’800 fu prevalentemente francese, una grande
cucina, proposta da grandi cuochi e servita da grandi direttori
di sala. Quando si diceva cucina francese ci si riferiva all’alta
cucina, universale, un capolavoro di raffinatezza, armonia,
varietà e buon gusto. Perciò essa conquistò gli alberghi, ormai
frequentati da una clientela internazionale, e con gli alberghi le
famiglie signorili di tutto il mondo.
Uno dei maggiori interpreti della cucina francese fu Marie-
Antoine Carême, il cuoco che al servizio di numerose casate
europee seppe dare impulso, riorganizzazione e inventiva
all’arte culinaria al punto da farla diventare argomento di
discussioni filosofiche. Successivamente, l’incontro di Auguste
Escoffier, chef e genio della cucina, con Cesar Ritz, mago
dell’imprenditoria, portò a sviluppare il concetto di alta
ospitalità: alberghi, treni lussuosi, transatlantici, cominciarono
a crescere in tutta Europa ed Escoffier, oltre a studiare il
funzionamento delle cucine in queste strutture in ogni
dettaglio, inventò piatti nuovi ed estrosi da dedicare a principi
e personaggi famosi, nonché definì il concetto di brigata di
cucina.
Il menu trovò il suo spazio sulla tavola. Dal francese
“minuta”, “lista dettagliata”, ebbe origine sulle tavole di nobili
ricchi e potenti, per poi trasferirsi nel più prosaico uso

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quotidiano della ristorazione pubblica. Nel volume Larousse
Gastronomique del 1938 si menziona La Grande Taverne de
Londres, fondato nel 1782, come il primo ristorante parigino
che introdusse un menu. Quando nell’800 si passò dal servizio
alla francese a quello alla russa, il menu come lista delle
vivande divenne un elemento essenziale per il servizio.
Si cominciava con gli antipasti, le minestre, i pesci, i relevés, le
entrées; si proseguiva con gli arrosti e si concludeva con i dolci
e i dessert. Ogni portata era cucinata secondo regole ormai
tradizionali; la successione delle portate rispondeva
ugualmente a regole frutto di una competenza provata e di
una lunga esperienza. Attenta divenne la scelta dei vini che
accompagnavano le vivande. Razionalmente organizzato,
inoltre, era il servizio negli alberghi e nei ristoranti, con
impeccabili maîtres e camerieri specializzati.
Nel 1900 uscì la prima Guida Michelin, una pubblicazione
nata in Francia, destinata ai primi automobilisti gastronomi,
allo scopo di illustrare le caratteristiche dei ristoranti di qualità
presenti sul territorio.
In Italia, nel 1909, si pubblicò La nuova cucina delle specialità
regionali dove, per la prima volta, si scrissero le ricette delle
regioni italiane.
Il ventennio fascista instaurò poco dopo uno stile di vita
basato sulla frugalità, sulla semplicità e sull’autonomia dalle
servitù straniere. A prescindere dal fenomeno della cucina
futurista, si verificò un certo appiattimento della cucina
nazionale, chiusa nei suoi regionalismi e piuttosto sobria e
aliena da ogni frivolezza e lusso di sorta.
Verso la metà degli anni ‘60, si affermò poi in Francia una
nuova tendenza culinaria, che Henry Gault e Christian Millau,
giornalisti e autori di una serie di celebri guide gastronomiche,
divulgarono come la “Nuova Cucina” francese o Nouvelle
Cuisine, che rifiutava le complicazioni culinarie inutili e
riscopriva la semplicità, riduceva i tempi di cottura, adottava
moderne tecniche culinarie che rispettassero l’integrità dei cibi,
con la scoperta delle cucine straniere ed esotiche; cucinava

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solo ciò che di meglio offriva il mercato del giorno, inventava
nuove ricette, con fantasia e creatività, introducendo nuovi
ingredienti e sperimentando originali accostamenti.
La Nouvelle Cuisine abbandonò i fondi classici, la besciamella e
la farina come legante, esigendo materie prime di ottima
qualità e valorizzando appieno il gusto naturale di ogni
ingrediente. Le verdure venivano cotte al dente, usando
cotture delicate derivate dalle cucine orientali. La cucina era
più leggera.
Uno dei maggiori interpreti di questo filone culinario in
Francia fu Paul Bocuse. In Italia Gualtiero Marchesi.
Dagli anni ‘70 prese il sopravvento anche la riscoperta delle
tradizioni regionali.
Oggi, anche la gastronomia, come tutte le arti, cerca
continuamente il nuovo, nel semplice, nel razionale e, a volte,
nell’irrazionale.
Il nostro tempo ha le ali. Da gente che è occupata tutto il
giorno, e tutto il giorno corre, non si può pretendere ciò che
nonni e bisnonni pretendevano dai clienti e dai ristoratori del
tempo loro. Si ama la tavola, ma non si ama oziare a tavola,
salvo in occasioni speciali, e la leggerezza dei pasti, oltre che
rispondere a un gusto apprezzabile, è divenuta una necessità.
Tutto cambia, nella cucina e nella tavola, in continuazione. E’
una costante evoluzione e rimessa in discussione dei gusti e
degli accostamenti di sapori. Un’inarrestabile contaminazione,
anche culturale. Ma una cosa resterà immutabile: quasi sempre
il piacere di conoscere un Paese, una città, una zona
monumentale, si accompagnerà a quello di scoprire, o
ritrovare, una tavola che abbia determinate attrattive, o
soltanto quella dell’ignoto e della suggestione…

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CREME E SALSE

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Crema Chantilly
La panna montata, in genere zuccherata e aromatizzata, è
conosciuta fin dal XVI secolo, spesso con il nome “neve di
latte”. Ne troviamo menzioni negli scritti di Cristoforo di
Messisbugo (Ferrara, 1549) e di Bartolomeo Scappi (Roma,
1570), e più tardi, di Lancelot de Casteau (Liegi, 1604). Una
ricetta inglese del 1545 prevede l’impiego dell’albume d’uovo
sbattuto.
Tuttavia, l’invenzione della crema Chantilly, così battezzata in
onore del Castello di Chantilly, viene spesso attribuita
erroneamente a François Vatel, che fu al servizio di Nicolas
Fouquet un secolo più tardi.
Il nome crème Chantilly compare all’inizio del XIX secolo e
diventa comune in francese solo alla metà del 1900. Spesso, in
Italia, il termine crema Chantilly si usa per indicare l’amalgama
di panna montata e crema pasticciera, che dovrebbe più
correttamente essere chiamato crema diplomatica o crema
chantilly all’italiana.

Ingredienti per quattro persone:


1/4 di l di panna
30 gr di zucchero a velo
1 pizzico di vanillina (facoltativa)

La panna montata si può preparare con la frusta metallica a mano, con


l’ausilio di uno sbattitore a immersione, oppure, altrettanto bene, con un
frullatore. In ogni caso non bisogna eccedere per non correre il rischio di
vedere la panna trasformarsi in burro. Lo zucchero a velo va prima
passato al setaccio e nella montatura a mano va incorporato non subito
ma quando la panna appare soffice e soda. Dopo aver montato la panna
si può aggiungere, a piacere, la vanillina. Se si usa il frullatore è bene
iniziare la frullatura alla velocità più bassa, aumentandola dopo qualche
minuto; lo zucchero a velo in questo caso va incorporato subito.

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Crema Ganache
La crema ganache, detta anche parigina, deriverebbe il suo
nome da un errore di manipolazione: un apprendista che
aveva versato per errore della panna bollente nel cioccolato
era stato apostrofato dal suo maestro con l’epiteto di ganache
(in francese “maldestro”). Il composto, invece di essere
inutilizzabile, si rivelò delizioso e così si chiamò come il
soprannome del suo inventore.

Ingredienti:
2 dl di panna
1 dl di latte
325 gr di cioccolato fine

Cuocere la panna, mescolata al latte, dentro una casseruola. Quando


bolle, aggiungere il cioccolato grattugiato o diviso in piccoli pezzi.
Mescolare in continuazione con una frusta oppure con una forchetta.
Quando il cioccolato si è completamente disciolto, togliere dal fuoco,
sempre continuando a rimestare, e lasciare raffreddare completamente.
Prima di impiegare la crema, sbatterla nuovamente con una frusta per
renderla spumeggiante e leggera.

Salsa allemanna
Malgrado il nome, si tratta di una salsa francese nota anche
con il nome di salsa parigina o salsa bionda. Sono stati in
molti, negli anni, a rivendicarne la paternità.
Francois Massialot, cuoco di corte di Luigi XIV dal 1638 al
1715, nel 1705 pubblicò per primo la ricetta di un luccio
bollito e servito con sauce d’Allemagne.
Auguste Escoffier, nel 1934, rivendicò la proprietà del nome
sauce parisienne, ma gran parte dei concittadini francesi
continuarono a chiamarla sauce allemande.
Tuttavia, Prosper Montagné, nella prima edizione del 1938

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della sua Larousse gastronomique, descrisse la ricetta come ideata
da Marie-Antoine Carême…

Ingredienti per un litro e mezzo:


4 tuorli d’uovo
1 l di fondo bianco
1 l di salsa vellutata calda
1 dl di acqua di cottura di funghi coltivati
poche gocce di succo di limone

Versare tutti i componenti della salsa in una casseruola agitando con


una frusta. Mettere a fuoco, alzando la fiamma al massimo ed agitare in
continuazione con una spatola di legno. Lasciar ridurre il composto sino
a che diventi sciropposo, aderendo alla spatola stessa. Incorporare a
questo punto 100 gr di burro fresco e lasciarlo sciogliere. Passare il tutto
con una mussola.

Salsa Aurora
Il nome, molto suggestivo, è forse dovuto a uno scherzo
gastronomico di Auguste Escoffier ad Edoardo VII, che alla
fine dell’800 era principe di Galles. Nel menù, il celebre chef,
conoscendo la “debolezza” del principe per le belle ragazze,
inserì le cosce di ninfa alla bella Aurora: si trattava
semplicemente di cosce di rana con una salsa rosata.
Un’altra ipotesi sull’origine della denominazione di questa
salsa chiama in causa il famoso gastronomo francese Jean
Anthelme Brillat-Savarin (1755-1826), il quale avrebbe
dedicato questa salsa a sua moglie Aurora.

Ingredienti per mezzo litro:


4 dl di salsa vellutata o besciamella
1 dl di purea di pomodoro ben densa

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100 gr di burro, a pezzettini

Amalgamare delicatamente alla salsa vellutata (o alla besciamella)


tiepida la purea di pomodori e passare tutto al setaccio. Incorporare
quindi il burro a pezzettini, mescolando con cura e versando in una
salsiera. E’ importante amalgamare con leggerezza, poco per volta, la
salsa di pomodori. È una salsa molto adatta per accompagnare uova,
pollame e carni bianche in generale.

Bagna cauda
La ricetta è tipica del basso Piemonte, in quanto nei secoli
passati era assai facile procurarsi, in questa zona, l’ingrediente
fondamentale, cioè l’acciuga salata. L’antico Piemonte si
approvvigionava presso le saline della Provenza e delle foci
del Rodano, attraverso una serie di rotte commerciali
attraversanti i passi delle Alpi Marittime e note come “vie del
sale” (all’epoca Nizza e dintorni erano infatti dominio
sabaudo). La leggenda vuole che il commercio delle acciughe
salate fosse un modo per commerciare il sale evitando di
pagarne gli elevati dazi: mastelli pieni di sale presentavano, al
controllo dei gabellieri, nella parte superiore, uno strato di
acciughe salate. In realtà in tutto il Piemonte d’antico regime
la gabella del sale era una tassa obbligatoria e non legata al
consumo. Non solo, le acciughe sotto sale erano molto più
costose, e il loro prezzo era sostenibile solo in relazione alle
modeste quantità di acquisto. L’acciugaio era il commerciante
ambulante che con il tipico carro trainato da cavalli o buoi
portava le acciughe in barili e botticelle di legno.
La bagna càuda venne a lungo rifiutata dalle classi più abbienti
le quali la consideravano un cibo rozzo e inadatto a
un’alimentazione raffinata, in particolare per la presenza
dell’aglio. Per questo le notizie scritte su questo piatto sono
piuttosto rare nei testi gastronomici piemontesi. Una prima

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descrizione dettagliata della bagna càuda nella sua versione
attuale si deve a Roberto Sacchetti e risale al 1875.
Molti sostengono che la vera ricetta della bagna càuda
dovrebbe contemplare l’utilizzo dell’olio di noci e non
dell’olio di oliva. Questo perché le coltivazioni di ulivo sono
liguri e non piemontesi. In realtà nel Piemonte meridionale
fino a buona parte del XVIII secolo esisteva una produzione
di olio d’oliva ampiamente documentata e sufficiente al
fabbisogno locale, comunque integrato dal commercio con
Nizza e con la Riviera di Ponente della Liguria, aree
sottoposte al dominio Sabaudo e tradizionalmente fornitrici di
tali ingredienti fin dai tempi dell’Impero Romano. È pertanto
ragionevole assumere come pertinente l’uso dell’olio di oliva
nella bagna càuda. Secondo alcuni la ricetta tradizionale
prevedeva anche una variante più “rustica e povera” con
strutto come frazione grassa.

Ingredienti per quattro persone:


300 gr di olio d’oliva
150 gr di acciughe sotto sale
50 gr di burro
6 spicchi d’aglio

Raschiare con un coltello le acciughe, quindi pulirle con una pezzuola,


aprirle e diliscarle. Affettare sottilmente gli spicchi d’aglio. Nell’apposito
recipiente di terracotta mettere il burro facendolo sciogliere a fuoco basso,
unire l’aglio lasciando che si disfi senza colorire e per ultimo l’olio e le
acciughe, facendo sobbollire sempre a fuoco basso per circa 10 minuti.
Deve risultare come una salsa. Portare in tavola sul fornello e, a piacere,
intingervi verdure crude (cardi, peperoni, verza, cavolfiore, topinambur,
ecc.).

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Salsa bernese
L’aggettivo non si riferisce alla città svizzera di Berna, ma
all’antica regione francese del Béarn. Ma la salsa non ha in
realtà tale origine. La storia infatti narra che il 24 agosto 1837,
il cuoco Collinet, del ristorante Pavillon Henri IV presso
Saint-Germain-en-Laye nella regione dell'Île-de-France,
commise un errore nella preparazione di una riduzione di
scalogno che venne invece emulsionata con l’uovo. Alle
domande dei clienti riguardo al nome dello sconosciuto
condimento, Collinet rispose, ispirandosi al busto di Enrico
IV presente in sala, che si trattava della salsa bernese (sauce
béarnaise), riferendosi alla zona d’origine del sovrano che dava
anche il nome al ristorante.

Ingredienti per quattro persone:


1/2 dl di vino bianco secco
1/2 dl di aceto
1 cucchiaio di scalogno tritato finemente
135 gr di burro
3 tuorli d’uovo
1 pizzico di dragoncello e cerfoglio tritati
1 pizzico di pepe di Cayenna, sale

Versare in una piccola casseruola il vino bianco e l’aceto, porre sul fuoco
molto basso e far ridurre di due terzi. Aggiungere lo scalogno, del burro,
il cerfoglio, il dragoncello, un pizzico di sale e pepe. Lasciare raffreddare,
poi incorporare ad uno ad uno i tre tuorli d’uovo e sbattere la salsa
tenendo la casseruola sul fuoco molto basso (o a bagnomaria). Tagliare il
burro a pezzettini e aggiungerlo poco per volta, mescolando continuamente
con una frusta fino ad ottenere una salsa cremosa. Quando tutto il burro
si sarà amalgamato, passare la salsa al setaccio e completarla, se
necessario, con ulteriore pepe di Cayenna.
Si tratta di una salsa da servire tiepida, adatta per carni e pesci alla
griglia.

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Salsa besciamella
La besciamella si dice sia stata inventata dal cuoco del
finanziere Louis Béchameil de Nointel (1630-1703), maestro
di casa alla corte del re francese Luigi XIV e ne porta il nome.
Secondo altre fonti, fu La Varenne a battezzare la salsa
béchameil, anche se si trovano tracce della salsa nei libri di
cucina italiana del Rinascimento. Diventata di moda, tornò in
Italia rielaborata e raffinata con il nome “balsamella”, forse
perché nell’aspetto e consistenza somigliava a un balsamo.
Alcuni studiosi la fanno derivare dal biancomangiare, già noto
nella cucina italiana e citato in un libro di un anonimo del XIV
secolo, intitolato Liber de coquina.

Ingredienti:
50 gr burro
50 gr farina bianca
1/2 litro latte
sale, noce moscata

Versare il latte in una casseruola e farlo scaldare. Mettere in un


tegamino il burro, porlo sul fuoco e appena sarà sciolto unire la farina
(precedentemente setacciata). Con un cucchiaio di legno mescolare bene
badando che non si formino grumi: unire allora il latte bollente, un
pizzico di sale, una grattatina di noce moscata e lasciare bollire a fuoco
lento, sempre mescolando, per alcuni minuti.

Salsa bolognese
Il termine ragù viene dal francese ragôut, che significa
risvegliare, o meglio bagnare l’appetito, rinnovare il gusto,
dare più sapore. Il ragôut è uno stufato nutriente che include
uno o più ingredienti principali (carne, pesce, selvaggina,
verdure), tagliati a pezzettini e cucinati molto lentamente con
un po’ di grasso, a fuoco lento. In passato, i ragôut venivano

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cucinati sul fuoco o su una cucina a legna chiusa, ed erano
molto ambiti nelle famiglie ricche.
In qualche momento della storia, lo stufato francese divenne il
sugo italiano, e il cibo dei sostanziosi banchetti a base di carne
delle famiglie nobili si trasformò in un metodo che i contadini
utilizzavano per estrarre ogni possibile traccia di sapore anche
dai più scarsi avanzi di carne.
Lynne Rossetto Kasper, autrice di The Italian Country Table,
studiosa esperta delle origini della cultura culinaria del Bel
Paese, fa risalire la diffusione del sugo o ragù alla bolognese al
XVI secolo, proprio nelle corti delle famiglie ricche, che
potevano permettersi di mangiare carne. Ancora oggi, infatti,
il ragù è considerato una preparazione per le occasioni
speciali.

Ingredienti:
150 gr di polpa di maiale o vitello macinata
150 gr di polpa di manzo macinata
100 gr di pancetta di maiale
60 gr di burro
1 cipolla, 1 carota, 1 costa di sedano
1/2 bicchiere di vino rosso
salsa di pomodoro
un po’ di brodo, latte
estratto di carne, sale, pepe

Tritare finemente la cipolla, la carota, il sedano e la pancetta. Versare


tutto quanto in una ciotola, unire le carni e mischiare bene gli ingredienti.
Mettere in una casseruola il burro, soffriggerlo leggermente, quindi unire
il composto preparato e farlo ben rosolare, poi bagnarlo con il vino,
mezzo bicchiere di brodo caldo e un poco di estratto di carne sciolto in
acqua. Quando il brodo sarà consumato aggiungerne un altro mezzo
bicchiere e lasciarlo evaporare. Unire una cucchiaiata di salsa di
pomodoro ben concentrata, sale e pepe; ricoprire la carne con latte
bollente, incoperchiare e cuocerla fino a che il latte sarà consumato.

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Salsa Cumberland
Guglielmo Augusto di Hannover, Duca di Cumberland (1721-
1765), figlio di Re Giorgio II e di Carolina di Brandeburgo-
Ansbach, è noto per la famosa battaglia di Culloden,
attraverso la quale riuscì a domare la rivolta giacobita in Scozia
sconfiggendo Carlo Edoardo Stuart e il suo esercito. La
battaglia fu violenta e brutale e si concluse nel giro di una sola
ora. Sul campo insanguinato di Drumossie Moor morirono
circa 1250 giacobiti, altrettanti rimasero feriti e 376 vennero
fatti prigionieri. Le truppe governative inglesi persero solo 50
uomini e 300 furono i feriti. Al termine dello scontro, il Duca
di Cumberland ordinò di sterminare immediatamente tutti i
feriti agonizzanti sul campo di battaglia, di rincorrere e
uccidere i fuggiaschi e di non risparmiare nemmeno i civili,
donne e bambini, che offrivano aiuto e riparo ai giacobiti
sconfitti. Molti di questi vennero invece catturati, portati in
Inghilterra e stipati in prigioni disumane, torturati, affamati,
umiliati, lasciati morire di stenti.
L’esito della battaglia pose definitivamente fine sia ai piani
degli Stuart di riconquistare il trono inglese, sia al sogno
scozzese di rendersi nuovamente indipendenti dall’Inghilterra.
A seguito delle barbarie commesse durante e dopo la battaglia,
al Duca venne dato il soprannome di “Billy il Macellaio”, e
questa salsa, dal color sangue, è solo una delle numerose
ricette che gli vennero dedicate.

Ingredienti per sei persone:


300 gr di gelatina di ribes
2 scalogni tritati
bucce di 1/2 arancia e 1/2 limone tagliate a julienne
2 cl di porto
succo di 1/2 limone e 1/2 arancia
1 pizzico di senape inglese
1 presa di zenzero in polvere, 1 presa di pepe di Caienna

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Sbollentare in acqua salata la buccia di limone, quella dell’arancia e gli
scalogni. Farli asciugare. Passare la gelatina al setaccio; mescolarla al
porto e ai succhi di limone e arancia. Condire con senape, zenzero e pepe.
Alla fine unire gli scaloni e le bucce in julienne. Servire con selvaggina
fredda da pelo, terrine o prosciutto freddo.

La battaglia di Culloden

Salsa Duxelles
Fu creata da un cuoco al servizio del Casato del marchese
d’Uxelles. La salsa piacque molto e si diffuse in diverse cucine
della Francia fino a prendere un nome proprio: “Salsa
Duxelles”.

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Ingredienti per un quarto di litro:
2 cucchiai di prezzemolo, cerfoglio e dragoncello tritati
1 dl di vino bianco
2 dl di demi-glace
50 gr di funghi coltivati cotti in precedenza

Ridurre di circa due terzi il vino bianco mescolato con il trito di


prezzemolo ed erbe aromatiche. Aggiungere al composto la demi-glacé e
lasciar cuocere per qualche istante prima di passarlo alla stamigna.
Incorporare i funghi tritati e rimettere nuovamente sul fuoco, facendo
prendere il bollore. Prima di servire, all’ultimo momento, si aggiungerà
ancora un cucchiaio di prezzemolo tritato.
La salsa si accompagna a pezzi di carne di media grandezza, pollame e
uova.

Salsa genovese
La salsa genovese (’a genuvese come la chiamano a Napoli) è un
vanto della cucina napoletana.
Diverse sono le ipotesi circa l’origine del nome, anche se la
più accreditata la fa risalire ad alcune osterie insediatesi
nell’area del porto di Napoli nel periodo aragonese (XV
secolo) e gestite appunto da cuochi provenienti da Genova, i
quali erano soliti cucinare la carne in modo da ricavarne una
salsa utile poi per condire la pasta (ancora oggi esiste a
Genova un modo di cucinare la carne tagliata a grossi pezzi
insieme a carota, sedano e cipolla detta u Tuccu).
Va comunque detto che nei ricettari della corte borbonica
(Corradi, Cavalcanti) col termine “genovese” veniva indicata
una salsa più semplice e che quindi, presumibilmente, solo
nella seconda metà dell’800 la ricetta abbia assunto la sua
versione attuale.
Altre fonti storiche, tuttavia, fanno risalire la ricetta ai marinai

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della nave Superba, che sbarcavano a Napoli nel XVIII secolo
portando con sé anche le loro abitudini alimentari.

Ingredienti per sei persone:


1 Kg di carne di manzo, primo taglio oppure lacerto
1 dl di olio d’oliva
50 gr di lardo
100 gr di salame e prosciutto
2 carote
1 pezzetto di sedano
1,5 Kg di cipolle
2-3 pomodorini
prezzemolo
1 bicchiere di vino bianco secco
sale, pepe

Tritare finemente il lardo, le cipolle, il sedano, le carote e il prezzemolo.


Tagliare a dadini il salame e il prosciutto. Mettere la carne in una
casseruola (la tradizione vuole che sia un tegame di coccio, o’ tiano)
insieme al trito di verdure, i dadini di salame e prosciutto, l’olio, il
pomodoro, il sale e il pepe. Coprire e far cuocere a fuoco molto lento,
rimestando di tanto in tanto. Dopo circa 90 minuti le verdure saranno
cotte, quindi alzare la fiamma per far rosolare la carne e le verdure.
Quando saranno rosolate, aggiungere il vino a più riprese far sfumare.
Far completare la cottura della carne, aggiungendo ogni tanto un po’
d’acqua se necessario. Il tutto deve cuocere almeno tre ore e bisogna
controllare di tanto in tanto che carne e cipolle non si attacchino al fondo.

Salsa Gezabele
Nell’Antico Testamento Gezabele (dall’ebraico Izebel) è una
regina d’Israele, la cui storia è narrata nel primo libro dei Re.
Fu una principessa fenicia, figlia del re Ithobaal I di Tiro, che
sposò il re Acab. Ella convinse il marito a disconoscere il Dio

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dei Giudei per dedicarsi alla venerazione di Baal, una delle
principali divinità della mitologia fenicia.
Si tratta di un personaggio negativo dalla fine decisamente
tragica (viene divorata dai cani) e il suo nome è entrato in uso
nella lingua inglese per indicare una donna impudente.
Questa salsa, probabilmente di origine anglosassone, ne
prende il nome.

Ingredienti:
1 vasetto di conserva di ananas
1 vasetto di gelatina di mele
6 cucchiai di preparato di rafano
4 cucchiai di senape in polvere

Mescolare tutti gli ingredienti in una ciotola capiente.


Riporre la salsa ottenuta in vasetti ben chiusi e conservarli in frigorifero.
Accompagna bene arrosti freddi di carne o formaggi cremosi.

Ketchup
Sebbene sia sovente considerato prodotto statunitense per
eccellenza, i natali del ketchup sono orientali. Ketchup in
origine fu una salsa fermentata a base di pesce, soprattutto da
acciughe sotto sale. Ci sono varie ipotesi relative all’etimologia
della parola; il nome potrebbe derivare: dal malese kecap o
kichap, una salsa a base di pesce azzurro macerato e
fermentato; dal cantonese ketsiap, che vuol dire “salsa di
pesce”; o dalla fusione delle parole persiane ket e siap,
“salamoia di pesce”.
Quando nel ‘600 questa salsa sbarcò in Europa, i cuochi
iniziarono a personalizzarla utilizzando svariati ingredienti tra
cui ostriche, funghi, noci, cetrioli e limone. La ricetta del
ketchup moderna, totalmente diversa dalla “salsa di pesce”

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originale iniziò a svilupparsi alla fine del ‘700 quando, negli
Stati Uniti, alcuni cuochi iniziarono a utilizzare il pomodoro
per produrla.
Nacque così nel 1812 il primo tomato ketchup (ketchup di
pomodoro) prodotto da James Mease, di Philadelphia. Ma fu
solo nel 1872 che Henry J. Heinz sviluppò la ricetta del
ketchup che la sua azienda, la Heinz, utilizza ancora oggi. In
contrasto con le consuetudini di allora, Heinz aumentò la
quantità di aceto e di zucchero, aggiunse la cipolla e un mix di
spezie. Questa combinazione di sapori divenne talmente
famosa che gli americani identificarono ben presto il termine
ketchup solo ed esclusivamente con la salsa di Heinz, e da
allora nulla è cambiato in buona parte del mondo.
Negli anni ’30 del ‘900, la ditta di prodotti alimentari Cirio
indisse un concorso nazionale per trovare un nome italiano
che indicasse il ketchup: vinse il nome “salsa rubra” (l’altro
proposto era Vesuvio). La sua ricetta è la versione industriale
d e l bagnet ross tipico del Piemonte, presente sui maggiori
ricettari piemontesi fin dalla fine del 1700. L’espressione salsa
rubra deriva dal latino rubra, ossia “cose rosse”.

Ingredienti:
250 gr di salsa di pomodoro
250 gr di pomodori maturi
200 ml d’acqua
1 bicchiere d’aceto bianco
40 gr di zucchero
olio extravergine d’oliva
1 cipolla bianca
basilico fresco
semi di finocchio
noce moscata
sale, pepe

Tritare qualche foglia di basilico e la cipolla. Riporre i pomodori


sbucciati e tagliati a pezzi, sala di pomodoro e acqua in una pentola con

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un filo d’olio, lasciando cuocere a fuoco basso per circa 30 minuti.
Togliere dal fuoco e passare la salsa con il frullatore a immersione o il
passaverdura, eliminando i residui di buccia o eventuali semini.
Riportare sul fuoco per altri 20 minuti, sempre a calore medio-basso,
avendo cura di mescolare di tanto in tanto con un cucchiaio di legno. A
questo punto aggiungere le spezie, regolare di sale e pepe, e versare l’aceto
continuando a mescolare. Proseguire con la cottura per altri 15-25
minuti per addensare ancora di più la salsa e raggiungere la consistenza
desiderata, sempre a fiamma dolce. Una volta pronto, il ketchup può
essere trasferito in uno o più barattoli di vetro opportunamente
sterilizzati in acqua bollente. Lasciare riposare i vasetti a testa in giù per
una notte e dopo l’apertura conservare in frigorifero.

Salsa maionese
La storia della maionese comincia nel 1700, anche se alcuni
storici affermano che già nel XVI secolo era presente nella
cucina dei minorchini. Fu in quel periodo che il Duca di
Richelieu, Louis François Armand de Vignerot du Plessis de
Richelieu, figlio del pronipote del famoso cardinale, si
appoderò di Mahón, togliendo il dominio dell’isola agli inglesi.
Esistono diverse versioni sul momento e sul modo in cui il
Duca, che diventò poi Generale di divisione, provò la famosa
salsa. Alcuni dicono che, dopo la conquista, Richelieu offrì un
grande banchetto per celebrare la vittoria. Il suo chef di
campo cercò di preparare una salsa di crema e uova quando,
visto che non riusciva a ottenere nessun risultato, decise di
ricorrere alla miscela di olio d’oliva e uova che aveva visto
preparare sull’isola. Il successo fu totale e la salsa fu chiamata
Mahonnaise, in ricordo di Mahón. Per lo storico Mascaró
Pasarius, tuttavia, fu un cuoco di Mahón a servire al Duca di
Richelieu un’improvvisata salsa fatta con uova e olio.
L’aristocratico, secondo questa ricostruzione, ne restò così
soddisfatto che quando fece ritorno in Francia la incorporò

37
Louis François Armand de Vignerot du Plessis de Richelieu

38
alla cucina del suo Paese.
Un’altra delle teorie attribuisce la scoperta di questa salsa
addirittura all’amante occasionale del Duca, un’illustre dama
minorchina che ossequiava con questa salsa i loro incontri
clandestini. Il risultato è lo stesso che nei casi precedenti,
anche se secondo questa versione, il nome che Richelieu
promise di dare alla squisita salsa si doveva alla condizione di
“mahonese” (abitante di Mahón) della dama.
Il primo documento scritto della ricetta della salsa si trova nel
manoscritto spagnolo Art de la Cuina, libre cuina menorquina del
s. XVIII di Fra Francesco Roger, un monaco francescano del
Real Monasterio de Santa Clara. Il nome della salsa in questo
testo era aioli bo.
Secondo altre fonti, il nome sauce Mayonnaise deriverebbe
invece dal nome di Carlo di Guisa, duca di Mayenne. Sarebbe
stata battezzata Mayennaise in ricordo del fatto che il duca di
Mayenne si concesse il tempo di finire il suo pasto di pollo e
salsa fredda prima di affrontare Enrico IV nella battaglia di
Arques (1589), nella quale il duca risultò sconfitto.
Un'ulteriore teoria fa riferimento alla città francese di
Bayonne; mayonnaise sarebbe in questo caso una modificazione
d i bayonnaise. È invece da escludersi che l'origine del nome o
della salsa mayonnaise siano collegati alla città di Mayenne,
sempre in Francia, in quanto le notizie dell'uso di tale
preparazione sono precedenti alla fondazione di tale
insediamento urbano.

Ingredienti:
100 gr olio d’oliva
1 uovo
1/2 limone (o 1 cucchiaio scarso di aceto bianco)
sale, pepe

Versare in una terrina un tuorlo, un pizzico di sale e pepe: con una


piccola frusta (in mancanza di questa con un cucchiaio di legno) sbattere
bene unendo goccia a goccia un poco di olio; quando il composto comincerà

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ad addensarsi troppo, aggiungere qualche goccia di succo di limone
(oppure aceto) poi ancora qualche goccia di olio, continuando così,
alternandoli, sino ad aver messo tutto l’olio e il succo di limone.
Ricordare che l’olio addensa la salsa e il succo la diluisce.

Salsa Mornay
Come avviene per molte ricette, c’è un dibattito molto acceso
a tal proposito. Si dovrebbe pensare intuitivamente che
l’inventore sia il Duca di Mornay, eppure c’è chi non è
d’accordo. Filippo di Mornay visse tra il 1549 e il 1623 e fu
governatore e signore della tenuta di Plessis-Marly, oltre che
scrittore e apprezzato diplomatico. Il fatto che sia vissuto a
cavallo tra il XVI e il XVII secolo, però, pone delle domande
importanti: anzitutto, in una tavola imbandita di quel periodo
una salsa di quel tipo poteva essere solamente una vellutata,
dato che la besciamella non era stata ancora concepita come
tale. Della salsa Mornay non si parla nemmeno nella decima
edizione de Le cusinier Royal (1820), una vera e propria
enciclopedia gastronomica su cui si fa grande affidamento
quando c’è bisogno di ricostruzioni storiche.
Inoltre, questa preparazione non dovrebbe essere più antica
d e Le Grand Véfour, antico ristorante parigino sorto nel XIX
secolo, locale in cui la salsa è comparsa per la prima volta in
via ufficiale. Nella Parigi dell’epoca, quella di Carlo X, il nome
Mornay apparteneva soltanto a due uomini: il marchese di
Mornay e suo fratello, il conte Charles. Queste persone
vengono citate nelle memorie di Lady Belessington che
ricostruiscono la vita nella capitale francese tra il 1828 e il
1829. E’ quindi molto probabile che la salsa, una volta
inventata, fosse stata dedicata ai fratelli Mornay.

Ingredienti:
1 l di besciamella
3 tuorli d’uovo

40
2 dl di panna
50 gr di parmigiano o gruviera grattugiato

Sciogliere i tuorli nella panna prima di porre a fuoco. Incorporare poi la


besciamella ben calda. Lasciar cuocere per qualche minuto. Ritirare dal
fuoco e aggiungere il formaggio.

Salsa olandese
Alcuni storici credono che sia stata inventata nei Paesi Bassi e
in seguito portata in Francia dagli Ugonotti.
Nel 1651, François Pierre La Varenne descrive una salsa simile
nel suo libro di cucina Le Cuisinier François: “Avec du bon
beurre frais, un peu de vinaigre, sel et muscade, et un jaune
d’œuf pour lier la sauce” (“con del buon burro fresco, un po’
di aceto, sale e noce moscata, e un tuorlo d’uovo per fissare la
salsa”).
La salsa che utilizzava tuorli d’uovo e burro apparve però solo
nel XIX secolo e diverse fonti affermano che all’inizio era
conosciuta come “salsa Isigny” (una cittadina in Normandia
nota per la qualità del burro).

Ingredienti per sei persone:


3 tuorli d’uovo
250 gr di burro
3 cucchiai d’acqua
succo di 1/4 di limone
sale, pepe bianco

Mettere in un saltiere i tuorli d’uovo sciogliendoli con l’acqua fredda.


Porre a bagnomaria, o in un canto della piastra di una stufa non
eccessivamente calda. Iniziare a sbattere con una frusta il composto, così
da ottenere a mano a mano che procede l’operazione una crema spessa e
spumeggiante. Dopo alcuni minuti, con un piccolo mestolo, incorporare a

41
poco a poco alla salsa che si va formando il burro in precedenza fuso,
avendo l’accortezza che esso risulti appena tiepido. Continuare a sbattere
senza fermarsi. Aver cura pure di scartare il fondo cremoso che
inevitabilmente appare sul fondo del recipiente dove si è fuso il burro. La
salsa che dopo una ventina di minuti si sarà ottenuta dovrà risultare
molto cremosa, ma anche assai consistente, così da avvolgere
completamente un cucchiaio che vi si immerga.
Aggiungere all’ultimo momento sale, pepe bianco e il succo di limone.
Passare il tutto con una stamigna sottile, mettere in caldo a bagnomaria,
ma a calore assai moderato, ché, altrimenti, la salsa impazzirebbe.

Salsa Robert
Salsa creata in epoca medievale da un certo Robert, cuciniere
dell’abate di Saint-Germain-des-Prés.

Ingredienti per mezzo litro:


1/2 litro di brodo di carne caldo (o di dado)
1 cipolla tritata finemente
1/4 di litro di vino bianco secco
20 gr di farina
50 gr di burro
1 cucchiaio di senape francese

Fare rosolare, a fuoco lento, la cipolla con del burro in una casseruola, in
modo che la cipolla cuocia senza colorire; bagnare con il vino bianco e
lasciarlo evaporare quasi completamente prima di aggiungere il brodo
caldo. Se la cipolla non si è disfatta del tutto, passare la purea al setaccio.
Far cuocere a fiamma moderata ancora per dieci minuti. Amalgamare
bene in una ciotola il burro rimasto con la farina e aggiungerli al resto.
Da questo momento continuare a mescolare e far cuocere per altri
quindici minuti circa, prima di unire la senape; mescolare con cura e
servire. Si accompagna bene a carni di maiale o agnello, cotte al forno o
alla griglia.

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Charles de Rohan, principe di Soubise

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Salsa Soubise
Questa preparazione deve i suoi natali al Maresciallo di
Francia Charles de Rohan, principe di Soubise, che come altri
nobili del ‘700 non disdegnava di occuparsi di arte culinaria. I
pettegoli suoi contemporanei lo giudicavano migliore “quando
si occupava di batterie da cucina anziché di batterie di
cannoni”: fu infatti sconfitto da Federico il Grande.
Comunque, sia che le sue imprese guerresche fossero di poco
rilievo, sia che la sua salsa fosse decisamente squisita, il nobile
nome di Soubise è passato alla storia per la salsa alla cipolla,
ormai nell’olimpo dell’alta cucina, che insaporisce e nobilita
tante pietanze.

Ingredienti:
300 gr di cipolle
1/2 l di besciamella
1 dl di panna
30 gr di burro
sale, pepe

Tritare le cipolle, sbollentarle in acqua salata e poi farle brasare nel


burro. Versarvi sopra una besciamella densa, far cuocere ancora per
qualche minuto. Salare e pepare, quindi passare al setaccio. Riscaldare
nuovamente la salsa, completarla con panna.

Salsa spagnola
Si chiama spagnola, ma non perché contiene ingredienti
tipicamente iberici.
La ricetta della salsa fece la sua comparsa nel libro Le Cuisinier
Moderne di Vincent La Chapelle, pubblicato nel 1733, ma
potrebbe essere più antica.
Luigi XIII e Luigi XIV avevano sposato principesse spagnole,
per mantenere la pace. Luigi XV fu promesso sposo di una

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giovane cugina spagnola, anche se l’impegno venne poi rotto.
Probabilmente il suo nome ebbe origine da una di queste
“alleanze”: una salsa scura che poteva ricordare la carnagione
olivastra degli abitanti di Spagna, creata da un cuoco alla corte
francese per benedire l’unione tra le due potenze…
Secondo Larousse Gastronomique, la ricetta classica della
spagnola è quella codificata da Carême.

Ingredienti per due litri:


250 gr di roux bruno
4 l e mezzo di fondo bruno chiaro
100 gr di carote
50 gr di cipolle
50 gr di lardo
1 mazzetto di timo e 1 figlia di alloro
1 dl di vino bianco
250 gr di pomodoro concentrato oppure 1 kg di pomodori freschi

Fare una mirepoix con le cipolle, le carote e il lardo. Aggiungere l’alloro e


il timo. Quindi, far rosolare il tutto in una marmitta. Bagnare,
deglassando, con vino bianco; aggiungere il roux e il fondo bruno, in
precedenza riscaldati. Lasciar cuocere a fuoco molto basso per due ore,
sgrassando e schiumando in superficie, in continuazione. Ultimata la
cottura, passare con un colino fine. Mettere nuovamente a cottura per
circa due ore, sempre schiumando e sgrassando il liquido in superficie.
Passare ancora e lasciar raffreddare, rimescolando con una spatola sino a
che il liquido si sia completamente raffreddato. Il giorno dopo porre di
nuovo sul fuoco, per altre due ore, aggiungendo però alla salsa, che va
formandosi, 250 gr di pomodoro concentrato, oppure 1 kg di pomodori
freschi. Passare e conservare la salsa al freddo. Essa resisterà da 8 a 14
giorni, se verrà mantenuta in frigorifero.
Nel caso si volesse preparare una salsa spagnola in minor tempo, è
permesso aggiungere il pomodoro già alla seconda cottura. La salsa
risulterà in questo caso meno concentrata e si conserverà per un minor
numero di giorni.

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Salsa suprema
Il termine “suprema” deriva dal superlativo latino supremus, (da
superus, al di sopra), che significa “al di sopra di tutto”.
Pierre-Marie-Jean Cousin de Courchamps, nel 1853, nel suo
dizionario di cucina, descrisse per la prima volta questa salsa,
arricchita con un uovo e aromatizzata con succo di limone o
con una specie di aceto chiamato “agresto” in francese, vertjus o
succo verde.
La ricetta è poi stata ripresa e modificata negli anni da
Escoffier, Montagné, Ducasse, ecc.
Giuseppe Verdi, quando mangiava al ristorante, si dice
ordinasse spesso cappone lesso con una salsa suprema di
cappone, arricchita con fumetto di tartufo.

Ingredienti per un quarto di litro:


1/4 di l di consommé di pollo
30 gr di burro
40 gr di farina bianca
1/2 bicchiere di panna fresca
sale, pepe

Filtrare il consommé di pollo, sgrassarlo solo parzialmente, metterlo in


un tegame e portarlo a ebollizione a fuoco moderato. Mettere intanto in
un tegamino il burro e farlo sciogliere. Unire la farina e lasciar cuocere
per circa quindici minuti a fuoco basso, mescolando col cucchiaio di legno
senza lasciar colorire, ottenendo un roux bianco. Aggiungere al roux
ottenuto il brodo caldo, un po’ alla volta, mescolando continuamente fino
a ottenere una salsa liscia e omogenea. Regolare il sale e aggiungere un
pizzico di pepe. Far cuocere sempre a fuoco moderato per circa venti
minuti, fino a quando la farina sarà ben cotta, quindi aggiungere poco
per volta la panna, sempre mescolando, sino a quando la salsa sarà di
giusta consistenza.
Questa salsa va servita caldissima, con riso bollito al burro crudo o carni
bollite; è la salsa tradizionale per la gallina lessa.

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Salsa vellutata
Una delle prime apparizioni di questa salsa è nel ricettario di
Sabina Welserin, del 1553.
La ricette più famose sono quelle di Escoffier, redatta nel
1934 e di Prosper Montagné redatta nel 1938, che la vogliono
bianca e pura per eccellenza.
Giuseppe Verdi, quando mangiava al ristorante, richiedeva
spesso il cappone lesso con una salsa suprema di cappone
arricchita con fumetto di tartufo.

Ingredienti per mezzo litro:


70 gr di burro
30 gr di farina
3/4 di litro di brodo chiaro di pollo o vitello
sale, pepe bianco

Far sciogliere in una casseruola il burro e incorporare velocemente la


farina; mescolare in continuazione con un cucchiaio di legno, lasciando
cuocere fino a quando il composto sarà di un colore giallo molto pallido:
ottenere così un roux biondo. Diluire il composto con metà dose
abbondante di brodo molto caldo e, sempre mescolando, completare con un
pizzico di sale e poco pepe. Continuare la cottura ancora per circa
mezz’ora a fuoco basso, aggiungendo via via il brodo caldo rimasto e
mescolando in continuazione con il cucchiaio di legno. La salsa dovrà
avere la consistenza di una crema. Passarla quindi al setaccio e farla
raffreddare mescolando spesso, perché non si formi la pellicina in
superficie.

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INSALATE

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Caesar salad
Cesare Cardini (1896-1956), originario del Lago Maggiore,
come molti altri italiani della sua epoca, era emigrato in
America per trovare fortuna e sviluppare la propria idea di vita
e libertà, insieme ai fratelli Alessandro e Caudencio. Tutti e tre
si impegnarono in attività nel campo della ristorazione, prima
in Messico e successivamente negli Stati Uniti.
Poco più che ventenne aprì un ristorante a Sacramento, poi un
locale a San Diego in California. Per aggirare le restrizioni
dovute al Proibizionismo, contemporaneamente gestì anche
un locale in Messico, a Tijuana.
Era forse il 4 luglio 1924, giorno dell’Indipendenza, quando il
genio di Cardini compose, avendo a disposizione solo pochi e
semplici ingredienti, una delle insalate più famose e apprezzate
del mondo, che prese appunto il suo nome (e non come in
certi casi si pensa quello dell’Imperatore romano Giulio
Cesare).
Una volta sposatosi, si trasferì con la famiglia a Los Angeles
nel 1935 e da quel periodo la sua attività si focalizzò sulla
produzione e commercializzazione del suo fortunato
condimento per l’insalata, registrato come marchio nel 1948.

Tostare alcune fette di pane in cassetta, strofinarle con aglio e tagliarle a


cubetti. Mettere in una bowl dell’invidia romana o delle foglie di cuore di
lattuga e unirvi il pane. In una seconda bowl aggiungere sale, limone,
senape e legare con olio d’oliva. Mettere un tuorlo d’uovo alla coque (1,5
minuti), delle acciughe pestate con una forchetta e versare il tutto
sull’insalata, mescolandola ripetutamente. Servire spolverando con
formaggio grattugiato.

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Insalata russa
Questa insalata, nota in tutto il mondo, sarebbe stata creata
intorno alla seconda metà dell’800 da Lucien Olivier, cuoco
francese di origine belga, nelle cucine del ristorante Hermitage
di Mosca, dove proponeva piatti della tradizione francese
adattati al gusto russo. Detta “insalata Olivier”, era il piatto
simbolo del locale.
Il ristorante, visto il successo del piatto, desiderava
mantenerne l’esclusiva e cercò di tenere segreta la ricetta.
All’inizio del XX secolo, un dipendente dell’Hermitage,
andando a lavorare presso un altro ristorante, portò con sé
anche la ricetta, che si cominciò così a servire con il nome di
“insalata della capitale” (in russo Stolychny). Successivamente, la
ricetta fu pubblicata da alcune case editrici, diffondendosi
sempre più. Una volta diffusasi, il piatto subì un’evoluzione
che lo portò gradualmente a rassomigliare a quello che si
prepara oggi.
Secondo alcuni studiosi, però, prima di arrivare in Russia, tale
insalata si diffuse in Francia nel periodo di Caterina de’
Medici, lì trasferitasi nel 1533 con i propri cuochi al seguito;
essi introdussero alcune ricette della propria patria; il piatto
avrebbe in questo caso un’origine italiana.
In base ad altre fonti, il piatto fu inventato dal cuoco di corte
dei Savoia, in occasione della visita dello zar in Italia, alla fine
dell’800. Il piatto sarebbe stato preparato con prodotti
comunemente coltivati in Russia come le carote e soprattutto
le patate; la ricetta non avrebbe previsto l’uso della maionese
ma della panna, a rappresentare la neve, tipica del clima russo.
Lo zar avrebbe poi portato con sé la ricetta e il piatto sarebbe
divenuto rapidamente molto noto. In effetti, in Francia è
chiamata “insalata piemontese” una variante dell’insalata russa
che prevede l’uso di pomodori freschi. Successivamente,
secondo questa versione, si sarebbe diffusa anche in Europa,
ma modificata con l’uso della maionese al posto della panna.
L’insalata russa come si prepara in Italia è diversa rispetto a
quella preparata in Russia e ciò dipenderebbe, secondo

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un’altra ipotesi sull’origine del nome, dal fatto che il termine
“russa” derivi dal servizio alla russa e non dalla provenienza…
Sta di fatto che quest’insalata cominciò a diffondersi in Italia
alla fine dell’800, come prova la ricetta inserita nel libro di
cucina Re dei cuochi, edizione 1868. Anche Pellegrino Artusi la
inserì nella sua opera La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene e
Ada Boni la riportò nel Talismano della felicità (1929).

Ingredienti per sei persone:


ortaggi di stagione lessati (3-4 patate di media grandezza, 2 carote, 1
piccola cima di cavolfiore o di broccolo oppure 2 zucchine, 1 pugno di
fagiolini)
sale, pepe
olio, aceto
1 cucchiaio di capperi
cetriolini sott’aceto
2-3 acciughe
1-2 cucchiai di aceto al dragoncello
maionese
senape inglese (facoltativa)

Raccogliere tutti gli ortaggi, lessati e tagliati in piccoli pezzi, in una


insalatiera e condirli con sale, pepe, olio, aceto e, se si vorrà, mezzo
cucchiaino di senape inglese sciolta in un dito d’acqua. Nell’insalata
unirvi anche una cucchiaiata di capperi, qualche cetriolino in fettine, due
o tre acciughe lavate, spinate e tagliate in filettino, e un’abbondante
cucchiaiata di aceto al dragoncello.
Se si dovrà servire la sola insalata russa, mischiare in essa qualche
cucchiaiata di maionese, accomodarla a cupola in un piatto, ricoprirla di
salsa maionese e decorarla con cetriolini, capperi, uova sode e acciughe.

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Insalata Sisto V
Il marchigiano Felice Peretti salì al soglio di Pietro il 24 aprile
1585 con il nome Sisto V; apparteneva all’ordine dei frati
minori conventuali. Prima di diventare uno dei più energici
Papi della Controriforma, riformatore dell’amministrazione e
delle finanze pontificie, quando era ancora un oscuro monaco,
ebbe come migliore amico un giovane avvocato. Da quando
Peretti divenne Papa, tuttavia, pare si sia dimenticato
dell’amico, che cadde progressivamente in povertà. L’avvocato
decise dunque di andare a chiedere a Peretti se poteva aiutarlo
in qualche modo, ma sfortunatamente si ammalò, fors’anche
per altri dispiaceri. Pregò il medico che si occupò di lui di
informare il Papa del suo triste stato di salute e finanziario.
Sisto V, giunto a conoscenza della situazione del vecchio
amico, gli fece recapitare un’insalata, tradotta in un semplice
cesto di lattuga: quando questo venne aperto, tra le foglie
apparvero anche numerose monete e l’amico “guarì”
miracolosamente. Da qui il vecchio detto, in merito all’aiuto
agli indigenti: “Ci vorrebbe l’insalata di Sisto V!”.
Nel periodo d’oro americano della creazione di insalate
elaborate, uno chef di Chicago inventò l’Insalata Sisto V,
ispirandosi proprio a questa leggenda. Nel suo libro di ricette
accompagnò quella di quest’insalata con una nota: “opportuna
per una cena in cui dignitari della Chiesa cattolica si vogliano
divertire”.

Ingredienti per quattro persone:


lattuga
3 tazze di verdure cotte tagliate a dadi (bietole, patate, cetrioli, carote,
pomodori, zucchine)
4 uova sode
maionese q.b.
2 cucchiaini di senape

Mettere la lattuga in quattro piatti. Distribuire sopra l’insalata alcuni


cucchiai di verdure. Rimuovere i tuorli dalle uova sode e metterli da parte.

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In una piccola ciotola, inserire i bianchi tritati e mescolarli con della
maionese e con la senape. A piacere allungare con un po’ d’acqua in base
alla consistenza desiderata. Porre sull’insalata alcune cucchiaiate della
salsa ottenuta e grattugiarvi sopra i tuorli d’uovo. Servire.

Perfection salad
Nel 1905, il fondatore della fabbrica di gelatine Knox, Charles
Knox, lanciò un concorso di cucina con la docente e autrice
Fannie Merritt Farmer della Boston Cooking School come
uno dei membri della giuria. Il terzo premio (una macchina da
cucire) venne vinto da John E. Cooke di New Castle,
Pennsylvania, con la ricetta della Perfection salad. Il motivo per
cui venne battezzata con il nome “perfezione” è ignoto, ma
accolse fin da subito il favore del pubblico e diventò ben
presto un classico.

Ingredienti:
1 foglio di gelatina
1/4 di tazza di zucchero
1/2 cucchiaino di sale
1 buon bicchiere d’acqua
1/2 tazza di aceto
1 cucchiaio di succo di limone
1/2 tazza di cavolo tritato (rosso o verde)
1 tazza di sedano tritato
2 cucchiai di peperoni rossi o verdi tritati
maionese q.b.

In una casseruola mettere la gelatina, lo zucchero e il sale. Aggiungere


1/4 d’acqua. Porre sul fuoco a calore basso, mescolando costantemente
fino a quando la gelatina non si sarà dissolta. Rimuovere dal fuoco e
unirvi la restante acqua, l’aceto e il succo di limone. Miscelare a freddo
fino a raggiungere la coerenza degli albumi sbattuti. Unire il cavolo, il

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sedano e i peperoni. Miscelare e mettere il composto in uno stampo.
Lasciare in frigorifero per alcune ore, sformare e servire con maionese.

Waldorf salad
Parti uguali di sedano rapa e mela, con la sola aggiunta di
maionese: questa è la ricetta originale dell’insalata ideata da
Oscar Tschirky, maître presso l’Hotel Waldorf-Astoria di New
York, intorno al 1893. Si racconta che Tschirky preparò
questo semplicissimo piatto come delicato intermezzo fra le
numerose portate di un ricco pranzo privato, organizzato dalla
moglie di un famoso magnate del tempo a favore di un
orfanotrofio. Questa essenziale ma raffinata insalata riscosse
un enorme successo, tanto da entrare nel menu dell’albergo e
divenne subito il piatto più richiesto, soprattutto nei pranzi di
lavoro.
Nel 1896 apparve nel ricettario The Cook Book by Oscar The
Waldorf, scritto dallo stesso Tschirky; mentre nel diffusissimo
The Rector Cook Book (1928), del ristoratore George Rector, fu
ufficialmente inserita la versione con le noci, che divennero
così uno degli ingredienti canonici. A riprova del successo di
questa ricetta, l’insalata fu anche citata dal grande jazzista e
compositore Cole Porter in una canzone, You’re the Top, dove
la Waldorf Salad appare nella lista delle eccellenze (“top”
appunto) al pari del Museo del Louvre e dei sonetti di
Shakespeare.

Ingredienti per sei persone:


300 gr di sedano rapa
300 gr di mele renette
maionese q.b.

Pelare le mele e tagliarle a piccoli dadi, facendo attenzione a non lasciare


eventuali semi. Fare lo stesso con il sedano e mescolarlo con le mele in

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una insalatiera. Condire il tutto con una buona maionese. Insaporire con
eventuale sale e pepe. Lasciare l’insalata in frigorifero per qualche tempo,
quindi presentarla ai commensali.

Lo storico Waldorf-Astoria Hotel

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ANTIPASTI

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Cocktail di gamberi
L’unione tra crostacei e salse è molto antica: da sempre i
cuochi si sono dilettati per rendere più ricchi e interessanti i
sapori del mare. Il cocktail di gamberi ha però origini
moderne, sembra infatti che la sua diffusione sia stata dovuta
alla cucina inglese degli anni ’50/’60, quando realizzò la salsa
cocktail per esaltare il sapore dei gamberi. Un decennio più
tardi il successo divenne subito molto vasto e in America
come in gran parte d’Europa, era difficile trovare un ristorante
che non proponesse questo antipasto.

Ingredienti per quattro persone:


20 gr di Worcestershire Sauce
15 gr di cognac
5 gr di senape dolce
100 gr di ketchup
2 tuorli a temperatura ambiente
25 ml di succo di limone
250 ml di olio di semi
3 gr di aceto di vino bianco
gamberi
sale, pepe
6 foglie di lattuga per decorazione

Prendere le uova a temperatura ambiente e dividete i tuorli dagli albumi.


Porre i tuorli in una ciotola dai bordi alti e salare e pepare a piacimento.
Versare l’aceto e incominciare a lavorare gli ingredienti con una frusta.
Mentre si stanno montando le uova, versare anche l’olio di semi a filo
molto lentamente; mescolare sempre nello stesso senso fino ad ottenere una
salsa densa (per non far impazzire la maionese bisogna evitare di
aggiungere troppo olio in una volta, impedendone la corretta emulsione
con il tuorlo). Quando la maionese è montata, terminare aggiungendo il
succo di limone; lavorare ancora con la frusta fino ad ottenere una
consistenza omogenea e compatta. A questo punto aggiungere il ketchup,
mescolare bene con la frusta e unire anche la Worcestershire Sauce.
Aggiungere il cognac e la senape e mischiare delicatamente il tutto: la

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salsa ottenuta dovrà risultare densa; porla per almeno 1 ora in
frigorifero. Procedere con la pulizia dei gamberi: per prima cosa
sciacquarli sotto l’acqua corrente e poi asciugarli con carta da cucina.
Staccare la testa e il carapace. Una volta puliti esternamente, eliminare
l’intestino interno (ovvero il filamento nero), tirandolo delicatamente con
delle pinze da cucina, cercando di non romperlo. Far bollire i gamberi per
2-3 minuti in una pentola con abbondante acqua. Quando saranno
pronti, scolarli e farli raffreddare in una ciotola capiente con acqua e
ghiaccio. Versare i gamberi ormai freddi nella salsa cocktail preparata e
mescolare bene con un cucchiaino in modo che la salsa si distribuisca in
maniera omogenea. Lavare la lattuga sotto abbondante acqua fresca
corrente ed asciugare le foglie con della carta da cucina. Tagliarla
finemente, tenendone da parte qualche foglia intera per la decorazione
finale. Porre la lattuga tagliata in 4 coppette e adagiare i gamberetti con
la salsa cocktail. Terminare aggiungendo le foglie intere tenute da parte e
infine servire e gustare.

Coxinha
La coxinha è un antipasto tipico brasiliano. Il termine coxinha,
che in portoghese significa “piccola coscia di pollo”, sta ad
indicare la forma di questi bocconcini che assomiglia appunto
ad un cosciotto.
Due le storie che accompagnano l’origine del piatto: la prima
riguarda l’idea di realizzare delle finte cosce di pollo fritte
giunta al cuoco della famiglia reale brasiliana, il quale si trovò a
dover assecondare i capricci del piccolo erede al trono che
voleva mangiare cosce di pollo anche quando non erano
disponibili.
La seconda storia, più credibile, indica che la coxinha, nella
sua forma attuale, ha le sue origini nel XIX secolo, nella
Regione Metropolitana di San Paolo, sviluppandosi poi
durante l’industrializzazione (anni 1950 circa), per essere
commercializzata ai cancelli delle fabbriche come sostituto più

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economico delle cosce di pollo tradizionali. Arrivata nel cuore
della città di San Paolo, la coxinha si diffuse infine
rapidamente nel resto del Brasile.

Ingredienti per quattordici pezzi:


300 gr di petto di pollo
1 carota
1 costa di sedano
1 cipolla
2 cucchiai di passata di pomodoro
2 spicchi d’aglio
2 cucchiai di prezzemolo tritato
2 foglie di alloro
olio extra vergine d’oliva
sale, pepe

Per la pasta
400 ml di brodo di pollo
250 gr di farina
125 ml di latte intero
50 gr di burro
1tuorlo

Per la pastella
50 gr di farina
75 ml di latte intero

Per impanare
pangrattato

Tagliare a bocconcini il petto di pollo. Sbucciare la cipolla e tagliarne


metà, lavare e pelare la carota e tagliarla a pezzettoni, infine lavare e
tagliare a pezzettoni anche il sedano; porre pollo e verdure in un tegame
alto, unire due foglie di alloro, uno spicchio d'aglio e versare l’acqua fino
a coprire gli ingredienti e salare. Far bollire il pollo fino a che la carne
non risulterà bianca e tenera. Quando il pollo sarà bollito, scolare i

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bocconcini di pollo (avendo cura di conservare il brodo che servirà per la
pasta che avvolgerà il ripieno) e tritarli finemente con un coltello oppure
con l’aiuto di un mixer. Far soffriggere in due cucchiai d’olio uno spicchio
d’aglio schiacciato o tritato finemente e lasciar insaporire l’olio.
Aggiungere la mezza cipolla tritata, farla appassire almeno 10 minuti e
poi aggiungere la salsa di pomodoro, far cuocere qualche minuto e
incorporare il pollo tritato. Salare e pepare a piacere. Aromatizzare il
ripieno con il prezzemolo e tenerlo da parte a raffreddare. Ora preparare
la pasta che avvolgerà il ripieno; far sciogliere il burro in un tegame.
Aggiungere il brodo di pollo precedentemente ricavato. Versare il latte a
temperatura ambiente e portare tutto ad ebollizione. Aggiungere la farina
setacciata e mescolare velocemente con una frusta mentre il tutto continua
a cuocere a fuoco basso fino a quando la farina non avrà assorbito i
liquidi e l’impasto si staccherà dalla pentola e risulterà ben compatto.
Lasciare intiepidire e amalgamare infine il tuorlo all’impasto. Ora
comporre le coxinhas: prendere una porzione d’impasto delle dimensioni
del palmo di una mano, circa 50 gr. Con il pollice dell’altra mano
formare una cavità al centro e farcire con il ripieno, circa 10 gr. Chiudere
la pallina avvolgendo il ripieno con l’impasto e dare la forma di una
coscetta. Gli ingredienti indicati sono sufficienti per 14 coxinhas. Ora
preparare una pastella con il latte e la farina setacciata e porre il
pangrattato in una ciotola ampia. Impanare ciascuna coxinha prima
nella pastella e poi nel pangrattato. Quando l’olio sarà caldo (per
verificare che l’olio sia arrivato a temperatura fare la prova dello
stecchino: immergere la punta di uno stecchino nell’olio, se si vedrà che
comincerà a friggere allora sarà sufficientemente caldo) iniziare a friggere
le coxinhas ad una ad una per qualche minuto, o fino a quando si dorerà
la panatura. Scolarle e metterle a sgocciolare su un vassoio rivestito di
carta assorbente. Servire le coxinhas ben calde.

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Dolmades
L’usanza di preparare foglie verdi ripiene è molto antica: le
prime furono forse quelle di fico.
In Grecia ce ne sarebbe una traccia nel fregio del Partenone,
dove un rapace vicino alla dea Hera o la dea stessa pare
proprio che ne stiano mangiando. Una leggenda narra che
durante l’assedio di Tebe da parte di Alessandro il Macedone,
nel 338 a.C., il cibo era diventato così scarso che gli abitanti,
per farlo bastare, lo tagliarono a pezzettini e lo avvolsero nelle
foglie di vite, in modo che i bocconi fossero più grossi.
I dolmades greci sono conosciuti e mangiati in Armenia con il
nome di yalanki.

Ingredienti per quattro persone:


30 foglie di vite fresche e tenere (oppure in scatola)
120 grammi di riso
2 cipolle affettate sottilmente
1 cucchiaio di pinoli
1/2 cucchiaio di uva sultanina fatta rivenire in acqua tiepida
3 cucchiai di prezzemolo tritato
1/2 litro di olio
1/2 cucchiaio di barbe verdi di finocchio tritate finemente
1/2 cucchiaio di cumino in polvere (facoltativo)
sale, pepe

Mettere le foglie di vite in acqua fredda per circa 20 minuti scartando


quelle che presentano piccoli tagli o lacerazioni. Scolarle e asciugarle con
un panno, asportane i gambi e disporle su un ripiano ben allineate.
Porre quattro cucchiai d’olio in una casseruola e farvi insaporire le
cipolle, aggiungere i pinoli e l’uva sultanina; lasciare rosolare per due
minuti. Unire il riso, il cumino, il prezzemolo, le barbe di finocchio, sale
e pepe e lasciare insaporire, rigirando bene, per 5 minuti. Aggiungere una
tazza di acqua e lasciar cuocere per 10 minuti fino a che il liquido non
sarà assorbito. Togliere dal fuoco e lasciar raffreddare. Porre su ogni
foglia di vite una cucchiaiata del composto ottenuto e formare degli
involtini piegando le due estremità come un pacchetto perché non esca il

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ripieno. Volendo, per maggior sicurezza, legarli in croce con un filo
sottile. Mettere sul fondo della casseruola una carta oleata, versarvi l’olio
e l’acqua rimasti e disporvi sopra in unico strato i dolmades ben allineati,
ma non troppo vicini gli uni agli altri. L’olio e l’acqua dovranno avere
un livello di circa 2 centimetri. Mettere la casseruola sul fuoco, portare a
ebollizione, abbassare la fiamma e lasciar cuocere a fuoco moderato per
circa 45 minuti. Se si useranno foglie di vite in scatola, sarà necessario
metterle prima in acqua fredda per 12 ore, quindi scolate bene, asciugate,
e poi procedere come sopra indicato.

La giacca “finanziera”

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Finanziera
La finanziera è un piatto tipico piemontese nato durante il
medioevo; la prima ricetta conosciuta risale al 1450 ed è stata
proposta dal Maestro Martino. È un piatto originario del
Monferrato e ha subìto nel corso degli anni diversi
rimaneggiamenti. Rimane comunque un piatto povero nato
dal riutilizzo delle parti scartate durante la trasformazione dei
galletti in capponi e di alcuni scarti di macellazione dei bovini.
Una ricetta successiva della finanziera ha per titolo salsa e
ragôut à la Financière ed è attribuita a Giovanni Vialardi.
L’etimologia è incerta, tuttavia pare che a un certo punto della
storia la finanziera abbia abbandonato le tavole dei contadini,
sia diventato un piatto elitario e abbia quindi preso il nome
dalla giacca da cerimonia, detta appunto finanziera, indossata a
Torino nell’800 da banchieri e uomini dell’alta finanza
piemontese. Altre fonti suggeriscono invece l’origine del nome
nel tributo in natura pagato dai contadini alle guardie (i
finanzieri, appunto) per entrare in città. Tributo composto
principalmente dalle frattaglie dei polli, ancora oggi fra gli
ingredienti fondamentali della ricetta.

Ingredienti per quattro persone:


100 gr di fegatini di pollo
100 gr di filoni di vitello
100 gr di animelle di vitello
100 gr di fesa di vitello
100 gr di creste di pollo
1 cetriolino sotto aceto sminuzzato
25 gr di funghi porcini secchi, ammorbiditi in acqua tiepida
50 gr di burro
1 bicchierino di marsala secco
1 cucchiaio di aceto di vino (facoltativo)
1/2 tazza di farina bianca
sale, pepe

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Preparare le animelle e i filoni e tagliarli a fettine rotonde e a tocchetti.
Scottare le creste di pollo e ancora calde cospargerle di sale fino, quindi
soffregarle fra le palme delle mani in modo da spellarle facilmente.
Immergere quindi le creste spellate in abbondante acqua fredda, perché si
dissalino e rimangano bianche. Affettare piuttosto finemente la fesa,
pulire bene i fegatini di pollo e affettare anche questi.
Far scaldare in un tegame il burro e quando sarà spumeggiante unire la
fesa e lasciare rosolare per qualche minuto. Infarinare abbondantemente
le animelle, i filoni, le creste e i fegatini e unirli all’altra carne. Lasciar
cuocere per 10 minuti prima di bagnare con il marsala, salare e pepare e
aggiungere i funghi strizzati e sminuzzati, e il cetriolino. Cuocere il tutto
a fuoco basso e a tegame coperto per altri 15 minuti, poi unite, volendo,
l’aceto e far alzare il bollore. Quindi spegnere il fuoco; il composto dovrà
risultare ben legato.

Involtini primavera
Sono un piatto tradizionale cinese, facente parte anche delle
cucine di Vietnam, Indonesia e Cambogia.
Gli involtini primavera hanno una lunga storia in Cina: si dice
che questa pietanza sia apparsa per la prima volta nel corso
della lontana dinastia Jin, quando la gente incominciò a
mangiare sottili torte di farina accompagnate da verdure
durante la festa di inizio primavera. All’epoca queste torte
erano chiamate “piatto primaverile”. Durante le dinastie Tang
e Song, divennero di gran moda, tanto che l’usanza venne
perfino descritta nelle poesie dei grandi poeti Du Fu e Lu
You. Durante la dinastia Tang, questa versione primordiale
degli involtini era anche conosciuta come “piatto delle cinque
spezie”, siccome cinque ingredienti tra cui il cipollotto e l’aglio
furono aggiunti nel ripieno.
Anche nel corso delle dinastie Ming e Qing, c’era la
consuetudine di “mordere la primavera”, il che significava
accogliere la stagione mangiando queste pietanze e per

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scongiurare disastri e il male. Col tempo e con il susseguirsi di
evoluzioni in ambito culinario, le “torte primavera” divennero
involtini, di dimensioni certamente più piccole, e grazie alla
loro praticità vennero inclusi tra le molteplici leccornie gustate
presso la corte imperiale.

Ingredienti per quattro involtini:


50 gr di farina di grano tenero tipo 0
50 gr di farina di riso
olio extravergine d’oliva
germogli di fagioli mung
1/2 bicchiere di acqua tiepida
1 cucchiaino di salsa di soia
2 carote
1/2 porro

All’interno di una ciotola versare la farina di grano tenero e la farina di


riso. Aggiungere acqua tiepida a poco a poco fino a ottenere un composto
ben lavorabile e non appiccicoso. Se occorre, regolare la consistenza
dell’impasto con un po’ di farina di riso. Impastare per qualche minuto e
formare la classica palla. Lasciar riposare in frigorifero per 15 minuti.
Nel frattempo tagliare le carote e il porro a striscioline e saltare il tutto
brevemente in padella con un filo d’olio e con un cucchiaino di salsa di
soia. Cuocere a fiamma bassa e con il coperchio fino a quando le carote
non risulteranno morbide. Trascorso il tempo di riposo, suddividere
l’impasto in 4 palline. Infarinare il piano di lavoro e con il matterello
stendere 4 dischi sottili del diametro di circa 15 centimetri ciascuno. Al
centro di ogni disco versare due o tre cucchiai di ripieno, aggiungendo
anche i germogli di fagioli mung. Formare gli involtini ripiegando verso
l’interno il lembo inferiore del disco già preparato e i due lembi laterali.
Quindi arrotolare verso l’alto e chiudere bene i bordi, in modo che
l’impasto non fuoriesca.
Per la cottura, spennellare una padella con olio extravergine d’oliva,
riscaldarla e adagiare sul suo fondo uno o due involtini alla volta, in
modo da avere spazio sufficiente a disposizione per poterli rigirare su tutti
i lati, così da ottenere una doratura uniforme. La cottura in padella

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richiede pochi minuti.
In alternativa, spennellare leggermente d’olio ogni involtino e cuocere in
forno a 180 °C per circa 15 minuti o comunque fino a doratura.

Pollo Tandoori
La tradizione vuole che la storia del piatto risalga a Kundan
Lal Gujral, un indiano che aprì un ristorante, il Moti Mahal a
Peshawar, prima che l’India fosse colonizzata dalla Gran
Bretagna. Cercando nuove ricette, Gujral avrebbe provato a
cuocere il pollo in un tandoor, usato generalmente per la
cottura del pane azimo naan. I tandoor sono particolari forni
di argilla, a forma di campana rovesciata e interrati, alla cui
base brucia un fuoco di legna o carbone che può raggiungere i
480 ºC. Gujral per primo sarebbe stato capace di cuocere il
pollo in questo tipo di forno, rendendo croccante l’esterno del
pezzo di carne e mantenendo morbido e succulento l’interno.
Dopo la colonizzazione dell’India del 1947, il Punjab venne
diviso e le zone a est dello stato divennero parte dell’India,
mentre le zone a ovest divennero parte del Pakistan. La città
di Peshawar passò quindi sotto il governo pakistano e Gujral,
come molti altri profughi hindu, si allontanò dai disordini
scappando in India, spostando il suo ristorante a Delhi
cambiandogli nome in Daryaganj.
I l chicken tandoori impressionò a tal punto il primo ministro
indiano, erede spirituale di Gandhi, Jawaharlal Nehru (1889-
1964), che lo rese una delle portate regolari dei banchetti
ufficiali. Da allora molti personaggi importanti, in visita al
governo indiano, hanno potuto assaggiare tale piatto, tra cui i
presidenti americani Richard Nixon e John F. Kennedy, il
leader sovietico Nikolai Bulganin e Nikita Khrushchev, il Re
del Nepal e Mohammed Reza Pahlavi, scià dell’Iran.

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Ingredienti per quattro persone:
4 pezzi di pollo, 250 gr l’uno
succo di mezzo limone
sale

Per la marinatura
90 gr di yogurt greco
45 gr di panna
1 cucchiaio di farina
1 spicchio d’aglio sminuzzato finemente
15 gr di zenzero fresco sminuzzato ancora più finemente
15 gr di semi di coriandolo macinato
1/2 cucchiaio di cumino macinato
1/2 cucchiaio di garam masala

Per condire
olio di oliva
45 gr di burro

Praticare qualche incisione in ogni pezzo di pollo, metterlo in una ciotola


e massaggiarlo con succo di limone e sale. Coprirlo e lasciarlo marinare
per almeno 30 minuti in frigorifero. Nell’attesa prendere lo yogurt e
metterlo in una ciotola, aggiungere la farina e la panna. Mescolare con
una forchetta, finché il composto non è ben amalgamato. Aggiungere tutti
gli ingredienti della marinatura e mescolare. Quando è pronta versarla
sul pollo e strofinare affinché ogni parte sia coperta e ben insaporita.
Preparare la griglia per una cottura indiretta a fuoco alto. Pulirla e
ungerla, mettere i pezzi di pollo a sgocciolare e quando la griglia è pronta
cuocervi il pollo. Cuocere per 4 minuti, poi girare i pezzi di pollo.
Spennellare il pollo con la rimanente marinatura e cuocere per altri 2
minuti. Con il burro sciolto spennellare ancora e cuocere per altri 7
minuti. Girare e cuocete per altri 7 minuti. Attenzione ai tempi di
cottura che dipendono dallo spessore della carne.

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Quiche lorraine
Con il termine quiche si intende una torta salata di origine
francese.
Alla fine dell’800, all’epoca della guerra franco-prussiana, i
francesi furono costretti a cedere l’Alsazia e la Lorena al
neonato impero tedesco. Quest’annessione fece sì che parte
della tradizione tedesca venisse lentamente in contatto e poi
assorbita dai territori neo annessi. E da qui trasse
probabilmente origine la quiche lorraine.

Ingredienti per sei persone:


350 gr di pasta à foncer
350 gr di pancetta affumicata o bacon
50 gr di formaggio svizzero
3 uova
4 dl di latte
sale, pepe

Porre sulla lastra da forno una tortiera, leggermente spalmata di burro, e


rivestirla con la pasta. Pungere il fondo qua e là col coltello e ricoprirlo
con fette sottilissime di pancetta. Foderare ulteriormente con sottili fette di
formaggio e alla fine versare nella forma un composto fatto con le uova
ben sbattute, latte, sale e pepe. Mettere in forno ben caldo. A cottura
ultimata servire subito.

Supplì alla romana


Per i romani il supplì è un’istituzione, per quanto non
antichissima. Giunse a Roma intorno alla Restaurazione, dopo
l’occupazione napoleonica, ed è probabilmente la variante
meno complessa del sartù di riso napoletano, con cui
condivide l’impanatura, la crosticina e il ragù. La parola deriva
probabilmente dal francese surprise e la sorpresa è proprio il
suo ripieno, la mozzarella filante. La prima testimonianza

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scritta della presenza di questo bocconcino fritto risale al
1874: nel menu della Trattoria della Lepre a Roma
comparvero con il nome di soplis di riso. La prima ricetta certa,
tuttavia, la scrisse Ada Boni ben più tardi, ne La Cucina
Romana (1929): qui le polpette di riso sono chiamate al
femminile, le supplì.

Ingredienti per quattro persone:


300 gr di riso
100 gr di burro
100 gr di mozzarella
80 gr di vitello
50 gr di animelle
50 gr cuore di vitello
25 gr di funghi secchi
25 gr di prosciutto crudo
2 fegatini di pollo
4 pomodori
2 uova, 2 cucchiai di parmigiano
poca cipolla
pane grattugiato
1 cucchiaio di salsa di pomodoro
olio (o strutto) per friggere, sale

Ammorbidire in acqua tiepida i funghi. Versare in una casseruola


mezzo litro d’acqua, i pomodori pelati, spezzettare 70 gr di burro; salare
e porre sul fuoco. Quando l’acqua inizierà a bollire versare il riso,
badando che non oltrepassi il giusto punto di cottura; quando sarà pronto
toglierlo dal fuoco e unire, mescolando, le due uova e il parmigiano.
Versare il riso in un piatto grande, stenderlo in modo uniforme e
lasciarlo raffreddare. Nel frattempo mettere sul fuoco una casseruola con
il rimanente burro, un quarto di strutto, un quarto di cipolla tritata, il
cuore, i fegatini, il vitello, il prosciutto, le animelle e i funghi scolati e
tagliati a pezzetti. Far rosolare per qualche minuto poi unire la salsa
sciolta in uno poco di acqua calda, salare. Cuocere a fuoco basso e a
recipiente coperto fino a quando il sugo si sarà ben ristretto. Tagliare a

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pezzettini la mozzarella. Con un cucchiaio prendere tanto riso freddo
quanto un uovo, arrotolarlo bene dandogli la forma di una grossa
crocchetta, introdurre l’indice in una delle due estremità formando un
buco, riempire questo con il ragù preparato e con qualche pezzetto di
mozzarella, chiudere l’apertura con altro riso e rotolare il supplì nel pane
grattugiato. Quando tutti i supplì saranno pronti porre la padella per i
fritti sul fuoco con abbondante olio o strutto. Friggere i supplì, facendoli
diventare ben croccanti e dorati. A volte si servono con sugo di carne o
salsa al pomodoro.

Tartelette Agnès Sorel


Questo piatto, come altri con la stessa denominazione (crema,
vitello, ecc.), è opera del cuoco francese Guillaume Tirel,
anche noto con lo pseudonimo Taillevent, ed è dedicato ad
Agnès Sorel (1422-1450), una giovane nobildonna di provincia
che divenne amante del re di Francia Carlo VII a cui diede
quattro figlie.

Preparare una serie di tartelette in pasta brisée o in pasta sfoglia. Farle


cuocere in forno con un ripieno di fagioli o piselli secchi, perché la loro
cavità interna rimanga inalterata, rendendo possibile farcirle in un
secondo momento. Riempirle quindi con un composto di carne di pollo
finemente tritata, non legata, per un’altezza di circa 1/2 cm. Decorare
con un salpicone (piccoli dadi regolari) di lingua salmistrata e tartufi
legato con una salsa vellutata a base di fondo di pollo. Mettere in forno
nuovamente per circa 10 minuti. Bagnare con salsa demi-glace al
Madera. Servire le tartelette ben calde.

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Agnès Sorel

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Torta pasqualina
Le origini di questa preparazione sono molto antiche:
l’esistenza della torta pasqualina genovese è documentata
dal XVI secolo, quando il letterato Ortensio Lando la cita
nel Catalogo delli inventori delle cose che si mangiano et si bevano.
Allora era nota come gattafura, perché “le gatte volentieri le
furano et vaghe ne sono”, ma anche lo stesso scrittore ne era
ghiotto tanto da scrivere: “A me piacquero più che
all’orso il miele”.
La regione Liguria, a riconoscimento di questa lunga
tradizione, ha chiesto e ottenuto dal Ministero delle Politiche
Agricole, Alimentari e Forestali l’inclusione della Torta
Pa sq u a l i na n el l ’e l en co de i Prodotti Agroalimentari
Tradizionali (PAT) , nell a categoria “Prodott i dell a
gastronomia”.
La torta è un vero e proprio concentrato di simbolismi che
richiamano al cristianesimo e, prima ancora, ai riti pagani che
celebravano il ritorno della primavera. La leggenda vuole che
per preparare questa specialità le casalinghe più esperte
utilizzassero addirittura 33 fogli di pasta, che simboleggiano gli
anni della vita terrena di Cristo.

Ingredienti per sei-otto persone:


600 gr di farina bianca
400 gr di ricotta
1 kg di biete (o spinaci)
100 gr di parmigiano grattugiato
8 uova
maggiorana
1/4 di litro di olio extra vergine di oliva
sale, pepe, poco olio per la tortiera

Mettere la farina a fontana sulla spianatoia, versarvi due cucchiai di


olio, il sale, e impastare aggiungendo via via tanta acqua tiepida quanto
basta per ottenere un impasto consistente come quello delle tagliatelle.
Lavorare energicamente la pasta per circa 10 minuti. Dividere la pasta

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in 14 pezzetti uguali e fermare con ognuno di essi una pagnottella da
infarinare e lasciare riposare per due ore, coperta con un tovagliolo
appena umido. Pulire e lavare accuratamente le biete in acqua corrente e
farle cuocere con poco sale senza aggiunta di altra acqua. Appena cotte
strizzarle, tritarle piuttosto finemente e metterle in un’ampia terrina.
Sbriciolare la ricotta, unirla alle erbe, con due uova intere, sale e pepe,
maggiorana e metà parmigiano e lavorare con un cucchiaio di legno in
modo da ottenere un composto omogeneo. Con il matterello stendere ogni
pezzo di pasta in modo da ottenere 14 sfoglie molto sottili e larghe a
sufficienza per foderare una tortiera di 30 centimetri di diametro e
riapribile a cerniera ricadendo per un centimetro fuori dai bordi. Ungere
la tortiera e disporvi la prima sfoglia, unta a sua volta con poco olio;
sovrapporre un’altra sfoglia, unta anche questa e continuare così fino a
esaurimento di 7 sfoglie. Sulla settima sfoglia disporre tutto il ripieno,
livellarlo e col dorso di un cucchiaio formare sei incavi a distanza regolare
uno dall’alto, in ognuno dei quali deve essere versato un uovo, spruzzato
con sale e pepe. Cospargere con il formaggio rimasto e sovrapporre una
sfoglia di pasta, ungerla leggermente di olio e proseguire allo stesso modo
sovrapponendo le restanti 6 sfoglie. Ripiegare verso l’interno la pasta che
fuoriesce dalla tortiera e pizzicandola con le dita formare un cordone tutto
intorno. Ungere la superficie della torta con poco olio, bucherellarla con la
forchetta e passarla in forno già caldo (200 °C) per circa 40 minuti o
più, sino a quando avrà un bel colore dorato. Servire tiepida o fredda.

Vitello tonnato
Si tratta di una ricetta piemontese, nata probabilmente nel
cuneese all’inizio del XVIII secolo.
Soprattutto negli anni ‘80 del ‘900 era diffusa l’usanza di
chiamarlo “vitel tonné”.
Tuttavia, in principio, il tonno nella ricetta non compariva:
“tonné” derivava infatti dal francese “tanné”, ovvero
“conciato”. La lingua transalpina era uno dei tanti ingredienti
di quel miscuglio linguistico che contraddistingueva il Ducato

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dei Savoia, in cui il francese e l’italiano erano le lingue ufficiali,
ma dove alla fine tutti, sovrani compresi, parlavano il dialetto
piemontese, zeppo di francesismi. Quel “tonné” dal suono
francese era forse un modo per dare lustro e nobiltà a un
piatto invece tipicamente popolare, preparato con gli avanzi
della carne di vitello, lessata a lungo per ottenere la tanto
agognata morbidezza.
Secondo Giovanni Ballarini, professore universitario e
membro dell’Accademia italiana della cucina, si può pensare
che tonnato volesse in un primo tempo significare cucinato
come fosse tonno e che la ventresca sottolio sia stata aggiunta
in un secondo tempo, probabilmente attratta dal nome del
piatto.
Il binomio “mare e monti” in Piemonte, così di moda negli
anni ’80, è in realtà radicato da secoli, grazie ai contatti
continui con i porti liguri. Merito degli acciugai piemontesi,
venditori di alici sottosale che, fin dal Medioevo, si recavano
in Liguria e alle foci del Rodano per acquistare il sale a prezzi
accessibili, per poi rivenderlo in patria, facendolo arrivare
spesso di contrabbando…
Il tonno, probabilmente, arrivò solo negli anni ‘70-80 dell’800.

Ingredienti per quattro persone:


700 gr di noce di vitello
200 gr di tonno sott’olio
olio d’oliva, vino bianco secco
alloro, aglio, sedano
limone, aceto
2 acciughe sotto sale
2 cucchiaiate di capperi sott’aceto
2 uova, sale, pepe

Rosolare in olio, a fuoco vivo, la noce di vitello poi bagnarla con vino
bianco, salarla, peparla, unire una o due foglie di alloro, uno spicchio
d’aglio, alcune foglie di sedano. Cuocere in forno a 180 ° per 45 minuti.
Con due tuorli, sale, olio, succo di limone, una cucchiaiata di aceto,

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preparare una morbida maionese; ad essa unire poi il tonno, le acciughe e
i capperi, tutto quanto finemente tritato. Mescolare accuratamente quindi
versare la salsa sulla carne di vitello ormai fredda e tagliata a fette sottili
ben disposte sul piatto di portata. Conservare la preparazione qualche
ora in frigorifero prima di servirla.

Vol au vent
Il nome di questi dischetti di pasta sfoglia deriva dal fatto che
sono leggeri, tanto da poter essere portati via dal vento. La
loro origine è generalmente attribuita alla chef francese Marie-
Antoine Carême che avrebbe sostituito una crosta pesante con
l’impasto leggero. Tuttavia nel libro di cucina Les Dons de
Comus di François Marin del 1739, antecedente alla nascita di
Carême, è menzionato un dessert dolce chiamato “tortina al
vento”. Perciò è probabile che la ricetta originale dei vol au
vent non sia del noto chef.
La variante tipica della Lorena è quella del “boccone della
regina” (bouchée à la reine) in cui il ripieno può comprendere
pollo, funghi, animelle di vitello e gnocchi in una salsa a base
di burro e farina legato con uova e panna; nel condimento ci
sono anche noce moscata, sale e pepe. Il “boccone della
regina” è stato dedicato a Marie Leszczynska, moglie di Luigi
XV.

Ingredienti per un vol au vent, per quattro persone:


450 gr di pasta sfogliata, anche surgelata
1 tuorlo d’uovo sbattuto
poca farina per la spianatoia

Sulla spianatoia infarinata stendere la pasta a un centimetro circa di


spessore. Porre un anello da tortiera sulla sfoglia e ritagliare tutto intorno
con la punta di un coltellino affilato; ripetere l’operazione in un altro
punto della sfoglia, in modo da ricavare due dischi, uno dei quali verrà

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posto sulla placca da forno inumidita. Mettere al centro dell’altro disco
un piatto di circa tre centimetri più piccolo del suo diametro e ritagliare
tutto intorno con la punta del coltello, in modo da ottenere un disco e un
anello di pasta. Inumidire con poca acqua il bordo del disco posto sulla
placca e posarvi sopra l’anello di pasta, facendoli combaciare. Tracciare
tutto attorno all’anello, con la punta del coltello, dei tagli. Inumidire la
superficie del disco più piccolo rimasto che servirà da coperchio e disporlo
sulla placca accanto all’altro. Pennellare con il tuorlo d’uovo la superficie
dei due dischi e lasciare riposare per circa 20 minuti. Mettere infine la
placca nel forno già caldo (200 °C) e far cuocere per 20 minuti.

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PRIMI IN BRODO

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Acquacotta
L’acquacotta è un piatto tipico della cucina della bassa
maremma, sia della Maremma grossetana che della Tuscia
viterbese. Deriva dal pranzo tipico dei butteri quando si
trovavano in aperta campagna a seguito delle mandrie. Alcuni
trovano assonanze e commistioni con la medievale zuppa
arcidossina che però si basa su altri ingredienti. È una zuppa
povera, che varia da zona a zona a seconda della reperibilità
degli ingredienti, da qui il nome di acquacotta.

Ingredienti per quattro persone:


500 gr di funghi porcini
200 gr di pomodori
olio d’oliva
1 spicchio d’aglio
3 uova
8 fettine di pane raffermo
parmigiano
sale, pepe

Pulire i funghi, raschiare i gambi per togliere l’eventuale terra, lavarmi


bene e affettarli. Porre sul fuoco una casseruola con tre cucchiaiate di olio
e l’aglio, lasciar rosolare e, quando l’aglio sarà colorito, mettervi i funghi.
Salare e pepare leggermente. Pelare i pomodori e tritarli, poi aggiungerli
ai funghi quando questi saranno a metà cottura. Versarvi sopra un litro
d’acqua bollente salata e proseguire la cottura. Abbrustolire il pane nel
forno e mettere due fettine nel piatto di ogni commensale. Rompere nella
zuppiera della minestra le uova, unire due cucchiaiate di parmigiano,
sbatterle con una forchetta, versarvi sopra il brodo: mescolare e servire.

Borsch
Il borsch è una minestra a base di barbabietole di origine
ucraina, e fa parte dell’eredità culinaria di molti Paesi dell’est e

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del centro Europa.
Viene spesso indicata come piatto russo, ma ciò è dovuto al
fatto che, in seguito all’annessione delle Repubbliche, l’Unione
Sovietica entrò in contatto con diverse tradizioni culinarie,
diffondendole poi in tutto il Paese. Uzbekistan, Georgia e
Ucraina furono, ad eccezione della Russia, le Repubbliche che
maggiormente contribuirono all’alimentazione sovietica.
Poiché ogni mensa del Paese comunista serviva praticamente
la stessa varietà di pietanze, molti piatti, incluso il borsch,
divennero presto familiari a tutti i cittadini sovietici, anche se
in versione “russificata”, ovvero con delle varianti rispetto alle
ricette originali locali.

Ingredienti per quattro persone:


500 gr di manzo
1 foglia di Alloro
sale, pepe in grani
2 carote
1 cipolla
500 gr di cavolo
2 cucchiai di aceto di vino rosso
1 mazzetto di prezzemolo
4 cucchiaini di panna
500 gr di barbabietola

Sciacquare la carne, metterla in pentola assieme ad alloro, pepe in grani e


un cucchiaino di sale. Aggiungere un litro d’acqua e portare a ebollizione.
Mondare quindi tutte le verdure avendo cura di lavarle bene e tagliarle
finemente. Trascorsi 40 minuti dall’ebollizione (la carne dovrà
continuare a bollire per questo tempo), aggiungere le verdure, aggiustare di
sale e pepe e aggiungete l’aceto. Continuare la cottura per almeno altri 30
minuti. Trascorso questo tempo, togliere la carne e adagiarla su un
tagliere per poterla tagliare a cubetti.
A questo punto tagliare il prezzemolo e disporlo nei piatti da portata con
la carne; infine aggiungere la verdura cotta. Servire con dei ciuffi di
panna.

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Busècca o trippa
E' il piatto lombardo per eccellenza che oltre a essere piatto
storico della cucina regionale è uno dei piatti forti della cucina
milanese tanto è vero che i milanesi, che l’apprezzavano
m o l t o , erano soprannominati soprattutto in passato
“buseconi”.
L’origine della parola busècca è riconducibile al tedesco butze
(viscere) divenuto poi in dialetto busa (pancia).
Essendo un piatto economico molto nutriente che richiede
una lunga cottura, veniva preparato soprattutto nel periodo
invernale quando la stufa economica era sempre accesa per
riscaldare la cucina. Di umili origini, era spesso presente sulle
tavole contadine in occasione dei mercati, delle fiere e veniva
mangiata anche la notte di Natale quando i contadini si
riunivano nelle stalle dopo la messa di mezzanotte.
Molte altre città, tuttavia, rivendicano la paternità della trippa:
Roma con la trippa romana, Firenze con la trippa alla
fiorentina, Parma con la trippa alla parmigiana, Modena con la
trippa alla modenese…
In commercio fino agli anni ’80 si trovava la trippa cruda, che
era più saporita ma faticosa da preparare e un po’ disgustosa
da pulire, oppure si trovavano trippe pulite che puzzavano
però di cloro e risultavano disgustose al palato. Oggi, invece,
in commercio troviamo trippe pulite e pre-lessate, meno
faticose da utilizzare, ma il loro difetto è che lasciano scivolare
un po’ troppo il sugo.
“Non c’è trippa per gatti” è la frase che il sindaco di Roma,
Ernesto Nathan (1845-1921), alle prese con le ristrettezze
finanziarie del comune, pronunciò quando iniziò una serie di
tagli al bilancio, tra cui il taglio della somma che veniva
stanziata per l’acquisto del cibo per sfamare i gatti, che
vivevano (e vivono) tra gli antichi ruderi della capitale.

Ingredienti per sei persone:


1,5 kg di trippa mista di vitello
200 gr di parmigiano grattugiato

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50 gr di pancetta o grasso di prosciutto
50 gr di burro
6 foglie di salvia
1 cipolla, 1 carota, 1 costa di sedano
pane di mistura, sale

Acquistare la trippa già pulita e precotta, lavarla molto accuratamente,


poi tritarla a listarelle. Tritare la pancetta e porla sul fuoco con il burro,
facendovi rosolare la cipolla affettata, la salvia, la carota e il sedano a
fettine. Aggiungere la trippa, mescolarla e lasciarla soffriggere per una
decina di minuti, poi unire l’acqua in quantità sufficiente per la zuppa e
sale quanto basta. La cottura per la trippa di vitello è di due ore, per
quella di manzo tre ore. Quando la busca sarà pronta, servirla con
abbondante parmigiano a parte e fette di pane.
N.B. Volendo è possibile aggiungere alle verdure anche patate e fagioli di
Spagna.

Caldillo de perro
Il caldillo de perro è un piatto tipico spagnolo il cui nome
ricorda cibi orientali: il cane stufato… Si tratta tuttavia di una
zuppa originaria di Cadice, la cui ricetta è rimasta immutata
dalla fine del XV secolo alla metà del XIX, ma senza mai
includere la carne di cane tra i suoi ingredienti; piuttosto si
tratta di una “zuppa povera” fatta con brodo di pesce bianco
(nasello, aglio e cipolla cotta).
Da dove, allora, questo nome così unico? Bisogna andare
indietro nella storia fino al 1492 e all’espulsione degli ebrei da
parte dei regnanti cattolici. Molti di loro, chiamati sefarditi,
cercarono di imbarcarsi dai porti del Golfo di Cadice verso
l’Africa, cominciando a dividere del brodo di pesce fra loro, in
preda alla povertà e alla fame durante il processo di
espulsione. Proprio da qui deriverebbe il nome “perro”, dal

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momento che i sefarditi furono chiamati “cani”, insultati così
per tutto il Medioevo e oltre. Un insulto che avrebbe dato
origine al nome di questo piatto, essendo che il cibo preso al
porto prima della loro espulsione era così povero che nessun
cristiano l’avrebbe mai mangiato…

Ingredienti per quattro persone:


1 kg di merluzzo o nasello tagliato a fette
1 cipolla, 1 porro, 2 carote
1/2 bicchiere di vino bianco secco
1 bicchiere di succo d’arance preferibilmente amare, come quelle di
Siviglia
olio d’oliva, sale

Preparare un brodo con la testa del pesce, il porro, le carote, il vino e un


po’ di sale. Colare e tenerne da parte un litro abbondante. In un tegame
di terracotta soffriggere la cipolla finemente affettata; aggiungere poi metà
del brodo caldo e cuocere finché la cipolla diventi tenerissima (circa 15
minuti); aggiungere poi il brodo rimanente e le fette di pesce. Salare,
coprire e far cuocere per altri 15 minuti a fuoco lento finché il brodo si
sarà ristretto. A fine cottura aggiungere il succo d’arance colato.
Servire caldo sopra fette di pane abbrustolito.

Consommé Madrilène
Questo consumato “alla maniera di Madrid” è prodotto con
salsa di pomodoro. Gli spagnoli furono infatti i primi europei
a usare il pomodoro in cucina, portato nel Vecchio
Continente all’inizio del XVI secolo dai conquistadores, che lo
scoprirono nel Nuovo Mondo, originariamente coltivato dagli
Aztechi.

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Ingredienti per quattro persone:
1l e 1/2 di brodo di carne freddo
250 gr di carne di manzo macinata
2 albumi
1 tavoletta di gelatina sciolta in un po’ d’acqua
1/2 kg di pomodori maturi, pelati e privati dei semi
la parte bianca di 1 porro
1 mazzetto di cerfoglio
1 peperone rosso dolce

Mettere in una capace pentola il brodo freddo, unire la carne tritata, il


porro affettato, il cerfoglio, 300 grammi di pomodori, gli albumi, la
gelatina e lasciare macerare per circa un’ora. Porre quindi sul fuoco molto
moderato e lasciare sobbollire per un’ora. Intanto lavare e bruciacchiare il
peperone, pelarlo, tagliarlo a metà e farlo cuocere in acqua leggermente
salata, lasciarlo raffreddare e tagliarlo a julienne. Tagliare a filetti anche
i pomodori rimasti; filtrare il consommé ancora caldo e aggiungervi i
filetti di pomodoro e di peperone. Raffreddare in frigorifero e servire.

Crema du Barry
Con il termine “du Barry” ci si riferisce in genere a pietanze a
base di cavolfiori.
Marie-Jeanne Bécu, contessa du Barry (1746-1793), detta
l’angelo per la sua bellezza e perché figlia naturale di un
monaco, frère Ange, e della “signorina” Anne Bécu di
Cantigny, fu tra le più popolari cortigiane di Francia, amante
di Luigi XV. La du Barry, a differenza di Jeanne-Antoniette
Poisson, più conosciuta come la marchesa di Pompadour, non
si occupò mai di politica per dedicarsi meglio alle arti e alla
deboscia. Questa preparazione a lei dedicata aveva due scopi:
far mangiare un re senza denti e sfruttare le facoltà del
cavolfiore di ridare un po’ di virilità agli uomini stanchi, o
almeno così si pensava…

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Marie-Jeanne Bécu, contessa du Barry

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Ingredienti per quattro persone:
1 cavolfiore di circa 600 gr
1 l e 1/2 di latte
400 gr di patate
80 gr di burro
1 cucchiaino abbondante di cerfoglio tritato (o prezzemolo fresco)
sale

Guarnizione
3 cucchiai di cimette dello stesso cavolfiore usato, precedentemente scottate
in acqua salata e fatte rosolare nel burro fuso

Pulire, lavare e scottare per 10 minuti il cavolfiore il cavolfiore in acqua


bollente, leggermente salata. Scottare e tenere da parte tre cucchiai di
cimette. Mettere il resto in una pentola di terracotta, unirvi le patate
sbucciate e tagliate a dadini, il sale e 1 litro di latte, e far cuocere a calore
moderato fino a che le patate saranno sfatte. Passare il tutto al frullatore,
filtrare e rimettere il passato nel recipiente; diluirlo con il latte rimasto e
portare nuovamente a lenta ebollizione, rimescolando di tanto in tanto.
All’ultimo momento far incorporare 50 gr di burro tagliato a pezzetti e
un cucchiaio di cerfoglio tritato. Distribuire la crema bollente e
cospargerne la superficie con le cimette di cavolfiore rosolate.

Antoine Augustin Parmentier

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Crema Parmentier
Antoine Augustin Parmentier (1737-1813) è stato un
agronomo, igienista e nutrizionista francese. La fama maggiore
di Parmentier è legata alla sua opera per la diffusione della
patata. Nel 1771 l’Accademia di Besançon aveva indetto un
concorso dal titolo: “Quali sono i vegetali che possono essere
sostitutivi in caso di carestia rispetto a quelli di impiego
comune e la loro preparazione”. Parmentier curò la redazione
di una memoria rimasta celebre sulla base dell’uso della patata
fatto mentre era farmacista nell’esercito durante la guerra dei
Sette Anni, contro l’Inghilterra e la Prussia. Durante la sua
detenzione in Germania, in un carcere prussiano, scoprì le
qualità nutritive della nota pianta della famiglia delle solanacee.
La memoria fu premiata, nonostante una legge del parlamento
del 1748 accusava il tubero di trasmettere infezioni.
Curioso fu il trucco escogitato da Parmentier per convincere i
contadini francesi a cibarsi di patate, piuttosto diffidenti verso
la consumazione del tubero: fece inviare con l’appoggio di Re
Luigi XVI, militari armati a presidiare, dall’alba al tramonto,
dei campi coltivati a patate vicino a Neuilly-sur-Seine; i
contadini, convinti allora che si trattasse di un cibo molto
prezioso, cominciarono a rubare i tuberi nottetempo,
iniziando così a consumarli…

Ingredienti per quattro persone:


1/2 kg di patate olandesi, sbucciate e tagliate a spicchi
2 porri (solo la parte bianca) affettati finemente
1 l di brodo di pollo o di dado
1/4 di l di latte bollente
1/4 di litro di panna liquida
100 gr di burro
1 cucchiaio di cerfoglio (o prezzemolo) tritato
sale, pepe bianco

Far soffriggere in una pentola con 30 grammi di burro i porri, aggiungere


le patate, rigirare e bagnare con il brodo. Condire con sale e poco pepe

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bianco. Far cuocere a calore piuttosto vivace; appena le patate saranno
cotte, schiacciarle con la forchetta e passare il tutto al setaccio (o usare lo
schiacciapatate).
Rimettere nella stessa pentola il passato ottenuto e diluirlo, prima con il
latte bollente e poi con la panna liquida. Far scaldare il tutto a calore
moderato senza raggiungere l’ebollizione e completare con l’aggiunta del
burro rimasto, tagliato a pezzetti, e con il cerfoglio tritato. Servire la
crema accompagnandola con crostini di pane fatti dorare nel burro.

Fanesca
La fanesca è una zuppa tradizionale dell’Ecuador, derivata
dalla fusione della tradizione indigena con la cultura
gastronomica spagnola, preparata durante la Settimana santa,
solitamente il Giovedì o il Venerdì Santo.
Esistono diverse versioni sull’origine della fanesca, come
quella che narra di un chef francese portato dagli spagnoli che
avrebbe ideato un piatto pesante per penitenza durante la
settimana santa, oppure un’altra che fa riferimento a una
donna di nome Juana che l’avrebbe inventata nel monastero di
Quito e che fu, per questo, inizialmente chiamata Juanesca.
Tuttavia, gruppi di studio ecuadoriani affermano che l’origine
del piatto risalirebbe all’epoca preispanica. Pare infatti che
questo piatto si chiamasse in quechua uchucuta, ovvero “grani
teneri cotti con peperoncino ed erbe”, e veniva preparato in
occasione della festa chiamata Muchuc Nina (giorno del
Fuoco Nuovo), che cadeva, per gli indigeni, nel periodo
successivo alla stagione del raccolto, che coincideva con la
fine di marzo.
Successivamente, durante il colonialismo spagnolo, divenne la
norma per gli europei combinare le credenze indigene con
quelle cattoliche, così che il piatto divenne un simbolo della
Settimana santa, che coincideva, più o meno, con le
celebrazioni successive al raccolto dei prodotti agricoli (fave,

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piselli, fagioli, melloco, zucca siamese) da parte degli indigeni.
Col passare del tempo gli spagnoli, oltre ad altri grani più
tipicamente europei come fave e lenticchie, aggiunsero nella
ricetta latticini e baccalà e il piatto divenne sempre più
rappresentativo della tradizione cattolica, con i dodici grani a
rappresentare gli apostoli e il baccalà Gesù Cristo.

Ingredienti:
1 kg di baccalà
2 l di latte intero
200 gr di formaggio pecorino
6 uova sode
200 gr di cipolla bianca tritata
1 testa d’aglio
300 gr di arachidi tostate
100 gr di mais bianco, 100 gr di mais giallo
100 gr di fave fresche, 100 gr di piselli,
100 gr di lenticchie, 100 gr di ceci
100 gr di fagioli neri, 100 gr di fagioli rossi, 100 gr di fagioli cannellini
200 gr di zucca
2 patate bianche
1/2 verza bianca
olio d’oliva
peperoncino fresco, sale, pepe, comino, origano

Lasciare a mollo il baccalà per due o tre giorni, cambiando di tanto


l’acqua se necessario. Cucinare a parte i legumi e i cereali, conservandone
l’acqua di cottura. Bollire la verza bianca tagliata a listarelle con la
zucca e le patate tagliate a cubetti, dopodiché schiacciarle facendone una
purea che metterete da parte. Frullare le arachidi tostate aggiungendo
latte fino ad ottenere una crema; in un pentolone mettere a cucinare
quattro tazze di latte e incorporare a poco a poco tutti i cereali
precucinati e la crema di arachidi, mescolando bene e lasciando cuocere a
fuoco lento per una ventina di minuti, aggiungendo il formaggio
grattugiato prima di spegnere. In un tegame far soffriggere cipolla, aglio,
comino e origano, aggiustare di sale e pepe, idratare con un mestolo di

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acqua di cottura, una tazza di latte ed infine il baccalà spinato e pulito,
rimuovendo bene perché non si attacchi. Far cuocere a fuoco medio per un
quarto d’ora circa. Servire la Fanesca in scodelle di terracotta: su di un
fondo di purea di patate e zucca disporre i cereali e i legumi cotti nel latte,
adagiandovi per ultimo alcuni tranci di baccalà e decorando con uovo
sodo tagliato a fette e strisce di peperoncino fresco secondo i gusti.

Feijoada
Secondo la tradizione, la feijoada sarebbe stata inventata dagli
schiavi brasiliani che lavoravano nelle miniere e nelle
piantagioni; il loro pasto consisteva di solito in riso e fagioli,
ma per celebrare le feste venivano loro concessi anche dei
pezzi di carne. Gli schiavi li utilizzarono per condire il loro
piatto principale e così nacque la feijoada, poi ripresa e resa
famosa, agli inizi del XIX secolo, nei ristoranti di Rio de
Janeiro. Una storia romantica, senza dubbio, ma falsa.
La feijoada sarebbe infatti nata in Portogallo, come dimostrato
dagli storici culinari Carlos Augusto Ditadi e Luis da Camara
Cascudo. La feijoada deriva dallo stufato di fagioli e carne di
maiale tipico di alcune aree dell’Europa Meridionale. Quello
che la feijoada e altre ricette simili mediterranee (come la
cassoulet francese) hanno in comune è la scelta dei tagli meno
nobili di carne del maiale da utilizzare. Uno studio più
approfondito ha evidenziato che la feijoada è fortemente legata
alla tradizione delle regioni portoghesi dell’Estremadura, di
Tras-os-Montes e dell’Alto Douro. La modifica che più risalta
nella ricetta brasilianizzata della feijoada è l’utilizzo dei fagioli
neri (al posto di quelli rossi, bianchi o dei ceci), che non sono
tipici di quella parte dell’Europa.

Ingredienti per dieci persone:


8 litri d’acqua
1kg di fagioli neri secchi sciacquati

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sale e pepe q.b.
4 foglie di alloro
400 gr di pancetta
500 gr di carne secca di manzo tagliati a pezzi
2 piedini di maiale non salati
250 gr di costine di maiale affumicate
2 code di maiale non salate
100 gr di pancia di maiale tagliata a metà
1 orecchio di maiale tagliato in 3 pezzi
1 salsiccia affumicata tagliata a pezzi
500 gr di salsiccia piccante
2 cucchiai d’olio
4 spicchi d’aglio tritato
2 cipolle grandi
2 mazzi di prezzemolo tritato

In una pentola capiente versare 6 litri d’acqua e aggiungere i fagioli, sale,


pepe e foglie di alloro. Portare a bollore e quindi cuocere a fuoco dolce per
50 minuti. Tagliare metà della pancetta a pezzi grossi e l’altra metà a
cubetti. Intanto, in un’altra pentola versare 2 litri d’acqua, portare a
bollore e unire la carne secca, i piedini di maiale e le costine. Cuocere a
fuoco lento per 25 minuti. Unire anche le code di maiale, i pezzi grossi di
pancetta, la pancia di maiale e le salsicce. Cuocere a fuoco basso per altri
25 minuti. Trasferire la carne nella pentola con i fagioli e cuocere a fuoco
basso per 45 minuti. Nel frattempo, soffriggere l’aglio in una padella con
l’olio, quindi aggiungerlo alla pentola con i fagioli e la carne. Nella stessa
padella, saltare i cubetti di pancetta, unire la cipolla e lasciarla
ammorbidire e dorare. Unire il prezzemolo e mescolare bene. Aggiungere
il tutto alla pentola con i fagioli e la carne e cuocere per altri 25 minuti o
finché saranno ben cotti. Prelevare la carne dalla pentola e trasferirla su
un piatto da portata. Versare i fagioli in un’altro piatto da portata e
servire con riso lesso.

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Gazpacho andaluso
La storia del gazpacho ha fatto versare fiumi d’inchiostro. A
detta di certuni, nella Roma imperiale i contadini erano già
soliti preparare una vivanda fatta di aglio, olio d’oliva, sale e
pezzetti di pane, denominata salmorium, nome assai simile al
salmorejo, una delle varianti attuali del gazpacho. In ebraico
gazaz significa “rompere in piccoli pezzi”, riferimento
abbastanza preciso, così come la parola latina Caspa che vuol
dire “piccoli pezzi”. Sebbene altri facciano risalire le sue
origini agli arabi e non ai romani, sta di fatto che il gazpacho
affonda le sue radici in Andalusia ove, per secoli, fu uno dei
pilastri delle abitudini alimentari dei contadini. Con il
trascorrere del tempo, la ricetta classica attecchì tra la
popolazione e si arricchì di altri ortaggi. Di fatto, gli
ingredienti di base utilizzati oggigiorno - pomodori, peperoni
e cetrioli - provengono dal continente americano, ragion per
cui si conobbero in Spagna soltanto dopo la scoperta
dell’America.

Ingredienti per due persone:


300 gr di polpa di pomodoro
1/4 di cetriolo
1 peperone rosso
1 cipolla bianca
2 spicchi d’aglio
3 cucchiai di pangrattato
2 cucchiai di aceto di vino rosso
3 cucchiai di olio d’oliva
1 uovo sodo
sale, pepe
Per guarnire: 1 cipollotto

Lavare i pomodori e tagliarli in otto. Sbucciare il cetriolo, tagliarlo a


metà nel senso della lunghezza e raschiare via i semi con un cucchiaio;
tagliuzzarlo grossolanamente e ridurlo in purea nel mixer insieme ai
pomodori e a circa 150 ml di acqua fredda. Tagliare a metà il peperone,

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eliminare il torsolo e lavarlo. Sbucciare la cipolla e tritarla finemente,
ridurre anch’essa in purea nel mixer insieme al peperone e allo spicchio
d’aglio sbucciato. Passare al setaccio la purea di verdure, mescolarvi
insieme il pangrattato e insaporire con sale e pepe. Aggiungere
mescolando l’aceto e l’olio d’oliva e far riposare coperto in frigorifero per 2
ore. Prima di servire, sgusciare l’uovo e tritarlo, lavare e mondare il
cipollotto e tagliare ad anelli la parte bianca e quella verde chiaro.
Distribuire il gazpacho in tazze e servirlo con una decorazione di anelli
di cipollotto.

Locro argentino
Locro, in lingua quechua rucru o lucru, è una minestra a base di
mais bianco. La tradizione Argentina vuole che lo si mangi per
celebrare il 25 Maggio, giorno in cui si commemora la
formazione del primo governo patrio, o durante i matrimoni.
Locro è anche una figura della mitologia greca, figlio
di Zeus e Mera. Stabilitosi in Beozia, insieme ai fratellastri
Anfione e Zeto, innalzò le mura della città di Tebe.

Ingredienti per quattro persone:


300 gr di mais bianco schiacciato/spezzato secco
150 gr di fagioli bianchi secchi
500 gr di zucca
1 patata
1 patata americana
1 gamba di sedano
1/2 peperone rosso o giallo
1 piccolo porro
300 gr di carne di maiale con osso (tipo costine)
1 zampetta di maiale (facoltativa)
200 gr di ossibuchi o di punta di petto di manzo
100 gr di pancetta affumicata a dadini o bastoncini
2 salsicce piccanti

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150 gr di cotenna di maiale
2 foglie d’alloro
cumino in polvere
50 gr di burro
brodo vegetale o acqua
sale grosso

Mettere a mollo per almeno 12 ore i fagioli e il mais, poi lessarli in


acqua salata, infine scolarli e metterli da parte. Mondare tutte le verdure
e tagliarle a pezzetti, scaldare il burro in una pentola molto ampia e
rosolarvi la cipolla e il porro. Aggiungere le verdure, il mais e i fagioli e
metà di brodo, e proseguite la cottura per 20 minuti.
A questo punto unire la carne e ricoprire il tutto con del brodo; proseguire
la cottura fino a quando la carne sarà cotta. Le verdure dovranno
risultare completamente sfatte. Cuocere tenendo sempre la fiamma bassa e
aggiungendo acqua o brodo se necessario. Di fatto è una stufatura molto
lenta. A fine cottura controllare la salatura, insaporire con un cucchiaino
da tè di cumino e servire ben caldo, possibilmente in ciotole di coccio.
L’accompagnamento ideale per il locro è la salsa quiquirimichi, un
condimento piccante di origine andina.

Charles Gabriel Le Bègue, conte di Germiny

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Potage Germiny
Questo piatto è stato creato dallo chef Adolphe Dugleré nel
1869, regnante Napoleone III, al Cafè Anglais di Parigi,
situato all’angolo tra il Boulevard des Italiens e la Rue
Marivaux.
Charles Gabriel Le Bègue, conte di Germiny, era il nome di
un ex governatore della Banca di Francia, buon cliente del
locale.

Ingredienti:
1 l di consommé di bue
4 tuorli
1 dl di panna fresca
20 gr di burro
100 gr di acetosella
80 gr di crostini di pancarrè
cerfoglio per decorare
sale

Mondare l’acetosella, quindi lavarla e tagliarla a striscioline finissime.


Farla stufare in padella con il burro e un po’ di sale. In una terrina
amalgamare i tuorli assieme alla panna e diluire il tutto con un po’ di
consommé. Versare questo composto nella pentola che contiene il
consommé bollente, amalgamando con cura. Rimettere sul fornello,
riscaldare a fiamma bassa e mescolare di frequente, avendo cura che il
potage non superi gli 85 °C. Se non si dispone di un termometro,
osservare attentamente la crema: la preparazione è pronta quando tende
ad addensarsi leggermente e a formare un velo sul cucchiaio. Distribuire
l’acetosella nelle tazze da consommé, versarvi il potage filtrato con il
colino cinese, guarnire con ciuffi di cerfoglio e servire con crostini di pane
fritti o tostati a parte.

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Potage Lamballe
Maria Teresa Luisa era la quarta figlia di Luigi Vittorio di
Savoia-Carignano e di Cristina Enrichetta d’Assia-Rotenburg.
La principessa crebbe a Torino in un ambiente tranquillo e
lontano dagli sfarzi di corte. Fin dall’infanzia fu di indole
quieta e questo carattere spinse il duca di Penthièvre a
sceglierla come sposa per suo figlio Luigi Alessandro di
Borbone (1747-1768), principe di Lamballe, noto per la sua
vita smodata, e amante delle belle donne di qualsiasi casta
sociale.
Questo potage è un piatto della nouvelle cuisine francese, ispirato
dalla morte cruenta della principessa. In seguito alla
Rivoluzione, infatti, il 10 agosto del 1792 la folla inferocita
invase il palazzo reale e la principessa insieme alla famiglia si
rifugiò presso l’Assemblea Nazionale dove venne proclamata
la decadenza dei reali e decisa la loro prigionia presso la Torre
del Tempio il 13 agosto dello stesso anno.
Nei primi giorni di settembre del 1792 a Parigi e in altre città
francesi ebbero luogo i “massacri di settembre” che segnarono
l’inizio del periodo del Terrore. La folla travolse le difese di
diverse prigioni nelle quali erano detenuti gli aristocratici.
Secondo i racconti, i carnefici si accanirono particolarmente
sulla principessa di Lamballe, principalmente a causa della sua
intimità con la regina. La donna fu trascinata all’aperto nel
cortile della prigione e, dopo un sommario processo, la
principessa dovette giurare per la uguaglianza e la libertà del
popolo, ma non dichiarò mai odio contro la monarchia. Fu
sottoposta anche per questo a torture prima di venire
decapitata con un coltello e squartata. La sua testa mozzata
venne issata su una picca e portata in corteo, seguita dal corpo
nudo trascinato sopra il selciato per le gambe, arrivando sotto
le finestre della prigione dove era detenuta Maria Antonietta
con la famiglia. La regina fu invitata a gran voce ad affacciarsi
per dare l’ultimo saluto alla sua amica del cuore, ella però non
vide mai la testa e informandosi di cosa stesse succedendo,
appena apprese di cosa si trattasse da una guardia, cadde

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svenuta… Nel 1929 papa Pio XI attribuì alla principessa di
Lamballe la qualifica di martire.

Ingredienti per quattro/sei persone:


200 gr di piselli secchi
3 cucchiai di tapioca
3 dl di acqua
30 gr di burro
1/2 litro di brodo di dado caldo
sale

Mettere in una terrina i piselli secchi coperti di acqua e lasciarli a mollo


per 12 ore. Scolarli e farli cuocere per due ore in una pentola con acqua
bollente salata. Scolarli e passarli al passaverdure, raccogliendo la purea
in una terrina. Mettere intanto in una casseruola tre decilitri di acqua,
portare a ebollizione e versarvi a pioggia la tapioca; lasciare bollire,
mescolando, per 15 minuti. Aggiungere la purea di piselli e il burro.
Mescolare e diluire con poco brodo caldo per volta. Rigirare e servire.

La morte della Principessa di Lamballe

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Potage Saint-Germain
Il Conte di Saint Germain (1712-1784) è un famoso enigma
irrisolto, misterioso alchimista e avventuriero, una sorta di
Cagliostro alla corte di Luigi XV. Si diceva che avesse
scoperto la pietra filosofale e che avesse restituito al re un
preziosissimo diamante che questi gli aveva affidato per
togliergli una macchia, perfettamente purificato. Correva
anche voce che fosse immortale e che ci fosse gente che
l’aveva incontrato in gioventù, cinquant’anni prima,
perfettamente identico…
Il potage tuttavia non prende il nome dal conte, come alcuni
sostengono ancora, ma semplicemente dalla città di Saint-
Germain-en-Laye, nella regione dell’Île-de-France, nota per la
coltivazione di piselli.

Ingredienti per otto persone:


600 gr di piselli secchi pestati nel mortaio o spezzettati
la parte verde di 1 porro
1 carota, 2 cipolle
150 gr di lardo affumicano
1 mazzetto di odori
1l e 1/2 di brodo
50 gr di burro
50 gr di panna fresca

Lasciare i piselli a macerare in acqua per circa 12 ore. Scolarli e, dopo


averli spezzettati, metterli in una pentola con abbondante acqua,
portando a ebollizione. Quando ciò sia avvenuto, schiumare in superficie
e, solo allora, aggiungere il sale e i legumi elencati all’inizio, in
precedenza saltati al burro. Rimescolare e versare nella minestra anche il
lardo in addetti e il mazzetto di odori. Coprire e lasciar cuocere per circa
un’ora. Passare quindi al setaccio e allungare il composto cremoso che si
ottiene con il brodo. Rimettere in pentola, far bollire ancora e aggiungere
la panna. A cottura ultimata, legare con il burro. Servire con crostoni di
pane dorati al burro.

102
Il Conte di Saint Germain

103
Potage Soissons
Soissons è una cittadina francese situata nel dipartimento
dell’Aisne, nella regione della Piccardia. È una delle più
antiche città della Francia, vecchia capitale dei Suessioni, una
tribù della Gallia Belgica del I secolo a.C. che viveva tra i fiumi
Oise e Marna.
Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, i Franchi,
guidati dal re merovingio Clodoveo, sconfissero il generale
romano Siagrio sotto le mura di questa città, nel 486, in quella
che è passata alla storia come “Battaglia di Soissons”.
La città è anche celebre per essere stata designata dalle
diplomazie francesi e austriache quale luogo d’incontro tra i
novelli sposi Napoleone Bonaparte e Maria Luisa d’Asburgo-
Lorena, dopo la celebrazione a Vienna del loro matrimonio
per procura. Ma Napoleone, il 23 marzo 1810, preferì
anticipare l’incontro e la carrozza con gli sposi cambiò
itinerario, con grande delusione delle autorità locali e della
cittadinanza.
Dall’800, Soissons è nota per i suoi fagioli, anche se la loro
presenza e coltivazione nel territorio si perde in una leggenda
datata molti secoli prima. Durante la Guerra dei Cent’anni, tra
il 1337 e il 1453, mentre la peste devastava la terra, gli abitanti
sopravvissuti fuggirono portando con sé i loro raccolti.
Durante la partenza persero dei semi, che vennero trasportati
dal vento nei campi abbandonati. Al loro ritorno in città
trovarono, con sorpresa, un campo ricoperto di piante di
fagioli. L’umidità della zona fece il resto, favorendo un
raccolto abbondante, che permise di nutrire facilmente tutta la
popolazione.

Ingredienti per quattro persone:


600 gr di fagioli bianchi sgranati
1 carota, 1 cipolla, 1 costa di sedano
2 dadi per brodo di carne
1 dl di panna liquida
40 gr di burro

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sale, pepe bianco

Pulire e lavare le verdure e i fagioli, mettere tutto in una casseruola con


circa un litro d’acqua fredda e poco sale. Portate a ebollizione,
incoperchiare, abbassare la fiamma al minimo e lasciare cuocere a fuoco
basso per circa un’ora. Appena i fagioli saranno cotti, scolare tutto e
passare al passaverdura.
Versare il passato ottenuto in un tegame; far sciogliere i dadi in mezzo
litro d’acqua bollente e unire al passato. Portare a ebollizione mescolando
continuamente; aggiungere la panna e il burro. Mescolare a lungo e prima
che torni a bollire togliere dal fuoco e servire con fette di pane fatte
abbrustolire nel burro.

Potage Solferino
Questo piatto è stato creato per commemorare la famosa
Battaglia di Solferino (24 giugno 1859), combattuta fra
l’esercito austriaco e quello francese durante la seconda guerra
di indipendenza, alla quale parteciparono anche i soldati
dell’esercito piemontese. La battaglia diede origine, come
noto, alla Croce Rossa Internazionale. Lo svizzero evangelico
Henry Dunant giunto il giorno del conflitto, vista la terribile
carneficina e l’impotenza di fronte alla disorganizzazione con
cui furono portati i soccorsi, rimase fortemente impressionato.
Agì quindi per organizzare un minimo di attività di assistenza,
che venne data mediante il trasporto dei feriti presso il duomo
di Castiglione delle Stiviere e lì, con l’aiuto della popolazione,
specialmente femminile, vennero prestati soccorsi a tutti,
senza riguardo alla divisa indossata, avendo come riferimento
il motto “Tutti Fratelli”. In seguito fondò, appunto, la Croce
Rossa e venne insignito del Premio Nobel per la Pace 1901.
Pomodoro e patata nel potage simboleggiano il motivo rosso
su bianco della Croce Rossa, mentre carote e piselli
rappresentano le palle di cannone.

105
Ingredienti per sei persone:
6 pomodori
100 gr di burro
1 cucchiaio di olio
4 porri a fettine
6 patate di media grandezza
sale, pepe
16 cucchiai di panna
8 cucchiai di latte
2 cucchiai di prezzemolo tritato
2 litri d’acqua

Per la guarnizione
4 patate di grande formato
2-3 cucchiai di piselli e carote a dadini lessati

106
Sbucciare le 4 patate per guarnire e utilizzare uno scavino per scavare 30
piccole sfere. Se non si dispone di uno scavino, tagliare le patate a cubetti
di uguali dimensioni di 1 centimetro circa. In una casseruola far bollire le
patate in acqua salata fino a quando saranno tenere, ma non troppo
cotto. Scolarle in un colino e metterle da parte. Immergere i pomodori in
acqua bollente per 2 minuti. Quando saranno abbastanza raffreddati da
poterli gestire, sbucciarli, tagliarli a metà e togliere i semi. Tritare
grossolanamente i pomodori e metterli da parte in una ciotola. In una
grande pentola, far sciogliere il burro con l’olio, a fuoco medio.
Aggiungere i porri e soffriggere fino a che non risultino morbidi e
traslucidi. Incorporare la polpa di pomodoro e far cuocere, mescolando
spesso per circa 3 o 4 minuti. Aggiungere le patate, sale e pepe, e versare
2 litri d’acqua. Portare a ebollizione, poi abbassate la fiamma e far
cuocere per circa 25 minuti fino a quando le patate saranno tenere.
Filtrare il brodo in un’altra pentola. Trasferire le verdure rimaste un
robot da cucina e fonderle in una purea liscia.
Unire la purea al brodo e mescolare per amalgamare bene il tutto.
Mettere la casseruola a fuoco medio e riscaldare la minestra. Quando la
zuppa inizierà a bollire, toglierla dal fuoco e mantecarla con la panna.
La consistenza della zuppa dovrebbe essere sufficientemente spessa per
rivestire il dorso del cucchiaio. Regolare la consistenza con l’aggiunta di
un po’ di latte se troppo densa. Guarnire con il prezzemolo tritato, le
palline di patate lesse o a cubetti, i piselli e le carote. Servire la zuppa con
pane casereccio.

Sopa de gato
Nel XVI secolo la città di Cadice venne assediata da continui
attacchi e saccheggi di pirati: questa situazione causò la fame
tra la popolazione e la fantasia della cucina locale, che portò,
così dice la leggenda, alla realizzazione di questa semplice
zuppa a base di acqua, pane, olio, aglio e sale, ovvero i pochi
ingredienti al tempo di facile reperibilità.

107
Ingredienti per quattro persone:
4 spicchi d’aglio
4/5 fette sottili di pane raffermo
1 l di brodo vegetale o di carne
1 cucchiaio di paprica
olio extra vergine d’oliva
sale
1 uovo (a persona)

In una pentola soffriggere l’aglio (intero o tritato, a seconda dei propri


gusti) con un po’ d’olio. Fare il soffritto a fiamma bassa, in modo da non
bruciare l’aglio. Aggiungere il pane a fettine e mescolare bene per farlo
tostare e fare in modo che assorba l’olio. A questo punto togliere la
pentola dal fuoco e aggiungere la paprica, mescolare e, quindi, versare il
brodo, intiepidito, a poco a poco. Rimettere sul fuoco e lasciare cucinare
fino a quando bolle. A cottura ultimata, aggiungere le uova una ad una e
mescolare, in modo tale che il calore della zuppa faccia cucinare bene le
uova.

Stracciatella alla romana


Piatto sobrio della cucina laziale, un tempo preparato quando
avanzava del brodo e c’era così l’esigenza di recuperarlo.
Questa ricetta, dice la leggenda, si sviluppò a Roma alcuni
secoli fa, quando tra i piatti poveri della tradizione natalizia
rientrava il brodo di gallina che, avanzato in seguito alla
lessatura della carne per il giorno di Natale, veniva riciclato nei
giorni successivi con l’aggiunta di uovo sbattuto, per renderlo
più nutriente e, in base alle conoscenze e alle usanze
dell’epoca, “depurativo”.
È appellata “stracciatella” perché l’uovo sbattuto, una volta
rappreso, assume la forma di piccoli straccetti.

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Ingredienti per quattro persone:
1 l e 1/2 di brodo
4 uova intere
8 cucchiai di parmigiano grattugiato
1 grattugiata di noce moscata
sale
buccia grattata di 1 limone

Filtrare il brodo di carne in una casseruola (o preparare il brodo di dado


facendo bollire tre dadi in acqua) e farlo bollire a fuoco basso. Sbattere le
uova con una forchetta insieme alla buccia grattata di un limone, al sale,
al parmigiano grattugiato e alla noce moscata. Quando il brodo bolle
versare l’uovo e con una frusta continuare a mescolare in modo che si
formino i classici straccetti. Tempo due minuti e la stracciatella è pronta
per essere servita.

Vichyssoise
La Vichyssoise è una creazione datata 1917 dello chef Louis
Diat del Ritz-Carlton Hotel di New York. Ispirandosi ai bei
ricordi della zuppa di porri e patate di sua madre, Diat diede
vita alla sua crema fredda intitolata alla città francese di Vichy,
casa dei genitori.
Curiosamente, lo chef non menzionò il piatto nel suo libro di
cucina del 1946.
Alcuni chef francesi di New York cercarono di cambiarne il
nome in Crème gauloise, a causa del loro odio per il governo
filonazista stabilitosi a Vichy, durante l’occupazione tedesca
della madrepatria. Solo dopo la seconda guerra mondiale il
nome originale venne recuperato, apparendo in certi casi
anche come Vichyssoie à la Ritz.

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Ingredienti per quattro persone:
1 l di brodo di pollo
2 cuori di sedano
2 porri
2 patate
1/5 di panna
prezzemolo tritato
sale, pepe

In una casseruola raccogliere i cuori dei sedani, le patate e la parte bianca


dei porri tagliati a pezzetti, coprire il tutto con il brodo, regolare sale e
pepe, cuocere per circa 30 minuti. Ritirare e frullare. Porre di nuovo sul
fuoco e amalgamare la panna al frullato. Versare la crema in fondine
singole, lasciarle intiepidire, poi metterle in frigorifero. Al momento di
portarla a tavola cospargere con un pizzico di prezzemolo fresco tritato.

Zuppa di cipolle
E’ un piatto dalla lunga storia e tradizione: ci sono infatti
testimonianze di questa ricetta già in epoca romana. La cipolla
è un ingrediente povero, facile da coltivare e che ben si adatta
a vari tipi di terreno, quindi per molti secoli è stato
considerato un piatto popolare.
Ma l’apice del successo della zuppa si raggiunse quando iniziò
ad essere servita alla corte di Luigi XV di Francia. La leggenda
narra che fu il re stesso a inventarsela quando, una notte,
affamato, scese in cucina e la preparò con i primi ingredienti
che trovò a portata di mano: burro, cipolle e champagne…
Nel 1831 fu pubblicata ufficialmente la ricetta della zuppa di
cipolle alla francese nel ricettario Libro di tutte le famiglie.
Sempre durante l’800, in Francia, venne creata la Società della
cena a base di zuppa di cipolle, composta da 20 illustri membri che
si riunivano regolarmente e iniziavano sempre il pasto con
questa pietanza.

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Ingredienti per quattro persone:
250 gr di cipolle bianche
150 gr di cipollotti bianchi freschi
100 gr di scalogno
200 gr di panna fresca
50 gr di burro
1 l e 1/2 di brodo di carne o vegetale
1/2 bicchiere di vino bianco
sale, pepe

Affettare finemente cipolle, cipollotti e scalogno, quindi farli appassire nel


burro, salare e cuocere per 15 minuti, mescolando spesso, finché non
prendono colore. Sfumare con il vino bianco e quando sarà evaporato
aggiungere il brodo, far sobbollire per circa 15 minuti e unire anche la
panna, sistemare di sale e pepe e continuare la cottura per altri 10
minuti. Servire.

Zuppa Esaù
Esaù è un personaggio dell’Antico Testamento, figlio di
Isacco e Rebecca e fratello gemello di Giacobbe, le cui
vicende sono narrate nella Bibbia, nel libro della Genesi.
Questo racconta che quando Esaù nacque era rossiccio e
peloso. Una volta, rientrato affamato dalla campagna, vide
Giacobbe che aveva cotto un piatto di lenticchie, una zuppa
rossa. Quando gli chiese da mangiare poiché sfinito, Giacobbe
chiese in cambio la primogenitura, ed Esaù accettò…
Questo primo in brodo, prodotto con lenticchie rosse, si
ispira a questa nota vicenda biblica.

Ingredienti per sei persone:


500 gr di carne trita di manzo magra
4 cucchiai di olio extravergine d'oliva

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2 carote a dadini
1 gambo di sedano tritato
1 cipolla tritata
250 gr di passata rustica o polpa di pomodoro
5 bicchieri d'acqua
300 gr di lenticchie secche, ben lavate
1 spicchio d'aglio schiacciato
1 foglia di alloro
prezzemolo (facoltativo)
sale, pepe

Mescolare la carne trita con una punta di cucchiaino di sale e una presa
di pepe, formando delle palline molto piccole. In una padella dal bordo
alto o in una pentola, preparare il soffritto con le verdure e cuocervi le pol-
pettine, rosolandole bene a fiamma vivace per una decina di minuti. L'a-
glio schiacciato può essere messo all'ultimo oppure si può unirlo al soffrit-
to. Versare in pentola il pomodoro e lasciar sobbollire il tutto per 5 mi-
nuti, poi aggiungere l'acqua, 1 cucchiaino di sale e continuare le cottura

112
delle polpette nel sugo. Al primo bollore dell'acqua appena aggiunta, uni-
re le lenticchie e l'alloro, dunque lasciar cuocere la minestra a fuoco basso,
coperta, per mezz'ora abbondante. Togliere la pentola dal fuoco e verifica-
re la cottura delle lenticchie: se necessario, aggiungere acqua e rimetterle
sul fuoco, ma senza eccedere con i tempi altrimenti risulteranno disfatte.

Zuppa Mulligatawny
E’ una zuppa nata nell’800 per deliziare il palato degli
amministratori inglesi che risiedevano in India. Agli indiani era
del tutto sconosciuto l’uso di servire una zuppa per cena, così
come d’uopo in Inghilterra. Con degli ingredienti base della
loro cucina, crearono questo ibrido per accontentare i loro
governatori. Nonostante il nome mulligatawny in lingua tamil
significhi “pepper water”, il pepe non è tra gli ingredienti
principali, né vi è traccia di peperoni.

Ingredienti per quattro persone:


2 cipolle piccole
2 gambi di sedano
2 carota
200 gr di petto di pollo
160 gr di riso basmati
60 gr di burro
40 gr di farina
40 ml di panna
2 cucchiaini di curry
1l e 1/2 di brodo di pollo
1 mela
sale, pepe

Scaldare il burro in una pentola, senza farlo sfrigolare, aggiungere


cipolla, sedano, carota tagliate a piccoli pezzetti e lasciare rosolare un
paio di minuti. Aggiungere farina e curry, continuare la cottura per altri

113
2 minuti rosolando (formando una specie di roux). Aggiungere il brodo e
portare a ebollizione; dopo circa 30 minuti aggiungere la mela tagliata a
piccoli cubetti e sottili listarelle di pollo, cuocere ancora 10 minuti.
Inserire il riso basmati pilaw e cuocere per 15 minuti circa. Aggiustare di
sale e pepe. Servire ben caldo dopo aver unito la panna.

Zuppa pavese
Secondo la tradizione, la ricetta ebbe origine da un episodio
che vide protagonista Francesco I di Francia, il quale, durante
la battaglia di Pavia (24 febbraio 1525), fu fatto prigioniero e
condotto presso una cascina vicina per rifocillarsi (Cascina
Repentita). La leggenda narra che la contadina, presa alla
sprovvista, non trovò di meglio che servire all’illustre ospite
una zuppa composta da ciò che aveva al momento
disponibile, inventando quindi la famosa zuppa. Francesco I,
tornato in patria dopo un anno di prigionia, introdusse a corte
questa zuppa che ebbe un tale successo da divenire ben presto
una celebre pietanza destinata a fama secolare.

Ingredienti per quattro persone:


80 gr di burro
8 uova
8 fette di pane francese senza buchi
4 cucchiai di parmigiano
1 l di brodo di carne

Mettere a scaldare il brodo. Friggere nel burro le fette di pane, facendole


rosolare leggermente da ambedue le parti: il pane non deve spezzarsi o
sbriciolarsi, ma riuscire croccante esternamente e morbido all’interno.
Posare due fette di pane in ogni piatto fondo, rompervi sopra due uova,
spolverizzare con abbondante parmigiano, quindi versarvi, senza farlo
cadere sulle uova, il brodo ben bollente e servire.

114
PRIMI ASCIUTTI

115
116
Bucatini alla Caruso
Il nome di Enrico Caruso è uno dei più illustri e conosciuti
tenori del mondo della lirica. In Italia la sua fama è legata agli
esordi della sua carriera di cantante, partita da Napoli alla fine
del XIX secolo; in America, dove dal 1903 il suo nome si
diffuse rapidamente tra gli appassionati melomani, fu per
vent’anni protagonista delle scene operistiche.
Oggi, Caruso è conosciuto a molti anche grazie a una canzone
a lui dedicata dal cantautore italiano Lucio Dalla, scritta
nell’albergo di Sorrento in cui Caruso soggiornò prima del
malore che gli fu fatale. I bucatini sarebbero stati ideati
proprio dal tenore, durante una delle sue tante visite nella città
di Napoli. Si narra che non trovando un’accoglienza
particolarmente calorosa durante le sue esibizioni, tornasse in
città solo per gustare questo piatto a lui molto caro, che
avrebbe suggerito allo staff di ben due alberghi, nei quali era
solito soggiornare durante le sue visite in Campania.

Ingredienti per quattro persone:


300 gr di bucatini
pomodori freschi o pelati q.b.
1 peperone dolce rosso o giallo
2 spicchi d’aglio
1 peperoncino
olio extravergine di oliva
origano
basilico
prezzemolo
1 zucchina

In una padella far soffriggere nell’olio gli spicchi d’aglio tagliati in


quattro. Quando cominciano a imbiondire, togliere gli spicchi dalla
padella e aggiungere i pomodori a pezzetti con il peperone tagliato
grossolanamente. Alzare la fiamma e aggiungere al sugo l’origano, il
peperoncino sbriciolato e abbondante basilico. Nel frattempo, tagliare a
rondelle la zucchina, infarinarla e friggerla a parte. Mentre si

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completeranno le altre operazioni, far cuocere la pasta al dente in
abbondante acqua salata. Scolarla e condirla col sugo preparato, le
zucchine fritte e una spolverata di prezzemolo.

Enrico Caruso

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Bucatini all’Amatriciana
L’amatriciana (in romanesco matriciana a causa dell’aferesi) è
un condimento per la pastasciutta, tipico delle osterie e
trattorie romane. Prende il nome da Amatrice, una cittadina in
provincia di Rieti.
Nell’800, nel rione Ponte (zona di piazza Navona area ponte
Sant’Angelo), esisteva un vicolo chiamato de’ Matriciani (dopo
il 1870 vicolo degli Amatriciani) e una piazza (oggi Piazza
Lancellotti) dove i Grici (Sabini) tenevano mercato, vendendo
pane, salumi e formaggi dei monti Sibillini; sostavano poi nei
pressi di una locanda chiamata L’Amatriciano. Questo sugo è
figlio quindi della gricia (o griscia), piatto di spaghetti o
maccheroni conditi con olio, pepe e barbozzo o guanciale,
nato in un paese reatino di nome Grisciano. Cosa certa è che
l’aggiunta della salsa di pomodoro risale alla fine del XVII
secolo. La prima testimonianza scritta dell’uso del sugo
all’amatriciana per condire la pasta la si trova nel manuale di
cucina del cuoco romano Francesco Leonardi, che la servì alla
corte del Papa. Fu un colpo di alta classe: alla maniera dei
matriciani Leonardi impose un piatto popolare a un banchetto
al Quirinale in onore di Francesco I Imperatore d’Austria,
organizzato da Papa Pio VII nell’aprile del 1816. Romano di
nascita, Leonardi aveva lavorato nelle corti in Francia con
Richelieu, oltre che in Polonia, Turchia, Germania e
Inghilterra, fino ad arrivare, con il ruolo di cuoco, alla corte di
Caterina II di Russia. Nel 1790 scrisse un’enciclopedia di
cucina in 7 volumi, L’Apicio Moderno ossia l’arte di apprestare ogni
sorta di vivande.
Leonardi, che volle essere illuminista e moderno (nel senso di
dare un aspetto scientifico al suo lavoro) rivaleggiò con
Carême (con cui si scontrò nei pranzi durante il Trattato di
Vienna) e Alexandre Dumas, stilando un elenco di 3000
ricette con storie e suggerimenti. Fu il primo cuoco a usare
stabilmente i pomodori e vanta come propria l’invenzione
della classica combinazione napoletana della pasta al
pomodoro. Il suo sugo, ottenuto con pomodori privi di semi e

119
fatti sobbollire aggiungendo cipolle, sedano, aglio, basilico, è
tutt’oggi immutato. Di certo rese merito all’amatriciana,
trasformando un piatto popolano come la gricia in un piatto
alla moda. La sua versione prevede maccaroni, guanciale di
Amatrice, pommidori, cipolla e pecorino. Da allora e sino
all’inizio del ‘900, la popolarità di questo piatto era indiscussa
a Roma, tanto che parecchi osti presero l’appellativo di
matriciani per indicarne la professione. È un piatto talmente
famoso che nel 2002 persino lo chef Ferran Adrià lo ha
incluso nel menu di El Bulli.

Ingredienti per quattro persone:


400 gr di bucatini
150 gr di guanciale
50 gr di pecorino romano grattugiato
sale, peperoncino rosso

Porre sul fuoco una pentola con quattro litri di acqua e quattro
cucchiaini di sale fine. Tagliare a fettine non troppo sottili il guanciale e
poi ricavare delle listarelle non superiori ai 2 cm di larghezza: metterle in
una padella e far soffriggere a fuoco lento in modo che si colorisca, ma
senza bruciare. Appena il guanciale ha cominciato a fondere, unire un
pezzetto di peperoncino. Quando l’acqua sta per iniziare l’ebollizione
buttare la pasta, mescolare, portare a cottura, versarla in una terrina e
condirla con il guanciale e del pecorino grattugiato al momento.
Questa è la ricetta originale, quella moderna vede anche la presenza del
pomodoro.

Borlenghi
È probabile che già nel medioevo il borlengo fosse diffuso
nella prima collina tra Bologna e Modena, ma c’è chi ipotizza
che le sue radici affondino addirittura nella preistoria.
La datazione più antica risale al 1266 a Guiglia, durante

120
l’assedio del castello di Montevallaro da parte delle truppe
guelfe modenesi della famiglia degli Algani, guidate da Nisetta
degli Osti, Ruffo dei Rossi, Pepetto dei Trenta e Crespan
Doccia. I difensori del maniero, Ugolino da Guiglia e la
famiglia dei Grasolfi, sarebbero riusciti a resistere per lungo
tempo grazie a delle grandi ostie di farina e acqua impastate,
cotte e insaporite con erbe, prima di arrendersi il 4 luglio. Con
il protrarsi dell’assedio la farina scarseggiava sempre più e le
ostie divenivano sempre più piccole e sottili, quasi trasparenti:
vennero quindi “degradate” dal rango di cibo a quello di
“burla”, o “burlengo”, da cui il termine odierno. Tale
preparazione si diffuse a tutto il resto dell’Appennino grazie ai
pochi superstiti dell’assedio.
Scendendo lungo il Panaro, a Vignola, la leggenda vuole che
tale alimento sia stato preparato in circostanze simili, ossia
durante l’assedio del castello governato da Iacopino Rangoni,
avvenuto nel 1386 ad opera dell’esercito del conte Giovanni
da Barbiano, alleato di Isacco e Gentile Grassoni.
Un’origine più incerta invece è quella che si tramanda a Zocca,
dove i borlenghi pare scaturirono da una frode: si narra infatti
di un bottegaio che nei giorni di mercato vendeva pane e
focacce, allungando però l’impasto con acqua a seconda del
numero di avventori.
Infine a Montombraro permane il collegamento con la
“burla”: un signorotto locale, infatti, avrebbe servito tale
sottile sfoglia ad amici e conoscenti, che erano stati riuniti a
convivio con la promessa di un pasto abbondante. Purtroppo
per lui, gli ospiti gradirono talmente quel cibo così insolito da
venirne conquistati e insistere per essere invitati a tavola
numerose altre volte.

Ingredienti:
500 gr di farina
1 uovo
500 ml di latte
sale q.b.

121
150 gr di lardo di maiale
1 spicchio d’aglio
100 gr di parmigiano grattugiato
rosmarino q.b.

Setacciare la farina in una capiente terrina; aggiungere un pizzico di sale


e il latte e mescolare rapidamente, aggiungere anche l’uovo
precedentemente sbattuto e, con l’aiuto di una frusta, preparare una sorta
di pastella fluida, totalmente priva di grumi. Lasciare riposare la pastella
per almeno un’ora. Nell’attesa preparare un battuto fine di lardo, aglio e
prezzemolo. Scaldare bene una padella su fuoco vivace. Prendere un
mestolo di pastella e porlo al centro della padella: facendola ruotare
ricoprire tutta la superficie, creando uno strato sottilissimo. Attendere che
il borlengo si sia rappreso, quindi girarlo; ricoprirlo con il battuto di
lardo, aglio e rosmarino e con del parmigiano. Con l’aiuto di una spatola
prendere il borlengo e piegarlo in quattro. Va mangiato all’istante,
ancora bollente.

122
Fettuccine Alfredo
Da noi è un semplice piatto di pasta affogato nel burro e
formaggio grattugiato, mentre negli Stati Uniti è uno dei
simboli della cucina italiana.
Pare che dei “maccaroni romaneschi” erano già citati nel XV
secolo nel Libro de arte coquinaria, scritto da Martino de’ Rossi,
cuoco e gastronomo del nord Italia attivo a Roma. La sua
opera è considerata tutt’ora un caposaldo della letteratura
gastronomica italiana che testimonia il passaggio dalla cucina
medievale a quella rinascimentale.
Ma la storia più affascinante dell’origine di questa pasta la
dobbiamo forse a una gestante, moglie di Alfredo di Lelio,
ristoratore romano gestore del noto Alfredo alla Scrofa. Era il
1914 e pare che per far tornare l’appetito alla moglie incinta
creò delle invitanti fettuccine al triplo burro, che poi
ribattezzò con il proprio nome.
Leggenda o realtà, fatto sta che il piatto divenne molto famoso
e apprezzato, in particolare dalla numerosa clientela americana
che frequentava il suo locale, tra cui spiccavano anche alcune
celebrità di Hollywood. Negli Stati Uniti è oggi facile
imbattersi nelle Fettuccine (o Fettuccini) Alfredo, ma spesso si
tratta di una ricetta completamente diversa dall’originale, con
aggiunta di panna, pollo, prosciutto o crostacei…

Ingredienti per quattro persone:


400 gr di farina
semola di grano duro rimacinata per spolverizzare
4 uova medie
80 gr di burro
80 gr di formaggio grattugiato
sale

Per prima cosa realizzare la pasta fresca all’uovo: setacciare la farina in


una ciotola (rimanere un po’ indietro con la dose di farina in modo da
aggiungerne al bisogno) e aggiungere le uova. Lavorare con le mani fino a
quando non si sarà ottenuto un impasto omogeneo, poi trasferirlo su un

123
piano di lavoro e finire di impastare; se l’impasto sembrerà troppo
morbido aggiungere poca farina in più, se risultasse asciutto aggiungere
pochissima acqua. Quando l’impasto sarà liscio ed elastico, formare una
palla, avvolgerla nella pellicola e lasciarla riposare a temperatura
ambiente per 30 minuti in modo che il glutine si rilassi e l’impasto sia
più facile da stendere. Trascorsa mezz’ora, spolverizzare leggermente il
piano di lavoro con la farina e dividere l’impasto in 4 parti usando una
spatola piatta: lavorare una parte per volta e lasciare il restante impasto
coperto con pellicola per evitare che si asciughi. Infarinare leggermente la
parte di impasto che si andrà a stendere e cominciare a passarla nella
macchina per fare la pasta, partendo dallo spessore più largo; aggiungere
un pizzico di farina per evitare che l’impasto si stracci. Ripetere
l’operazione più volte fino ad arrivare al penultimo numero. Se non si
possiede la macchina per fare la pasta, stendere l’impasto con il
mattarello, arrotolando la sfoglia sul mattarello e srotolandola più volte
fino a raggiungere uno spessore di pochi millimetri. A questo punto
dividere le sfoglie ottenute in 2 o 3 parti, a seconda della lunghezza e
passarle nuovamente nella macchinetta al penultimo numero per evitare
che si ritirino. Spolverizzare le sfoglie con la semola e lasciarle asciugare
per un paio di minuti. Nel frattempo, mettere a bollire una pentola
capiente di acqua salata che servirà per cuocere le fettuccine. Una volta
che la pasta si sarà asciugata, prendere una sfoglia e avvolgerla su se
stessa dal lato più corto, facendo attenzione a non pressare per evitare che
gli strati sovrapposti si incollino fra di loro. Quando si sarà ottenuto un
cilindro di forma regolare, tagliare delle rondelle di circa 4 mm di spessore
con un coltello. Srotolare le rondelle afferrandole per un’estremità,
arrotolare le fettuccine ottenute intorno alla vostra mano per formare un
nido e lasciarlo a riposare sul piano di lavoro, mentre si procede nello
stesso modo con il resto delle sfoglie. Quando le fettuccine saranno tutte
pronte, cuocerle nell’acqua che sarà arrivata a bollore. Mentre la pasta
cuoce, basteranno 2-3 minuti, preparare il condimento: in una padella
capiente, far sciogliere il burro a fuoco molto basso, facendo attenzione che
non si bruci e aggiungere un mestolo di acqua di cottura della pasta:
l’amido in essa contenuto contribuirà a dare cremosità al condimento.
Scolare le fettuccine e aggiungerle direttamente nella padella con il burro,
versare un altro mestolo di acqua di cottura e saltare brevemente il tutto

124
mescolando velocemente. A questo punto spegnere il fuoco e aggiungere il
formaggio grattugiato; in ultimo condire con un pizzico di sale e
un’abbondante macinata di pepe nero e mescolare ancora per amalgamare
bene la pasta col condimento. Le fettuccine sono pronte per essere servite.

Fettuccine alla papalina


Diventato Papa nel 1939, negli anni '50 Pio XII si trovò di
fronte a una Roma dove impazzavano gli spaghetti alla
carbonara. Il Pontefice chiese al cuoco del Vaticano di
realizzare una versione più delicata e “aristocratica” di quel
piatto. Il cuoco sostituì allora la pancetta e il guanciale con il
prosciutto crudo, il parmigiano con il pecorino e l’aglio con la
cipolla, soffritta nel burro. Quest’ultimo, assieme al tuorlo
d’uovo, aggiungeva maggiore cremosità. Come pasta la
preferenza andò su quella all’uovo e in particolare alle
fettuccine tipiche della Ciociaria.
Esistono però numerose versioni di questa ricetta e anche i
racconti sulle sue origini sono discordi. Livio Jannotti nel suo
libro La cucina romana e del Lazio in 400 ricette tradizionali, fa
infatti risalire la ricetta a Cesaretto Simmi, titolare del
Ristorante del Colonnato di via del Mascherino, a due passi da
Piazza San Pietro, che “aveva spesso l’occasione di fornire
pranzi direttamente in Vaticano”. Attorno al 1935 il futuro
Papa Pacelli, allora Segretario di Stato, aveva chiesto al
ristoratore “una pasta un po’ speciale” per stupire un gruppo
di ospiti stranieri.
Di fatto, al di là delle possibili e comunque affascinanti origini,
la papalina divenne ben presto uno dei cavalli di battaglia delle
osterie di Trastevere, Testaccio, Sant’Angelo e degli altri rioni
della capitale, e molto apprezzata tutt’oggi.

Ingredienti per quattro persone:


350 gr di fettuccine

125
100 gr di prosciutto crudo (o cotto)
2 uova
3-4 cucchiai di formaggio grattugiato
vino bianco q.b.
1 cipolla
40 gr di burro
sale, pepe

Tritare la cipolla e soffriggerla in padella con il burro, quindi unirvi il


prosciutto tagliato a pezzetti e sfumare con il vino bianco. In una terrina
sbattere le uova e mescolarle con il formaggio grattugiato. Nel frattempo
lessare la pasta e, una volta cotta, ripassarla in padella con il prosciutto.
Spegnere il fuoco e unire il composto di uova, aggiungendo se necessario
un po’ d’acqua di cottura della pasta. Completare con sale, pepe e servire.

Papa Pio XII

126
Lasagne alla bolognese
E’ il nome di una delle più antiche forme di pasta, di solito
rettangolare o a nastro, e un po’ più spessa di una tagliatella.
L’italiano lasagna sembra riallacciarsi al greco lasanon, in latino
lasanum, con cui si indicava il treppiede da portare sul fuoco o
anche il recipiente che serviva per la cottura dei cibi. Era poi
indicata come laganon e laganum una sfoglia sottile ricavata da
un impasto a base di farina di grano, che veniva cotto al forno
o direttamente sul fuoco. Nel ricettario di Apicio queste
sfoglie di pasta sono impiegate per ricoprire tortini, ma anche
per preparare un piatto cotto al forno detto lagana, in cui le
sfoglie venivano intercalate a farcia di carne.
Solo più tardi, nei secoli VI e VII, è testimoniata la cottura a
calore umido, ossia in acqua, di questo alimento.
Nel 1200 le lasagne erano già così conosciute e diffuse che
comparivano nelle opere di diversi autori, come il poeta
Jacopone da Todi o Cecco Angiolieri.
L’epopea di questa pasta variamente farcita esplose poi col
Rinascimento italiano e l’attuale ricetta delle lasagne alla
bolognese potrebbe risalire al tardo ‘600, con l’opulenza che
ben riflette i fasti dell’epoca barocca. Poi, con il trascorrere del
tempo, le lasagne sono diventate il cibo d’eccellenza da offrire
in ambito casalingo in occasione della festa: uno dei piatti
nazionali italiani per eccellenza.

Ingredienti per sei persone:


Per la sfoglia

3 uova

350-400 gr di farina

400 gr di spinaci già puliti e lavati
Per il ragù


150 gr di pancetta tesa

700 gr di macinato misto (lombo di maiale e muscolo di manzo)

90 gr di burro

1/2 bicchiere di vino bianco secco

300 gr di passata di pomodoro


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1 gamba di sedano

1 carota

1 cipolla

2 cucchiai di concentrato di pomodoro

sale grosso, pepe

Per la besciamella:

1 dose e mezzo di besciamella
formaggio grattugiato

Scaldare l’olio e il burro in una casseruola dal fondo pesante sul fuoco,
aggiungere la cipolla tritata e farla rosolare dolcemente, quindi unire il
sedano e la carota tritati e rosolare anche questi. Aggiungere la pancetta
e, dopo un minuto, la carne macinata. Far rosolare a fiamma alta
mescolando continuamente e sgranando con un cucchiaio. Quando
cambierà colore, aggiungere sale grosso e pepe fresco di mulinello. Sfumare
con il vino bianco, che si farà evaporare. Unire la passata di pomodoro e
i due cucchiai di concentrato. Mescolare e far prendere il bollore, quindi
coprire e cuocere per circa due ore a fuoco lentissimo. Trasferire nel
frattempo gli spinaci in una casseruola con un dito di acqua, salarli e
cuocerli, leggermente coperti, fino a quando saranno diventati teneri.
Scolarli, bloccare la cottura sotto l’acqua fredda corrente e strizzarli
molto bene, in modo che non rilascino residui di acqua. Metterli nel vaso
del mixer e tritarli finemente. Preparare la sfoglia: impastare gli
ingredienti a mano o con la planetaria fino ad ottenere una pasta
omogenea, liscia ed elastica, che si metterà all’interno di un sacchetto di
plastica per alimenti ben chiuso. Far riposare per almeno 1 ora a
temperatura ambiente. Stendere la sfoglia con il mattarello sulla
spianatoia infarinata portandola ad uno spessore non troppo sottile e, con
un coltello da cucina affilato o una rotella tagliapasta, ricavarne dei
rettangoli che dovranno avere delle dimensioni appena inferiori a quelle
della teglia. Porre una grande casseruola piena di acqua sul fuoco e
portarla ad ebollizione. Salarla e aggiungere un po’ di olio. Lessare
quindi un rettangolo di pasta alla volta, girandolo, quando salirà a galla
trasferirlo, aiutandosi con una schiumarola, nella ciotola con acqua
fredda, scolarlo e tamponarlo bene con un canovaccio. Disporre un primo

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rettangolo all’interno della teglia in modo da ricoprire il fondo. Fare uno
strato di besciamella, avendo cura di raggiungere bene i bordi e coprire
con del ragù. Cospargere con abbondante formaggio grattugiato. Coprire
con un altro rettangolo di pasta e procedere in questo modo fino ad
esaurimento degli ingredienti. Fare in tutto 5-6 strati. Terminare
coprendo il tutto con un ultimo rettangolo di pasta, che arrostirà durante
la cottura diventando croccante. Preriscaldare il forno a 180 °C,
modalità ventilata. Prima di infornare, porzionare con un coltello le
lasagne. Farle cuocere per circa 45 minuti, o comunque fino a quando
esse si saranno gonfiate e saranno ben calde anche all’interno. Sorvegliarle
di frequente e, se dovessero prendere troppo colore, coprirle con un foglio di
alluminio. Eliminare lo strato di pasta a copertura e far gratinare per
qualche minuto. Sfornare, far assestare per 5 minuti e servire.

Paella valenciana
L’origine del nome del piatto più famoso della cucina spagnola
proviene dal nome della pentola nella quale si cucina, cioè
paella o paellera. Infatti la paella è una padella alla quale è stato
tolto il manico per sostituirlo con due maniglie in grado di
sostenere il peso della pietanza; possiede un diametro minimo
di 20 cm e a seconda di questo varia l’altezza dei bordi e di
conseguenza anche il numero delle razioni da cucinare. Il
materiale principale con il quale viene fabbricata una padella di
qualità è il ferro lavorato a mano o l’acciaio.
Possiamo datare la nascita del piatto tra il XV e XVI secolo,
per la necessità di servi, contadini e pastori di avere un pranzo
facile da realizzare e trasportare, composto da ingredienti
presenti attorno a loro, in certi casi anche provenienti dagli
scarti delle tavole dei nobili. Per quanto riguarda la paella de
marisco, di pesce, non ci sono date certe in merito alla sua
origine: si tratta di una versione della costa, alternativa a quella
della campagna.
La tradizione vuole che la paella venga cucinata all’aria aperta e

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possibilmente con legna d’arancio, che a Valencia è facile da
trovare.

Ingredienti per quattro persone:


320 gr di riso

700 gr di pollo

300 gr di coniglio

1 cucchiaio di paprika dolce

zafferano 

12 cucchiai di pomodoro fresco

400 gr di fagiolini piattoni

100 gr di fagioli

3 o 4 carciofi

100 grammi di fagioli bianchi
olio
sale
acqua

In una paellera o in una padella grande antiaderente soffriggere pollo e


coniglio e, quando iniziano a dorarsi, aggiungere anche la verdura e
lasciar dorare per un paio di minuti. Aggiungere anche il pomodoro
facendo attenzione che la fiamma non sia troppo alta altrimenti, a
contatto con il calore, il pomodoro si brucia e il risultato finale è una
paella bruciata. Aggiungere acqua fino a coprire tutti gli altri ingredienti,
salare e lasciar cuocere per almeno 20 minuti, se necessario aggiungendo
altra acqua in modo che la carne e la verdura non si secchino. Trascorsi i
20 minuti, con l’acqua ridotta ma ancora in padella, aggiungere il riso e
anche lo zafferano, mescolare e lasciar cuocere per circa 8 minuti.
Abbassare la fiamma e lasciar cuocere per altri 6-7 minuti, quindi
abbassare ancora la fiamma e cuocere per 4 minuti infine alzarla di
nuovo e lasciar cuocere per gli ultimi 3-4 minuti a fuoco medio. E’
necessario non mescolare mai il riso una volta che lo si cuoce altrimenti
non riuscirà ad assorbire il liquido e il risultato sarà un risotto. Lasciar
riposare la paella per 5 minuti in modo da far assorbire l’ultimo liquido
restante, decorare la paellera con verdura a piacere e servire.

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Paniscia novarese
Non ci sono molte certezze sull’origine di questo piatto tipico
piemontese e più nello specifico novarese. Sembra che il suo
nome derivi dal fatto che originariamente si utilizzava il
panìco al posto del riso o comunque un cereale di poco
pregio. Il termine latino paniculum, “migliaccio”, fatto con il
miglio, sembrerebbe la radice etimologica del nome. Dalla
stessa radice deriverebbero anche le altre varianti di questo
piatto tipico: la Panissa vercellese (senza le verdure) o la
Paniccia della Val Sesia. Infatti sembra che le origini di questo
piatto siano molto antiche addirittura prima dell'introduzione
della coltivazione del riso in Piemonte (1500).

Ingredienti per quattro persone:


350 gr di riso
200 gr di fagioli borlotti secchi
400 gr di cavolo bianco (verza)
2 coste di sedano
1 carota
1/2 cipolla
3 pomodori perini pelati e privati dei semi
50 gr di cotenne di maiale
75 gr di pancetta tritata finemente
25 gr di burro
1 salamino della duja (cioè conservato nello strutto) oppure 1 salamella
morbida
2 l d’acqua
1 dado di carne
1/2 bicchiere di vino rosso
sale, pepe

Mettere i fagioli secchi in una terrina, coperti con acqua tiepida, per 12
ore. Scottare per 5 minuti in acqua bollente le cotenne e tagliarle a
listarelle. Pulire e lavare tutte le verdure. Spezzettare le foglie di verza e
tagliare a pezzettini la carota, il sedano e i pomodori. Scolare i fagioli e
metterli in una pentola con tutte le verdure, le cotenne, il dado, l’acqua e

131
un pizzico di sale. Incoperchiare, portare a ebollizione e lasciar cuocere
lentamente per circa 2 ore. Tritare intanto la cipolla con il salame,
mettere in un casseruola il burro e la pancetta, unire il salame e la
cipolla, lasciar rosolare a fuoco basso per 10 minuti. Unire il riso e,
rigirando con il cucchiaio di legno, farlo insaporire, quindi, sempre
girando, unire il vino e lasciarlo evaporare. Continuare la cottura del
riso, aggiungendo poco alla volta il brodo e le verdure ormai cotte, e
continuare a rigirare sino a che il riso sarà cotto. Pepare, togliere dal
fuoco, e lasciar riposare per 5 minuti, prima di servire in tavola.

Ravioli e Agnolotti
Esiste un atto notarile ligure datato 1182 in cui un fittavolo
agricolo di Albenga si impegnava a dare al padrone
annualmente, fra l’altro, una certa quantità di “ravioli”, e si
vuole che quella sia stata la prima volta nella storia in cui è
menzionato il raviolo-agnolotto, ma ve ne sono citazioni più
antiche.
Probabilmente era già conosciuto dagli Arabi, forse anche
dalla tarda romanità, sia pure non nella sua forma attuale.
Vi era poi a Gavi nel 1200 una famiglia Raviolo che batteva
insegna di osteria e serviva alla gente qualcosa che somigliava
a un piatto di ravioli…
Anche Boccaccio usa la parola nel Decamerone, ma pare che
si trattasse in realtà di gnocchi, più che di agnolotti; vi si legge
che nel Paese di Cuccagna alla cima di un monte di
parmigiano stavano uomini che null’altro facevano fuor di
cucinar ravioli, li rotolavano sul pendio del formaggio
grattugiato, e al fondo la gente li raccoglieva “e chi più ne
prende, più ne ha”.
In breve, dal Medioevo e Rinascimento in qua, questi ravioli si
diffusero in tutta Italia, assumendo forme, contenuti e
condimenti alquanto diversi: in principio l’impasto doveva
essere di formaggio piccante, uova, erbe aromatiche e droghe.

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I vari tipi di carni per le versioni in grasso e di ricotte e
verdure per le versioni in magro arrivarono successivamente.
Infinita e di difficile etimologia la gamma dei nomi: agnolotti,
agnellotti, ravioli, raffioli, anolini e anellotti, tortellini,
cappelletti e vavanti a non finire. Esiste anche l’agnolotto
femmina, perché da Canelli in là diventa la raviola; del resto,
secondo uno degli scrittori sull’argomento, Felice Cunsolo, la
parola deriverebbe da un arcaico ravita o graviola, ovvero
“donna incinta”.
Interessante è ricordare che la loro forma arcaica in Piemonte
era rotonda (dal torinese anulòt, il ferro adoperato una volta
per tagliarli a forma di anello), poi mutata in un grosso
agnolotto quadrato, tagliato con la rotella a mano e chiamato
dalla gente “il gobbo” (gheub).

Ingredienti per quattro persone:


Per il ripieno:
250 gr di brasato o arrosto di manzo
100 gr di arrosto di maiale
50 gr di prosciutto crudo
50 gr di cervella di vitello
1 mazzo di lattuga
30 gr di burro
1 uovo
4 cucchiai di formaggio grattugiato
sugo di carne di arrosto o brasato
1 pochino di noce moscata
rosmarino, sale
Per la pasta:
350 gr di farina
3 uova
sale

Per il condimento
1 l di brodo di carne
75 gr di burro fuso

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alcune foglie di salvia
4 cucchiai di formaggio grattugiato
lamelle di tartufo bianco d’Alba (facoltative)

Lavare e far scottare la lattuga, sgocciolarla, asciugarla e tritarla


finemente; farla quindi insaporire in un tegame, con burro liquefatto e
rosmarino, mantenendo a calore moderato. A parte lessare leggermente la
cervella, scolarla, spellarla con cura e passarla al tritatutto insieme al
prosciutto e alle altre carni; unirvi la lattuga, il sugo di carne, il
formaggio grattugiato e l’uovo crudo. Condire il composto con un pizzico
di sale e noce moscata, rimestando accuratamente. Disporre la farina a
fontana, aggiungere una presa di salvia e porre nel centro le uova.
Impastare il tutto aggiungendo se necessario un po’ d’acqua per ottenere
un impasto di giusta consistenza, che si stenderà con il mattarello in due
sfoglie sottili. Ora distribuire su una di queste sfoglie delle pallottole di
ripieno grandi come una nocciola, intervallandole tra loro; e ricopre con
l’altra sfoglia e con la punta delle dita premere tra un ripieno e l’altro, in
modo da far aderire bene la sfoglia; quindi, con una rotella dentata,
ricavare i tipici agnolotti quadrati. E’ preferibile farli lessare in un buon
brodo di carne, anziché nella comune acqua salata. Scolare e condire con
burro fuso profumato alla salvia, con abbondante formaggio grattugiato.
La ricetta è ancor più tradizionale se gli agnolotti si condiscono con sugo
di brasato e, completamente ideale, con sottili fettine di tartufo.

Rigatoni con la pajata


La Pajata è senza dubbio il piatto più rappresentativo della
cucina tradizionale romana e, in particolare, di Testaccio. La
ricetta originale usa come ingrediente fondamentale il vitello,
ma attualmente si utilizza l’intestino d’agnello.
I rigatoni con la pajata nascono come pietanza apprezzata
dagli “scortichini”, i lavoranti dell’antico Mattatoio di
Testaccio che, a fine giornata, ricevevano assieme a una misera
paga, gli scarti delle carni macellate (interiora, zampe e lingua).

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Gli scortichini così, si recavano nelle vicine osterie e
chiedevano che gli scarti degli animali venissero utilizzati per
preparare piatti sostanziosi per sfamare le famiglie.

Ingredienti per quattro persone:


300 gr di rigatoni
600 gr di pajata (pagliata) di manzo o di vitello
20 gr di lardo
50 gr di olio o strutto
1 cipolla media finemente affettata
1 costa di sedano tritata
1 ciuffo di prezzemolo
1/2 spicchio d’aglio
100 gr di parmigiano grattugiato
1 bicchiere di vino bianco secco
2 cucchiai di salsa di pomodoro
sale, pepe

Tagliare la pagliata a pezzi di circa 25 cm e legare le estremità insieme,


in modo da formare delle ciambelline. Lavare e asciugarle con un panno.
Tritare finemente l’aglio col prezzemolo e il lardo e farli soffriggere in un
largo tegame con l’olio (o lo strutto), aggiungere la cipolla e il sedano e far
rosolare per 5 minuti; unire la pagliata e farla rosolare a fiamma vivace,
salare, pepare, bagnare con il vino bianco e lasciar evaporare. Sciogliere la
salsa di pomodoro in un bicchiere d’acqua tiepida e versarlo nel tegame,
abbassare la fiamma al minimo, incoperchiare e cuocere sempre al
minimo per circa 2 ore. 20 minuti prima del termine della cottura,
mettere in un pentola abbondante acqua salata, portare a ebollizione e
far cuocere i rigatoni. Appena cotti al dente, scolarli, versarli nel piatto di
servizio, condirli con il sugo della pagliata e il formaggio grattugiato.

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Risotto alla milanese
Secondo diversi autori (Claudia Roden, Clifford Wright) il
risotto alla milanese discende direttamente dal “riso col
zafran”, una specie di riso pilaff con lo zafferano, ricetta
medievale conosciuta sia da Ebrei che da Arabi. Ma la sua
nascita ufficiale avvenne l’8 settembre 1574, come si legge
nella Delibera del Riconoscimento De.Co.:
“Per quel giorno il mastro vetraio belga Valerio di Fiandra
aveva fissato le nozze di sua figlia. Quella data, evidentemente,
aveva un valore speciale per lui che lavorava alle vetrate del
Duomo... Durante il pranzo di nozze comparve un piatto di
riso colorato con lo zafferano, materiale che la squadra di
vetrai belgi al seguito di mastro Valerio era solita aggiungere a
molti colori per creare particolari effetti cromatici.
Il riso così preparato, forse per scherzo, piacque a tutti, sia per
il sapore che per il colore, in un’epoca in cui si attribuiva
all’oro, o in sua mancanza alle sostanze gialle, un’importanza
anche farmacologica. Subito questo nuovo modo di preparare
il riso si diffuse in tutta la città.
L’attuale tecnica di cuocere lentamente il riso aggiungendo
progressivamente il brodo si affermò lentamente; ogni ricetta
iniziava invariabilmente con la preparazione del riso lessato.
Nel 1809 l’opera intitolata Cuoco Moderno, di cui non si conosce
l’autore, lo cita nella sua forma definitiva: “riso giallo in
padella”. Vi si descrive la cottura del riso, saltato
precedentemente in un soffritto di burro, cervellata, midolla,
cipolla, cui si aggiunge progressivamente brodo caldo nel
quale sia stato stemperato dello zafferano.
Nel 1829 Felice Luraschi, celebre cuoco milanese, fece
stampare il suo Nuovo cuoco milanese economico. Qui l’antico riso
giallo diventa “risotto alla milanese giallo”, completo di grasso
e midollo di bue, zafferano e noce moscata, bagnato con
brodo, insaporito con quella cervellata di medievale memoria
e con formaggio grattugiato.”
Gualtiero Marchesi, com’è noto, ha perfezionato e
impreziosito la ricetta aggiungendovi sopra una lamina d’oro.

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Ingredienti per quattro persone:
350 gr di riso vialone
70 gr di burro
30 gr di midollo di bue
1 cucchiaio di sugo d’arrosto
2 l di brodo di manzo bollente
1 bustina di zafferano
1 cipollina affettata sottilmente
80 gr di parmigiano grattugiato

Sciogliere 50 gr di burro in un capace tegame a bordi alti, unire il


midollo e la cipolla e far rosolare dolcemente; unire il riso e con un
cucchiaio di legno continuare a rigirare per qualche minuto, facendolo ben
insaporire; aggiungere il sugo di arrosto, quindi il brodo caldo, un mestolo
alla volta, aspettando che si sia assorbito per aggiungerne un altro.
Continuare a rigirare sino a quando il riso sarà quasi cotto. Il brodo
aggiunto deve essere sempre caldo, affinché l’ebollizione, non si interrompa
mai. Unire lo zafferano, il burro rimasto e il formaggio grattugiato,
facendo mantecare per qualche minuto a fuoco spento. Servire.
N.B. Nell’alto Milanese si aggiunge un bicchiere di vino bianco secco,
appena il riso è insaporito, e lo si lascia evaporare.

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Spaghetti alla carbonara
Secondo la storia meno accreditata, il piatto sarebbe stato
inventato nel XIX secolo dai carbonai (carbonari in
romanesco), i quali lo preparavano usando ingredienti di facile
reperibilità e conservazione. Infatti per realizzare la carbonella
era necessario sorvegliare la carbonaia per lungo tempo e
quindi era importante avere con sé i viveri necessari. La
carbonara sarebbe, in base a questa ipotesi, l’evoluzione del
piatto detto cacio e ova, che i carbonari usavano preparare il
giorno prima e che consumavano con le mani. Ippolito
Cavalcanti, nobile napoletano, nel suo libro del 1837 La cucina
teorico pratica riporta questa ricetta, ma senza guanciale né
pancetta e le uova sono stracotte.
La carbonara, però, non venne citata nel classico manuale di
cucina romana di Ada Boni, edito nel 1930. Infatti il piatto
venne ricordato per la prima volta nel periodo
immediatamente successivo alla liberazione di Roma nel 1944,
quando nei mercati romani apparve il bacon portato dalle
truppe angloamericane. Questo spiegherebbe perché nella
carbonara, a differenza di altre salse come l’amatriciana,
pancetta e guanciale vengono riportati spesso come
ingredienti equivalenti. Secondo questa tesi, sembrerebbe che
durante la seconda guerra mondiale, i soldati americani giunti
in Italia, combinando gli ingredienti a loro più familiari che
riuscivano a reperire, e cioè uova, pancetta e spaghetti,
preparandosi da mangiare, abbiano dato l’idea ai cuochi
italiani per la ricetta vera e propria che si svilupperà solo più
tardi. L’origine del nome, comunque, resta un mistero.

Ingredienti per quattro persone:


400 gr di spaghetti
100 gr di guanciale (o pancetta) affettato sottilmente
50 gr di parmigiano grattugiato ( o pecorino)
1 cucchiaio di olio extra vergine d’oliva
2 uova intere
sale, pepe

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Soffriggere il guanciale in una padella con l’olio, fino a quando sarà
diventato trasparente, ma non troppo colorito. Cuocere intanto al dente
gli spaghetti in una pentola con abbondante acqua bollente salata.
Sbattere le uova in una terrina, unirvi il formaggio grattugiato e il pepe, e
mettere il composto in un’ampia zuppiera, da riscaldare a bagnomaria.
Appena gli spaghetti saranno cotti, scolarli, versarli nella padella con il
soffritto di guanciale, mescolare rapidamente e versare tutto nella
zuppiera con le uova. Mescolare finché non si sarà formata una salsa
cremosa, che legherà gli spaghetti. Servire senza attendere oltre.

Mezzi corazzati americani sfilano accanto al Colosseo (5 giugno 1944)

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Spaghetti alla carrettiera
Questi spaghetti nacquero in Sicilia nei primi del ‘900.
Una ricetta povera e gustosa escogitata proprio dai carrettieri,
persone che svolgevano un mestiere scomparso già nel
dopoguerra, a causa dello sviluppo dei trasporti a motore. I
carrettieri trasportavano sui loro carri trainati da asini o cavalli,
merce altrui o persone in cambio di qualche soldo. Allora i
trasporti conto terzi erano un lavoro poco remunerativo:
capitava che un carrettiere con un carico di merce per conto di
un contadino non ricevesse denaro, ma piuttosto patate e
acciughe salate. Normalmente un carrettiere partiva nel tardo
pomeriggio e viaggiava di notte, anche per evitare il caldo
dell’estate siciliana. Spesso più carri si aggregavano, altre volte
si viaggiava in solitudine.
Quando carrettiere e cavallo dovevano riposare o mangiare
qualcosa, gli scarsi denari non permettevano certo di fermarsi
nelle osterie, perciò il pasto consisteva spesso in una ricetta
con ingredienti portati da casa: pasta, aglio secco, sale, olio,
pane secco. Qualche erba aromatica la si rubacchiava o la si
trovava spontanea sui bordi della strada…
Da qui ebbero origine gli spaghetti alla carrettiera che negli
anni hanno subito varianti con aggiunta di pomodori pelati,
pecorino o funghi.

Ingredienti per quattro persone:


350 gr di spaghetti
50 gr di guanciale a dadini
50 gr di tonno in scatola
200 gr di funghi porcini freschi
1 spicchio d’aglio
3 cucchiai di olio d’oliva
1/2 cucchiaio di estratto di carne
sale, pepe

Affettare i funghi dopo averli puliti. Sbucciare lo spicchio d’aglio,


sgocciolare il tonno dall’olio e spezzettarlo.

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Mettere il guanciale in un tegamino con l’olio e l’aglio e far rosolare
lentamente, fino a quando il guanciale sarà diventato trasparente; quindi
aggiungere i funghi, il sale, il pepe e l’estratto di carne. Dopo 10 minuti
togliere l’aglio, aggiungere il tonno, mescolare, incoperchiare il recipiente e
spegnere il fuoco. Fare intanto cuocere al dente gli spaghetti in una
pentola contenente abbondante acqua salata. Scolarli e condirli con la
salsa preparata.

Spaghetti alla norcina


“Norcino”, fin dal Medioevo, è sinonimo di maestro nella
lavorazione della carni di maiale: da Norcia, nei mesi invernali
i norcini lasciavano la loro città per girare l’Italia Centrale
durante la macellazione dei suini. L’area di Norcia conobbe
per questo un periodo di relativa ricchezza e di incremento
demografico che durò per tutto il XVII secolo, fino a quando
una serie di terremoti costrinse gli abitanti, ridotti alla miseria,
all’emigrazione, soprattutto verso Roma. Furono infatti loro a
diffondere l’arte di produrre salumi nella capitale:
Esistono due versioni di pasta “alla norcina”. La prima
prevede l’utilizzo di panna (o ricotta) e salsiccia umbra,
particolarmente saporita grazie alla presenza di aglio e pepe.
La salsiccia viene semplicemente sbriciolata e cotta in padella
assieme a olio d’oliva, cipolla e vino bianco. Ed
eventualmente, come tocco finale, con l’aggiunta di una
spolverata di pecorino locale. L’appellativo “alla norcina”, in
questo caso, si riferisce all’utilizzo delle salsicce dei maestri
norcini.
La seconda versione prevede il tartufo nero di Norcia,
grattugiato e riscaldato assieme a olio extravergine d’oliva,
acciughe e aglio. “Alla norcina”, in questo caso, si intende
proprio “di Norcia”, come il tartufo nero che ne è
l’ingrediente principale: una ricetta, tra l’altro, diversa da quelle

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che si possono trovare nel resto dell’Umbria, dove non
compaiono le acciughe sottolio o sottosale.

Ingredienti per quattro persone:


400 gr di spaghetti
150 gr di tartufi neri freschi di Norcia o Spoleto
100 gr di olio extravergine di oliva
1 spicchio d’aglio
2 acciughe sotto sale
sale

Lavare i tartufi in acqua tiepida strofinandoli con uno spazzolino,


asciugarli e pestarli o grattugiarli finemente. In un tegamino versale l’olio
e farlo intiepidire, toglierlo dal fornello e unire i tartufi, mescolandoli
molto bene sino ad avere una salsa omogenea; rimettere il recipiente su
fuoco bassissimo e aggiungere lo spicchio d’aglio tagliato a metà e
schiacciato e le acciughe pulite e diliscate: mescolare e con una forchetta
spappolare bene le acciughe, assaggiare ed eventualmente salare, mescolare
di nuovo, senza che la salsa alzi mai il bollore. Levare poi il tegamino
dal fuoco. Lessare in abbondante acqua bollente e salata gli spaghetti,
scolarli, versarli in una terrina e condirli con la salsa preparata;
mescolare bene affinché la pasta acquisti quel colore nero che costituisce la
tipicità del piatto. Servirli subito.

Spaghetti alla Norma


Nel 1920 in casa Musco-Pandolfini in via Etnea, a Catania, si
svolse uno storico pranzo.
Il grande attore catanese Angelo Musco era ancora celibe e
viveva presso la diletta sorella Anna, sposata con Giuseppe
Pandolfini. La coppia aveva due figli, il celebre caratterista
Turi Pandolfini e Janu, primo teatrante, poi titolare di un
notissimo negozio d’abbigliamento. Janu era sposato con la
signora Saridda D’Urso, nel cui appartamento erano riuniti a

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tavola Angelo Musco, Turi e Janu Pandolfini e i noti
commediografi e giornalisti Nino Martoglio, Pippo Marchese
e Peppino Fazio. Quando Donna Saridda portò a tavola gli
appetitosi spaghetti con la salsa di pomodoro, basilico,
melanzane fritte e ricotta salata grattugiata, dopo le prime
religiose forchettate, il poeta e buongustaio Nino Martoglio
volle complimentarsi con l’autrice con queste parole: “Signora
Saridda, chista è ‘na vera Norma!”. La frase immediatamente
si riseppe in tutta via Etnea, da sempre salotto e curtigghiu dei
catanesi.
E dunque Nino Martoglio, autore di Centona e delle più vivaci
commedie del teatro siciliano, venne accreditato dell’onore di
aver ufficialmente battezzato “alla Norma” la popolare pasta
catanese, anche se, come appare probabile, non fece altro che
ripetere una felice espressione già coniata con straordinaria
efficacia dal popolo, per un diretto ma sentitissimo omaggio
all’arte di Vincenzo Bellini.

Ingredienti per quattro persone:


350 gr di spaghetti
2 grosse melanzane
1 cucchiaio di basilico tritato
50 gr di ricotta stagionata grattugiata
1/2 dl di olio d’oliva
1 spicchio d’aglio schiacciato
1/2 kg di pomodori pelati e privati dei semi
abbondante olio di semi per friggere
sale, pepe

Lavare e tagliare a fette sottili le melanzane, metterle su un asse


inclinato, cospargerle di sale e lasciarle riposare per circa un’ora affinché
perdano la loro acqua amara. Porre sul fuoco un tegame con l’olio e
l’aglio; spezzettare i pomodori e quando l’aglio comincerà a colorire unire
anche questi con il basilico, sale e pepe. Lasciar cuocere a fiamma bassa
per circa 15 minuti. Passare intanto sotto l’acqua corrente le fette di
melanzana, asciugarle bene e farle friggere in una padella con abbondante

143
olio ben caldo. Mettere sul fuoco una pentola contenente abbondante
acqua, portare a ebollizione e versarvi gli spaghetti. Appena le
melanzane saranno cotte e croccanti, toglierle con la paletta, passarle
nella carta assorbente da cucina e salarle leggermente. Scolare gli
spaghetti, metterli nel piatto di portata e condire con il sugo di pomodori e
le melanzane. Cospargere con la ricotta grattugiata, rigirare e servire.

Una partitura della Norma

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Spaghetti alla puttanesca
L’origine etimologica di questo piatto è stata oggetto degli
sforzi d’immaginazione di molti studiosi, che hanno tentato in
ogni modo di trovare la soluzione all’enigma. Alcuni dicono
che il nome di questa ricetta derivò, all’inizio del secolo, dal
proprietario di una casa di appuntamenti nei Quartieri
Spagnoli di Napoli, che era solito rifocillare i propri ospiti con
questo piatto, sfruttandone la rapidità e facilità di
preparazione. Altri fanno riferimento agli indumenti intimi
delle ragazze della casa che, per attirare e allettare l’occhio del
cliente, indossavano probabilmente biancheria di ogni tipo, di
colori vistosi e ricca di promettenti trasparenze. I tanti colori
di questo abbigliamento si ritroverebbero nell’omonima salsa:
il verde del prezzemolo, il rosso dei pomodori, il viola scuro
delle olive, il grigio-verde dei capperi, la tinta granata dei
peperoncini. 

Altri sostengono che l’origine del nome sia da attribuire alla
fantasia di una ragazza di vita, Yvette la Francese, che si ispirò
alle proprie origini provenzali. Yvette, probabilmente, non era
dotata solo di fantasia, ma anche di senso dell’umorismo e di
un’ironia alquanto caustica, che forse sfruttò per celebrare,
attraverso il nome di questo piatto, la “professione” più antica
del mondo.

Ingredienti per quattro persone:


500 gr di pomodori
400 gr di spaghetti
100 gr di olio d’oliva
100 gr olive nere
100 gr di acciughe sotto sale
50 gr di capperi sotto sale
concentrato di pomodoro
1 spicchio d’aglio
1 peperoncino rosso
sale

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Mettere sul fuoco una pentola con abbondante acqua non troppo salata;
quando alzerà il bollore buttarvi gli spaghetti. Lavare e diliscare le
acciughe. Porre in una casseruola di terracotta l’olio, l’aglio e il
peperoncino a pezzetti: fare soffriggere e, quando l’aglio sarà ben scuro,
unire le acciughe e con una forchetta spappolarle bene. Aggiungere quindi
i pomodori, pelati e spezzettati, le olive snocciolate, i capperi ben lavati e
due cucchiaini di concentrato di pomodoro. Mescolare bene la salsa (deve
risultare molto scura) e lasciarla sul fuoco fino a quando gli spaghetti
saranno cotti; scolarli leggermente al dente e poi condirli.

“Rolla”, Henri Gervex, 1878

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Spaghetti alla Tetrazzini
Si tratta di una ricetta americana, ma dedicata a un’italiana.
Il piatto prende il nome dalla cantante lirica Luisa Tetrazzini
(1871-1940). E’ opinione diffusa che sia stato inventato verso
il 1908-1910 da Ernest Abrogasse, chef del Palace Hotel di
San Francisco, California, dove la Tetrazzini soggiornò per
lungo tempo. Tuttavia, altre fonti attribuiscono la creazione
della pasta alla Tetrazzini in un altro albergo, l’Hotel
Knickerbocker di New York.

Ingredienti per quattro persone:


1 piccola manciata di porcini secchi

olio extravergine d’oliva

4 cosce di pollo biologico tagliate a bocconcini (senza pelle)

2 spicchi d’aglio affettati finemente

2 manciate di funghi freschi misti puliti e fatti a pezzetti

200 ml di vino bianco

500 gr di spaghetti

500 ml di panna fresca

basilico fresco

200 gr di formaggio grattugiato
sale, pepe

Scaldare il forno a 200 °C. Mettere i porcini secchi in un po’ di acqua


calda per qualche minuto. In una casseruola mettere un po’ d’olio.
Condire il pollo con sale e pepe e versarlo nella casseruola. Far cuocere
finché non è dorato. Filtrare i porcini (tenendo da parte l’acqua di
ammollo) e versarli nella casseruola con l’aglio e i funghi freschi.
Aggiungere il vino, l’acqua dei porcini e far cuocere finché il vino non è
evaporato. Cuocere gli spaghetti al dente. Versare la panna nella
casseruola e portare a ebollizione, poi spegnere il fuoco. Aggiustare di sale
e pepe e mettere gli spaghetti nella casseruola. Mescolare bene. Aggiungere
3 quarti del parmigiano, il basilico e mescolare ancora. Trasferire tutto in
una pirofila da forno e cospargere col formaggio rimasto. Infornare fino a
quando non si sarà formata una crosticina dorata. Distribuire nei piatti
e condire con un filo d’olio e una spolverata di formaggio grattugiato.

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Timballo Bonifacio VIII
E’ un piatto tipico ciociaro. Prende il nome dal Papa
Bonifacio VIII, al secolo Benedetto Caetani (1230-1303),
particolarmente noto per i contrasti con Filippo IV di Francia,
detto “il Bello”, per definire l’eventuale supremazia del potere
spirituale su quello temporale.
Bonifacio è passato alla storia anche per l’istituzione del
Giubileo. Formalmente indetto il 22 febbraio 1300, con la
bolla Antiquorum habet fida relatio, ma con indulgenze retroattive
al 24 dicembre 1299, l’Anno Giubilare ebbe un grande
successo e l’afflusso di pellegrini a Roma fu enorme (circa
300.000). A parte la diffusa e sentita necessità di indulgenza in
quel periodo di Crociate, l’arrivo dei pellegrini da tutto il
mondo, oltre a significare un notevole apporto di denaro,
contribuì a esaltare la magnificenza della Città Eterna e a
consolidare il primato e il prestigio del Pontefice.

Ingredienti per sei persone:


700 gr di fettuccine
200 gr di fegatini di pollo
50 gr di burro
8 fette di prosciutto crudo
300 gr di carne di vitello macinata
2 uova
200 gr di pomodori
70 gr di funghi secchi
parmigiano grattugiato
sale

Preparare circa 700 gr di fettuccine all’uovo fatte in casa e ben


consistenti, e tutte le frattaglie di pollo lessate e rosolate nel burro.
Modellare delle polpettine di carne di vitello tritata condita con uova,
parmigiano, sale e rosolarle al burro. Preparare un ragù con il pomodoro
unendo le rigaglie, le polpettine e i funghi ammollati in acqua tiepida e
tagliati a pezzettini. Cuocere la pasta molto al dente, condirla con le
rigaglie, le polpettine, una parte del ragù e parmigiano. Imburrare e

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infornare una teglia da forno, foderata con larghe fette di prosciutto crudo,
avendo cura che le fette sporgano dalla teglia in modo da poterle ripiegare,
sopra il timballo. Mettere quindi la pasta nella teglia e spargervi sopra il
ragù rimanente, quindi finire di coprire il timballo ripiegando ai bordi il
prosciutto e completando la rivestitura con altro prosciutto. Mettere nel
forno a 180 °C per 30 minuti circa, affinché il prosciutto si rosoli senza
abbrustolire. Rovesciare il timballo su un piatto di portata caldo e servire
tagliato a fette.

“Bonifacio VIII indice il giubileo”, Giotto,


affresco staccato in San Giovanni in Laterano (Roma)

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UOVA

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Frittata del Re Lazzarone
Nella cucina tradizionale Partenopea esiste questa frittata che
prende il nome da Ferdinando IV di Borbone, Re di Napoli;
Re di Sicilia col nome di Ferdinando III e, con l’unificazione
dei due regni, Re del Regno delle due Sicilie col nome di
Ferdinando I.
Ferdinando fu un Re molto benvoluto dal popolo, che lo
chiamava, simpaticamente, Re Nasone, a causa del suo grosso
naso, o Re Lazzarone, da non intendersi però in modo
dispregiativo, perché l’appellativo deriverebbe da “Lazzaro”,
nome con cui venivano chiamati i popolani.
Ferdinando fu un re molto particolare. Amava frequentare il
popolo: spesso, travestito da popolano, se ne andava in giro
per le strade di Napoli, nei mercati, nelle taverne. Alla vita di
corte preferiva le battute di caccia o di pesca nelle sue tenute,
e spesso dormiva nei fienili, magari in compagnia di qualche
florida contadinotta, preferita alle sofisticate dame di corte.
Non era raro che la sera, sempre travestito da popolano, si
recasse nelle taverne per giocare a carte, utilizzando tutti i
mezzi, anche illeciti, pur di vincere.
Forse il suo passatempo più tranquillo era quello della cucina:
non solo amava mangiare, ma dimostrava buone capacità
anche nel cucinare.
Si racconta che un giorno, trovandosi nella sua Reggia di
Portici, ebbe voglia di mangiare una frittata. Si recò allora nella
dispensa e fece razzia di cipolle, zucchine, peperoni e patate e
si preparò la pietanza che ancor oggi porta il suo nome.

Ingredienti per quattro persone:


500 gr di patate
3 zucchine di media grandezza
3 peperoni di diverso colore
2 cipolle dorate
5 uova
2 spicchi d’aglio
4 cucchiai di farina

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4 cucchiai di pecorino grattugiato
olio extravergine di oliva
sale, pepe

Lavare e tagliare le verdure: le patate a tocchetti, le zucchine a rondelle, i


peperoni in falde della grandezza di un pollice, le cipolle tritate in modo
grossolano. In una padella versare un po d’olio e far soffriggere le cipolle
per una decina di minuti con un pizzichino di sale. Toglierle e trasferirle
in una terrina di coccio tenendole in caldo. Nella stessa padella
aggiungere dell’olio, uno spicchio d’aglio sbucciato e schiacciato. Quando
sarà imbiondito, toglierlo e aggiungere le zucchine tagliate a rondelle.
Farle stufare per una decina di minuti, aggiungere un pizzico di sale e
trasferirle nella terrina di coccio con le cipolle. Aggiungere ancora un po
d’olio nella padella, l’altro spicchio d’aglio sbucciato e schiacciato e farlo
imbiondire. Toglierlo e aggiungere le falde di peperone. Farle stufare,
aggiungendo un mezzo bicchiere d’acqua e un pizzico di sale, per circa
15 minuti. Una volta cotti, trasferirli nella terrina di coccio. Aggiungere
ancora un po d’olio nella padella e friggete i cubetti di patata per circa 5
minuti. Dopo aver aggiunto un pizzico di sale, unirli alle altre verdure
nella terrina di coccio. Aprire in una ciotola le uova, aggiungere la farina,
il pecorino grattugiato, un pizzico di sale e una spolverata di pepe. Con
una frusta amalgamare bene tutto il composto. Aggiungere dell’olio in
un’altra padella, portare a temperatura e versare il composto di uova
facendo attenzione a occupare tutto il fondo della padella. Cuocere per 5
minuti da ambo i lati, quindi aggiungere le verdure della terrina. Cuocere
ancora qualche minuto, poi ripiegare un lembo della frittata in cottura
sugli ortaggi, coprire con un coperchio, abbassare la fiamma e terminare
la cottura fino a che la frittata non sarà dorata in modo omogeneo e
soffice. Spegnere la fiamma e far raffreddare la frittata. Trasferirla poi in
un piatto da portata, accompagnata a piacere da un’insalata fresca.

154
Omelette
Il nome, secondo l’Academie des Gastronomes, verrebbe da un
piatto dell’antica Roma, una frittata di uova e miele, detta
“ovamellita”; nel ‘500, a Firenze, l’omelette era chiamata, per
la sua forma, “pesce d’uova”, nome che mantiene ancora oggi
nella Sicilia orientale.
La sua concezione moderna viene comunque fatta risalire alla
Francia del XVI secolo.

Ingredienti per una persona:


2 uova
30 gr di burro
sale

Per la preparazione di una perfetta omelette è necessario avere una


padella piuttosto pesante. Per pulirne l’interno si userà sale grosso, che si
strofina sul fondo con uno straccio pulito. La padella non va lavata.
Si deve badare a sbattere le uova in un recipiente mescolandole al sale,
prima di versarle in padella. L’operazione non dovrà però essere
eccessivamente energica né durare a lungo: si correrebbe il rischio di far
perdere alle uova la necessaria consistenza ed elasticità, e l’impasto
risulterebbe troppo liquido. Scaldare quindi in padella, a fuoco vivace,
pochissimo burro, che sia appena sufficiente ad ungerne il fondo.
Aggiungere le uova sbattute ed agitare, con movimento rotatorio, la
padella mantenendola sul fuoco perché l’impasto d’uova abbia a
distribuirsi sul fondo con regolarità. Distaccare, di tanto in tanto, i bordi
dell’omelette, che fa formando, con una paletta di legno o con una
forchetta, rivoltandola leggermente verso l’interno. Continuare
l’operazione fino a che la parte centrale appaia solidificarsi leggermente,
ma non troppo. A questo punto, arrotolare l’omelette su se stessa,
lasciandola per qualche minuto a colorirsi in superficie. Quando si è
completata l’operazione, che è assai semplice ma che richiede cura e
attenzione, far scivolare l’omelette sino all’orlo della padella, inclinando
quest’ultima verso il piatto di portata caldo, che si terrà con la mano
sinistra. Inclinando ulteriormente, rovesciare l’omelette sul piatto e
servirla.

155
L’omelette deve risultare all’interno ancora morbida e “bavosa”. Per
darle lucentezza si usa sciogliere poco burro e, quando fuso, lo si passa
con un pennello in superficie.

Scotch eggs (uova alla scozzese)


Nonostante il loro nome potrebbe fare intendere, queste
preparazioni di uova non sono legate alla Scozia. Infatti, la
ricetta è stata pensata a Londra da Fortnum & Mason (il grande
magazzino) nel 1738.

Ingredienti per farne dodici:


350 gr di carne di salsiccia
paprika
1 rametto di rosmarino, 1 di salvia tritata finemente
noce moscata
sale, pepe
12 uova di quaglia
100 gr di farina
2 uova di gallina, sbattute
150 gr di pangrattato
1,5 l circa di olio vegetale

Condire la carne di salsiccia con la paprika, il rosmarino, la salvia, la


noce moscata e con il sale e il pepe. Schiacciare il tutto con una forchetta.
Mettere le uova di quaglia in una pentola d’acqua bollente e cuocerle per
3 minuti. Toglierle dal fuoco e metterle in acqua fredda per raffreddare,
poi rimuoverne i gusci. Mettere la farina, le uova sbattute e il pangrattato
in tre ciotole. Prendere un cucchiaio di salsiccia e comprimerlo nel palmo
della mano. Mettere un uovo sodo al centro e raccogliere i lati della carne,
ricoprendo l’uovo nella salsiccia. Mettete la palla in una ciotola dove sarà
stata messa la farina e coprirla, poi coprirla con l’uovo sbattuto e infine
con il pangrattato. Ripetere per tutte le uova. Mettete l’olio vegetale in
una pentola e riscaldare bene. Mettere le palle nell’olio e friggerle per 4

156
minuti, fino a quando risultano dorate. Toglierle infine dalla pentola e
appoggiarle su carta da cucina per lasciarle scolare. Friggere le altre uova
nello stesso modo.

Uova alla Benedict


Una delle storie più accreditate lega il nome del Delmonico’s
Restaurant di New York a quello della signora LeGrand
Benedict che, stanca del solito menu, pregò un giorno che le
venisse preparata una colazione inusuale: lo chef Charles
Ranhofer trovò l’idea di questo piatto della donna tanto
interessante che non esitò a inserirlo nel suo libro datato 1894.
Altri sostengono che fu il broker di Wall Street Lemuel
Benedict a richiedere per primo questo piatto (una variazione
degli English muffins, ovvero uova in camicia, bacon
canadese e salsa olandese) nel Waldorf Hotel, che all’epoca si
trovava all’angolo tra la Fifth Avenue e la 33esima Strada
(divenuto Waldorf Astoria in seguito al trasferimento), sempre
nel ’94. Lo scopo di questa richiesta pare fosse smaltire più
velocemente i postumi di una sbronza…
Elizabeth David, nota scrittrice inglese, invece attribuisce
natali francesi a questo piatto: le œufs bénédictine erano disposte
su triangoli di pane fritto sormontati da una crema di baccalà e
patate. In seguito la ricetta fu modificata per assecondare i
gusti americani. Ad avvalorare questa ipotesi ci sarebbe la
consuetudine delle lingue romanze di posporre l’aggettivo al
sostantivo.

Ingredienti per due persone:


2 panini piccoli
4 fette di bacon
2 cucchiaini di aceto
4 uova
sale, pepe

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salsa olandese
erba cipollina o cipollotto tritato

Cuocere il bacon in una padella e tostare il pane sotto il grill, oppure con
un tostapane. Mettere da parte. Cuocere le uova: riempire una casseruola
con 7-8 cm d’acqua, aggiungere l’aceto e scaldare a fuoco medio fino a
portarla quasi a ebollizione. Rompere un uovo in una ciotola, facendo
attenzione che il tuorlo resti intatto. Far scivolare l’uovo direttamente dal
piatto nell’acqua calda. Cuocere, senza che l’acqua raggiunga
l’ebollizione, per circa 3 minuti o finché l’albume si è rassodato ma il
tuorlo è ancora morbido. Togliere l’uovo con la schiumarola, facendo
scolare bene. Mettere una fetta di bacon su ogni panino e poi disporvi
sopra l’uovo. Salare e pepare a piacere, infine versarvi sopra la salsa
olandese, guarnendo con l’erba cipollina oppure con il cipollotto tritato.

Lo storico Ristorante Delmonico's di New York

158
PESCI

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Aragosta alla Newburg
Il nome di questa aragosta condita con una salsa ricca di
burro, panna, uova e un tocco di brandy nasconde una storia
curiosa.

Alla fine dell’800 il ricco capitano di mare Ben Wenburg,
impegnato nel commercio di frutta tra Cuba e New York,
cliente abituale del famoso Ristorante Delmonico’s, chiese un
piatto di aragosta e molluschi vari con a fianco della panna da
cucina e uova strapazzate. L’interessante piatto venne in
seguito battezzato e venduto dallo chef Charles Ranhofer e
dal proprietario Charles Delmonico come “Aragosta alla
Wenburg”, fino a quando il cliente non ebbe una discussione
con il locale in merito forse alla paternità della ricetta. Con un
semplice anagramma la voce sul menu venne cambiata da
“Wenburg” a “Newburg”. Nacque così un classico della
cucina americana, oggi prodotto anche in una versione in
scatola.

Ingredienti per sei persone:


3 aragoste del peso di circa 600 gr ciascuna
1 dl di madera
50 gr di burro
4 dl di panna doppia
2 tuorli d’uovo
300 gr di riso pilaw
2 l di court-bouillon
sale, pepe, pepe di Cayenna

Sobbollire le aragoste nel court-bouillon per circa 30 minuti. A cottura


ultimata, scolarle, estrarre con delicatezza la polpa e trinciarla in
medaglioni regolari. Scaldare il tutto con poco burro in padella, quindi
aggiungere il madera e lasciar sobbollire per qualche minuto. Versare
sopra il tutto la panna doppia, salare e pepare. Insaporire anche con poco
pepe di Cayenna. Lasciar ridurre circa un terzo del volume iniziale,
sempre a fuoco basso, poi, lontano dal fuoco, legare la salsa con i tuorli
d’uovo. Servire con riso pilaw.

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Aragosta alla Thermidor
Questa ricetta venne al mondo il 24 gennaio 1891: quella sera
l’autore drammatico Victorien Sardou portò in scena alla
Comédie-Française l’opera Thermidor.
La Maison Marie, famoso ristorante parigino situato all’angolo
dei boulevards Strasbourg e Saint-Denis, gli dedicò questo
piatto.

Ingredienti per sei persone:


3 aragoste del peso di circa 600 gr ciascuna
3 scalogni
1 dl di vino bianco
1 dl di panna
2 dl di salsa bercy
1 dl di besciamella
5 gr di senape in polvere
50 gr di burro
40 gr di formaggio grattugiato
2 l di court-bouillon
1 tartufo di Norcia

Far sobbollire nel court-bouillon le aragoste e lasciavele sino a che siano


completamente raffreddate. Scolarle, quindi dividerle nel senso della
lunghezza, in due metà, ed estrarne la polpa. In una padella, far dorare
gli scaloni tritati con poco burro. Bagnare con il vino bianco, poi ridurre
quasi completamente, a fuoco vivo. Aggiungere allora la besciamella e la
panna, mescolando vivacemente. Portare ad ebollizione; passare subito al
setaccio. Allungare il composto con la salsa bercy, salare e insaporire con
la senape in polvere, lavorando con vigore. Trinciare intanto la polpa
dell’aragosta in medaglioni regolari e di taglio trasversale. Ricoprirli con
la salsa appena fatta, e disporli nelle mezze corazze di aragosta, che si
saranno intanto riempite parzialmente di salsa. Coprire ancora con la
salsa avanzata sino a che le corazze siano piene; spolverare con formaggio
grattugiato e bagnare con poco burro fuso. Decorare con lame di tartufo e
mettere in forno a gratinare.

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Baccalà alla vicentina
Si racconta che, nel 1269, i vicentini che tentavano l’assalto al
castello di Montebello, difeso dai veronesi, alle guardie che
gridavano altolà, rispondessero: “Oh, che bello, noi portiamo
polenta e baccalà”. E subito i veronesi, golosi, spalancarono il
portone.
E’ noto che il baccalà lotta con Palladio per conquistare il
trono simbolo della città di Vicenza nel mondo. A Rost, una
delle più sperdute fra le isole Lofoten al largo della Norvegia,
più di quattro secoli fa (1432), naufragò la spedizione agli
ordini del capitano veneziano Pietro Querini e lì, per un
singolare effetto a lungo termine di quello sbarco
avventuroso, oggi hanno Vicenza nel cuore. Il merito è degli
stoccafissi che capitan Querini portò con sé rientrando a casa,
e che a illuminati gastronomi vicentini ispirarono, previo
opportuno trattamento, la nascita del piatto chiamato baccalà,
raccomandabile con polenta.
I vicentini videro nello stoccafisso una alternativa al costoso
pesce fresco, oltretutto facilmente deperibile. Nell’ottobre
1580, all’aprirsi dell’era palladiana, arriva a Vicenza Michel de
Montaigne; Vicenza gli appare come una “grande città piena
di palazzi gentilizi”, ma niente di più. Nel suo celebre Journal
de Voyage en Italie, lascia un mediocre appunto su Vicenza, ma
il suo entusiasmo letterario riprende fuoco solo per un pranzo
in cui era incluso il famoso “piatto nazionale” dei vicentini: il
baccalà.
E’ corretto fare una distinzione: i vicentini chiamano lo
stoccafisso con il nome di Bacalà (con una c solamente),
perché a Vicenza quando si parla di Baccalà (con due c) ci si
riferisce a quello salato non a quello secco.

Ingredienti per otto persone:


1kg di stoccafisso
500 g di cipolle
1 l di olio d’oliva
1/2 litro di latte

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4 acciughe sotto sale
aglio, prezzemolo
farina bianca, parmigiano
sale, pepe

Dopo aver battuto lo stoccafisso metterlo a bagno in abbondante acqua


fredda e lasciarlo ammorbidire per sette giorni, cambiando sovente
l’acqua. Trascorso questo tempo levare la pelle allo stoccafisso, aprirlo per
il lungo e togliergli le spine e la lisca. Lavare e diliscare le acciughe, poi
tritarle insieme col prezzemolo. Preparare un soffritto con 100 grammi di
olio, tutte le cipolle tritate e due spicchi d’aglio; quando gli ingredienti
saranno rosolati, unire le acciughe e il prezzemolo. Mescolare bene, poi
distribuire una parte del soffritto sulle due metà dello stoccafisso,
cospargerlo di farina bianca e formaggio grattugiato, sale e pepe quanto
basta, quindi richiuderlo pressandolo un poco. Tagliare lo stoccafisso
ripieno a fette dello spessore di quattro-cinque centimetri, passarle nella
farina bianca mescolata a formaggio grattugiato, quindi sistemarle in un
tegame possibilmente di terracotta; le fette devono stare bene accostate.
Versare nel recipiente il restante soffritto, il latte e tutto l’olio d’oliva: il
liquido dovrà coprire interamente il pesce. Cuocere a fuoco lentissimo,
smuovendo ogni tanto il recipiente, senza mescolare; lasciare sobbollire per
quattro o cinque ore, poi servire il “bacalà” ben caldo, con polenta
appena fatta o fette di polenta abbrustolita.

Bouillabaisse
Secondo la tradizione, le origini di questo piatto risalgono ai
Foce, abitanti di una città greca della Ionia e fondatori della
città di Marsiglia (600 a.C.). Uno dei loro piatti fondamentali
era uno stufato di pesce che si chiamava “kakavia”, realizzato
con il pescato che i pescatori non riuscivano a vendere. In
origine infatti la bouillabaisse si cucinava in un pentolone, che
veniva allestito direttamente sulla spiaggia dai pescatori al
ritorno dalla pesca, nel quale venivano cotti i pesci troppo

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piccoli o poco pregiati per essere venduti al mercato, come lo
scorfano, le cozze più piccole o i granchietti. Il tutto veniva
bollito con olio, pepe e zafferano; cipolle, aglio, pomodori e
prezzemolo. L’aragosta, i crostacei e i pesci più pregiati
comparvero in aggiunta quando il piatto sbarcò a Parigi nel
1789, presente sul menù del ristorante “Les Trois Frères
Provencaux”.
Tracce di questa pietanza appaiono tuttavia anche nella
mitologia romana: si narra infatti che Venere nutrisse Vulcano
con questo piatto afrodisiaco.

Ingredienti per sei persone:


1 kg e 200 gr di pesce vario (sanpietro, grongo, occhiata, scorfano,
capone, palombo, ombrina)
1 cipolla
2 pomodori
1/2 bicchiere abbondante di olio
2 spicchi d’aglio
1 poco di barbe verdi di finocchio (o un pizzico di semi di finocchio)
1 foglia di alloro
1 pizzico di zafferano in polvere
sale grosso
2 granelli di pepe
acqua bollente q.b. per ricoprire i pesci
Per accompagnare: 16 fettine di pane leggermente tostato al forno,
strofinate d’aglio e cosparse con prezzemolo tritato finissimo

Squamare, svuotare i pesci, lavarli, tagliarli a pezzi piuttosto grossi,


senza eliminare né teste né lische. Mettere sul fuoco, in una casseruola dal
fondo spesso, un trito preparato con la cipolla, i pomodori, l’aglio e
mezzo bicchiere di olio. Aromatizzare il tutto con le barbe verdi di
finocchio, una foglia di alloro e un pizzico di zafferano; condire con il sale
e due granelli di pepe, rimescolare con cura, poi unire prima i pesci a
carne più soda, e dopo 7 minuti di cottura quelli a polpa più tenera.
Versarvi sopra l’acqua bollente in modo che i pesci ne siano ricoperti.
Far cuocere a fuoco intenso lasciando bollire non più di 10/15 minuti

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molto vivacemente, ricordando che proprio da questa operazione
dipenderà la buona riuscita del piatto, che dovrà offrire un brodo ben
legato e saporito. Nel frattempo ritagliare da un filoncino di pane 16
fettine e passarle in forno caldo, lasciandole per qualche istante senza che
coloriscano. Appena la bouillabaisse è pronta, estrarre con delicatezza i
pezzi di pesce rimasti intatti, porli in un piatto di servizio, e tenerli in
caldo. Passare al setaccio il brodo nel quale saranno rimasti i pezzetti di
pesce, le teste e le lische, ottenendo così un brodo piuttosto denso e
saporito. Mettere il passato in una zuppiera e mandarlo in tavola
assieme al vassoio dei pesci e al piatto con il pane croccante, strofinate
d’aglio e cosparse di prezzemolo tritato.
N.B. Ai pesci indicati si possono aggiungere anche crostacei come
gamberetti, scampi, aragoste o cozze.

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Cacciucco alla livornese
La parola cacciucco deriverebbe forse dal turco “kuciuk”, che
significa “piccolo, minuto”, in riferimento ai pezzi di pesce
che compongono la pietanza. Secondo un’altra ipotesi
deriverebbe invece dallo spagnolo cachuco, il nome specifico di
un pesce, simile al dentice, ma che viene usato anche per
indicare il pesce, in generale. Un’ulteriore tesi affermerebbe
che il nome derivi dal piatto tipico vietnamita canh chua cá
(zuppa di pesce agra) che potrebbe essere stata introdotta a
Livorno dai marinai di ritorno dall’Estremo oriente.
In Toscana, il cacciucco, ha assunto negli anni il significato di
“mescolanza”: si trovano infatti ricette di cacciucchi di carne,
di cacciagione, di pollo, di ceci e così via. Il più tradizionale
cacciucco è però una zuppa di pezzi di vari pesci e nacque a
Livorno per la necessità di usare anche le specie più povere
finite nelle reti.
Un’antica leggenda narra che un pescatore livornese, andato
con la sua barca in “battuta”, fu colto da un’improvvisa
tempesta e affogò. Lasciò la moglie e i tre figli piccoli nella
miseria, tanto che per la fame i bambini andarono dai
pescatori amici del babbo a questuare del pesce. Tutti diedero
loro qualcosa: chi un polpo, chi una cicala, chi un palombetto
e chi una seppia. La mamma con i pesci raccolti dai figli
preparò un piatto caldo. Prese erbe e pomodori dall’orto e con
un po’ d’olio fece una salsa, che cucinò assieme ai pesci e a
dell’acqua. Poi mise in una zuppiera delle fette di pane
raffermo e vi rovesciò la zuppa. Il profumo di questo cibo
della provvidenza si diffuse nel quartiere, richiamando una
folla di curiosi, che con grande sorpresa sentì quell’odore
soave arrivare dalla tavola della povera famigliola. Era nato il
“Cacciucco”.
Un’altra leggenda lo vuole simbolo delle origini di Livorno e
della sua popolazione composta da un’amalgama di genti e di
comunità diverse: ebraiche, armene, greche, levantine,
tedesche, portoghesi, francesi, anglicane e olandesi. Il fondersi
delle varie culture, religioni e tradizioni, anche gastronomiche,

167
sarebbe quindi rappresentato dal cacciucco.
Secondo lo storico livornese di origine siriana Paolo Zalum, il
piatto sarebbe stato inventato da un guardiano del Fanale, il
faro del porto, al quale un editto della Repubblica fiorentina
proibiva di friggere il pesce (perché l’olio doveva essere usato
per alimentare la luce del faro). Da qui l’invenzione del
cacciucco, che di olio ne richiede poco…

Ingredienti per sei/otto persone:


500 gr di polpi e totani
500 gr di cozze ben pulite e lavate
1 kg di pesce assortito (sanpietro, scorfano, capone, triglia, pescatrice,
nasello, ecc.)
8 gamberoni
3 spicchi d’aglio
1 gambo di sedano
1 carota
1 cipolla
1 mazzetto di prezzemolo
poco peperoncino rosso piccante
500 gr di pomodori pelati
1 bicchiere di vino bianco secco
100 gr di olio
8 fette di pane casereccio raffermo
poco aglio (facoltativo)
sale

Pulire tutti i pesci, tenendo a parte le teste di quelli più grossi. Liberare i
gamberoni dalla loro corazza. Pulire molto bene i totani e i polpi,
asportando gli occhi e la vescichetta dell’inchiostro. In una casseruola far
aprire le cozze e conservare solo la mezza valva che contiene il mollusco e
quel poco di liquido che si sarà formato. Tritare non troppo finemente la
cipolla, il sedano, la carota, l’aglio, il prezzemolo e il peperoncino e far
rosolare il tutto nell’olio d’oliva ben caldo. Quando il soffritto inizierà a
imbiondire, unire i totani e i polpi tagliati grossolanamente a pezzi;
lasciare che l’acqua che si formerà evapori completamente, quindi bagnare

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con il vino. Asciugato il vino, aggiungere i pomodori pelati schiacciati con
una forchetta e un poco di sale. 5 minuti di cottura ancora, e poi togliere
totani e polpi e conservarli in luogo caldo (se si raffreddano diventano
gommosi). Unire al sugo di cottura le teste dei pesci e bagnare con un
bicchiere di acqua calda, lasciando cuocere per 20 minuti circa. Il
risultato dovrà essere un brodetto piuttosto denso che si passerà al colino,
cercando di schiacciare bene i residui perché se ne ricavi tutta la sostanza
possibile. Rimettere sul fuoco il passato, diluirlo con un poco d’acqua
calda e aggiungere tutto il rimanente pesce crudi e i gamberoni. Cuocere a
fiamma molto bassa per almeno un quarto d’ora, poi unire i polpi, i
totani e le cozze. Far tostare in forno le fette di pane che si adageranno
su ciascun piatto, dopo averle strofinate con aglio (se gradito) e versarvi
sopra il caciucco.

Il Fanale di Livorno

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Cappon magro
L’antenata del cappon magro fu la capponalda o capponada, un
antipasto freddo che univa alle verdure la galletta del marinaio,
cioè il pane biscottato, di lunga conservazione, un tempo cibo
quotidiano degli equipaggi delle navi. Una ricetta veloce
preparata dal cuoco di bordo per non utilizzare nessun tipo di
pentola durante il rollio della nave. Il cappun magru (in dialetto)
nacque quindi dall’inventiva d’intraprendenti marinai per
riciclare gli avanzi della cucina: verdure già lessate, resti di
pesci da zuppa tra cui il cappone, appunto. Il cappone in
Liguria non è il capone, ma lo scorfano rosso.
L’origine del nome si perde nel tempo e ragionevolmente può
essere legata agli ingredienti che lo compongono: dal nome del
pesce alla base della preparazione o dall’espressione capón de
galera che indica la galletta ammollata in acqua e aceto, altro
suo ingrediente fondamentale.

Ingredienti:
12 gamberi di mare, 12 ostriche
6 acciughe sotto sale, 1 piccola aragosta
1 ombrina
frutti di mare assortiti
parecchie sottilissime fettine di mosciame (filetto di tonno essiccato al sole)
1 cavolfiore
200 gr di fagiolini verdi
4 carciofi, 4 carote, 1 sedano
1 barbabietola, 1 grossa patata
1 mazzo di scorzonera
aglio, prezzemolo
50 gr di pinoli
16 olive di Spagna, 6 uova
alcuni funghetti sott’olio
1 cucchiaino di capperi
mollica di 2 panini
olio d’oliva, aceto, limone, sale
gallette di pane

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Strofinare delle gallette con uno spicchio d’aglio schiacciato, metterle in
una grande insalatiera, spruzzarle con acqua e aceto e spolverizzarle di
sale. A parte inzuppare nell’aceto la mollica dei panini. Lessare
l’aragosta e l’ombrina: quando saranno cotti levare l’aragosta dal suo
involucro e togliere all’ombrina la testa e tutte le lische. Tagliare tutto in
listarelle e condire con olio, limone e sale. Lessare insieme il cavolfiore, i
fagiolini, la patata, il sedano e due carote. Lessare in un recipiente a
parte la scorzonera e i carciofi tagliati in quattro. Rassodare le uova e
tagliarne quattro a spicchi. Lessare i gamberi. Aprire le ostriche e i frutti
di mare. Quando le verdure saranno cotte scolarle bene, tagliare a fette la
patata, la barbabietola e le carote; dividere in cimette il cavolfiore,
tagliare a piccoli pezzi il sedano e la scorzonera. Mettere le verdure su
piatti diversi e condirle con olio, aceto e sale. Preparare la salsa che
servirà per condire l’insalata e perciò pestare nel mortaio due acciughe
(dopo averle pulite e diliscate) unendo ad esse le foglioline di prezzemolo e
uno o due spicchi di aglio, i pinoli, i capperi, i due tuorli rassodati, la
mollica di pane ben strizzata nell’aceto, la polpa di quattro o cinque olive
e un pizzico di sale. Con il pestello lavorare molto bene tutti questi
ingredienti che devono ridursi a un’impasto piuttosto consistente. Quando
saranno pronti passarli al setaccio e unire al passato mezzo bicchiere di
aceto e un bicchiere di olio d’oliva: stemperare la salsa con un cucchiaio di
legno. Fare a filetti le quattro acciughe rimaste, pulite e diliscate.
Prendere l’insalatiera che contiene le gallette e irrorarle con un poco d’olio;
distribuirvi sopra le fettine di mosaiche e cospargerle con una cucchiaiata
della salsa preparata. Sistemarvi a strati tutti gli altri ingredienti (tranne
l’aragosta, i gamberi, le ostriche, i frutti di mare e le restanti olive);
condire ogni strato con un poco di salsa e versare su tutto la rimanente
salsa. Sopra la preparazione sistemare l’aragosta e, intorno, porvi le
mezze ostriche contenenti il mollusco e i frutti di mare, infilare in piccoli
stecchi i gamberi lessati, le olive, i filetti delle quattro acciughe, i funghetti
e una dozzina di fettine di carote crude tagliuzzate a smerlo, poi
conficcare elegantemente questi stecchini sul cappon magro, e infine servire.

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Cozze alla tarantina
La cozza, ben conosciuta e considerata dai grandi cuochi del
secolo dei lumi è invece stata ignorata da Pellegrino Artusi,
che nel suo libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene
(Firenze 1891) non la cita nemmeno. Una lacuna tanto più
grande, quanto è più rilevabile l’estrema attenzione del
maestro anche verso prodotti di ancora più marginale
interesse gastronomico. Il silenzio dell’Artusi avvalora la tesi
che nell’Italia centro-settentrionale le cozze fossero
praticamente sconosciute ancora intorno alla metà dell’800.
Sono invece presenti, in compagnia di tante altre specie di
molluschi, nel Cuoco Galante, ricettario settecentesco del
salentino Vincenzo Corrado. Corrado è stato il primo autore
napoletano di un manuale organico di gastronomia. Il suo
trattato, comparso a Napoli nel 1773, non oppose
pregiudiziali al lessico gastronomico francese a quei tempi
dominante, ma nel complesso si mantenne fedele alla pratica
tradizionale della cucina italiana, e in particolare napoletana,
rivelando lo sforzo di voler integrare le cucine forestiere a
quella locale, servendosi di una scrittura semplice, concisa ed
esauriente. La materia del manuale è riportata in capitoli di
una certa ampiezza, ciascuno dedicato a un argomento
(minestre, carni domestiche e selvatiche, pesci, uova, “cuoco
galante”).
Vincenzo Corrado è stato il primo grande protagonista della
cucina del Mezzogiorno d’Italia, la sua grande lezione si può
sintetizzare in queste sue brevi parole: “La cucina è arte; ma è
arte di genio e di gusto: e quell’uomo, che non ha né genio, né
gusto, non deve parlar di cucina.”
Ma anche consultando gli antichi registri dove venivano
annotate le spese quotidiane dei conventi, si rileva come le
cozze negre di Taranto (così venivano denominate)
costituissero un pasto frequente e bene accetto anche nelle
sempre ben fornite mense ecclesiastiche. Molte altre
testimonianze certe ci dicono come le cozze fossero un
alimento gradito e molto comune in larga parte dell’Italia

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meridionale già nel ‘700. Una testimonianza al di fuori di ogni
sospetto ci è stata lasciata da uno scienziato viaggiatore
svedese del ‘700, Marten Kahler, che nel suo trattato
Osservazioni sulla malattia della danza, ovvero il cosiddetto tarantismo
(Stoccolma 1758) riferisce a proposito degli usi alimentari
degli abitanti della provincia di Taranto: “Il loro prevalente
nutrimento è costituito da un po’ verdura, molti legumi, ma
per lo più da ostriche e cozze che qui sono coltivate nel
cosiddetto Mar Piccolo, e sono attualmente rinomate in tutta
Italia come le ostriche di Lucrino presso gli antichi Romani.
Peraltro da queste parti ci si ciba di tutte le altre specie di
conchiglie in grande abbondanza”. Anche in altre cucine
regionali risaltano denominazioni di piatti a base di cozze che
fanno riferimento a Taranto; è il caso delle cozze alla
tarantina, piatto a base di cozze tipico di Ancona e delle
Marche in genere, e della “tarantina”, appetitosa versione
siciliana di pasta con le cozze. Ciò avvalora la tesi che in
origine tutte le cozze che si consumavano nell’Italia centro-
meridionale provenissero da Taranto. E’ tuttora Taranto a
detenere il primato nella produzione delle cozze.

Ingredienti per sei persone:


2 kg di cozze
2 spicchi d’aglio
1 rametto di prezzemolo
1 dl di olio extravergine d’oliva
1 peperoncino
1/2 dl di aceto
6 fette di pane casereccio raffermo
sale

Mettere a bagno le cozze in acqua leggermente salata per un paio d’ore.


Poi spazzolarle, lavarle accuratamente e metterle in una grossa teglia sul
fuoco, coprirle e lasciare che il vapore di cottura le faccia schiudere.
Filtrare il loro liquido. Tritare grossolanamente il prezzemolo,
schiacciare l’aglio e metterlo a rosolare con l’olio extravergine d’oliva e il

173
peperoncino in una capace padella, eliminare l’aglio e mettere nel
recipiente le cozze e il liquido filtrato. Mescolare molto bene, aggiungere
l’aceto, alzare il fuoco e lasciarlo evaporare un paio di minuti,
mescolando velocemente affinché le cozze si insaporiscano. Accomodare le
fette di pane nelle scodelle individuali, distribuirvi sopra le cozze con il
loro fondo di cottura, cospargendo infine con il prezzemolo e servire.

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CARNI

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Anatra all’arancia
Quello che rappresenta uno degli immortali simboli della
cucina francese è in realtà di origini italiane. L’idea di usare
l’arancia con l’anatra era venuta ai toscani che avevano
scoperto nell’uso del succo degli agrumi un metodo per
conservare la carne più a lungo e per mascherare eventuali
odori sgradevoli. Il paparo alla melarancia (la canard à l’orange
d’oltralpe) comparve infatti per la prima volta nel Libro della
cucina di Anonimo toscano del XIV secolo, e giunse in Francia
con Caterina de’ Medici e i suoi cuochi.

Ingredienti per sei persone:


1 anatra di circa 2 kg
4 arance
1 limone
1 cucchiaio di zucchero
1 cucchiaio di aceto bianco
1 bicchierino di Grand Marnier
olio extravergine d’oliva
sale, pepe

Pulire l’anatra rimuovendo testa e zampe e conservando i fegatini.


Fiammeggiarla per eliminare i residui di piume, sciacquarla e asciugarla.
Salarla e peparla sia esternamente che internamente. Prendere un’arancia
e tagliarla a fette sottili, con la buccia; distribuire le fette all’interno
dell’anatra e sulla sua superficie. Adagiare l’anatra in una pirofila
leggermente unta e metterla in fondo a 180 °C per circa un’ora,
irrorandola di tanto in tanto con il fondo di cottura. 10 minuti prima del
termine della cottura, aggiungere i fegatini e togliere le fette d’arancia
dalla parte superiore dell’anatra in modo che si rosoli per bene. Tagliare
a strisce sottili la buccia di un’arancia, evitando accuratamente di
prelevare la parte bianca. Spremere due arance più metà di una terza e
spremere anche il limone. Pelare al vivo l’altra metà della terza arancia.
In un tegame dal fondo spesso fare un caramello con lo zucchero e l’aceto,
aggiungere il succo degli agrumi e la buccia dell’arancia e far ridurre per
una ventina di minuti. Nel frattempo, deglassare il fondo di cottura

177
dell’anatra con il Grand Marnier e aggiungerlo alla salsa d’arancia. A
fine cottura, unire anche la mezza arancia pelata al vivo. Servire l’anatra
intera, decorata con fette d’arancia, o a pezzi, accompagnata dalla salsa.

Arrosto d’agnello del brigante


Tra il 1734 e il 1784 è vissuto un certo Angelo Duca, detto
Angiolillo, un brigante italiano che si mise in evidenza con
azioni di banditismo, in particolare nella Basilicata, incentrate
prevalentemente sulla difesa dei poveri, tanto da essere
considerato da Benedetto Croce e dallo storico inglese Eric
Hobsbawm non solo una sorta di moderno Robin Hood, ma
anche l’emblema di un brigantaggio di stampo sociale.
Contadino, fu costretto poco più che ventenne alla vita da
brigante, perché, per difendere un nipote che custodiva il suo
gregge dalle ire di un guardiano di Francesco Caracciolo, duca
di Martina e marchese di Mottola, nelle cui proprietà erano più
volte sconfinate le pecore, dovette uccidere il cavallo del
guardiano, suscitando la vendetta del feudatario.
Benedetto Croce, nel suo Angiolillo. Capo di banditi (1926),
scrisse di lui: “Che le plebi ammirassero e amassero Angiolillo,
è naturale; ma alquanto strano può sembrare ch’egli destasse
simpatie anche nella classi colte… Queste simpatie si spiegano
in parte per le qualità non ordinarie di lui e per l’incarnazione,
di una compiutezza quasi artistica, ch’egli presentava, del tipo
del buon ladrone, del brigante umanitario”.
Questo arrosto lo ricorda.

Ingredienti:
1 agnello di circa 8 kg
1 testa d’aglio
1 mazzetto di erbe miste (rosmarino, salvia, timo, ecc.)
1 dl di olio extravergine d’oliva
2 cucchiai di aceto di vino bianco

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1 cucchiaino di pepe nero
sale

Tritare finemente le erbe e metterle con il pepe a marinare nell’olio per un


paio d’ore. Intaccare l’agnello, dopo averlo privato di testa e coda, e
infilare nel taglio delle tacche uno spicchio d’aglio schiacciato. Sfregare
vigorosamente con il sale fino la superficie dell’animale e sistemarlo su
una teglia che lo contenga di misura. Distribuirvi sopra la marinata
preparata. Far cuocere in forno preriscaldato a 190 °C per circa un’ora,
pennellandolo di tanto in tanto con l’aceto mescolato al fondo di cottura.

Boeuf bourguignon
Il manzo alla borgognona è uno dei tanti esempi di piatti
contadini che si sono lentamente raffinati in alta cucina. Molto
probabilmente, il particolare metodo di bollire lentamente la
carne nel vino nato come strumento di intenerimento dei tagli
di carne meno tenera, che sarebbe stato troppo difficile per
cucinare in qualsiasi altro modo. Nel corso del tempo, il piatto
è diventato uno standard della cucina francese. La maggior
parte delle persone per fare un autentico bourguignon di manzo,
ancora segue la ricetta descritta da Auguste Escoffier. Tale
ricetta, tuttavia, ha subito negli anni piccole modifiche, dovute
a cambiamenti di attrezzatura da cucina e forniture alimentari
disponibili.
I l boeuf bourguignon è stato in tempi più recenti (nel 1961)
portato alla ribalta da Julia Child nel suo famoso ricettario di
cucina francese per le cuoche americane (Mastering the Art of
French Cooking).

Ingredienti per otto persone:


1,5 kg di noce o fesa di manzo
1 l di vino rosso
200 gr di pancetta

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200 gr di carote
200 gr di cipolle
30 gr di farina
25 gr di concentrato di pomodoro
1 l di brodo di manzo
50 ml di olio extra vergine d’oliva
2 spicchi d’aglio
3 rametti di timo
3 foglie di alloro
1 rametto di rosmarino
sale, pepe

Per le cipolline
300 gr di cipolline
100 ml di brodo di manzo
1 foglia di alloro
10 gr di burro
1 cucchiaio di olio extra vergine d’oliva
sale, pepe

Per i funghi
500 gr di funghi champignons
2 cucchiai di olio extra vergine d’oliva
1 spicchio d’aglio
1 cucchiaio di prezzemolo tritato
sale, pepe

Tagliare la polpa di manzo a cubi della dimensione di circa 7-8 cm e


asciugarli con carta assorbente, dai liquidi in eccesso. Separare la cotenna
dal pezzo di pancetta, eliminare le eventuali ossa o cartilagini e tagliare
la pancetta a pezzetti. Far scottare la pancetta e la cotenna in acqua
bollente per almeno 10 minuti, schiumando l’acqua con una schiumarola,
quindi scolare il tutto e mettete da parte. Far scaldare sul fuoco una
capiente pentola di ghisa, bassa e larga (circa 35 x 30 cm), adatta anche
per essere utilizzata in forno; aggiungere un filo d’olio e la pancetta in
pezzi, lasciando da parte la cotenna. Rosolare la pancetta a fuoco dolce

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per 10 minuti, trascorsi i quali scolare i pezzi di pancetta e toglierli dalla
pentola; nello stesso grasso, far scottare ora a fuoco vivo la carne, ponendo
pochi pezzi per volta, ben distanziati uno dall’altro in modo che si
cuociano uniformemente. Far rosolare i pezzi di carne su tutti i lati per
qualche minuto, rigirandoli spesso con una pinza e facendo attenzione a
non bruciare il fondo. Se fosse necessario, unire un po’ d’olio per non
lasciare che il fondo del tegame bruci. Una volta rosolata la carne, porla
in un piatto a parte. Sbucciare le cipolle e le carote, tagliarle in pezzi e
unirli al fondo di cottura nella padella. Far cuocere a fuoco medio per 10
minuti e una volta che saranno dorate unite la pancetta, la carne,
aggiustare di sale e pepe, mescolare e dopo circa cinque minuti di cottura,
quando la carne si sarà asciugata, aggiungere la farina setacciata in due
riprese. Preriscaldare il forno ventilato a 250 °C (massima temperatura
se statico) e mettete la casseruola (senza coperchio) al suo interno per 10
minuti, avendo cura, dopo i primi 5, di rimescolare la carne; in questo
modo, si formerà intorno ai dadi della carne una crosticina ben rosolata.
Trascorso il tempo indicato, estrarre la pentola dal forno e irrorarla con il
vino rosso. Prelevare un mestolo di brodo di manzo e usarlo per
stemperate il concentrato di pomodoro. Intanto abbassare la temperatura
del forno a 130 °C e portarlo in modalità statica (se non si ha questa
possibilità portare il forno ventilato a 110 °C). Aggiungere il restante
brodo nella pentola: i liquidi dovranno coprire la carne per almeno 1 cm
al di sopra. Unire anche il concentrato di pomodoro diluito e la cotenna
della pancetta. Riunire le erbe aromatiche, alloro, timo e rosmarino
insieme in un mazzetto tenuto da un filo di spago per cucina e porle nella
pentola insieme a due spicchi d’aglio schiacciati. Portando a ebollizione il
tutto coprire la pentola con il coperchio e infornarla nel forno a 130 °C
per almeno 3 ore. Il liquido, per tutto questo tempo, deve sobbollire
leggermente. Trascorse le 3 ore, spegnere il forno e lasciar raffreddare il
boeuf bourguignon. Nel frattempo, passare alla cottura delle verdure:
pulire le cipolline, eliminando la parte dura; mettere in una padella il
burro e l’olio insieme ad una foglia di alloro quindi unire le cipolline e
farle rosolare per 10 minuti. Aggiungere 100 ml di brodo, coprire la
padella e far cuocere per mezz’ora, fino a che le cipolline non saranno
tenere e dorate. Pulire i funghi champignon dalla terra e tagliarli in
quarti o a metà se piccoli. In una padella far imbiondire l’aglio nell’olio;

181
unire i funghi e farli saltare per 5-10 minuti a fuoco vivo, poi salare,
pepare e aggiungere poco brodo fino a terminare la cottura, lasciando i
funghi ancora croccanti (altri 15-20 minuti). Terminare con una
spolverizzata di prezzemolo tritato. Quando il boeuf si sarà raffreddato,
prelevare i pezzi di carne dalla casseruola e metterli da parte in una
ciotola; fare la stessa cosa con il mazzetto di erbe aromatiche e la cotenna.
Trasferire il fondo di cottura della carne in un’altra ciotola. Riportare la
carne nella padella; raccogliere il fondo di cottura dei funghi direttamente
nella ciotola dove c’è l’altro liquido e unire i funghi alla carne in padella.
Fare lo stesso con il fondo delle cipolline e trasferire queste insieme alla
carne. Con un frullatore ad immersione, passare i liquidi. Si può
sgrassare la salsa ottenuta, ponendola in frigorifero (o in freezer), fino a
che il grasso non si sarà solidificato e sarà affiorato in superficie, così da
poterlo eliminare facilmente. Riportare la salsa sul fuoco e farla
restringere fino a che non velerà il dorso di un cucchiaio. Se si vuole
addensarla più velocemente, far sciogliere un cucchiaio di farina in mezzo
bicchiere di acqua fredda, versare il composto nella salsa attraverso un
colino e mescolare molto bene con una frusta. Aggiustare eventualmente
di sale e versare la salsa in pentola sulla carne, i funghi e le cipolline.
Portare il tutto a leggero bollore e continuare a cuocere per circa 15-20
minuti: ecco pronto il boeuf bourguignon. Servirlo da solo oppure
accompagnato con del riso cotto nel brodo di manzo o con tagliatelle di
pasta fresca che si andranno a condire con il fondo del boeuf stesso.

Carpaccio
Il carpaccio alla Cipriani è una delle ricette più famose al
mondo visto il sapore ricco e gustoso e la preparazione facile
e veloce. Il vocabolo carpaccio, sta ad indicare una pietanza
formata da carne cruda tagliata in modo molto sottile e fu
ideato da Giuseppe Cipriani, ristoratore e fondatore del
famoso Harry’s Bar a Venezia. Fu proprio a Venezia, nel
1950, in occasione di una mostra pittorica sull’artista
veneziano Vittore Carpaccio che Cipriani realizzò per la prima

182
volta questa ricetta, dedicandola al pittore stesso. La
realizzazione del carpaccio alla Cipriani necessita di poche fasi:
le fettine sottili di controfiletto di manzo vengono nappate
con una salsa chiara ricordando i colori e le tonalità dei rossi e
dei bianchi che caratterizzavano le opere del pittore. Pare che
Cipriani inventò il carpaccio per venire incontro alle esigenze
dell’amica e contessa Amalia Nani Mocenigo alla quale, i
medici, vietarono l’assunzione di carne cotta.

Ingredienti per otto persone:


800 gr di controfiletto di manzo
sale

Per la salsa
4 tuorli d’uovo
10 gr di senape in polvere
1/2 limone (succo)
sale
500 ml di olio d’oliva
Worcestershire Sauce
aceto

Tagliare il controfiletto a macchina come il prosciutto e distendere le


fettine direttamente su ciascun piatto da porzione oppure sul piatto di
portata. Cospargere di sale fino e porre a riposare in frigorifero per 15
minuti. Nel frattempo preparare la salsa. Mettere in una scodella i tuorli
e e aggiungere la senape, il succo di limone e un pizzico di sale.
Cominciare a lavorare, versando, versando 1/2 l di olio d’oliva a filetto,
e continuare a mescolare sempre nello stesso senso fino a quando la salsa
si addensa. Aggiungere, a questo punto, 2 o 3 gocce di Worchestershire
Sauce e 1 cucchiaio raso di aceto. Togliere la carne dal frigorifero.
Intingere una forchetta nella salsa e decorare la carne con un disegno a
griglia, ottenuto facendo scolare la salsa dalla punta della forchetta in
movimento.

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“Ritratto di un cavaliere”, Vittore Carpaccio (1510)

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Chateaubriand
François-René de Chateaubriand, letterato e statista,
discendente di una nobile famiglia bretone, è ritenuto tra i
padri del romanticismo francese. Definì se stesso borbonico
per tradizione, monarchico per convinzione, repubblicano per
temperamento.
Chateaubriand ebbe una forte influenza sulla letteratura del
secolo. La sua opera, dominata dal culto della bellezza, rivelò
ai contemporanei il fascino dell’arte gotica, della natura
spettacolare o melanconica. Per l’incanto della sua parola fu
soprannominato “l’enchanteur”, l’incantatore.
Fra le varie ipotesi legate alla provenienza del nome del Filetto
Chateaubriand, oltre a quella che le collegherebbe alla piccola
città omonima della Loira francese, nota per avere in passato
uno dei più grandi mattatoi d’Europa, c’è anche quella che ne
attribuirebbe la creazione al cuoco della famiglia del letterato.
Curioso un aneddoto che si racconta sull’orario di cena della
famiglia Chateaubriand: François-René aveva un appetito che
avanzava non prima delle sette di sera, la compagna Madame
Recamier invece avvertiva i languori di stomaco solo alle
cinque del pomeriggio. Per questo motivo sembra che
raggiunsero il compromesso di sedersi a tavola alle sei, con il
risultato che nessuno dei due toccava cibo durante il
convivio…

Ingredienti per quattro persone:


800 gr di filetto di manzo in due fette
1 dl di olio
1 rametto di rosmarino
sale, pepe

Battere le due fette di filetto in modo che la loro altezza sia di circa
cinque centimetri. Ungerle con un filo d’olio, cospargerle con poco sale e
pepe e adagiarle sulla piastra che dovrà essere molto calda per i primi
cinque minuti di cottura. Dopo aver girato il filetto, in modo che dalle
due parti si sia formata una crosticina, abbassare la temperatura della

185
piastra in modo da consentire la penetrazione del calore, senza però
indurire la carne esteriormente. Durante la cottura intingere il rametto di
rosmarino nell’olio e passarlo continuamente sulla carne. Un volta cotta
affettare la carne sottilmente in senso obliquo e servire con patate lessate e
passate nel burro.

François-René de Chateaubriand

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Cordon bleu
Dietro al cordon bleu si sono annidate numerose leggende. Al
lettore l’ardua impresa di scegliere la più convincente.
Una storia narra che si debba allo chef svizzero a bordo del
transatlantico Bremen, della compagnia di navigazione tedesca
Norddeutscher Lloyd, l’idea di farcire una cotoletta di formaggio
e prosciutto, quando nel 1929 l’enorme nave solcò
l’oceano in tempo record (toccò quota 27,83 nodi), vedendosi
assegnare il pregiato nastro blu, il cordon bleu, appunto. Il
comandante di bordo, Ziegenbein, per festeggiare il grande
evento chiese al cuoco una ricetta speciale a base di
formaggio. Fu così che l’esperto ai fornelli pensò di
farcire due fette di carne dando alla sua creazione il nome in
omaggio al trofeo ricevuto dalla nave.
Cordon bleu era anche il collare ordinario dell’Ordre du Saint-
Esprit (Ordine dello Spirito Santo) che fu nei due secoli e
mezzo della sua esistenza, il più prestigioso ordine
cavalleresco della monarchia francese, e uno dei più
importanti d’Europa, fondato da Enrico III di Valois allo
scopo di proteggere la sua persona, il Re di Francia, definita
sacra.
La ricetta del cordon bleu, nell’accezione moderna, comparve
tuttavia per la prima volta sul New York Times, sul finire degli
anni ‘60 del ‘900, il che potrebbe far pensare a un’origine
americana. C’è anche chi azzarda che il piatto sia stato
inventato presso la celebre scuola di cucina francese Le Cordon
Bleu, fondata a Parigi nel 1895 dal cuoco Henri-Paul Pellaprat.

Ingredienti per quattro persone:


8 fettine di vitello abbastanza sottili
4 fettine di prosciutto cotto
4 fette di formaggio adatto alla fusione
1 uovo
farina q.b.
pangrattato q.b.
olio di semi, sale, pepe

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Battere le fettine di carne per appiattirle un po’, salarle e peparle
leggermente. Ricoprirne quattro con il prosciutto e il formaggio facendo in
modo che la farcia non fuoriesca. Chiuderle con le fette di carne rimaste a
mo’ di panino, quindi passarle prima nella farina premendo perché
aderisca bene, poi nell’uovo sbattuto e infine nel pangrattato. Friggere i
cordoni bleu in una padella con olio ben caldo e a fuoco basso, facendo
attenzione affinché la carne cuocia bene anche all’interno senza che si
bruci la panatura. Servirli subito ben caldi.

Il transatlantico “Bremen”, della Norddeutscher Lloyd

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Coq au vin
Il coq au vin è un piatto tradizionale francese, infatti la
Borgogna, l’Alsazia, la Champagne e l’Auvergne ne
rivendicano la paternità.
Tradizionalmente, si lasciava marinare nel vino rosso anche
per 48 ore, dato che in passato si usavano soprattutto carni
tenaci di galletto.
Una leggenda riconduce la ricetta alla conquista della Gallia da
parte di Giulio Cesare. Un capotribù degli Arverni, assediato
dai Romani, avrebbe fatto pervenire all’imperatore un galletto
come simbolo del valore dei Galli. Cesare ricambiò la cortesia
e i due sedettero insieme a una cena dove fu servito il coq au
vin.
Ne esiste una versione tradizionale anche a Canzo, in
Provincia di Como, che risalirebbe al passaggio di Stendhal in
Brianza.

Ingredienti per quattro persone:


1 gallo di un kg e 200 gr
1/2 litro di vino Bourgogne
150 gr di burro
40 gr di pancetta tagliata a listarelle
4 cipolle finemente affettate
5 scalogni tritati
3 carote tritate
130 gr di champignons
1 cucchiaio di farina
1 bouquet garni (composto da alloro, timo e maggiorana)
sale, pepe

Pulire, lavare e asciugare il gallo. Tagliarlo a pezzi e spolverizzarlo con


poco sale e pepe. Mettere in una casseruola 70 gr di burro e farvi rosolare
leggermente la pancetta e le cipolle. Togliere questi due ingredienti, porli
in un piatto e tenerli da parte. Sistemare nel condimento rimasto nella
casseruola i pezzi di gallo, farli rosolare da tutte le parti, quindi
abbassare il fuoco, incoperchiare e lasciare cuocere per 10 minuti.

189
Fare nel frattempo rosolare gli scalogni con le carote per 5 minuti in un
tegamino insieme a 20 gr di burro e unirli al gallo assieme al vino rosso e
al bouquet garni. Condire il tutto con un po’ di pepe macinato e lasciare
cuocere per 30 minuti a fuoco moderato. Pulire i funghi e farli saltare in
una padella con 30 gr di burro. Travasare i pezzi di gallo in un’altra
casseruola, unirvi le cipolle, la pancetta e i funghi tenuti a parte.
Continuare la cottura lentamente fino a che il gallo sarà tenero;
all’ultimo momento amalgamare il restante burro con la farina e
aggiungerlo alla carne. Girare bene la salsa e travasare la preparazione
in un piatto di servizio riscaldato, servendo subito in tavola.

Coronation chicken
Questo piatto fu preparato per la prima volta nel 1953, in
occasione delle celebrazioni per l’incoronazione della Regina
Elisabetta II del Regno Unito.
Per la realizzazione del menu venne coinvolta la Cordon Bleu
Cookery School di Londra, la quale dovette subito
confrontarsi con numerosi dilemmi in merito alla moltitudine
di diete seguite dai dignitari del Commonwealth: i musulmani
ad esempio non potevano mangiare maiale, gli induisti il
manzo. Inoltre, l’orario di arrivo preciso degli ospiti su
carrozze trainate da cavalli sarebbe stato imprevedibile. Gli
spazi per cucinare nella Westminster Hall erano per aggiunta
limitati e le preparazioni svolte dagli allievi, abili, ma pur
sempre studenti…
La scelta vincente portò a servire un pollo freddo con
un’innovativa maionese, che divenne in seguito un piatto
molto apprezzato a livello nazionale.

Ingredienti per sei persone:


1 grosso mango maturo tagliato a striscioline
50 gr di uvetta sultanina
1,2 kg di petti di pollo bolliti e tagliati a striscioline

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350 ml di maionese
1 cucchiaino di curry dolce in polvere
1 cucchiaino di salsa chutney al mango
1 cucchiaino di succo di limone
100 gr di anacardi tritati
sale, pepe

Mettere in una insalatiera il mango assieme al pollo e all’uvetta.


Mescolare bene la maionese con il chutney, il curry, il succo di limone, il
sale e il pepe e versare sul pollo. Mescolare bene e per ultimi aggiungere
gli anacardi tritati. Servire.

L'Incoronazione di Elisabetta II (2 giugno 1953)

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Costolette alla Reform
Queste costolette di montone nate nel periodo fra il 1837 e il
1850, sono opera del famoso chef francese Alexis Soyer,
quando era capocuoco al Reform’s Club, uno dei più antichi
club politici di Londra, fondato da persone che avevano
sostenuto la legge del 1832 sulla Rappresentanza del Popolo
(The Representation of the People Act 1832), comunemente nota
come il Reform Act 1832 o anche come La Grande Riforma, che
introdusse ampie modifiche al sistema elettorale inglese e
gallese.
Le capacità di innovazione e professionali dello chef Soyer
sono immortalate nella storia anche con l’episodio
dell’incoronazione della Regina Vittoria, avvenuto il 28 giugno
1838: preparò per l’occasione la prima colazione per ben 2000
invitati alla cerimonia.

Ingredienti per quattro persone:


Per la salsa
1 cucchiaio di burro
1 cipolla media, tritata finemente
60 gr circa di prosciutto, tritato finemente
1 carota media, tritata finemente
2 cucchiai di Porto
50 gr circa di aceto di vino rosso
500 ml circa di brodo di pollo
2 foglie di alloro
1 piccolo mazzetto di timo
1 cucchiaino di amido di mais
sale, pepe

Per l'agnello
2 kg di costolette di agnello
120 gr circa di prosciutto, tritato finemente
prezzemolo fresco
130 gr di pangrattato
30 gr di farina

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2 uova, sbattute
100 gr di olio vegetale

Per la salsa: far sciogliere il burro in una padella media a fuoco medio
alto, aggiungere la cipolla, il prosciutto e la carota, e far cuocere fino a
quando le cipolle sono morbide e il prosciutto sta iniziando a diventare
croccante (circa 4 minuti). Aggiungere il Porto e l'aceto e far cuocere fino
a che sia quasi totalmente ridotto (circa 2 minuti), quindi aggiungere il
brodo, l'alloro e il timo, portare lentamente a ebollizione e ridurre della
metà (circa 20 minuti). Mescolare l'amido di mais con 2 cucchiai di
acqua e aggiungerlo alla salsa bollente; una volta che la salsa è
addensata, condire a piacere con sale e pepe. Per l'agnello: mettere la
carne su un tagliere e con l'utilizzo di un batticarne, appiattire
delicatamente ogni costoletta finché non è di spessore di circa 1,5 cm. Non
staccare la carne dall'osso. Unire il prosciutto, il prezzemolo e il
pangrattato in un piatto e mescolare con le dita fino a che siano ben
combinati. Su piatti separati, mettere la farina e le uova sbattute.
Condire la farina con sale e pepe. Passare ogni costoletta prima nella
farina, poi nell'uovo e, infine, nella miscela di pangrattato. Ripetere con il
resto delle costolette. Versare un poco d'olio vegetale in una padella
capiente e scaldare a fuoco medio-alto. Aggiungere le costolette impanate,
facendo attenzione a non metterne troppe nella padella e cuocere fino a
quando siano ben dorate, circa 4 minuti per lato.

Epigrammi d’agnello
La parola usata al plurale indica una classica preparazione della
cucina francese, diffusasi poi in tutto il mondo. Termine già
noto nel ‘600 (di epigrammi parla La Varenne), del quale non
si hanno notizie certe di come sia arrivato alla gastronomia
dalla letteratura (l’epigramma è un brevissimo componimento
poetico di solito satirico). Oggi, queste preparazioni
consistono nel matrimonio di cotolette d’agnello e fettine di
petto d’agnello lessato o brasato, passate nell’uovo per essere

193
impanate e fritte. Per analogia si chiamano epigrammi quelle
preparazioni di piccole dimensioni cotte allo stesso modo.
Fra le storielle che spiegano la bizzarria del nome ce n’è una
che vede protagonista una dama di fine ‘600. Questa signora,
tanto ignorante quanto vanitosa, seppe che un suo
commensale aveva gustato eccellenti epigrammi in casa del
conte di Vaudreuil. Credendo si trattassero di vivande alla
moda ne ordinò la preparazione al suo cuoco Michelet, il
quale dopo aver consultato i libri di cucina che aveva
sottomano, non trovando la strana ricetta inventò un piatto
come quello sopra descritto. Il giorno dopo, agli invitati che
domandavano meravigliati che cosa fossero quei nuovi
manicaretti, la padrona di casa rispose trionfante: “Epigrammi
d’agnello alla Michelet”, (risata generale).

Ingredienti per quattro persone:


1 kg e 1/2 di agnello con osso (spalla, petto)
1 costa di sedano, 1 carota, 1 cipolla
50 gr di farina
2 tuorli d’uovo sbattuti
pane grattugiato per impanare
100 gr di burro
2 foglie di salvia
pepe nero, sale

Mettere in una pentola la carne con poca acqua bollente, unirvi le verdure
e il sale e far cuocere a fuoco moderato per circa 2 ore e mezzo, fino a che
la carne sarà quasi spappolata. Scolare e disossare la carne ancora calda
e sistemarla su un tovagliolo pulito che si arrotolerà a forma di
salsicciotto legandone strettamente le due estremità con un po’ di spago
sottile. Porre il salsicciotto sotto un peso in modo da comprimere la carne
e lasciarlo così per altre 2 ore. Slegare il tovagliolo e tagliare la carne a
fette piuttosto spesse. Infarinarle e passarle prima nei tuorli d’uovo
sbattuti e poi nel pane grattugiato. Far sciogliere in una padella il burro
con la salvia e, quando sarà ben caldo, farvi dorare le fette di carne da
ambo le parti. Passarle nella carta assorbente, salarle, peparle e servirle.

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Fagiano di Rob Roy
Robert MacGregor (1671-1734), noto come Rob Roy, ovvero
“Roberto il Rosso” per via del colore dei suoi capelli, è stato
un brigante, capo-clan ed eroe leggendario scozzese, definito il
“Robin Hood” della Scozia.
Al ritorno dalle sue partite di caccia, pare che si facesse
preparare questo piatto con parte della selvaggina da lui
uccisa…

Ingredienti per quattro persone:


1 fagiano da 1,2 kg già pulito
2 cipolle
3 carote
3 coste di sedano
1 bouquet garni
1 chiodo di garofano
1 foglia di alloro
3/4 di l di brodo (di pollo, di carne o di dado)
1/4 di litro di vino rosso
sale, pepe

Affettare sottilmente le cipolle e le carote, tritare il sedano, disporli sul


fondo di una casseruola insieme al bouquet garni, il chiodo di garofano e
l’alloro. Pulire, fiammeggiare, lavare e tagliare a pezzi il fagiano e
disporlo sullo strato di verdure appena preparato. Versare nella
casseruola il vino, il brodo e il pepe. Coprire la casseruola con un foglio di
alluminio, quindi incoperchiare, in modo che la chiusura risulti più
ermetica possibile. Porre il recipiente sulla fiamma alta e quando il
liquido inizierà a bollire abbassare la fiamma e continuare la cottura per
circa 2 ore o fino a che la carne sarà ben tenera. Controllare il sale.
Togliere il fagiano dalla casseruola e disporlo sul piatto di portata
coprendolo con il sugo di cottura passato al setaccio.

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Robert MacGregor

Filetto alla Bismarck


Bismarck, il Cancelliere di ferro, dominatore della vita politica
europea per quasi trent’anni fino al 1890, era così convinto
che la civiltà tedesca fosse di gran lunga superiore alle altre, da
considerare come suo dovere quello d’imporla a tutto il
mondo.
Grazie a lui la Prussia, da stato subordinato all’Austria, riuscì
con la forza delle armi a trasformarsi nella massima potenza
continentale europea.
A Bismarck, che non tradì mai la moglie nonostante le sue
lunghe trasferte all’estero, è attribuita la frase: “chi lavora
molto deve anche nutrirsi bene ed innaffiare il tutto”.
Gli piaceva bere, ma non si limitava ai vini del Reno,
apprezzando anche champagne e birra bionda. Sembra che
prediligesse ogni genere di carne, oltre a ostriche e caviale. I
pranzi che più incontravano il suo gusto erano quelli a base di
fagiano arrosto con crauti allo champagne, anatra alle olive, e
piatti nazionali come prosciutto di Reinfed o petto affumicato

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d’oca di Pomerania.
Alle tavolate diplomatiche bismarckiane, particolarmente
raffinate e aperte da un aperitivo, veniva spesso servita come
unica bevanda la birra bionda, perché sembra rendesse
inoffensivi i nemici.
Oggi spesso si chiama “alla Bismarck” qualsiasi preparazione
di carne - come il filetto - asparagi, pizza o altro che preveda la
copertura con uova fritte. Malgrado il nome, questo tipo di
ricetta non fa parte della cucina tradizionale tedesca e sembra
sia dedicata al Cancellerie a ricordo della sua forza e della sua
predilezione per le uova, che era in grado di ingurgitare nel
numero di dodici alla volta.

Ingredienti per quattro persone:


4 filetti di vitello (spessore 3 cm)
4 uova
70 gr di burro
sale, pepe
prezzemolo

Rosolare i filetti in 30 gr di burro regolando la cottura secondo il proprio


gusto. Toglierli dalla padella e tenerli in caldo. Fondere il resto del burro
nella stessa padella e friggervi le uova. Salarle, peparle e tagliare con uno
stampo senza fondo l’albume in eccesso affinché risultino perfettamente
tonde. Porre un uovo su ogni filetto, guarnire con un ciuffetto di
prezzemolo e servire subito.

Filetto Stroganoff
Le origini di questo piatto risalgono alla Russia del XIX
secolo.
Molte sono le opinioni riguardanti il suo nome, alcuni
riportano che sia stato preparato per la prima volta da uno
chef francese, cuoco del conte russo Pavel Stroganoff, che

197
aggiunse la panna acida al classico manzo in fricassea per
renderlo più adatto ai gusti del conte. Altri invece riportano
che Stroganoff fosse il nome di un medico alle dipendenze
della zarina Maria di Russia. Questo dottore esercitava la sua
professione tra i cacciatori di balene e si narra che durante una
battuta di caccia scoppiò a bordo della nave un’intossicazione
da aringhe polari. A quel punto Stroganoff somministrò
all’intero equipaggio una dieta molto rigida a base di riso e
carne di mucca precedentemente fermentata in panna acida e
succo di cipolle. Da quella vicenda, secondo questa versione,
la ricetta divenne di gran moda alla corte moscovita e al Caffè
Puskin, sulle sponde della Neva.

Ingredienti per quattro persone:


400 gr di filetto di vitello
vino bianco
alloro, timo
1 patata grande o 150 gr di funghi champignons
burro
1/2 cipolla
50 ml di panna acida
sale
pepe (bianco o di Cayenna)
cognac

Affettare a 1 cm di spessore il filetto e metterlo a marinare nel vino


bianco con alloro e timo per 2/3 ore. Poco prima di iniziare le
operazioni, lessare, sbucciare e poi rosolare affettata nel burro 1 grossa
patata oppure affettare sottilmente i funghi. In una padella di pirex o
rame stagnato e ben lucidato, soffriggere in 40 gr di burro, a fuoco molto
basso, la cipolla tritata. Scolare molto bene le fettine di vitello dalla
marinata; quando la cipolla è appena dorata , alzare molto il fuoco,
mettere nella padella le fettine di vitello e farle rosolare 1 minuto per
parte o poco più; aggiungere allora nella padella la panna acida. Sempre
a fuoco forte e muovendo la padella, far ridurre della metà il fondo di
cottura, poi unire la patata o i funghi, salare, pepare con generosità.

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Lasciar cuocere per 3/4 minuti , poi servire nel recipiente di cottura.
Nel caso si usino i funghi, appena rosolata la carne, versare nella padella
1 bicchierino di cognac e fiammeggiare.

Filetto Voronoff
Questo noto piatto è riconosciuto da molti come la ricetta
dell’eterna giovinezza, facente parte della “cucina erotica”,
dato che donerebbe benefici afrodisiaci.
E’ stato ideato da Serge Voronoff (Voronez, 1866 – Losanna,
1951), chirurgo e sessuologo russo naturalizzato francese che,
riprendendo gli esperimenti di endocrinologia dell’austriaco
Eugen Steinach, divenne famoso negli anni ‘20 per il suo
discusso metodo di ringiovanimento maschile consistente
nell’innesto di testicoli di scimmia nell’uomo. Per gli
esperimenti su questa pratica (che si rivelarono ovviamente
infruttuosi), nel 1920 il barman Harry MacElhone, dell’Harry’s
New York Bar di Parigi, gli dedicò anche un cocktail chiamato
Monkey Gland (ghiandola di scimmia, appunto), a base di gin,
succo d’arancia, assenzio e granatina.

Ingredienti per sei persone:


6 fette di filetto di manzo alte 2 dita
70 gr di burro
2 cucchiai di cognac
2 cucchiai di sherry
1 cucchiaino di buccia di limone finemente grattugiata
300 ml di panna
2 cucchiai di senape di Digione
sale, pepe

In una padella che comodamente contenga i filetti far riscaldare a fuoco


alto il burro; cuocere poi la carne, due minuti per parte, in modo che
venga piuttosto al sangue, salarla, peparla e poi conservarla in un piatto

199
mentre si preparerà la salsa. Versare lo sherry e il cognac nella padella e
farli ridurre in modo che ne rimanga un cucchiaio all'incirca. Aggiungere
la buccia finemente tritata del limone, la panna, portare a bollore e far
cuocere a fuoco lento fino a quando la panna si è ben addensata e quindi
aggiungere la senape. Mescolare bene e riversare nella padella i filetti con
i loro sughi di cottura e far cuocere ancora per 1 minuto. Versare i filetti
con la loro salsa nel piatto di portata e servire subito.

Filetto Wellington
Il titolo di Primo Duca di Wellington fu dato nel 1815 ad
Arthur Wellesley (1769-1852), un generale inglese che si
distinse in battaglia per aver sconfitto le truppe napoleoniche
facendo conquistare alla Spagna l’indipendenza e svolgendo
un ruolo primario nella battaglia decisiva di Waterloo.
La ricetta del filetto Wellington si rifà a questo grande
personaggio inglese, dai gusti difficili e raffinati. Alcune fonti
sostengono che questo piatto nacque alla sua corte poiché era
un grande amante della carne e voleva sempre mangiare ricette
nuove, altre che l’aspetto del filetto una volta cotto somigliava
ai suoi stivali (i Wellington’s), altre ancora che fu solo negli
anni ’60 uno chef patriottico ad attribuire al suo piatto il nome
del duca di Wellington.
Addirittura una rivista neozelandese sostiene che il filetto
Wellington sia nato nella città di Wellington, in Nuova
Zelanda.
Non sappiamo con certezza quale delle tante versioni sia
quella vera, ma è plausibile pensare che una prima versione
rudimentale del filetto Wellington nacque in Inghilterra nei
primi anni dell’800, sia perché è un procedimento tipico della
cucina inglese quello di cuocere in crosta le carni, sia perché il
filetto Wellington per gli inglesi è un piatto nazionale e
tradizionale, al pari del pudding, talmente radicato nei loro
costumi da essere il piatto per eccellenza del pranzo natalizio.

200
Ingredienti per sei-otto persone:
1 kg di cuore di filetto di manzo
100 gr di pancetta tagliata a fette sottili
1 confezione di pasta sfogliata surgelata (o, meglio, se preparata al
momento)
20 gr di burro
1 uovo
4 foglie di alloro
sale, pepe

Togliere con cura al filetto i neretti e le pellicine, cospargerlo con alloro,


pepe e poco sale e fasciarlo con le fettine di pancetta. Legarlo con un filo
incolore e passarlo in forno molto caldo per 20 minuti. Togliere il filetto
dal forno lasciarlo intiepidire. Stendere intanto in una sottile sfoglia la
pasta; slegare il filetto, togliere le fette di pancetta e porlo al centro della
sfoglia, quindi avvolgerlo completamente con questa. Disporlo sulla placca
del forno ben unta di burro, praticare verso l’alto due incisioni nella pasta
e introdurvi due piccoli imbuti di cartone (i cosiddetti “camini”), che
consentiranno durante la cottura la fuoriuscita del vapore. Pennellare la
superficie della pasta sfoglia con l’uovo sbattuto e porre in forno a 200
°C per 30 minuti o comunque fino a quando la pasta sarà ben dorata.

Arthur Wellesley, Primo Duca di Wellington

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Gulasch all’ungherese
Questo cibo, il cui termine deriva dall’ungherese gulyas
(mandriano), indicava nel Medioevo una preparazione fatta
dai mandriani per riscaldarsi durante i lavori nei pascoli,
discendenti di un’etnia di cavalieri che era giunta in Europa
centrale verso la fine del IX secolo dalla steppa euro-asiatica.
La ricetta originale era quella di una zuppa (la “Zuppa del
mandriano”, appunto) e consisteva nel tagliare a cubetti la
carne per poi cuocerla a fuoco basso in pentoloni aperti,
condita con del sale.
L’affermazione del gulasch come piatto nazionale ungherese
avvenne durante il regno di Giuseppe II della famiglia
Asburgo-Lorena, detto Il Riformatore. Già prima di quello
che sarebbe stato il futuro impero austro-ungarico, i popoli
del centro Europa venivano vessati dai regnanti, che
cercavano di eliminare gli elementi di diversità e le peculiarità
culturali. I nobili ungheresi trovarono nel gulasch un simbolo
che rappresentava la propria identità nazionale, proteggendolo
e tramandandolo anche durante i periodi di maggiore
repressione.

Ingredienti per quattro persone:


600 gr di polpa di manzo tagliata a cubi di circa 50 gr ciascuno
1/2 cucchiaio di paprika dolce
2 grosse cipolle tritate grossolanamente
50 gr di burro
1 bouquet garni (timo, prezzemolo, maggiorana)
1/2 spicchio d’aglio schiacciato
2 cucchiaini di farina
1 litro di brodo di carne caldo
1 tazza e 1/2 di pomodori pelati e passati al setaccio
sale, pepe

Rosolare con il burro le cipolle e la carne, per 15 minuti in un tegame.


Unire il sale, la paprika, il bouquet garni e l’aglio. Quando la carne e le
cipolle avranno assunto un bel colore dorato, spolverizzare con due

202
cucchiaini di farina, rigirare bene e, dopo pochi minuti, bagnare con il
brodo caldo. Aggiungere infine i pomodori, rimescolare, mettere il
recipiente in forno a 180 °C e lasciar cuocere per circa 2 ore e mezza.
Portare in tavola.
Accompagnamento ideale sono le patate cotte al vapore o la polenta.

Hamburger
La parola è frutto di un prestito linguistico fra tedesco e
inglese. Infatti l’identificativo tedesco hamburger (che indicava
qualcosa o qualcuno originario della famosa città anseatica),
passò nell’inglese colloquiale con la definizione “Hamburger
steak” ovvero bistecca di Amburgo. Probabilmente polpette di
carne bovina erano comuni nella città e nel porto di Amburgo
verso l’inizio del XIX secolo. Questa ricetta fu portata nel
Nordamerica da parte dei numerosi tedeschi immigrati negli
Stati Uniti in quello stesso periodo, la gran parte dei quali
partivano dal porto di Amburgo (già allora maggior porto
commerciale della Germania).
La prima apparizione della ricetta in un menù americano (al
Delmonico’s di New York) viene fatta risalire al 1826, anche
se l’uso documentato del termine “Hamburg steak” risale al
1884. L’uso come variante del termine “Hamburger”,
aggettivo tedesco che significa amburghese (della città di
Amburgo), apparve per la prima volta nel quotidiano di
Washington, Walla Walla, nel 1889.
L’etimologia della parola italiana “Svizzera”, con il significato
di polpetta di carne macinata e pressata, è probabilmente
parallela a quella della parola inglese “Hamburger”: anche in
questo caso sta a indicare la provenienza della ricetta dall’area
germanica nord-europea.

Ingredienti per quattro persone:


600 gr di carne magra di bovino adulto

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sale, pepe
burro
mollica di pane, latte o panna, Worcestershire Sauce (a piacere)

Macinare e formare nel caratteristico disco la carne. Nel composto ci


vorrebbero soltanto sale e pepe, ma c’è chi vi mette un po’ di mollica di
pane ammollata nel latte o nella panna e poi strizzata, oppure qualche
goccia di Worcestershire Sauce. La cottura può essere, come per una
bistecca, al sangue, a punto o ben cotta. Se si mettono gli hamburger sotto
il grill del forno, i tempi di cottura saranno un po' inferiori. Lo
strumento ideale per cuocere gli hamburger è una piastra su cui, al
momento di cuocere, va passata una noce di burro; quando la spuma del
burro diminuisce, mettere a cuocere gli hamburger. Va bene anche una
comune padella antiaderente, scaldata bene prima di passarvi il burro.
Guarnizione classica dell’hamburger messo nel panino tondo a cuscinetto
sono il ketchup o la senape e la cipolla dolce a fettine; il contorno, le
patatine fritte a bastoncino.

Paillard
Alla fine del XIX secolo il bel mondo parigino si dava
appuntamento al Paillard Bellevue Palace. Non solo perché
era il ristorante dove si potevano incontrare tutti i personaggi
più in voga del momento - da Toulouse Lautrec al granduca
Vladimiro di Russia accompagnati da splendide donne - ma
soprattutto perché si mangiava in maniera eccelsa.
Proprietario e chef di questo mitico locale era Monsieur
Paillard che si dilettava a creare per la sua affezionata clientela
piatti elaboratissimi come le Pommes Georgettes (patate cotte al
forno, svuotate e riempite con un passato di granchio) e altre
raffinate prelibatezze. Ma il suo nome è passato alla storia per
una piatto semplicissimo che aveva creato per un cliente con
problemi digestivi: una sottile fettina di vitello, passata alla
griglia.

204
Ingredienti:
1 fetta di vitello da 140 gr
olio d’oliva
spicchio di limone
sale

Con l’aiuto di un batticarne appiattire bene la fettina e ungerla


uniformemente con l’olio di oliva. Scaldare la bistecchiera, preferibilmente
di ghisa, e quando sarà ben calda posarvi la carne: si girerà dopo circa un
minuto aiutandosi con una paletta e non la forchetta che farebbe
fuoriuscire i succhi interni. Fuori dal fuoco salarla e servirla
accompagnata da uno spicchio di limone.

Pojarski
Pare siano state inventate dal signor Pojarski (o Pozharskij,
ignoto il nome di battesimo), trattore in Ostaskov, città della
Russia centrale europea, in occasione di una visita improvvisa
di nientemeno che lo Zar Alessandro I. Questi, infatti, si
sarebbe fermato in quella trattoria, in un giorno sconosciuto
dei primi anni del 1800, a causa di un guasto alla carrozza. Le
cotolette di vitello già pronte non sarebbero bastante per lo
Zar e tutto il suo seguito, e così il bravo Pojarski (o forse sua
moglie Darja) ebbe l’idea di tritarle e aumentarne il volume
aggiungendovi del pane imbevuto nel latte e del burro, e forse
anche un po’ di carne di pollo. La trovata ebbe grande
successo e consegnò alla storia il trattore di Ostaskov…
Ma un’altra diffusa teoria riporta che a realizzare per primo
questo piatto sia stato un cuoco alla corte dello Zar
Alessandro I.
Gualtiero Marchesi ha definito queste polpette “regali e degne
del palato più fine”.

205
Ingredienti per circa trenta polpette:
400 gr di carne magra di vitello tritata

100 gr di burro morbido, a temperatura ambiente

100 gr di mollica di pan carré ammollata nel latte

1 pizzico di noce moscata

sale, pepe
burro per friggere


Per il sugo

400 gr di polpa di pomodoro di buona qualità

1 spicchio d’aglio in camicia

2 cucchiai d’olio extravergine d’oliva

1 cucchiaio di basilico fresco tritato

sale, pepe

Strizzare la mollica di pan carré, passarla attraverso un setaccio ed


unirla al resto degli ingredienti. Lavorare con cura (preferibilmente con le
mani) in modo da ottenere un imposto omogeneo. Formare delle palline
grandi quanto una noce e modellarle roteandole tra i palmi delle mani
inumiditi (se si preferisce, prima di friggerle panarle passandole prima
nell’uovo sbattuto e poi nel pane grattugiato). Scaldare il burro e, appena
caldo (inserire un cucchiaio di legno al centro: se si formano
immediatamente delle bollicine tutt’intorno, la temperatura è quella
giusta) friggere poche polpettine per volta. Scolarle non appena diventano
dorate su tutta la superficie e tamponarne l’unto in eccesso su carta
assorbente da cucina. Preparare il sugo: unire tutti gli ingredienti
all’interno di una casseruola, porre su fiamma dolce e lasciar insaporire
per circa quindici minuti. Suddividere il tutto in apposite ciotoline e
servire appena tiepido.

Pollo alla King


Sono numerose le versioni sull’origine di questo piatto
americano.
Diversi sostengono che sia stato creato dallo chef del
Delmonico’s Restaurant di New York Charles Ranhofer come
“pollo alla Keene” nel 1880, dedicato a Foxhall Keene Parker

206
(1867-1941), giocatore di polo, golfista e pilota
automobilistico statunitense.
Altri sostengono che sia nato nel 1881 al famoso Claridge’s di
Londra, prendendo il nome dal broker di Wall Street James R.
Keene, padre di Foxhall.
Un’altra storia indicherebbe invece George Greenwald del
Brighton Beach Hotel a Brighton Beach come il padre del
piatto, realizzato per la prima volta nel 1898 e battezzato con
il nome del proprietario dell’albergo E. Clarke King II.
Ma la versione più attendibile riporterebbe al 1890 e al cuoco
William “Bill” King del Bellevue Hotel di Philadelphia. Dopo
la sua morte, avvenuta il 4 marzo 1915, un editoriale del New
York Tribune aveva dichiarato: “Il nome di William King non è
elencato tra i grandi della terra. Nessun monumento potrà mai essere
eretto alla sua memoria, perché era solo un cuoco. Ma che cuoco! In lui
ardeva il fuoco del genio: il calor bianco dell’ispirazione lo aveva guidato
un giorno, nel vecchio Bellevue di Philadelphia, a unire pezzi di pollo,
funghi, tartufi, peperoni rossi e verdi e panna in quella deliziosa mistura
conosciuta in seguito come pollo alla King”.
La ricetta venne menzionata nel 1893 sul New York Times e
la sua popolarità crebbe per tutta la prima metà del ‘900.

Ingredienti per quattro persone:


1 cucchiaino di olio d’oliva
1 cipolla media
champignon a fettine
1 tazza di latte
280 gr di tagliatelle
1 tazza di farina
uova (230 gr)
brodo di pollo
1 cucchiaio di sherry
timo, pepe, sale
1 tazza e 1/2 di petto di pollo a pezzetti
1 tazza di piselli surgelati
panna da montare

207
Scaldare l’olio in una grande padella antiaderente a fuoco medio-alto.
Aggiungere la cipolla, i funghi e il sale; cuocere e mescolare per 5 minuti
o fino a quando la cipolla è tenera e i funghi hanno rilasciato il loro
liquido. Nel frattempo, in una piccola ciotola, sbattere insieme il latte e
la farina fino a che risulti un composto liscio. Nel frattempo cuocere le
tagliatelle in una grande pentola di acqua bollente salata. Versare il
brodo, lo sherry, il timo e il pepe in padella con le verdure; portare ad
ebollizione, mescolando. Aggiungere il composto di latte; cuocere e
mescolare per 2 o 3 minuti o fino a quando il tutto si è addensato.
Aggiungere il pollo, i piselli e la panna; cuocere, mescolando ogni tanto.
Servire sulle tagliatelle.

Pollo alla Marengo


I l pollo alla Marengo è una ricetta tipica piemontese e risale
alla vittoria di Napoleone contro gli Austriaci nella famosa
battaglia di Marengo il 14 giugno 1800.
Sembra che il generale francese, amante del buon cibo, dopo
la vittoria ordinò qualcosa di speciale. Lo chef Dunand, suo
cuoco personale, gli fece servire un pollo cucinato con gli
ingredienti a disposizione del luogo, vista la situazione. Il pollo
venne cotto con funghi, gamberi di fiume e del vino Madera
portato dall’esercito francese. Napoleone l’apprezzò a tal
punto che divenne il suo piatto fisso dopo ogni vittoria.

Ingredienti per quattro persone:


1 pollo di circa 1,2 kg già pulito
6 cucchiai di farina bianca
1 bicchiere di vino bianco secco
1 tazza di brodo di carne
30 gr di burro
2 cucchiai di olio d’oliva
1 pizzico di noce moscata in polvere
succo di 1/2 limone, sale, pepe

208
Fiammeggiare, lavare, asciugare e tagliare il pollo in otto pezzi;
infarinarli bene e farli rosolare in una casseruola con il burro e l’olio,
spolverizzarli di sale, pepe e noce moscata; quando avranno preso un bel
colore dorato, bagnarli con il vino bianco, lasciarlo evaporare e aggiungere
il brodo caldo. Incoperchiare e far cuocere a fiamma viva fino a quando i
pezzi di pollo saranno cotti. Disporli nel piatto di servizio riscaldato,
cospargerli con il fondo di cottura e il succo di limone. Servire.

La Battaglia di Marengo

209
Saltimbocca alla romana
I saltimbocca sono uno dei cavalli di battaglia della cucina
romana, le cui origini sono però incerte. Infatti oltre all’origine
romana, la più famosa, gli è stata attribuita anche una vaga
provenienza bresciana.
In ogni caso pare che Pellegrino Artusi, autore del libro La
scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, abbia assaggiato i
saltimbocca nella trattoria storica di Roma “Le Venete” e che,
dopo poco tempo, iniziarono a essere serviti e apprezzati
anche in altre trattorie tipiche romane.

Ingredienti per quattro persone:


1/2 kg di polpa di vitello in 8 fettine
80 gr di prosciutto crudo in 4 fette
40 gr di burro
8 foglie di salvia
sale, pepe

Battere leggermente le fettine di vitello con il batticarne. Disporre su


ognuna una foglia di salvia e ricoprirla con mezza fetta di prosciutto,
fissando il tutto con uno stecchino di legno, senza arrotolare la carne. Far
scaldare il burro in un tegame molto largo; appena sarà caldo collocarvi le
fettine una vicina all’altra, senza sovrapporle. Pepare e far cuocere a
fuoco vivo per pochi minuti per parte, voltandole con cura, senza staccare
il prosciutto. Mettere i saltimbocca sul piatto di portata caldo e
aggiungere al fondo di cottura nel tegame un cucchiaio di acqua calda e
un pizzico di sale. Con il cucchiaio di legno staccare il fondo di cottura a
fuoco moderato e versarlo sulla carne, servendo subito.

Steak Diane
Questa ricetta flambé americana è nata in prima istanza per
servire il cervo (1914): la salsa venne infatti pensata come
ideale complemento al gusto della selvaggina. Negli anni è

210
stata poi adattata anche ad altre carni, incluso il manzo.
Prende il nome da Diana, dea romana della caccia. E dal
momento che era anche la dea della luna, i piccoli pezzi di
pane tostato utilizzati per assorbire la salsa sono
tradizionalmente tagliati a forma di mezzaluna.

Ingredienti:
1 entrecôte di manzo tagliata circa 1 centimetro di spessore (g. 150 a
porzione)
surro
scalogno
funghi champignon
prezzemolo tritato
senape francese
crema di latte
demi-glace
riccioli di burro
cognac
Worchestershire Sauce
sale, pepe

Scaldare la padella, aggiungere lo scalogno e farlo appassire con un goccio


d’acqua e olio extra vergine d’oliva, un pezzo di burro e subito dopo la
fetta di carne, precedentemente asciugata e infarinata leggermente. Cuocere
e infiammare con il cognac, lasciare asciugare e togliere la carne dalla
padella per metterla in caldo. Nella padella versare un poco vino rosso e
lasciare scaldare, aggiungere la demi-glace, schiarire con la crema di latte,
aromatizzare con senape francese e gocce di Worchestershire Sauce. Unire
i funghi tagliati longitudinalmente e trifolati e portare a ebollizione fino a
raggiungere la giusta consistenza. Aggiustare di sale e il pepe. Rimettere
la carne in padella e amalgamare con la salsa. A questo punto si può
impiattare completando la preparazione con poco prezzemolo tritato.

211
Steak Tartare
Secondo la leggenda, il popolo nomade dei Tartari, originari
dell’Asia, mettevano la carne di cui si alimentavano sotto le
selle dei cavalli per trovarla ammorbidita al momento del
pasto. Si dice addirittura che la carne venisse ricavata dai
cavalli feriti o malati. In questo modo ottenevano, dopo le
lunghe cavalcate della giornata, un cibo macinato pronto per il
pasto serale, che altrimenti sarebbe andato sprecato.
Un’altra versione, leggermente diversa, vuole che questi
cavalieri mongoli mettessero sotto sella la carne prima di
andare in guerra: questa, ammorbidita dalla cavalcata, si
sarebbe cotta più velocemente.
Ma a quanto pare non esistono fonti storiche che fanno
riferimento a queste pratiche.
E’ probabile che questi curiosi aneddoti siano stati alimentati
nel corso dei decenni dall’abitudine di alcuni nomadi dell’Asia
Centrale di mettere dei pezzi di carne sulle schiene dei cavalli,
ma per lubrificare e lenire le ferite, proprio come gli americani,
che in passato mettevano una bistecca su un occhio nero.
Nulla di collegabile dunque al cibo…
Fatto sta che il filetto alla tartara è uno di quei piatti che non
tramonterà mai e che non smetterà mai di affascinare il palato,
la mente e il cuore.

Filetto di puledra o di manzo tritato a mano con un coltello da cucina,


ricomposto nella sua forma originale e posto su un piatto da portata. Al
centro del filetto verrà posto il guscio di un uovo contenente solo il tuorlo
(in alternativa, per motivi di igiene, è preferibile utilizzare un portauovo).
Su rondelle di limone si disporranno le seguenti guarnizioni finemente
tritate: capperi, prezzemolo, cipolla, acciughe, cetrioli, paprica.
Preparare in una bowl o fondina fredda la seguente salsa: sale, pepe,
succo di limone, olio d’oliva, Worchester sauce, senape, tabasco.
Mischiare bene con una forchetta, poi introdurvi la carne tritata,
impastando il tutto con la salsa. Unire poi al miscuglio, uno ad uno, gli
ingredienti che lo accompagnano, nella quantità desiderata; per ultimi il
tuorlo d’uovo e il prezzemolo. Continuare a impastare bene, togliere la

212
carne e disporla su un piatto ridando la forma originale (simile a un
hamburger).
Si può servire con fette di pane nero tostate, disposte ai lati del piatto.

Tournedos all’arlesiana
Arles è una città francese situata nella regione della Provenza-
Alpi-Costa Azzurra.
Arles e la sua gente sono state negli anni fonti di ispirazione
per numerosi letterati, musicisti e pittori: L’Arlésienne è il titolo
di un racconto di Alphonse Daudet che ispirò un dramma
musicale in tre atti composto da Georges Bizet, mentre l’opera
lirica L’Arlesiana, sempre tratta dal racconto di Daudet in una
rielaborazione di Leopoldo Marenco, fu musicata dal
genovese Francesco Cilea. L’Arlesiana è anche il titolo di due
celebri dipinti di Vincent van Gogh.
E’ probabile che questo piatto sia nato in questa zona della
Costa Azzurra o sia semplicemente stato dedicato da un
cuoco alla città o a una delle opere citate.

Ingredienti per quattro persone:


4 tournedos di 2 cm di spessore (600 gr circa)
50 gr di cipolle tagliate ad anelli
30 gr di burro
2 cucchiai di olio
2 grossi pomodori maturi
2 melanzane
1 tazza di farina bianca
4 cucchiai di salsa di pomodoro
abbondante olio per friggere
sale, pepe

Lavare le melanzane e tagliarle a fette sottili; metterle in uno scolapasta,


spruzzarle di sale, coprirle con un piatto sul quale si porranno dei pesi e

213
lasciar riposare per circa un’ora, perché perdano il loro liquido amaro.
Legare con uno spago sottile ogni fetta di carne, affinché cuocendo
rimanga bene in forma. Lavare i pomodori, asciugarli, tagliarli
orizzontalmente a metà, svuotarli dei semi, spruzzarli di sale e
capovolgerli su un piano inclinato finché perdano più acqua possibile.
Quando le melanzane saranno pronte, lavarle, asciugarle e infarinarle
leggermente. Mettere abbondante olio in una padella per fritti: appena
sarà caldo farvi friggere le melanzane, e quando saranno uniformemente
dorate toglierle dall’olio e tenerle in caldo. Infarinare gli anelli di cipolla,
scuoterli per far scendere la farina eccedente e friggere anche questi, sino a
quando saranno dorati e croccanti, quindi tenerli in caldo con le
melanzane. Mettere in una teglia, larga solo quanto basta per farvi stare
i tournedos, il burro e due cucchiai d’olio; farli scaldare e unire la carne.
Lasciarla cuocere a fuoco moderato per quattro minuti per parte; a
cottura ultimata salarla e peparla leggermente. Mentre la carne cuoce
scaldare la salsa di pomodoro e far friggere nell’olio per pochi minuti i
mezzi pomodori. A cottura ultimata sistemare i mezzi pomodori sul
piatto di portata e porvi sopra i tournedos. Disporvi al centro del piatto
gli anelli di cipolla e, fra un tournedos e l’altro, le melanzane fritte.
Versare su ogni tournedos un cucchiaio di fondo di cottura e servire.

Tournedos Rossini
Il termine tournedos ha un’origine incerta, dato che la parola
francese scomposta “tournez” e “dos” significa letteralmente
“fondo schiena”.
Per alcuni sarebbe stato il maggiordomo del famoso
compositore Gioachino Rossini a determinare il nome del
taglio, poiché al fine di mantenerne segreta la procedura dava
le sue finiture voltando la schiena agli invitati. Per altri la
nascita del termine sarebbe avvenuta durante un pranzo fatto
a l Café des Anglais di Parigi. Qui il buongustaio Rossini,
consigliando la ricetta allo chef e ricevendo delle sentite
rimostranze, fu costretto a rispondere: “et alors, tournez le

214
dos!” (e allora, voltate la schiena).
La più credibile versione indica che la ricetta sarebbe stata
creata da Marie-Antoine Carême in onore del Maestro.

Ingredienti per quattro persone:


4 tournedos di circa 2 cm di spessore (600 gr circa)
4 fette di pan carré
4 fettine di fegato d’oca crudo, delle stesse dimensioni dei tournedos
200 gr di demi-glace
65 gr di burro
1 cucchiaio di farina bianca
1/2 bicchiere di madera o marsala secco
1 tartufo nero
sale, pepe

Lavare, asciugare e legare le fette di carne con uno spago sottile. Con un
tagliapasta rotondo di circa 8 centimetri di diametro ricavare dalle fette di
pane quattro dischi: friggerli in padella con 40 gr di burro, quindi
sistemarli su un piatto di portata e tenerli in caldo. Infarinare
leggermente le fette di fegato d’oca e farle friggere nello stesso modo di
cottura del pane; tenere anche queste in caldo. Porre in un altro tegame
25 gr di burro e farlo rosolare. Unire i tournedos e lasciarli cuocere 4
minuti per parte; a cottura ultimata salarli, peparli, eliminare lo spago e
sistemarli sulle fette di pane. Porre sulla carne le fettine di fegato d’oca,
versare il madera nella padella dove è stata cotta la carne e, sempre
mescolando, portare a leggera ebollizione, quindi unire la salsa demi-
glacé. Amalgamare bene e lasciare sul fuoco per circa 5 minuti, sino a
quando si sarà leggermente addensata. Affettare sottilmente il tartufo,
disporlo sulle fettine di fegato, versare su tutta la preparazione la salsa e
servire subito.

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Gioachino Rossini

216
Wiener Schnitzel
La Wiener Schnitzel è stata per molto tempo al centro di una
disputa fra la cucina italiana, che la considera una variante
della cotoletta alla milanese portata in patria da Josef Radetzky
quando ritornò dalla sua lunga residenza nel Lombardo-
Veneto, e la cucina austriaca, secondo cui il piatto meneghino
sarebbe solo una versione della Wiener Schnitzel, appunto, e
imparato a fare dai cittadini di Milano osservando i cuochi dei
reggimenti occupanti.
Nel suo L’Italia prima dell’Unità (1815-1860) lo storico Romano
Bracalini afferma, nel capitolo “Usi e costumi a tavola”, che
un documento del 1148, citato a sua volta da Pietro Verri nella
sua Storia di Milano, riporta la cronaca di un pranzo solenne in
cui, nella terza portata, compaiono i lombos cum panitio (lombata
di vitello impanata, ovvero la cotoletta). I documenti citati dal
Verri sono esposti al pubblico all’interno dei locali adiacenti
alla Basilica di Sant’Ambrogio a Milano dal dicembre 2013. In
effetti il Radetzky aveva sposato una Strassoldo, nobile
friulana, i cui parenti andava a visitare durante i numerosi
viaggi tra Milano e Vienna. Aveva così ordinato al suo cuoco
di imparare dai cuochi dei Strassoldo come fare la fettina
impanata, che poi si faceva confezionare a Vienna o a Milano
con leggere varianti di contorno.
Ma c’è anche un’altra ipotesi a unire i destini e le origini della
cotoletta alla milanese con la Wiener Schnitzel: forse la
comune origine francese. Scrive infatti lo storico della
gastronomia Massimo Alberini (1909-2000): “Dai libri francesi
emerge che la cotoletta alla milanese e il Wiener Schnitzel non
sono affatto milanesi. Una ricetta del 1735, ma soprattutto il
trattato La science du maître d’hotel, del 1749, parla di cotolette
impanate e fritte, che vengono riportate anche nelle edizioni
successive del fortunatissimo libro e arriveranno a Milano col
nome cotolette Rivoluzione francese”. La differenza sostanziale con
la milanese consiste nella marinatura della carne in burro fuso,
sale, pepe, chiodi di garofano ed erbe aromatiche, prima del
passaggio in farina, uovo e pangrattato.

217
A fare da tramite con la cucina austriaca, anziché il maresciallo
Radetzky, potrebbe essere stata Maria Luigia di Parma. La
duchessa, nata a Vienna, rampolla degli Asburgo-Lorena,
divenne imperatrice dei francesi in quanto moglie di
Napoleone Bonaparte. Ma non seguì il marito nella cattiva
sorte e il congresso di Vienna, nel 1814, la mise sul trono del
ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, dove vi rimase fino al
1847. La duchessa portò con sé alcuni cuochi dalla Francia e
mantenne sempre stretti i legami con Vienna. Potrebbe esser
stata lei, quindi, a far giungere in Austria la “cotoletta
Rivoluzione francese” impanata e fritta. Non c’è alcuna prova
definitiva, anche in questo caso, ma i tempi coincidono: la
prima volta che si parla di Wiener Schnitzel è in un libro di
ricette praghesi del 1831. Da ricordare, però, che la tecnica
dell’impanatura era già conosciuta in Austria: se ne parlava dal
1719 per verdure e cervella di vitello e nel 1768 si diffusero le
prime ricette di cotolette di vitello impanate. Quindi anche
questa ipotesi, per chi contesta la prima, ha alcuni punti
deboli…

Ingredienti per quattro persone:


4 cotolette di vitello
50 gr di strutto
1 uovo crudo e 1 uovo sodo
50 gr di farina bianca
1/2 tazza di pane bianco grattugiato
4 filetti di acciuga dissalati
qualche cappero
sale

Battere le cotolette, togliendo il grasso. In un piatto sbattere l’uovo con del


sale e in altri due mettere la farina e il pane grattugiato. Passare le
cotolette prima nella farina, per due volte, poi nell’uovo e infine nel pane.
Far sciogliere lo strutto in una padella e porvi le cotolette, facendole
dorare da ambo i lati. Passare intanto al setaccio il tuorlo d’uovo sodo e
tritare finemente il bianco. Disporre sul piatto di servizio le cotolette,

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versarvi sopra il burro di cottura e mettere al centro di ognuna un poco di
tuorlo, circondare con il bianco tritato e, sopra, disporvi il filetto di
acciuga arrotolato, con un cappero sott’aceto al centro.

Il Feldmaresciallo Josef Radetsky

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VERDURE E CONTORNI

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Caponata
Etimologicamente la parola caponata sembra che derivi da
“capone”, nome di un pesce oggi chiamato lampuga, dalla
carne pregiata ma piuttosto asciutta, che veniva servito in
passato ai pranzi baronali dell’aristocrazia siciliana e condito
con la salsa agrodolce tipica delle preparazioni sia di pesce che
di verdure. Sembra, inoltre, che nella cucina con influenze
spagnole spesso la preparazione della caponata comprendesse
anche vari molluschi tra cui il polpo oltre che la lampuga,
diventando così una sorta di zuppa o minestra con intingoli e
sapori di contrasto, classici del periodo storico. Di contro,
nelle grandi cucine popolari si valorizzavano le verdure per
ovvie ragioni sia territoriali che economiche e si eliminava il
pesce in sostituzione del quale venivano inseriti ortaggi di
stagione, primo fra tutti, la melanzana.
Appare plausibile dunque che la denominazione caponata
derivi dal fatto che in origine, fra gli ingredienti principali, ci
fosse il pesce capone. A supportare questa teoria è di conforto
il gastronomo ottocentesco Ippolito Cavalcanti che riporta nel
suo libro La cucina teorico-pratica con corrispondente riposto,
pubblicato a Napoli nel 1839, la ricetta antica della caponata
costituita da pane biscottato spugnato con aceto e condito con
olio, sale, pepe e un po’ di zucchero, sormontata da lattuga e
scarola tritate e marinate, aceto, olio, sale e pepe, terminata
con pesce capone, o sgombro, lessato e “calato” su cetrioli,
olive e peperoni.
In seguito, o contemporaneamente, al ceto popolare, legato
alla coltivazione degli orti e della terra, si deve la sostituzione
del pesce con le melanzane da cui deriverebbe l’attuale
caponata. L’evoluzione della caponata a piatto popolare con la
presenza di verdure e non più di pesce, arriva a contenere
oltre alle melanzane, anche carciofi, aceto, zucchero, capperi,
olive e sedano classicamente agrodolce per il suo sugo e con la
presenza in molti casi di uva passa e pinoli.
Le ricette utilizzate nella preparazione di questo piatto sono
quasi sempre rielaborazioni in cui si toglie e si aggiunge, si

223
scrive e riscrive una ricetta destinata all’eternità.
Un’ultima curiosità: qualcuno sostiene che il nome del piatto
derivi invece dalle “caupone”, taverne dei marinai.

Ingredienti per quattro persone:


600 gr di melanzane
200 gr di pomodori
50 gr di olive verdi salate
1 cucchiaio di capperi sott’aceto
1 cucchiaio di pinoli
1 cucchiaio di uvetta passolina
abbondante basilico
1 cipolla, 1 sedano bianco
olio d’oliva, aceto di vino rosso
zucchero, sale, pepe

Mettere ad ammorbidire in acqua tiepida l’uvetta, per circa un quarto


d’ora. Lavare le melanzane, asciugarle e tagliarle a dadini: disporli su
un largo setaccio, spolverizzarli di sale e lasciarli così per un’ora, o anche
più, affinché perdano la loro acqua amara. Trascorso questo tempo
sciacquarli in acqua fredda, asciugarli e friggerli in olio bollente; quando
saranno cotti, scolarli. Scegliere le coste più bianche del sedano, privarle
degli eventuali filamenti e tagliarle in asticciole lunghe tre o quattro
centimetri; friggere il sedano nell’olio usato per le melanzane e lasciarlo
venire ben croccante. Scolare anch’esso e unirlo alle melanzane. Levare
dalla padella una parte dell’olio, lasciandovene non più di mezzo
bicchiere, poi soffriggervi la cipolla affettata sottilmente, i pomodori
tagliati a filetti e abbondante basilico tritato. Farli cuocere un poco
quindi aggiungere una cucchiaiata abbondante di zucchero, mezzo
bicchiere di aceto, i capperi, i pinoli, l’uvetta ben strizzata, le olive
snocciolate, il sedano, le melanzane, sale e pepe. Mettere il recipiente sul
fuoco, mescolare e lasciare sobbollire per 10 minuti. Versare poi tutto in
un piatto di portata e servire quando la caponata sarà diventata fredda.

224
Carciofi di Cavour
Prima di dedicarsi alla cosa pubblica, Camillo Benso Conte di
Cavour (1810-1861) aveva gestito la sua azienda agricola di
Leri, nel Vercellese, trasformandola in una tenuta modello.
Tra una vendemmia e l’altra si era anche rivolto al commercio
del riso e del grano. Fu uno dei fondatori della Società agraria
nel 1842, convinto della necessità di importare in Piemonte i
sistemi di lavorazione agricola più avanzati dei Paesi del Nord
Europa.
Cavour fu anche un buongustaio. Quando le sedute a Palazzo
Carignano (sede del Parlamento sabaudo) andavano per le
lunghe, lasciava di guardia un suo segretario e si recava al
Ristorante Cambio di fronte al palazzo, dove si preparavano
degli ottimi carciofi. Da un tavolo defilato a lui riservato,
poteva tener d’occhio una finestra sulla facciata dell’edificio
seicentesco, da dove il solerte segretario, in caso di votazioni o
altro, gli faceva un cenno per avvertirlo di rientrare in aula…

Ingredienti:
4 carciofi
2 uova sode
2 filetti di acciuga sott’olio
40 gr di burro
50 gr di parmigiano grattugiato
1/2 l di brodo di pollo

Pulire i carciofi, tagliarli a metà e lessarli nel brodo, scolarli e farli


asciugare. Sciogliere metà burro e immergervi i carciofi, passarli in
abbondante parmigiano, quindi sistemarli in una teglia ben unta. Tritare
insieme le uova e i filetti di acciuga e distribuirli sui carciofi, con il burro
rimasto a fiocchetti, e il resto del parmigiano. Gratinare per qualche
minuto e servire.

225
Una seduta del Parlamento a Palazzo Carignano

Falafel
Il falafel, nonostante la sua forte connessione con la cucina
tradizionale di Israele, è originario dell’Egitto, e inizialmente
utilizzava le fave, anziché i ceci, come ingrediente principale. Il
falafel affonda le sue radici nel periodo in cui i cristiani copti
in Egitto non avevano il permesso di mangiare carne durante
alcune festività; per ovviare a questo problema, soprattutto
per quanto concerneva l’apporto di proteine, i cristiani copti
svilupparono l’idea alternativa del felafel.
La parola deriva dalla lingua copta, nella quale pha la
phel significa “molti fagioli”.

Ingredienti per quattro persone:


500 gr di ceci secchi
1 cipolla

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1 spicchio d’aglio
1 pizzico di cumino in polvere
1 mazzetto di prezzemolo
sale, pepe
olio di semi d’arachide per friggere

Mettere in ammollo i ceci secchi in acqua fredda per almeno 12 ore.


Scolarli e sciacquarli, poi asciugarli accuratamente con un panno pulito:
dovranno risultare perfettamente asciutti al momento dell’utilizzo per
garantire un impasto della giusta consistenza (per assicurarsi che perdano
ogni traccia di acqua in eccesso, asciugarli ulteriormente per 10 minuti in
forno ventilato preriscaldato a 100 °C). Dopo aver svolto queste
operazioni preliminari, porre i ceci nel frullatore insieme alla cipolla
tagliata in grossi pezzi. Aggiungere all’interno del mixer anche l’aglio,
spremendolo. Insaporire quindi con il cumino, il sale e il pepe, e azionare
le lame per ridurre l’impasto in poltiglia. Tritare il prezzemolo e
aggiungerlo all’impasto: è importante svolgere questa operazione a parte,
e non direttamente nel mixer con gli altri ingredienti, perché in quel modo
il prezzemolo rilascerebbe troppa acqua bagnando eccessivamente
l’impasto. Amalgamare bene il tutto e trasferire il composto in una
pirofila, compattandolo bene con il dorso di un cucchiaio. Coprire con
pellicola e porre in frigo a rassodare per almeno 1 ora. Trascorso questo
tempo, recuperare l’impasto e formare i falafel con l’apposito strumento
oppure a mano, prendendo di volta in volta piccole palline di impasto e
schiacciandole leggermente per ottenere la tipica forma dei falafel. In
pentola scaldare abbondante olio di semi a 170 °C e friggervi pochi
falafel per volta, fino alla doratura. Prestare grande attenzione alla
temperatura dell’olio, che non deve superare quella indicata, altrimenti i
falafel si sfalderanno. Scolare i falafel e far asciugare l’olio in eccesso su
carta assorbente. Servirli ben caldi.

227
Gâteau di patate
Dopo il 1768, con le nozze della regina Maria Carolina, figlia
di Maria Teresa Lorena-Asburgo, moglie di Ferdinando I
Borbone, Napoli divenne luogo di confronto delle grandi
cucine europee. La nuova Regina introdusse nella città il gusto
francese e la consuetudine di affidare il servizio di cucina ai
monsieurs, cuochi di alto rango che, a partire da quel tempo, i
napoletani cominciarono a chiamare “monzu” e i siciliani
“monsù”, dalla corruzione del termine francese. Nell’arco di
pochi decenni, assunsero denominazioni francesi alcune
tradizionali pietanze partenopee e sicule: tra cui il gattò di
patate campano.

Ingredienti per quattro persone:


1 kg di patate di media grandezza
3 uova
1 uovo sodo a fettine
70 gr di burro
2 cucchiai di parmigiano
70 gr di salame napoletano
150 gr di provola affumicata
1 ciuffo di prezzemolo
3 cucchiai di pane grattugiato
sale, pepe
poco burro per lo stampo

Lavare le patate e lessarle con la buccia. Tagliare a pezzettini il salame,


la provola e tritare finemente il prezzemolo. Appena cotte le patate,
sbucciarle e passarle nel passaverdura, facendo cadere la purea in una
capace terrina. Unire 50 gr di burro, il parmigiano grattugiato, sale,
pepe e impastare con un cucchiaio. Unire uno per volta i tuorli d’uovo e,
quando saranno ben incorporati, aggiungere il salame e la provola a
pezzetti e il prezzemolo tritato. Montare gli albumi a neve ben soda e
unirli a cucchiaiate al resto, in modo da ottenere un composto morbido
ma consistente. Imburrare uno stampo rotondo di 22 centimetri di
diametro, cospargerlo con parte del pane grattugiato e capovolgerlo per

228
eliminare quello in eccesso. Disporre sul fondo metà del composto e su
questo distribuire l’uovo sodo a fettine; ricoprire con l’altra metà di
composto, livellando la superficie. Spolverizzare di pane grattugiato e
distribuirvi sopra qualche fiocchetto di burro. Mettere in forno già caldo
(200 °C) per circa 20 minuti, o fino a quando il composto sarà ben
dorato. Togliere il gâteau dal forno e lasciarlo intiepidire a temperatura
ambiente, prima di servirlo dopo averlo sformato su un piatto di portata.

Kimchi
Le prime informazioni sul kimchi coreano risalgono a circa
3000 anni fa: lo si trova citato nel primo testo poetico cinese,
il Shi Kyung, dove il termine utilizzato per indicarlo è “Ji”.
La più antica forma di kimchi era costituita da verdure salate.
Dal XII secolo in poi, la ricetta fu arricchita con spezie,
conferendogli così differenti sapori (dolce e amaro) e colori
(bianco e arancione). Il peperoncino piccante, altro
ingrediente fondamentale del kimchi contemporaneo, era
sconosciuto ai coreani e fu introdotto solamente nel XVII
secolo da commercianti occidentali.
Questa pietanza è talmente importante per i coreani che le
hanno dedicato persino un museo, il Kimchi Field Museum, dove
sono conservate le 187 varietà di kimchi attualmente
conosciute.

Ingredienti per sei persone:


5 cm di zenzero grattugiato
2 cucchiai di peperoncino rosso fresco
1 grosso cavolo cinese
1/2 tazza di sale grosso
1/2 cucchiaino di pepe di cayenna
5 cipollotti
2 spicchi d’aglio
1 cucchiaio di zucchero

229
2 cucchiai e 1/2 di acqua fredda

Tagliare il cavolo a metà e rompere le foglie a grossi pezzi. In una grossa


ciotola creare un letto di foglie e salarle leggermente. Continuare così fino
a esaurimento degli ingredienti, finendo con uno strato di sale. Coprire la
ciotola con una fondina capovolta in modo da farla aderire il più
possibile. Porvi sopra dei pesi e lasciare la ciotola in un luogo fresco per 5
giorni. Levare i pesi dalla fondina, eliminare il liquido formatosi e
risciacquare sotto acqua corrente. Strizzare le foglie e unire al cavolo il
pepe, i cipollotti, l’aglio, lo zenzero, lo zucchero e il peperoncino.
Mescolare bene il tutto e porre il cavolo in un grosso barattolo
sterilizzato. Coprirlo con l’acqua e sigillarlo. Conservare in frigorifero per
almeno 4 giorni prima di servire.

Parmigiana di melanzane
Probabilmente, in origine, quella della parmigiana di
melanzane era una ricetta nata in Sicilia, terra notoriamente
produttrice di melanzane di ottima qualità. Napoli, capitale del
Regno, se ne “impossessò”: la prima ricetta ufficiale si trova,
infatti, nel trattato Cucina teorico pratica di Ippolito Cavalcanti,
Duca di Buonvicino, pubblicato a Napoli nel 1839.
Nel secolo scorso, raggiunse massima notorietà la parmigiana
di melanzane servita a Ischia, nella trattoria delle Sorelle
Pirozzi, tanto che alcuni attribuiscono a queste l’invenzione
della ricetta.
Come spiegarne allora il nome, viste le sue origini tutt’altro
che emiliane? Oltre che dall’uso del parmigiano, presenza
importante nella ricetta, alcuni pensano che il nome derivi dal
termine dialettale parmiciana, che sta a indicare l’anta a listelli
delle persiane di legno, che ricorda la forma in cui le
melanzane si tagliano e il modo in cui si dispongono nella
teglia.

230
Ingredienti per quattro persone:
4 melanzane allungate grandi
2 kg di pomodori
1 pezzetto di cipolla
300 gr di mozzarella
100 gr di formaggio grattugiato
1 mazzetto di basilico
olio per friggere
sale

Affettare le melanzane e farle spurgare. Lavare i pomodori, tagliarli a


metà e farli sgocciolare per 30 minuti. Cuocerli finché saranno teneri con
la cipolla sbucciata, lavata e tritata e qualche foglia di basilico lavata.
Passarli al setaccio, rimettere il passato sul fuoco e farlo addensare, poi
salare. Friggere le melanzane in olio ben caldo e sgocciolarle. Mettere 2
cucchiai di salsa di pomodoro sul fondo di una tortiera, distribuire sopra
1/3 delle melanzane, accavallandole leggermente, e cospargerle con 2
cucchiai di formaggio grattugiato, un poco di basilico lavato e sminuzzato
e qualche cucchiaio di salsa di pomodoro. Sovrapporvi metà della
mozzarella e proseguire in questo modo, terminando con le melanzane.
Cospargerle con il basilico lavato rimasto e ricoprirle con la salsa di
pomodoro avanzata. Cospargere con 4 cucchiai di formaggio grattugiato e
cuocere nel forno a 160 °C per 40 minuti circa, aumentando la
temperatura a 180 °C negli ultimi minuti di cottura.

Patate Anna
Anna Deslions (1820-1873), soprannominata “Maria
Antonietta” per il suo profilo simile a quello della regina, fu
amante di Napoleone III e del principe Napoleone Giuseppe
Carlo Bonaparte, detto “Plon-Plon”. Fu Adolphe Dugleré,
chef al Café Anglais di Parigi, ad aver creato e intitolato questa
preparazione alla cortigiana.

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Ingredienti per quattro persone:
1/2 kg di patate
100 gr di burro fuso
sale

Sbucciare le patate e tagliarle a fettine sottili, lavarle e asciugarle con un


canovaccio. Imburrare una pirofila con abbondante burro e disporvi a
strati le fettine di patate accavallandole leggermente. Condire ogni strato
con sale e burro fuso. Formare sei strati circa, incoperchiare la pirofila e
porla in forno già caldo (200 °C) per 30 minuti. A tre quarti di
cottura, servendosi del coperchio o di un grande piatto, rigirare la galletta
di patate, come se si trattasse di una frittata, in modo da ottenere una
buona doratura anche dall’altra parte. Sempre aiutandosi con il
coperchio, sgocciolare il burro in eccesso e far scivolare la preparazione su
un piatto di servizio caldo e portare in tavola. Sono un buon contorno per
gli arrosti.

Patate Dauphine
L’espressione pommes dauphine è datata 1891 e sarebbe apparsa
nel 1864 nella forma pommes de terre à la dauphine.
Dauphine potrebbe fare riferimento a Maria Teresa Carlotta di
Borbone (1778-1851), duchessa d’Angoulême, nota anche
c o m e Madame Royale, figlia primogenita di Luigi XVI di
Francia e di Maria Antonietta d’Austria, nonché moglie del
Delfino di Francia, Luigi XIX.
Essendo comunque numerosi i Delfini succedutisi nei secoli, è
probabile che il piatto possa essere stato dedicato o ispirato a
una consorte precedente, o forse, al Delfinato, un’antica
provincia francese corrispondente approssimativamente agli
attuali dipartimenti dell’Isère, della Drôme e delle Hautes-
Alpes. Altra versione suggerisce che queste patate vennero
dedicate a Luigi Carlo di Borbone (1785-1795), terzo figlio di
Luigi XVI e di Maria Antonietta.

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Ingredienti per sei persone:
125 gr di acqua
70 gr di burro
75 gr di farina
2 uova
1 tuorlo
500 gr di patate
olio di semi d’arachide
sale, pepe

Sbucciare, lavare e tagliare a pezzi le patate. Farle bollire in abbondante


acqua salata. Non appena le saranno cotte, scolarle e farle raffreddare
qualche minuto. Ridurle in purea, con lo schiacciapatate, poi unire il
tuorlo e una noce di burro, amalgamando bene il tutto. Mettere sul
fuoco, in un pentolino i 125 gr d’acqua con sale e il restante burro.
Quando l’acqua bollirà, unire tutta d’un colpo la farina, mescolando
energicamente, finché la pasta si staccherà dai bordi (circa 5 minuti).
Togliere dal fuoco e far intiepidire il composto, incorporare le uova, una
alla volta, finché non si avrà ben incorporato la precedente. Amalgamare
bene fino ad avere un composto denso e omogeneo. Riprendere la purea di
patate, aggiungervi un po’ di latte se dovesse essersi asciugato troppo, e
incorporarlo alla pasta per bignè. Regolare il composto di sale e pepe.
Scaldare bene l'olio in una casseruola e, con l'aiuto di un cucchiaio,
cuocere il composto di patate, formando delle palline grandi come una
noce. Cuocerne poche alla volta, per non abbassare la temperatura
dell’olio, finché saranno ben dorate. Far sgocciolare le patate Dauphine
su di un foglio di carta assorbente da cucina e servirle calde.

Patate Macaire
Le pommes Macaire comparvero per la prima volta nel 1866 in
un menu di ristorante pargino. Il nome dato a questa
preparazione viene da Robert Macaire, bandito e affarista
senza scrupoli del melodramma L’Auberge des Adrets, creato dal

233
drammaturgo francese Benjamin Antier, rappresentato per la
prima volta nel 1823, e che divenne molto popolare.

Ingredienti per quattro persone:


600 gr di patate
70 gr di burro
sale

Spazzolare e lavare le patate, asciugarle e disporle, con la buccia, su una


placca da forno. Farle cuocere in forno medio (160 °C) per 30 minuti.
Appena cotte, tagliarle a metà e con un cucchiaio estrarne la polpa, che si
verserà in una terrina e si schiaccerà con la forchetta, in modo da ottenere
una purea grossolana. Lavorarla con una spatola di legno insieme a 40
gr di burro e al sale. Far spumeggiare metà del rimanente burro in una
padella a fondo pesante e sistemarvi il composto. Livellarlo e pressarlo
con il dorso di un cucchiaio. Alzare la fiamma e far rosolare da un lato,
quindi, aiutandosi con il coperchio, capovolgere il disco di patate, mettere
il rimanente burro in padella e far rosolare anche dall’altra parte.
Entrambi i lati dovranno apparire dorati e croccanti prima di servire.

Il Pont Neuf di Parigi in un dipinto d'epoca

234
Patate Pont Neuf
Le patate Ponte Nuovo, meglio note come pommes Pont-Neuf,
sono bastoncini rettangolari di un centimetro di lato, lunghi
circa 6 cm, croccanti all’esterno e teneri all’interno. Il nome
rimanderebbe direttamente alla nascita di questo tipo di
patate: infatti molti sostengono che siano nate sotto i ponti di
Parigi nel 1789 nel bel mezzo della rivoluzione francese.
Un’altra versione sulla loro origine le vede ispirarsi o essere
dedicate direttamente al Pont Neuf, il ponte più antico tuttora
esistente a Parigi, che attraversa la Senna in corrispondenza
della punta ovest dell'Île de la Cité. Questo ponte è anche il
più lungo di Parigi (238 m) e il suo nome deriva dal fatto che
si tratta del primo ponte in pietra di Parigi; precedentemente,
infatti, i ponti erano costruiti in legno.

Ingredienti per sei persone:


1,2 kg di patate
grasso per friggere q.b.
sale

Sbucciare le patate e trinciarle in bastoncini aventi 1 cm di lato e lunghi


circa 6-7 cm. Immergerle per circa 5-6 minuti nella frittura scaldata a
150 °C e, pertanto, non eccessivamente calda. Ritirarle, scolarle e
metterle in disparte. Al momento di servirle, gettarle nuovamente nell’olio
o nello strutto, questa volta a 200 °C. Lasciarvele per 2 minuti,
agitandole in continuazione. Scolarle sopra un panno asciutto, salarle e
servirle.

Piselli alla francese


I piselli sono da sempre considerati un simbolo di fortuna e di
prosperità e sono tra i legumi coltivati e consumati da più
tempo dall’uomo. In Asia Minore pare si conoscessero fin dal
6000 a.C., ed erano certamente alimento di Greci, Etruschi e

235
Romani.
Nella letteratura gastronomica compaiono per la prima volta
in Francia, secchi in una specie di purè al latte, nell’opera Le
viandier di Guillaume Tirel, del 1380.
“Il capitolo dei piselli dura ancora: l’impazienza di mangiarne, il piacere
di averne mangiati, la gioia di poterne mangiare ancora sono i tre punti
che i nostri principi trattano da quattro giorni. Ci sono dame che dopo
avere cenato col re, e bene, si fanno preparare a casa dei piselli per
mangiarli prima di andare a dormire, a rischio di indigestione. È una
moda, un furore”. Questa lettera di Madame de Maintenon,
datata 10 maggio 1696, racconta la passione per i verdi legumi
che furoreggiava a fine ‘600 in Francia, alla corte di Luigi XIV.
“È stupefacente vedere personaggi così dediti al piacere da acquistare i
piselli verdi per somme enormi”, scriveva l’anno prima un biografo
di Jean-Baptiste Colbert, controllore generale delle finanze,
ministro della real casa e titolare del Ministero della marina.
I piselli che tanto piacevano alla corte di Francia erano raccolti
verdissimi, prima della maturazione: “Più sono giovani, più sono
eccellenti”, li descriveva Nicolas de Bonnefons, maestro di sala a
servizio del Re Sole. Bonnefons passava a Corte solo tre mesi:
il resto dell’anno lo trascorreva nelle sue terre a coltivare
ortaggi, legumi, a fare marmellate di frutta e conserve di
verdura. Fu lui a riportare i legumi alla dignità di piatto a sé
stante, a consigliare di cuocerli in acqua con la loro pelle e di
sbucciarli dopo la cottura.

Ingredienti per quattro persone:


400 gr di piselli sgranati
1/2 cespo di lattuga pulita e tagliata a pezzi
6 cipolline novelle
1 bouquet garni
50 gr di burro a fiocchetti
3 cucchiai d’acqua
sale

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Mettere in una casseruola tutti gli ingredienti e passare sul fuoco, a
fiamma dolce. Coprire e, quando tutto bolle, abbassare ancora il fuoco e
far cuocere piano per circa mezz’ora o finché i piselli sono molto teneri. A
questo punto eliminare il bouquet, mettere in un piatto di servizio e
mescolare ai piselli una noce di burro fresco.

Jean-Baptiste Colbert

237
238
DOLCI

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240
Apple crumble
La storia di questo dolce parte dal periodo della Seconda
Guerra Mondiale, quando le razioni di cibo scarseggiavano
anche in Gran Bretagna, e trovare gli ingredienti per fare delle
torte era un lusso che non tutti potevano permettersi, anche se
si trattava solo di zucchero, burro e farina.
Il verbo to crumble, significa “sbriciolare”. Proprio la mancanza
di ingredienti diede il suggerimento ai cuochi e alle cuoche
inglesi di sbriciolare quanto avevano in casa per creare per
l’appunto un crumble. Sotto questo strato vennero infine
inserite le mele, creando con poco uno dei dolci inglesi più
conosciuti e apprezzati al mondo.

Ingredienti per sei persone:


1 kg di mele Golden
70 gr di zucchero
20 gr di burro
1 cucchiaino di cannella in polvere
1 limone (succo)

Per il crumble
180 gr di farina
120 gr di burro
120 gr di zucchero di canna
1 baccello di vaniglia

Per preparare il crumble di mele iniziare pelando le mele e privandole del


torsolo, tagliarle poi a cubetti di medie dimensioni. Far sciogliere il burro
in padella e aggiungere le mele a pezzetti, unire anche il succo di limone,
lo zucchero semolato e 1 cucchiaino di cannella. Far scaldare le mele in
padella per un minuto circa. Preparare la pasta per ricoprire il crumble:
in una ciotola capiente mettere la farina, i semi della bacca di vaniglia, lo
zucchero di canna e il burro a cubetti. Lavorare gli ingredienti
velocemente con la punta delle dita ottenendo un impasto “bricioloso”.
Prendere delle ciotoline monoporzione o una teglia di 24 cm di diametro e
imburrare. Aggiungere uno strato di mele a pezzetti e poi coprire con le

241
briciole di pasta. Infornare per circa 35/40 minuti a 180 °C fino a che
la superficie del dolce sarà ben dorata e croccante. Sfornare e servire il
crumble di mele ben caldo e accompagnarlo, se si vuole, con una pallina
di gelato alla vaniglia.

Apple Pie
L’Apple Pie è una torta americana, ma di origine
europea. Viene infatti dall’Inghilterra, dove era nota sin dal
X I V s e c o l o : l a p r i m a testimonianza scritta è in
un ricettario medievale risalente al 1390 circa e accreditato al
capo cuoco di Re Riccardo II. Quattro secoli dopo, nel 1791,
l’antiquario di Chesterfield Samuel Pegge il Vecchio ne fece
pubblicare la prima edizione a stampa cui diede il titolo Forme
of Cury (“modi di cucinare”, cury deriva dal francese cuire).
Una ricetta per una “torta di mele verdi” è riportata anche in
un altro ricettario inglese di epoca Tudor: A Proper New Booke
of Cokerye, risalente al 1550 circa. La torta si diffuse in Europa
sottoforma di diverse varianti, come probabilmente la Tarte
Tatin francese, le Appelkruimeltaart e Appeltaart germaniche
e, in Svezia, la äppelkaka. Sarebbero stati proprio gli svedesi a
“esportare” la torta di mele in Nord America, quando nel
XVII secolo vi insediarono una delle prime colonie europee:
la Nuova Svezia (Nya Sverige) lungo le rive del fiume Delaware,
zona di origine della Apple Pie. Viene infatti citata in
un trattato del 1759 sulla storia della colonia di tale
dottor Israel Acrelius, intitolato A History of New Sweden; or,
The Settlements On The River Delaware: “La torta di mele viene
utilizzata tutto l’anno e quando non si hanno più mele fresche
vengono utilizzate quelle secche. È il pasto serale dei bambini.
Torta casalinga, in luoghi di campagna, è composta di mele
non pelate, né liberate dal torsolo, e la sua crosta non si
rompe se la ruota di un carro vi passa sopra.”
Il dolce si affermò ben presto nella nascente tradizione

242
culinaria delle colonie, come testimonia il fatto che già
nel 1796 la ricetta del dolce fosse inclusa in uno dei più
antichi ricettari di cucina americana, il libro American Cookery di
Amelia Simmons, pubblicato ad Artford nel Connecticut.
Quanto all’ingrediente principale, “il frutto americano” per
eccellenza secondo il filosofo Ralph W. Emerson (1803-1882),
in origine dovette essere anch’esso importato: le uniche mele
native del Nuovo Mondo erano infatti le cosiddette
crabapple dai pomi non commestibili. I primi coloni ordinarono
quindi piante e sementi dall’Europa e i frutteti iniziarono a
diffondersi dal XVII secolo a partire dalla regione del medio-
Atlantico. La coltivazione delle mele ebbe un rapido successo,
soprattutto nelle zone dove il terreno rendeva difficoltosa la
coltivazione dei cereali, come il New England e la disponibilità
di mele rese popolari sulla tavola degli americani due cose: il
sidro, la cui produzione iniziò però a declinare agli inizi del
XX secolo, e la Apple Pie, la “torta americana”, diventata col
passare degli anni icona della cultura popolare quanto il
baseball o l’hot-dog tanto che, per dire che una cosa è davvero
“americana”, si usa l’espressione: “As american as an apple
pie”.
La Apple Pie è la tipica torta che, nei fumetti della Disney,
viene preparata e messa a raffreddare sul davanzale dalla
campagnola Nonna Papera.
La torta di mele è orgoglio nazionale e simbolo di prosperità:
“I popoli che non mangiano la torta di mele possono essere
definitivamente sconfitti”, sosteneva un editoriale del New
York Times del 3 maggio 1902.
Alla fine della seconda guerra mondiale si diffuse tra i
militari americani di ritorno dal fronte l’usanza di rispondere, a
chi chiedeva loro di cosa avessero sentito di più la mancanza
lontano da casa: “La mamma e la torta di mele”. Da ciò
l’espressione idiomatica “Motherhood and apple pie”, che
riassume i valori fondamentali in cui ogni buon americano
dovrebbe riconoscersi, ma che sarebbe ben presto diventata
anche un modo per dire “banale” e “stucchevole”: “Is all

243
motherhood and apple pie” equivale a dire “ovvio e
scontato”; in politica è sinonimo di demagogia.

Ingredienti per quattro persone:


250 gr di pasta sfoglia
1,5 kg di mele verdi
1 mela cotogna
4 cucchiai di zucchero
4 chiodi di garofano
1 limone (buccia e succo)
2 cucchiai di latte
1 pizzico di sale e macis
zucchero

Collocare una teglia nella parte alta del forno e scaldarla a 230 °C:
appoggiarvi una pirofila.
Sbucciare, tagliare e mischiare le mele verdi, la mela cotogna, lo zucchero,
i chiodi di garofano, il limone, il macis e il sale. Stendere la pasta.
Ricavare un coperchio per la pie e delle strisce larghe qualche centimetro.
Collocare le strisce, congiungendole, sul bordo della pirofila, già
spennellato d’acqua. Formare un anello di pasta che corre lungo il bordo
su cui si fisserà il coperchio. Versare le mele nella pirofila cercando di
ammonticchiarle al centro. Coprire con il coperchio, pressarlo bene attorno
al bordo. Pareggiare la pasta che straborda con le forbici da cucina.
Pizzicare il bordo per creare un cordone più o meno decorativo. Fare un
fiorellino centrale che permetterà al vapore di uscire. Spennellare il
coperchio con il latte. Spolverizzare poi con lo zucchero. Infornare e
cuocere per 30 minuti. Abbassare a 180 °C e cuocere per altri 10-20
minuti o finché il coperchio appaia dorato. Estrarre dal forno e servire.

244
Babà
Il babà è la derivazione di un dolce a lievitazione naturale
originario della Polonia (babka ponczowa); utilizzato dai cuochi
francesi assunse il nome di baba e vide trasformato il proprio
nome in babbà dai pasticceri napoletani.
La sua invenzione si fa risalire al re polacco Stanislao
Leszczynski, suocero di Luigi XV di Francia; Leszczynski era
uso dilettarsi nell’invenzione culinaria ma, essendo privo di
denti, era impossibilitato a mangiare dolci quali il gugelhupf,
originario dell’Alsazia, che egli trovava troppo asciutto; decise
allora di ammorbidirlo nel Tokaj e nello sciroppo.
La tipica forma a fungo la si deve al celebre pasticciere
Nicolas Stohrer, giunto a Parigi con Maria Leszczynska, figlia
del sovrano polacco.
Un’altra versione delle origini faceva ricordare al re la gonna a
campana (tonde) delle donne anziane che si chiamano babka.
Un’altra storia racconta che il re, dal pessimo carattere,
scagliasse il dolce contro una credenza, fracassando una
bottiglia di rum. Questa andò a inzuppare il dolce e Stanislao
allora lo assaggiò, trovandolo ottimo.
Nel XIX secolo il maestro Brillat-Savarin inventò un liquore
che ben si accompagnava alle macedonie di frutta. La
pasticceria francese dei fratelli Julien ebbe l’idea di chiudere la
macedonia in un babà opportunamente spennellato di
confettura di albicocche: nacque così il Babà Savarin. Le prime
fonti partenopee sul dolce risalgono al 1836 quando il cuoco
Angeletti scrisse un manuale culinario in cui è descritta la
ricetta con uvetta e zafferano, questi ultimi ingredienti persi
negli anni a causa della “volgarizzazione” delle pasticcerie
commerciali che ne hanno sfornati nuovi tipi con crema e
amarene o anche servito mignon con gelato semifreddo.

Ingredienti per otto persone:


400 gr di babà

Per lo sciroppo

245
400 gr di zucchero
250 ml di Rum
1 limone (scorza)

Preparare lo sciroppo. Portare a ebollizione in un pentolino 200 ml di


acqua con lo zucchero, il rum e la scorza di limone lavata e far bollire per
5 minuti; togliere dal fuoco ed eliminare la scorza di limone. Mettere i
babà su una gratella e appoggiarla su una teglia o un recipiente grande.
Praticare dei fori con uno stuzzicadenti sulla superficie superiore dei babà
e cominciare a bagnare con lo sciroppo. Girare i babà e continuare a
bagnare più volte. Recuperare lo sciroppo colato nella teglia e continuare a
bagnare i dolci. Farli poi sgocciolare sulla gratella per 3 ore. Trasferire i
babà su un piatto di portata e servire.

Baci di dama
Sono una ricetta tipica della cucina piemontese, in particolare
del Tortonese in provincia di Alessandria, anche se sull’origine
di questi dolci c’è una battaglia aperta, tra chi sostiene la loro
patria tortonese e chi invece li farebbe risalire a un’invenzione
di un pasticcere di casa Savoia nel 1852.
E’ un dato di fatto, comunque, che la provincia alessandrina
abbia una grande tradizione dolciaria sia per il cioccolato che
per la pasticceria, e potrebbe essere quindi tranquillamente la
patria di questi biscotti.
Il nome sembra derivare dalla loro forma, che richiamerebbe
due labbra intente a baciare.

Ingredienti per quattro persone:


150 gr di farina
150 gr di zucchero
150 gr di mandorle sgusciate
150 gr di burro
60 gr di cioccolato fondente

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Sbollentare le mandorle, pelarle e farle tostare per qualche minuto nel
forno già caldo a 180°, poi tritarle finemente. Versare il trito in una
terrina, mescolarvi lo zucchero e la farina, poi incorporare il burro,
ammorbidito a temperatura ambiente. Lavorare il composto fino a
renderlo ben omogeneo, quindi ricavarne tante palline del diametro di
circa 1,5 cm, schiacciandole leggermente alla base. Disporre i baci di
dama su una placca riscoperta con carta da forno e cuocerli nel forno già
caldo a 180 °C per 15 minuti circa. Sfornare e lasciar raffreddare
completamente. Far fondere il cioccolato in una piccola casseruola, poi
spalmarlo sui dolcetti dalla parte della base e accoppiarli due a due.
Lasciar solidificare il cioccolato e servire.

Banana Split
La ricetta della banana split fu brevettata nel 1904 da David
Evans Strickler, studente dell’Università di Pittsburgh, che
all’epoca lavorava nel bar del padre, a Latrobe, in
Pennsylvania. Secondo la tradizione, Strickler, allora
ventitreenne, perfezionò il dessert ideato alcuni anni prima da
un venditore di gelati di Boston, che aveva il difetto di essere
composto con banane non sbucciate.
Tuttavia tutti i cittadini di Latrobe lo accreditano come
l’inventore del celebre dolce, tanto che nel 2004 è stato
celebrato il centesimo anniversario dalla sua invenzione.
La nascita della banana split è reclamata anche dalla città di
Wilmington, in Ohio: qui nel 1907 il ristoratore Ernest
Hazard, deluso dalle proposte ricevute dal proprio personale,
al quale aveva chiesto di inventare un nuovo dolce da
sottoporre al giudizio dei clienti, preparò da solo un dessert,
tagliando longitudinalmente una banana e aggiungendo del
gelato come ripieno.
Indipendentemente dalla sua invenzione, al successo e alla
diffusione della banana split contribuì in modo decisivo la
catena di ristoranti Walgreens, fondata a Chicago nel 1901:

247
questa incluse la banana split nel menù e ben presto divenne
un elemento distintivo dell’offerta gastronomica dell’azienda.

Ingredienti per una persona:


1 banana
2 palline di gelato alla vaniglia
3 noci pecan
100 gr di cioccolato fondente
2 cucchiai di panna fresca per dolci
panna montata q.b.

Preparare la salsa al cioccolato: versare il cioccolato fondente all’interno di


un contenitore adatto alla cottura al microonde. Unire la panna e far
sciogliere il tutto fino a ottenere un composto fluido. Fare intiepidire.
Nel frattempo sbucciare la banana, tagliarla in due per il senso della
lunghezza e porla su un piatto semiaperta. Farcirla con le due palline di
gelato, coprire con la salsa di cioccolato e completare con le noci tritate
e dei ciuffi di panna montata.

Bavarese
Il dessert prende il nome dalla regione tedesca della Baviera.
Va notato come comunemente si tenda ad utilizzare il nome
bavarese preceduto dall’articolo femminile, magari
sottintendendo la parola crema: la bavarese. Tuttavia il
termine corretto sarebbe al maschile, in quanto deriva dal
francese bavarois e perché potrebbe essere sottintesa la parola
budino: budino bavarese. La bavarese vera e propria, infatti,
non è un dolce, ma una bevanda di origine tedesca composta
da tè, latte e liquore importata in Italia come bevanda all’inizio
del XVIII secolo dai cuochi francesi al servizio dei
Wittelsbach, casa regnante di Baviera. Nel secolo successivo,
in Francia, nacque il dolce bavarese, ispirato appunto alla
bevanda bavarese.

248
Ingredienti per quattro persone:
3 tuorli d’uovo
100 gr di zucchero
3 dl di latte bollente
3 dl di panna
8 gr di colla di pesce

Far sciogliere la colla di pesce per circa 20 minuti in acqua tiepida,


mescolare a lungo lontano dal fuoco e passarla, appena raffreddata,
attraverso un setaccio fine. In un tegame sbattere i tuorli con lo zucchero
fino a ottenere un composto molto chiaro, quindi unire poco alla volta il
latte bollente. Porre sul fuoco basso e sempre mescolando con una spatola
di legno lasciare cuocere per circa 10 minuti, senza far bollire la crema.
Togliere dal fuoco, aggiungere la colla di pesce, la panna ben montata e
mescolare delicatamente fino a ottenere un composto omogeneo. Versare in
uno stampo da budino inumidito con acqua fredda e porre in frigorifero
per alcune ore fino al momento di servire.
A piacere decorare con fiocchetti di panna montata e ciliegie candite.

Biancomangiare
Il biancomangiare indicava in epoca medievale una pietanza
generica basata sulle presunte qualità del colore bianco,
simbolo di purezza e ascetismo. Cibo destinato alle classi
superiori, prese il nome dal colore degli ingredienti che
prevalevano nella sua elaborazione, come petto di pollo, latte,
mandorle, riso, zucchero, lardo, zenzero bianco, ecc. Era una
ricetta dolce o salata interpretata variamente a seconda delle
diverse aree geografiche.
Si ritiene che abbia avuto origine in Francia per la frequente
presenza negli antichi ricettari di termini come blanche mangieri,
balmagier, bramagére.
Diffusosi in Italia intorno all’XI secolo, importato forse dagli
Arabi, era presente tra i piatti del celebre banchetto
organizzato da Matilde di Canossa per la riappacificazione fra

249
Papa Gregorio VII ed Enrico IV di Franconia, nel gennaio
1077.
Nel Liber de coquina (XIV secolo), primo ricettario in volgare, il
biancomangiare risulta confezionato con petti di pollo cotti e
tagliati a filetti, farina di riso stemperata in latte di capra o di
mandorle, il tutto messo a bollire a fuoco lento con zucchero
in polvere e lardo bianco sciolto. Lo stesso ricettario propone
una variante per la Quaresima, nella quale viene escluso il
lardo e parte dominante assumono le mandorle per il loro
latte, mentre la carne è sostituita da polpa bianca di pesci e
l’aggiunta di porri lessati in acqua.
Nel ‘400 Maestro Martino suggerisce una confezione più
elaborata e delicata, con l’eliminazione del lardo e
l’introduzione di brodo di cappone, mollica di pane bianco,
acqua rosata, agresto e zenzero.
Altre varianti si incontrano nei ricettari del Messisbugo, dello
Scappi, fino ai trattati seicenteschi, in particolare dello Stefani,
dai quali si deduce che il biancomangiare era concepito come
minestra, secondo piatto o salsa da versare su carni
soprattutto lessate.
La ricetta più nota di epoca contemporanea venne proposta
da Carême, che elaborò sostanzialmente una gelatina fatta con
latte di mandorle dolcificato.
Oggi il biancomangiare è una preparazione dolce e delicata,
tipica di tre regioni italiane: Valle d’Aosta, Sardegna e Sicilia.

Ingredienti per quattro persone:


250 gr di mandorle dolci pelate
1 l di latte
200 gr di zucchero
1 limone (scorza)
1 stecca di cannella
10 gr di gelatina in fogli
50 gr di mandorle tritate

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Pestare le mandorle dolci in un mortaio e metterle in un sacchetto di
cotone. Versare in una terrina 250 ml di acqua fredda e immergervi il
sacchetto con le mandorle per circa 30 minuti, finché l’acqua sarà
diventata bianca e densa come il latte. Togliere il sacchetto dal recipiente,
strizzarlo con cura e unire l’acqua di mandorle, il latte, lo zucchero, la
cannella e la scorza di limone lavata e tagliata a spirale. Far
ammorbidire i fogli di gelatina in una tazza di acqua fredda. Versare il
composto di mandorle in una casseruola e cuocerlo a fuoco basso per 12
minuti, mescolando continuamente. Unire la gelatina ben strizzata e
farla sciogliere mescolando. Togliere la scorza di limone e la cannella,
versare il biancomangiare in piccoli stampi, farlo raffreddare poi metterlo
in frigorifero per 3 ore. Al momento di servire immergere per un istante
gli stampini in acqua calda e sformarli su un piatto di portata.

Bonet
E’ un dolce al cucchiaio tipico del Piemonte a base di
cioccolato e amaretti.
In piemontese bonet significa cappello. In alcune
interpretazioni il nome farebbe riferimento alla forma dello
stampo in cui viene cotto il bonet, in altre la parola cappello
farebbe riferimento al fatto che il bonet viene servito alla fine
del pasto, quindi fa da “cappello” al resto.
In alcuni documenti storici del Piemonte nel XIII secolo
veniva già menzionato il bonet (alla monferrina), anche se in
una versione diversa da quella odierna, visto che il cacao
giunse dall’America molto più avanti.

Ingredienti per sei persone:


6 uova
190 gr di zucchero
700 ml di latte
6 amaretti
30 gr di cacao amaro

251
50 ml di rum

Sbattere le uova con 150 gr di zucchero in una terrina. Continuando a


sbattere unire il latte tiepido, gli amaretti sbriciolati, il cacao amaro e
infine il rum. In una casseruola far sciogliere sul fuoco lo zucchero
rimasto in 1 cucchiaio d’acqua; lasciarlo leggermente imbiondire su fuoco
basso, quindi versarlo in uno stampo intiepidito a bagnomaria e farlo
scorrere uniformemente lungo le pareti dello stampo. Riempire lo stampo
con il composto preparato e farlo cuocere a bagnomaria nel forno già caldo
a 180 °C, proteggendo la superficie del dolce con un foglio d’alluminio.
Quindi far cuocere per circa 1 ora e 30 minuti, poi lasciar intiepidire,
sformare il dolce e decorarlo.

Brigadeiro
Il brigadeiro è un dolce tipico della cucina brasiliana. L’origine
del suo nome è sconosciuta: probabilmente era accompagnato
dal termine negrinho, utilizzato nello stato di Rio Grande do
Sul. Una storia popolare vuole che il nome sia un omaggio al
brigadiere Eduardo Gomes che, negli anni 1946 e 1950, fu
candidato per la presidenza della Repubblica da parte
dell’Udn. Il dolce sarebbe stato creato durante la raccolta
fondi per la sua campagna elettorale.

Ingredienti:
400 ml di latte condensato

30 gr di polvere di cacao
10 gr di burro

70 gr di codette di cioccolato

Mettere una pentola larga dai bordi alti sul fuoco. Aggiungete il latte
condensato, la polvere di cacao e il burro. Mescolare finché il composto
non sarà omogeneo e senza grumi, evitando che si attacchi alla pentola.
Quando la miscela comincia a compattarsi e a staccarsi dal fondo della

252
casseruola vorrà dire che è pronta. Metterla in una ciotola o in un
bicchiere e mangiarla subito a cucchiaiate oppure, quando sarà tiepida,
farne delle piccole palline con le mani unte di burro, che si passeranno
nelle codette di cioccolato (oppure negli zuccherini). Mettere poi i
brigadeiri nei pirottini e servirli.
Si può usare il brigadeiro anche come crema per farcire le torte. In questo
caso, però, togliere prima il composto dal fuoco, quando sarà meno denso.

Manifesto elettorale di Eduardo Gomes

Brioches
Figlia più giovane dell’imperatore Francesco I e di Maria
Teresa d’Austria, fu data in matrimonio a Luigi XVI con il
preciso intento di rinsaldare l’alleanza tra la Francia e gli
Asburgo. Fin dal principio, Maria Antonietta suscitò scarsa
simpatia presso i suoi sudditi, in parte per il fatto di essere
straniera, ma soprattutto per il suo carattere frivolo, la
condotta leggera, la prodigalità e per l’ostinata intromissione
nelle faccende private dell’aristocrazia.
Allo scoppio della Rivoluzione francese, nel 1789, si schierò

253
con la nobiltà più intransigente e reazionaria e spinse il marito
a opporsi alle soluzioni di compromesso avanzate dai
rivoluzionari più moderati. Dopo la proclamazione della
Repubblica nel 1792, fu processata dal Tribunale
rivoluzionario, condannata a morte e ghigliottinata il 16
ottobre 1793.
Era molto bella, vivace, intrigante e amava circondarsi di
lusso, sfarzo e uomini giovani. Forse, fu per tutte queste sue
peculiarità che le sarebbe stata attribuita la famosa frase:
“Dategli le brioches”, indirizzata al primo ministro mentre la
avvisava sulla scarsità del pane per il popolo, prossimo a
scatenare la Rivoluzione.
Anche se storici accreditati affermano che queste parole non
furono mai pronunciate dalla regina, vengono usate come
spunto per parlare di una delle probabili origini del croissant
moderno.
Introdotto alla corte francese proprio da Maria Antonietta,
questo dolce a sfoglia fatto con il burro, conosciuto anche
come croissant o cornetto, sembra sia nato in seguito
all’assedio di Vienna del 1683. La storia narra che sarebbero
stati i fornai viennesi, mentre erano nel pieno del lavoro, a
sventare l’attacco a sorpresa della città da parte dei turchi.
Dopo la vittoria, il re polacco Giovanni III, alleato degli
austriaci, avrebbe chiesto di far confezionare agli artigiani
“sentinella” il cibo celebrativo dell’evento.
Sarebbe poi stato un certo Vendler, fornaio viennese, ad avere
l’idea della forma del dolce, ispirandosi ai vessilli con la
mezzaluna turca.

Ingredienti per venti pezzi:


70 ml di latte intero
13 gr di lievito di birra
550 gr di farina
350 gr di burro
6 uova
15 gr di sale fino

254
80 gr di zucchero

Per spennellare
1 tuorlo
2 cucchiai di panna fresca liquida

Iniziare a sciogliere il lievito di birra nel latte tiepido; intanto tagliare il


burro a pezzetti e lasciarlo ammorbidire a temperatura ambiente. In una
ciotola, mescolare la farina setacciata, lo zucchero e il sale. Unire il lievito
sciolto nel latte e impastare a mano. Aggiungere poi le uova e impastare
per 6-8 minuti. Aumentare la velocità e aggiungere il burro ammorbidito
un pezzetto alla volta, avendo cura di aggiungere il successivo quando il
precedente sarà stato completamente assorbito (ci vorrà un’ora circa).
Piano piano il composto diventerà spumoso e di colore chiaro. Continuare
ad aggiungere il burro e quando si sarà ottenuto un impasto molto
morbido e omogeneo, metterlo in una ciotola, coprirlo con la pellicola e
lasciarlo lievitare in forno spento con la luce accesa per circa 3 h.
Trascorso questo tempo, impastate nuovamente il composto, rigirando la
pasta con la mano 2-3 volte, e metterlo in frigo, sempre coperto con della
pellicola, per almeno 12 ore, fino a quando l’impasto non si sarà
solidificato. L’impasto sarà a questo punto ben compatto: trasferirlo su di
una spianatoia infarinata quanto basta per non fare attaccare l’impasto e
stenderlo in una sfoglia alta 1 cm. Tagliare dei triangoli che abbiano la
base di 8 cm e i lati di 15 cm e, partendo dalla base, arrotolarli fino alla
punta su se stessi. Incurvare leggermente le estremità verso l’interno e
porli su una teglia ricoperta di carta forno. Sbattere il tuorlo con la
panna (o il latte) in una ciotolina e spennellare le brioches. Lasciarle
lievitare ancora per 1 e 30 h circa, fino a che avranno raddoppiato il loro
volume. Infornare le brioches in forno già caldo a 200 °C per 13-15
minuti, fino a che non saranno dorate in superficie. Spolverizzarle con lo
zucchero a velo o farcirle a piacere.

255
Brutti e buoni
I Brutti e Buoni (talvolta Brutti ma buoni) sono dei dolcetti la
cui origine non è sicura: infatti alcuni pensano siano originari
della città di Gavirate, in provincia di Varese, dove, si
presume, nacquero nel 1878 dall’intuizione del pasticcere
Costantino Veniani. Questo, nel 1910, su consiglio del conte
Teofilo Rossi, proprietario della ditta Martini e Rossi e
sindaco di Torino, registrò il brevetto per marchio d’impresa
che ancora oggi è rappresentato sull’elegante carta in stile
liberty, distintiva e non imitabile, che avvolge due a due questi
dolcetti.
Altri invece ritengono che i Brutti e Buoni abbiano avuto
origine nella città di Borgomanero, vicino Novara, e che si
tratti a tutti gli effetti di prodotti tipici piemontesi.

Ingredienti per sei persone:


300 gr di mandorle tostate
4 albumi
280 gr di zucchero
1 bustina di vanillina
20 gr di burro
cannella in polvere

Tritare grossolanamente le mandorle. Montare gli albumi a neve soda e


incorporarvi delicatamente il trito di mandorle, lo zucchero, la vanillina e
un pizzico di cannella. Versare il composto ottenuto in una piccola
casseruola e farlo rapprendere a fuoco bassissimo, mescolando con un
cucchiaio di legno, per circa 30 minuti, finché assumerà un colore bruno
chiaro e lucido. Imburrare una placca, disporvi il composto a mucchietti e
cuocere in forno già caldo a 120 °C per 45 minuti. Lasciare raffreddare
i dolci, poi staccarli dalla placca e servirli su un piatto di portata.

256
Cannoli siciliani
Secondo una leggenda la nascita dei cannoli sarebbe avvenuta
a Caltanissetta, “Kalt El Nissa” locuzione che in arabo
significa “Castello delle donne”, durante la dominazione araba
in Sicilia (dal 827 al 1091), a quei tempi sede di numerosi
harem di emiri saraceni.
L’odierno cannolo siciliano avrebbe dunque antiche origini,
anche se nei secoli ha subìto diverse trasformazioni e il suo
antenato potrebbe essere stato un dolce a forma di banana,
ripieno di ricotta, mandorle e miele.
Una ipotesi sulla nascita della ricetta sarebbe quella che le
favorite dell’emiro, per passare il tempo, si dedicassero alla
preparazione di prelibate pietanze, in particolare di dolci e in
uno dei tanti esperimenti culinari avrebbero “inventato” il
cannolo, allusione evidente alle “doti” del sultano.
Un’altra fonte, invece, tramanda che i cannoli siano stati
preparati per la prima volta in un convento sempre nei pressi
di Caltanissetta. Si racconta che in occasione del Carnevale le
monache inventarono un dolce formato da un involucro
(“scorcia”) riempito da una crema di ricotta e zucchero ed
arricchito con pezzetti di cioccolato e granella di mandorle
(“cucuzzata”).
Sia che si tratti di suore o concubine, queste donne, rese
diverse dal voto di castità, probabilmente nel loro intimo non
lo erano così tanto di fronte al piacere voluttuoso offerto dal
magnifico dolce.
Questa seconda ipotesi, accattivante per le interpretazioni tra
sacro e profano, è descritta dal duca Alberto Denti di Pirajno,
cultore di gastronomia. In “Siciliani a tavola” (la cui edizione
fu terminata da Massimo Alberini, dopo la scomparsa del
nobile siciliano) il duca sostiene che il cannolo sarebbe stato
inventato proprio dalle abili mani delle suore di clausura di un
convento nei pressi di Caltanissetta. Per l’esattezza, si legge:
“Il cannolo non è un dolce cristiano, ché la varietà dei sapori e
la fastosità della composizione tradiscono una indubbia
origine mussulmana”. La tesi è verosimile in quanto alla fine

257
della dominazione araba in Sicilia, coincisa con l’arrivo dei
Normanni, gli harem si svuotarono, e una o più donne ormai
libere, convertitesi al Cristianesimo, entrarono in convento.
Qui potrebbero avere riprodotto alcune delle ricette con le
quali avevano sedotto le corti degli emiri: ciò spiegherebbe
l’esistenza di un legame tra le due leggende.

Ingredienti per sei persone:


150 gr di farina
caffè in polvere
1 albume
20 gr di zucchero
cacao
30 gr di zucchero a velo
15 gr di burro
olio di mandorla
3 cucchiai di olio extravergine d’oliva
olio per friggere
70 ml di vino bianco
sale

Per il ripieno
170 gr di zucchero
300 gr di ricotta dolce
acqua di fiori d’arancio
30 gr di zucca candita a dadini
10 gr di scorza d’arancia candita a dadini
cannella in polvere
50 gr di cioccolato fondente a dadini

Mescolare la farina con 1 cucchiaino di cacao, 1 cucchiaino di caffè, lo


zucchero, un pizzico di sale e disporla a fontana, unire al centro il burro
a fiocchetti, il vino e lavorarli fino a ottenere un impasto elastico.
Formare una palla, coprirla e farla riposare per 30 minuti in frigorifero.
Mescolare la ricotta con qualche goccia d’acqua di fiori d’arancio e lo
zucchero, incorporavi gli altri ingredienti del ripieno e mescolare; mettere

258
il composto in frigorifero per 30 minuti. Stendere la pasta, ricavarne
tanti dischi di 9 cm di diametro e allungarli fino a ottenere una forma
ovale. Ungere d’olio degli appositi cannelli di di canna di bambù o di
latta e avvolgervi gli ovali inumidendoli con l’albume nelle parti che si
sovrappongono. Friggere i cannelli in abbondante olio caldo, sgocciolarli
quando la pasta sarà dorata. Quando i cannoli saranno tiepidi, sfilarli.
Riempirli con il ripieno con una tasca da pasticciere, cospargerli con lo
zucchero a velo e servire.

Cassata siciliana
Le radici della cassata risalgono alla dominazione araba in
Sicilia (IX-XI secolo). Gli arabi avevano introdotto a Palermo
la canna da zucchero, il limone, il cedro, l’arancia amara, il
mandarino, la mandorla. Insieme alla ricotta di pecora, che si
produceva in Sicilia da tempi preistorici, erano così riuniti tutti
gli ingredienti base della cassata, che all’inizio non era che un
involucro di pasta frolla farcito di ricotta zuccherata e poi
infornato.
Nel periodo normanno, a Palermo presso il convento della
Martorana, fu creata la pasta reale o Martorana, un impasto di
farina di mandorle e zucchero, che, colorato di verde con
estratti di erbe, sostituì la pasta frolla come involucro. Si passò
così dalla cassata al forno a quella composta a freddo.
Gli spagnoli introdussero poi in Sicilia il cioccolato. Durante il
barocco si aggiunsero infine i canditi. L’introduzione della
glassa di zucchero coperta di frutta candita che avvolge tutto il
dolce come un vetro opaco potrebbe ricondurre il nome
all’inglese glass, “vetro”, da cui “glassata”, “classata”, “cassata”.
Inizialmente la cassata era un prodotto della grande tradizione
dolciaria delle monache siciliane ed era riservata al periodo
pasquale. Un documento ufficiale del primo sinodo dei
vescovi siciliani a Mazara del Vallo nel 1575 afferma che la
cassata è “irrinunciabile durante le festività”. Un proverbio

259
siciliano recita: “Tintu è cu nun mancia a cassata a matina ri
Pasqua” (“Meschino chi non mangia cassata la mattina di
Pasqua”).
La decorazione caratteristica della cassata siciliana con la
zuccata fu introdotta solo nel 1873 (in occasione di una
manifestazione che si tenne a Vienna) dal pasticciere
palermitano cav. Salvatore Gulì.

Ingredienti per quattro persone:


1 disco di pan di Spagna
1 kg di ricotta dolce
370 gr di zucchero
100 gr di canditi a dadini
80 gr di cioccolato a pezzetti
400 ml di Maraschino

Per la guarnizione:
50 gr di gelatina di albicocche
frutta candita intera
glassa di zucchero colorata verde

Foderare una tortiera sul fondo e sui bordi con carta oleata; spennellare
abbondantemente la carta con la gelatina e quindi rivestirla con un sottile
strato di fette di pan di Spagna. Preparare la crema. Lavorare a lungo in
una terrina, con un cucchiaio di legno, la ricotta con lo zucchero, il
Maraschino, il cioccolato e i dadini di canditi. Farcire la torta con la
crema alla ricotta, livellare bene la superficie e coprire con un disco di pan
di Spagna. Lasciar raffreddare per 2 ore in frigorifero. Appoggiare sulla
cassata un piatto piano di diametro maggiore e capovolgerla; eliminare la
carta e aggiustare i bordi con altra gelatina. Coprire la superficie e i bordi
con la glassa di zucchero, decorare con la frutta candita intera e rimettere
la cassata in frigorifero per altre 2 ore. Servire.

260
Charlotte
Il nome Charlotte è chiaramente francese, anche se le origini
di questo dolce non sono chiare.
Tra le versioni più accreditate c’è quella degli storici che fanno
derivare il termine charlotte da charlyt, che in inglese arcaico
significava “budino”.
Altri fanno derivare il nome di questo dolce da charlets, un
piatto anglosassone tipico del XV secolo, che però era
composto principalmente da carne.
Ancora, alcuni studiosi trovano un certo legame tra la torta e
la regina Charlotte di Mecklenburg-Strelitz (1744-1818),
moglie di Re Giorgio III d’Inghilterra. La regina ebbe una vita
serena, turbata solo dalla pazzia del marito qualche anno
prima della sua morte; godette del favore dei sudditi e ottenne
diverse dediche. Tra queste, l’opera K3 da parte del
giovanissimo Mozart e una bellissima specie della pianta
strelizia, battezzata Strelitzia reginae in suo onore. Alla sua nota
passione per la botanica, pare sia dovuta - secondo l’Oxford
Companion to Food - la dedica del dolce charlotte, evoluzione
del più semplice bread pudding inglese. Sembrerebbe infatti che
questa versione del budino di pane farcito di mele sia stata
ispirata all’amore della regina per gli alberi di mele…
Secondo l’Oxford English Dictionary, la prima citazione su
carta stampata della charlotte risale al 1796, quando la regina
era ancora in vita, nella poesia “Hasty Pudding” di J. Barlow,
scherzosa celebrazione delle delizie culinarie della nuova
Inghilterra, in cui egli la descrive con queste parole: “the
charlotte brown, within whose crusty sides, a belly soft the
pulpy apple hides”, “la charlotte dorata, nei cui fianchi
croccanti, si nasconde un ventre morbido di mele” .
E’ tuttavia possibile che il nome Charlotte derivi dallo stampo
usato per cuocerla, che a sua volta prenderebbe il nome dal
copricapo omonimo usato dalle donne francesi nel ‘700, una
sorta di cuffia increspata. La Charlotte moderna, però, sembra
derivare direttamente dalla Charlotte russe, dolce inventato da
Marie-Antoine Carême in onore dello zar Alessandro I.

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Ingredienti per quattro persone (Charlotte Russa):
5 tuorli
100 g di zucchero
200 ml di panna da montare
500 ml di latte
200 gr di savoiardi
200 gr di frutta candita
1 cucchiaio di farina gialla
1 tazzina di kirsch

Lavorare i tuorli con lo zucchero quanto basta per renderli cremosi,


incorporare il latte caldo, poco a poco, mescolando in continuazione, per
ultimo unire la farina sciolta in poca acqua fredda. Colare finemente,
porre in un pentolino e cuocete a bagno maria, sempre mescolando,
quanto basta per ottenere una crema spessa. Togliere dal fuoco e quando
è fredda unire la panna montata, mescolare bene. Foderare uno stampo
da flan con una parte di biscotti bagnati leggermente nel liquore e
riempirlo a strati alternati con crema alla russa e biscotti. Terminare con
uno strato di biscotti. Porre la charlotte in frigorifero per 4 o 5 ore;
sformarla e adornarla con la frutta candita.

Ciliegie Giubileo
Questo famoso dolce è una creazione dello chef Auguste
Escoffier. L’occasione fu il Golden Jubilee della Regina Vittoria
d’Inghilterra. La monarca segnò il 20 giugno 1887 il
cinquantesimo anniversario della sua ascesa con un grande
banchetto a cui parteciparono cinquanta fra re e principi
europei. In quei giorni Vittoria giunse probabilmente all’apice
della sua popolarità. Lo chef francese pensò per
quell’importante evento di elaborare una ricetta in suo onore
con come ingrediente principale il frutto preferito dalla
Regina. La ricetta originale pare non prevedesse il gelato,
come è in uso oggi.

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Ingredienti:
24 ciliegie sciroppate
2 palline di gelato alla crema
1 bastoncino di cannella
2 chiodi di garofano
mandorle tritate
zucchero
vino rosso
Maraschino
kirsch
1 arancia (scorza a pezzi)

Caramellare lo zucchero con dei pezzi di scorza d’arancia, aggiungere il


vino, i chiodi di garofano e la cannella; aromatizzare con il Maraschino e
mettere le ciliegie. Lasciare ridurre la salsa e infiammare col kirsch,
cospargendo, mentre c’è la fiamma, con un poco di zucchero. Disporre il
gelato al centro di un piatto da dessert e le ciliegie attorno, cospargere il
tutto con salsa e mandorle tritate, oppure mettere in una coppa il gelato e
aggiungere le ciliegie con la salsa e cospargere il tutto con mandorle tritate.

Cartolina commemorativa del Golden Jubilee

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Crêpes Suzette
Per sua stessa affermazione, il primo ad aver utilizzato la
tecnica del flambage fu Henri Charpentier (1880-1961), nel
1895 o ‘96, al noto Café de Paris di Montecarlo, quando era
solo un apprendista di Escoffier. Fra i professionisti del
settore è consuetudine ritenere egli l’inventore delle Crêpes
Suzette, nate in orario di chiusura della cucina per un errore
dovuto alla combustione di un liquore versatovi
accidentalmente. Le crêpes erano state cucinate per il principe
di Galles (futuro Re Edoardo VII) e dedicate a una certa
Suzette, sua compagna (era un amante delle donne), amica o
per alcuni autori figlia di un amico, che pranzava con lui. Ma
l’Enciclopedia Larousse Gastronomique ritenne alquanto
improbabile questa versione della vicenda, dato che
Charpentier avrebbe avuto allora 15 o 16 anni e non gli
sarebbe stato concesso di servire da solo, così giovane, un
membro della casa reale. Pare, secondo altre fonti, che il
cuoco abbia adulterato la vera storia per offrire ai clienti
americani una versione affascinante dell’origine del piatto,
quando si era trasferito a lavorare oltre oceano.
Patricia Bunning Stevens nel suo Unusual Origins of Popular
Recipes, rende ancor più intrigante, e veritiera, la nascita di
queste crespelle, citando la vicenda di Suzanne Reichenberg,
un’attrice francese conosciuta professionalmente con il nome
di Suzette. Nel 1897 la donna recitò i panni di una cameriera
nell’opera Mieux vaut douceur et violence alla Comédie-Française:
la sua parte principale consisteva nella preparazione di un
piatto di crêpes che gli attori dovevano mangiare notte dopo
notte durante la recita. Il proprietario del vicino Ristorante
Marivaux, tale Monsieur Joseph, fornì la pietanza che, per
attirare l’attenzione del pubblico, venne infiammata con un
liquore. Joseph portò la fortunata ricetta, dedicata all’attrice,
anche al di là della Manica, giungendo al Savoy di Londra e da
qui al resto del mondo, diventando il classico per eccellenza
della cucina flambé che si sviluppò notevolmente durante la
Belle Époque.

264
La ricetta apparve per la prima volta nell’edizione del 1907 de
Le Guide Culinaire di Escoffier: si trattava di crespelle
aromatizzate con curaçao e succo di mandarino. E forse, le
Crêpes Suzette furono l’ennesima invenzione attribuita al
padre della cucina classica francese…

Ingredienti per sei persone:


Per le crêpes
250 ml di latte
1 uovo e 1 tuorlo
250 gr di farina
60 gr di burro
sale

Per lo sciroppo
100 gr di burro
100 gr di zucchero
100 ml di Grand Marnier
2 arance (succo e scorza)
2 cucchiai di cognac

Preparare la pastella. Amalgamare la farina setacciata con un pizzico di


sale, l’uovo e il tuorlo leggermente sbattuti e poco latte fino a ottenere un
composto omogeneo; unire il resto del latte, 40 gr di burro, fuso a parte, e
sbattere energicamente con una frusta. Coprire la ciotola con un telo e far
riposare per un'ora. Spennellare di burro un padellino antiaderente di
20 cm di diametro, farlo scaldare, versarvi 2 cucchiai di pastella e
distribuirla sul fondo ruotando velocemente il padellino. Lasciar dorare la
crêpe per 2 minuti da ogni lato, farla scivolare sul piatto e tenerla in
caldo mentre si preparano le altre crêpe allo stesso modo.
Preparare lo sciroppo. Mescolare in una padella il burro, il succo
d’arancia, la scorza lavata e grattugiata di 1 arancia e il liquore. Far
sobbollire per 2 minuti e immergervi le crêpe, una alla volta, quindi
piegarle in quattro e disporle su un piatto di portata. Distribuirvi sopra
il cognac, fiammeggiare e decorare con la scorza dell’arancia tagliata a
listarelle sottili.

265
Suzanne Reichenberg

Dorayaki
Il dorayaki, dolce tipico giapponese, all’origine aveva un solo
strato; la forma attuale a due strati fu inventata nel 1914 da
Ueno Usagiya.
In giapponese dora significa “gong”, e probabilmente la forma
simile a quella dello strumento musicale ha dato origine al
nome del dolce. La leggenda narra che un samurai di nome
Benkei dimenticò il suo gong a casa di un contadino presso il
quale si nascondeva, e che questi lo usò come modello per
preparare il primo dorayaki.

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Ingredienti per dodici pezzi:
180 gr di acqua
240 gr di farina
150 gr di zucchero a velo
2 uova
3 gr di lievito in polvere per dolci
20 gr di miele
olio di semi per ungere

Versare la farina in una ciotola, poi unire lo zucchero a velo e il lievito.


A questo punto aggiungere anche le uova, il miele e l’acqua a
temperatura ambiente. Una volta che si saranno aggiunti tutti gli
ingredienti nella ciotola iniziare a sbattere con una frusta, prima
lentamente, poi energicamente fino ad ottenere un composto privo di grumi
e dalla consistenza fluida. Scaldare una padella per crêpes (o una padella
ampia antiaderente), versare un filo d’olio e spanderlo sulla superficie con
un foglio di carta da cucina; quindi versare un mestolo di composto per
ciascun dorayaki (si consiglia di prepararne un paio per volta). Il fuoco
deve essere medio: in questo modo non si rischierà che i dorayaki si
scuriscano troppo. In base a quanto impasto si andrà a utilizzare, si
otterranno dei dorayaki più o meno grandi. Attendere circa 3 minuti e
non appena in superficie spunteranno delle piccole bollicine, girarli e
proseguire la cottura per 1 minuto anche dall’altro lato. Proseguire in
questo modo fino a terminare l’impasto e impilare man mano i dorayaki,
che si potranno già gustare al naturale o servire come panino farcendoli
con confetture e creme a piacere.

Election cake
Il primo libro di cucina americano è stato scritto da Amelia
Simmons e pubblicato a Hartford, Connecticut, nel 1796. Si
conosce poco della Simmons - descrisse sé stessa nella pagina
iniziale come “un’orfana americana” - ma fu la prima a dare
alle stampe e diffondere le tipicità culinarie a stelle e strisce,

267
come ad esempio la pumpkin pie, la cranberry sauce e l’Indian
pudding. Il libro fu un successo e già nello stesso anno ne
venne pubblicata una seconda edizione, con l’aggiunta di altre
interessanti ricette, tra cui quelle di tre nuovissime torte: la
Independence Cake, l a Federal Cake e la Election Cake. Tre
denominazioni che mostravano tutto l’orgoglio e il fervore
patriottico della giovane Repubblica. L’ultima, già conosciuta
nell’epoca coloniale britannica, è l’unica sopravvissuta fino ai
giorni nostri. Spesso chiamata Hartford Election Cake, era infatti
uno dei dolci preferiti nel New England, preparata per
celebrare il diritto di voto e il fatto di poter votare.

Ingredienti per dodici persone:


2 buste di lievito 

1 tazza di acqua calda

3 tazze di farina

200 gr di burro + q.b. per ungere la padella

1 tazza di frutta secca mista

1/2 tazza + 2 cucchiai di zucchero di canna

1/3 di tazza di whiskey (Bourbon o Rye)

2 cucchiaini circa di cannella in polvere

3/4 cucchiaini di pepe garofanato

1/2 cucchiaino di noce moscata grattugiata fresca

1/2 cucchiaino di sale 

1/2 tazza di zucchero 

3 uova grandi a temperatura ambiente

2 cucchiaini circa di estratto di vaniglia

1 tazza di zucchero a velo

2 cucchiai di latte


Ammollare la frutta secca nel whiskey. Cospargere il lievito sopra


l’acqua calda in una ciotola media. Mescolare poche volte e lasciate
riposare per circa 2 minuti per permettere al lievito di sciogliersi.
Setacciare metà della farina nella ciotola e mescolare fino a quando il
composto sarà liscio. Coprire con pellicola trasparente e mettere da parte
in un luogo caldo per circa 30 minuti per far lievitare il composto.

268
Mentre l’impasto lievita, far sciogliere il burro in una padella e mettere
da parte. Posizionare la frutta secca, 2 cucchiai di zucchero di canna e
tutto il whiskey in una ciotola per microonde. Mescolare fino a quando lo
zucchero si scioglie. Scaldare in microonde per 1 o 2 minuti. Mescolare e
mettere da parte a raffreddare. In una ciotola media, sbattere la restante
farina con la cannella, il pepe, la noce moscata e il sale. Sbattere il burro
con entrambi gli zuccheri restanti in un frullatore a velocità medio-alta
fino a che diventi chiaro e spumoso. Sbattere le uova, una alla volta, fino
a completa miscelazione (la miscela può apparire leggermente coagulata in
questa fase), e quindi aggiungere 1 cucchiaino di vaniglia. Aggiungere la
miscela di lievito e quindi ridurre la velocità medio-bassa e aggiungere
gradualmente la miscela di farina. Aggiungere la frutta secca con il
liquido in eccesso e battere a media velocità fino a quando il frutto è ben
amalgamato. L’impasto deve essere morbido ed elastico a questo punto.
Trasferire l’impasto nella padella preparata e coprire con pellicola
trasparente. Lasciare lievitare in un luogo caldo per circa 2 ore. Quando
l’impasto è quasi pronto alla cottura, preriscaldare il forno a 190 °C.
Cuocere la torta fino a doratura (usare uno stuzzicadenti per verificare la
cottura all’interno) per 40/45 minuti. Far raffreddare per 30 minuti in
padella su una gratella. Allentare i lati con una piccola spatola metallica
e far raffreddare completamente. Prima di servire, mescolare lo zucchero a
velo con il restante cucchiaino di vaniglia e 1 cucchiaio di latte.
Aggiungere poco a poco, quanto basta, del secondo cucchiaio di latte per
fare una glassa all'esterno della torta, eseguita delicatamente con l’aiuto
di una spatola. Lasciar indurire la glassa e servire.

Fragole alla Romanoff


C’è chi afferma che sia stato il grande Marie Antoine Carême
(1784-1833) a presentare le fragole condite con panna e gelato
alla vaniglia allo Zar di tutte le Russie.
Molto più probabilmente erano nella carta dei dessert del
ristorante Romanoff’s di Beverly Hills, il cui proprietario era
un molto improbabile principe russo Michael Romanoff.

269
Ingredienti per quattro persone:
600 gr di fragole
1 arancia (succo)
2 bicchierini di liquore curaçao
2 bicchierini di Porto
3 cucchiaini di zucchero a velo
500 ml di panna
4 cialde da gelato

Lavare le fragole, liberarle dal picciolo e metterle a sgocciolare in un


setaccio poi prenderne 1/3 e passarle al passaverdura. Raccogliere la
crema frullata in una ciotola poi unirvi il succo d’arancia, il curaçao, il
porto e lo zucchero a velo mescolando bene il composto. A parte montare
la panna insieme allo zucchero a velo e unirla alla crema di fragole
mescolando bene. Distribuire le fragole rimaste in 4 coppe e versare sopra
ognuna una parte della crema alle fragole, completando con una cialda
decorativa.

Gelato Plombières
Il trattato di Plombières, definito da Napoleone III e da
Camillo Benso Conte di Cavour, diede un impulso decisivo al
Risorgimento italiano, favorendo la formazione dell’Italia
unita. Quell’avvenimento, che pose le condizioni per la
vittoriosa seconda guerra di indipendenza italiana, rafforzò lo
storico sentimento di amicizia tra il popolo italiano e quello
francese.
Camillo Benso Conte di Cavour, presidente del Consiglio del
Regno di Sardegna dal 1852 avviò una serie di riforme e si
avvicinò alla Francia e all’Inghilterra, al fine di guadagnarsi un
posto tra le potenze d’Europa più progressiste. In questa
prospettiva, nel 1855, inviò un corpo di Bersaglieri nella
Guerra di Crimea al fianco di Francia, Gran Bretagna e
Turchia. Ciò gli consentì di sedersi al tavolo delle trattative del

270
Congresso di Parigi nel 1856 e di allacciare i primi contatti con
Napoleone III.
Fu così che il 21 luglio 1858, a Plombières-les-Bains in
Francia, Cavour e l’imperatore francese firmarono un trattato
segreto (gli Accordi di Plombières) con cui la Francia si
impegnava a intervenire a fianco del Regno di Sardegna in
caso di attacco austriaco. Contropartita per questo aiuto, in
caso di annessione al Piemonte di Milano, Venezia e Bologna,
sarebbe stata la cessione della Savoia e di Nizza alla Francia.
Il termine plombière in francese significa “idraulico”; infatti è
plausibile che questo dolce prenda il nome dallo stampo di
piombo usato in origine per preparare gli entremets ghiacciati.
Fu forse il noto Café Tortoni di Parigi, gestito da mastri
gelatai italiani, a proporre per la prima volta nella storia questa
preparazione, sul finire del ‘700.
Il Gelato Plombière (senza esse finale) venne poi evocato nel
1822 da Carême nel suo Le maître d’hôtel français e venne poi
consacrato come glace Plombières nel Complément du Dictionnaire
de l’Académie française, nell’edizione del 1843. A pagina 805 si
legge: “Plombières, sf (art culin.) Il se dit d’une espèce de glace, qui se
sert dans des verres larges, avec une garniture de fruits confits.”
La leggenda vuole che a Plombières-les-Bains, località termale
della Lorena, durante i loro discorsi a tavola, Cavour e
Napoleone III vennero accompagnati anche da questo
piatto…

Ingredienti per otto persone:


5 tuorli
500 ml di latte
100 gr di zucchero
1 bustina di zucchero vanigliato
200 ml di panna
100 gr di frutta candita
2 cucchiai di kirsch
frutta candita

271
Tagliare la frutta candita a pezzetti e lasciarli macerare per alcune ore
nel kirsch. Montare i tuorli con entrambi gli zuccheri fino a quando non
saranno addensati e di colore giallo limone. Aggiungere a filo il latte
bollente, mescolando sempre. Far addensare sul fuoco, girando
costantemente ma senza farlo mai bollire. Porre la casseruola in acqua
fredda per fermare la cottura e lasciar raffreddare completamente. Unire
la frutta candita ben scolata. Montare la panna e incorporala al
composto di tuorli. Versare in un recipiente e mettere nel freezer; dopo
un’ora lavorare il gelato con uno sbattitore elettrico per eliminare grumi o
pezzetti di ghiaccio. Rimettere nel freezer e ripetere l'operazione altre due
volte. Sformare il gelato e decorarlo con pezzetti di frutta candita. Servire.

Fino al 1859 la satira piemontese vedeva in Napoleone III un freno al


processo di unità nazionale. Qui la situazione è vista attraverso I Promessi
Sposi, dove Don Abbondio è Cavour, Renzo è il Piemonte, Lucia è l'Italia e
Don Rodrigo è Napoleone III.

272
Gubana
Questo dolce è noto fin dal 1409 quando fu servito in un
banchetto preparato in occasione della visita di papa Gregorio
XII a Cividale del Friuli.
Facendo riferimento alla forma della gubana, la derivazione
del nome è probabile che giunga dallo sloveno guba, che
significa “piega”.
Un altro riferimento sull’origine della gubana viene dalla
presenza del cognome Gubana nelle Valli del Natisone.
Secondo alcuni, tuttavia, la gubana non sarebbe altro che la
variante friulana della putizza slovena; questa tesi sarebbe
avvalorata dal fatto che in molte parti della Slovenia
occidentale la denominazione tradizionale per la putizza è
guban’ca.

Ingredienti:
700 gr di pasta sfoglia
100 gr di gherigli di noce
50 gr di burro
50 gr di pangrattato
1 cucchiaio di zucchero
cannella q.b.
1 noce moscata grattugiata
1 limone, 1 arancia
2 uova
40 gr di mandorle pelate
80 gr di uvetta sultanina
vino Marsala q.b.
50 gr di pinoli
40 gr di cedro candito
20 gr di arancia candida

Unire dell’uvetta, precedentemente ammorbidita nel Marsala, con le noci,


le mandorle tritate, la frutta candita, i pinoli e tritare il tutto. Porgere
l’impasto così ottenuto in una ciotola e unirlo a del pangrattato prima
soffritto nel burro. Aggiungere poi la noce moscata, la cannella in polvere

273
e un cucchiaio di zucchero. Dopo aver mescolato a lungo unirvi un tuorlo
d’uovo e l’albume, precedentemente montato a neve. A questo punto, dopo
aver steso la sfoglia con un mattarello e aver posto al suo centro il ripieno
preparato, avvolgere la pasta dandole la caratteristica forma a spirale.
Spennellare con tuorlo d’uovo e spolverare con dello zucchero prima di
infornare per 45 minuti a 190 °C.

Krapfen
Si tratta di un dolce di origine austriaca. Sembra fosse già
conosciuto nel ‘600 a Graz, dove per carnevale veniva
venduto caldo per strada. Dal capoluogo della Stiria si sarebbe
diffuso a Vienna, per poi affermarsi anche nelle aree trentine.
Questa golosa frittella conquistò successivamente l’Italia con
varianti apparentemente poco dissimili l’una dall’altra. In
Toscana e nella riviera romagnola divenne il bombolone farcito
di crema pasticciera, a Roma la bomba alla crema, a Modena il
crafen, a Napoli il graffe ripieno con marmellata di amarene.

Ingredienti per circa 15 krapfen:


250 g di farina 00
250 g di farina manitoba
70 g di zucchero semolato
2 uova piccole o medie
250 ml di latte intero
4 g di lievito di birra secco ( o 15 g di lievito di birra fresco)
70 g di burro morbido
10 g di sale
buccia grattugiata di limone
olio di semi di arachidi

In una ciotola aggiungere 100 gr di farina 00, il lievito di birra secco e


un cucchiaio di zucchero semolato. Mescolare bene. Aggiungere 90 ml di
latte a temperatura ambiente e amalgamare fino a ottenere un composto
omogeneo, coprire la ciotola con della pellicola e far lievitare per circa 30

274
minuti in luogo tiepido. Trascorso il tempo necessario, aggiungere
nell’impastatrice il lievitino precedentemente preparato, le uova sbattute
con una forchetta, lo zucchero, le restanti farine, il latte, la buccia
grattugiata di limone e cominciare a impastare con la frusta a foglia per
circa 5 minuti. Gli ingredienti dovranno amalgamarsi. Cambiare la
frusta a foglia e inserire il gancio, continuare a impastare. Inserire il
burro morbido in più riprese, non aggiungere burro se il precedente non è
stato completamente assorbito. Impastare fino a quando non si sarà
sviluppato il glutine e l’impasto dovrà essere liscio e ben
incordato. Dovrà staccarsi completamente dalla ciotola. Prendere
l’impasto, formare un panetto liscio e farlo lievitare in luogo tiepido per
circa un’ora e mezza o due ore a seconda della temperatura ambientale.
Passato il tempo, riprendere il panetto e stenderlo su una spianatoia
leggermente infarinata a uno spessore di circa 1,5 cm. Ritagliare tante
formine tonde con un coppapasta. Ritagliare dei quadratini di carta forno
e poggiare ogni disco su ogni quadrato di carta. Far lievitare i krapfen
per circa 40 minuti in forno spento. Per una buona frittura
utilizzare un pentolino dal fondo spesso e friggere in abbondante olio di
semi di arachidi. Cuocere massimo 3 krapfen alla volta in modo da avere
una temperatura ottimale dell’olio. Adagiare ogni krapfen su carta
assorbente e farcirli con una sac à poche a piacere: con confettura di
albicocche (gli originali), crema pasticcera, cioccolato, ecc. Aggiungete
zucchero a velo sulla superficie e servirli ben caldi.

Krumiri
La storia dei krumiri, dolce tipico piemontese, risale al 1870
quando il pasticcere Domenico Rossi decise di far
sperimentare ai suoi amici del caffè i biscotti di sua
invenzione.
La data ufficiale della creazione di questi tipici biscotti di
Casale Monferrato viene però fatta risalire al 1878, nello stesso
anno in cui morì il primo Re d’Italia, Vittorio Emanuele II.
Sembra che la forma dei krumiri sia dovuta proprio ai

275
caratteristici baffi “a manubrio” portati dal Re.
Nel 1884 Domenico Rossi partecipò con i suoi ormai famosi
krumiri all’Esposizione Universale di Torino e tra il 1886 e il
1891 ricevette i Brevetti di Provveditore delle Case dei Duchi
d’Aosta, di Genova e della Real Casa d’Italia.
Per quanto riguarda il nome krumiri, non si conosce con
certezza la sua provenienza. Potrebbe derivare dal nome
dell’omonima tribù tunisina che usava spade a mezzaluna o
dal nome di un liquore che spesso accompagnava questi
biscotti.

Ingredienti per sei persone:


200 gr di farina di mais
170 gr di farina
220 gr di burro
100 gr di zucchero
3 uova
1 bustina di vanillina

Setacciare sulla spianatoia leggermente infarinata 150 gr di farina e la


farina di mais e unire lo zucchero e la vanillina, quindi formare una
fontana, rompervi al centro le uova e cominciare a impastare rapidamente
gli ingredienti lavorandoli con la punta delle dita. Incorporare all’impasto
ottenuto 200 gr di burro, ammorbidito a temperatura ambiente e ridotto
a pezzetti, e continuare a lavorare gli ingredienti, fino ad ottenere una
pasta dalla consistenza omogenea ed elastica. Formare con l’impasto
preparato una palla, trasferirla in una terrina infarinata e coprirla con
un telo, quindi lasciarla riposare per almeno 30 minuti. Riprendere la
pasta, adagiarla sulla spianatoia e ricavarne tanti rotolini, da dividere a
tronchetti della lunghezza di circa 10 cm. Appiattire leggermente ciascun
tronchetto in modo da ridurne lo spessore di circa la metà e con i rebbi di
una forchetta rigare leggermente la superficie nel senso della lunghezza.
Piegare i tronchetti a spicchio di luna e sistemarli su una placca da forno
ricoperta di carta vegetale. Mettere la placca nel forno già caldo a 200
°C e far cuocere i krumiri per circa 20 minuti. Estrarre la teglia dal
forno, trasferire i krumiri su una gratella metallica e lasciarli raffreddare.

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Lamingtons
Il nome di questi dolcetti deve la sua origine a Charles Wallace
Baillie, Barone di Lamington, Governatore dello stato del
Queensland, nell’Australia di fine ‘800, e a sua moglie Lady
Lamington, che li adoravano, creati probabilmente dal loro
cuoco personale.
Tuttavia, il cognome del lord, Lamington, all’epoca veniva
usato anche per indicare numerosi tipi di piatti: Lamington
soup (zuppa), Lamington cake (torta), Lamington tea… Tra
questi, i dolcetti lamingtons rimasero i più conosciuti e diffusi
fino ai nostri giorni.
La ricetta dei lamingtons apparve codificata in un giornale nel
1896.
Ogni anno il 21 luglio si festeggia il National Lamington Day
in tutta l’Australia.

Ingredienti per circa trenta lamingtons:


4 uova
200 gr di zucchero semolato
1 cucchiaino di estratto di vaniglia
200 g di farina
1 cucchiaino di lievito in polvere
110 gr di di burro fuso e raffreddato

Per la glassa
75 gr di burro
250 ml di latte
1/2 tazza (cup) di cacao in polvere
400 gr di zucchero a velo

Per decorare
1 tazza (cup) di farina di cocco

Sbattere le uova con lo zucchero e la vaniglia, aggiungere la farina


precedentemente mescolata con il lievito a mano a mano setacciandola,
infine unire il burro fuso. Versare il composto in una teglia e infornarlo

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in forno già caldo a 180 °C e cuocere per 25 minuti circa. Quando la
torta si è raffreddata tagliarla in cubetti di circa 4 cm per lato e
conservarli in frigorifero per alcune ore. Per preparare la glassa: setacciare
lo zucchero a velo e il cacao in due ciotole diverse. In un pentolino far
sciogliere il burro, aggiungere il latte e quindi il cacao e poi lo zucchero a
velo mescolando continuamente per evitare la formazione di grumi. Prima
che il cioccolato si raffreddi passare ogni cubetto di torta nel cioccolato e in
seguito nella ciotola con la farina di cocco, quindi appoggiarli sulla
graticola del forno a scolare. Prima di servirli ripassarli in frigorifero per
poche ore così che la glassa si addensi.
I lamingtons possono essere mangiati sia a temperatura ambiente che
freschi da frigorifero.

Macaron
Anche se prevalentemente è considerata una confezione
francese, le sue origini sono state molto dibattute. Larousse
Gastronomique cita i macarons come dolci creati nel 1791 in un
convento vicino a Cormery. Alcuni invece fanno risalire il suo
debutto francese all’arrivo di Caterina de’ Medici, la quale
commissionò a un pasticcere italiano il dolce che portò con sé
nel 1533, quando sposò Enrico II di Francia.
Nel 1830, i macarons venivano serviti due a due con l’aggiunta
di marmellate, liquori e spezie.
I l macaron, come è noto oggi, è stato definito Gerbet o Paris
macaron ed è stato creato all’inizio del XX secolo da Pierre
Desfontaines della pasticceria Ladurée, ed è composto da due
dischi di meringa alla mandorla riempiti con uno strato di
crema al burro, marmellata o crema ganache.

Ingredienti:
225 gr di zucchero a velo
110 gr di farina di mandorle
120 gr di albumi

278
50 gr di zucchero
vanillina
crema al cioccolato

Amalgamare la farina di mandorle con lo zucchero a velo, a parte


montare gli albumi con lo zucchero e incorporare poi il misto di farina di
mandorle e zucchero a velo mescolando bene, in modo da ottenere un
impasto omogeneo. Mettere l’impasto in una sacca da pasticciere e
formare, su una teglia con carta forno, dei dischetti più uguali possibile e
lasciar riposare per 15 minuti. Cuocere in forno a 150 °C per 10
minuti. Unire poi due macarons con della crema al cioccolato.

Macedonia di frutta
Il termine culinario “macedonia” si riferisce a una mistura, in
genere di frutta od occasionalmente di verdure, che prende il
nome dalla Macedonia, storica regione della Penisola
Balcanica. La parola è entrata nell’uso comune tra la fine del
XVIII e l’inizio del XIX secolo, quando la Macedonia
comprendeva una vasta serie di nazionalità: greci, serbi,
bulgari, albanesi, armeni, valacchi, ebrei sefarditi, tutte sotto la
risentita dominazione dei turchi. Una “macedonia”, appunto,
di culture diverse, come differenti e numerosi sono i frutti
tagliati a cubetti…

Ingredienti per quattro persone:


2 pesche gialle mature e succose
100 gr di mirtilli
200 gr di lamponi
300 gr di fragoline
2 cucchiai di zucchero
1 pizzico di cannella
2 dl di vino rosso amabile

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Pelare e tagliare le pesche a dadini di 1 cm per lato, eliminando i
noccioli. Togliere eventuali gambi e calici verdi ai mirtilli, aggiungere i
lamponi e le fragoline; mescolarli alle pesche. Cospargere con lo zucchero e
un pizzico di cannella; mescolare con cura e lasciare riposare per 10
minuti. Unire il vino rosso amabile e mescolare; lasciare riposare al fresco
per altri 15 minuti, poi servire nelle coppette.

Madeleines di Commercy
Si tratta di un dolce tipico del comune di Commercy, nel
nord-est della Francia.
Antiche tradizioni fanno risalire il nome di questo dolce al
culto di Santa Maria Maddalena, la donna che, liberata da
Cristo da sette demoni, divenne sua discepola, seguendolo
fino al Calvario, e la mattina di Pasqua meritò di vederlo per
prima risorto dai morti e portare agli altri discepoli l’annuncio
della risurrezione. La tradizione medievale vuole che la
Maddalena sia stata la prima evangelizzatrice della Francia,
insieme a Marta e Lazzaro. Questo pellegrinaggio in Francia
spiegherebbe, dopo il nome, anche la forma di conchiglia che
nella simbologia cristiana si attribuisce ai pellegrini per la causa
del Vangelo.
Il New Oxford American Dictionary riporta che le madeleines sono
chiamate così in onore di Madeleine Paulmier, una pasticciera
del XIX secolo. Altre fonti indicano Paulmier come una cuoca
vissuta nel XVIII secolo che aveva lavorato per Stanislaw
Leszczynski, il cui genero, Luigi XV di Francia, scelse il nome
dei dolcetti in onore a lei…

Ingredienti per dodici pezzi:


60 g di zucchero
60 gr di farina
60 gr di burro
2 uova intere

280
vaniglia q.b.
zucchero a velo

Versare in una capace terrina lo zucchero e le uova, sbattendole con una


frusta, a freddo, sino a che il composto appaia spumeggiante e leggero.
Unire quindi, continuando a mescolare, prima la farina setacciata e poi
il burro lasciato fondere separatamente, profumando con la vaniglia.
Quando i vari ingredienti si saranno amalgamanti, versare la pasta
ottenuta entro speciali stampi detti “Madeleines di Commercy” (a forma
di tarteletta scannellata), precedentemente imburrati e infarinati. Cuocere
le madeleines in forno caldo per 15 minuti circa. Una volta raffreddate,
sformarle e servirle spolverandole con zucchero a velo.

Margheritine di Stresa
La storia delle margheritine risale alla metà dell’800 quando
Stresa e il Lago Maggiore erano una delle destinazioni
preferite dei Reali di casa Savoia, che trascorrevano sulle
tranquille rive del lago lunghi periodi di villeggiatura.
A quei tempi, Elisabetta di Sassonia, Duchessa di Genova e
vedova di Ferdinando di Savoia, secondogenito del Re Carlo
Alberto, aveva l’abitudine di trascorrere l’estate a Stresa in una
stupenda dimora chiamata “Villa Ducale”. La figlia maggiore
di Elisabetta, Margherita, andò in sposa, nel 1868, a Umberto
di Savoia, divenendo in seguito la prima Regina d’Italia.
Il pasticcere di Stresa Pietro Antonio Bolongaro mandò alla
Villa Ducale dei golosi dolcetti, delicati e friabili, per allietare
le giornate della futura Regina. Evidentemente l’allora
principessa Margherita gradì molto i dolci a tal punto da
richiederli ogni volta che si trovava a Stresa. Da quel
momento i dolcetti ebbero una grande fortuna e ovviamente
furono chiamati “margheritine” in onore della Principessa.
Il figlio di quel Piero Antonio Bolongaro, Antonio, oltre al
nome e all’arte pasticcera, ereditò dal padre anche il

281
laboratorio e diede inizio alla produzione “per tutti” dei
richiestissimi biscotti.
Oggi le margheritine di Stresa sono diventate una tradizione
della cucina piemontese e si possono trovare in tutte le
pasticcerie della nota località turistica e oltre.

Ingredienti per circa quaranta biscotti:


250 gr di farina
250 gr di fecola
250 gr di burro morbido
5 tuorli sodi
120 gr di zucchero a velo + q.b. per guarnizione
1/2 limone (scorza)
1/2 bacca di vaniglia
sale

Mettere il burro fuori dal frigorifero circa una mezz’ora prima di


iniziare a preparare questa particolare pasta frolla. Far rassodare le
uova, sgusciarle e separare i tuorli dagli albumi, che si potranno
utilizzare poi per altre preparazioni. In un ciotola di misura adeguata
lavorare il burro con lo zucchero a velo. Aggiungere poi il sale, la
vaniglia, la buccia del limone grattugiata molto finemente e i tuorli d’uovo
rassodati e passati al setaccio (si possono schiacciare attraverso un colino
con il dorso di un cucchiaio), lavorando fino ad ottenere una crema liscia
ed omogenea e utilizzando eventualmente le fruste elettriche. Unire di
seguito farina e fecola setacciate insieme e mescolare bene con il cucchiaio
di legno. Trasferire l’impasto sul piano di lavoro, lavorandolo
velocemente come una normale pasta frolla. Avvolgere nella pellicola e
mettere in frigorifero a riposare per un’oretta. Trascorso questo tempo
stendere la pasta frolla sul piano di lavoro con il matterello ben
infarinato (lo spessore deve essere di circa un cm) e quindi, con l’aiuto di
un taglia biscotti a bordi smerlati tagliare le margherite disponendole con
delicatezza su una teglia ricoperta da carta forno. Mettere in frigo, senza
coprire, per una mezz’oretta, e intanto accendere il forno a 200 ° C (o
anche a 180 °C, a seconda delle caratteristiche del proprio forno), quindi
infornarle per 10/12 minuti: le margherite di Stresa devono prendere

282
solo un leggero colore. Appena pronte lasciare raffreddare senza toccare,
perché è una frolla molto delicata e si rassoderà perfettamente solo
quando sarà fredda. Spolverizzare con zucchero a velo.

La Regina Margherita con la madre Elisabetta di Sassonia a Stresa

283
Meringa
Secondo la tradizione fu inventata nel 1720, nel piccolo
laboratorio di un pasticcere di nome Gasparini, abitante nella
cittadina svizzera di Meiringen. Quest’ultimo venne chiamato
a servizio dal re di Polonia Stanislao Leszczynski, rifugiatosi in
esilio a Wissembourg, in Alsazia. Già inventore del babà e
famoso più per la propria golosità che per le imprese di
guerra, il sovrano apprezzò molto i delicati dolci e così fece
sua figlia Maria Leszczynska che, divenuta nel 1725 regina di
Francia e moglie di Luigi XV, li fece conoscere alla corte reale
di Versailles. Più tardi, le meringhe furono molto gradite a
un’altra celebre regina, Maria Antonietta. Amava prepararle di
persona, nelle cucine del Trianon, il piccolo castello situato nel
parco di Versailles, donatole nel 1774 dal marito.
Fino agli inizi del XIX secolo, le meringhe venivano formate
con il cucchiaio. Fu il grande Carême ad avere l’idea di crearle
con la tasca da pasticcere, secondo le più svariate forme.

Ingredienti per quattro persone:


2 albumi
120 gr di zucchero
20 gr di burro
20 gr di farina
20 gr di zucchero a velo
sale

Mettere gli albumi in una terrina con un pizzico di sale e sbatterli con
una frusta elettrica, aumentando man man la velocità, fino a ottenere
una neve fermissima. Quindi, setacciarvi sopra lo zucchero, poco per
volta, e incorporarlo con una spatola, mescolando con un movimento dal
basso verso l’alto per non smontarli. Imburrare e infarinare una placca
da forno. Riempire con il composto di albumi una tasca da pasticcere e
premere leggermente, facendo fuoriuscire la quantità di meringa
corrispondente a una grossa noce. Disporre i mucchietti sulla placca a
circa 4 cm l’uno dall’altro e cospargerli con zucchero a velo. Passare al
forno già caldo a 100 °C e cuocere per 2 ore. Far raffreddare e servire.

284
Millefoglie
In francese mille-feuille o millefeuille, anche conosciuto come
Napoleon, è un dolce d’origine transalpina. Se ne rinvengono
le prime tracce nel libro Cuisinier françois di François Pierre de
La Varenne del 1615. In seguito la ricetta è stata perfezionata
da Marie-Antoine Carême, che già alla fine del XVIII secolo
considerava la ricetta di “antiche origini”.
Tradizionalmente la torta Millefoglie è composta da tre strati
di pasta sfoglia, che si alternano con due strati di crema
pasticcera, benché esistano varianti che sostituiscono la crema
con altri condimenti come la panna o la marmellata. In Italia
di solito lo strato di pasta superiore è spolverato con zucchero
a velo, cacao o mandorle sbriciolate.

Ingredienti per sei persone:


300 gr di pasta sfoglia
150 gr di zucchero
500 ml di latte
6 tuorli
40 gr di farina
20 gr di zucchero a velo
1/2 bustina di vanillina
1 limone (scorza)

Stendere la pasta in una placca da forno spennellata d’acqua,


bucherellarla e dividerla in 12 quadrati di 10 cm di lato. Cuocerla nel
forno già caldo a 220 °C per 15 minuti, poi sfornare, spolverizzare con
un po’ di zucchero a velo e rimettere nel forno a caramellare. Portare a
ebollizione il latte con la scorza di limone. In una terrina lavorare i
tuorli con lo zucchero, poi aggiungervi la farina, la vanillina e il latte
bollente, filtrato. Versare il composto in una casseruola, portare a
ebollizione e far cuocere la crema per 7-8 minuti, mescolando; poi farla
raffreddare. Distribuire sopra alla metà dei quadrati di pasta uno strato
di crema e coprire con i quadrati rimasti. Spolverizzare la superficie con
lo zucchero a velo rimasto.

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Omelette norvégienne (o Baked Alaska)
L’Omelette norvégienne, chiamato anche Omelette surprise da
Escoffier o Baked Alaska negli Stati Uniti per celebrare
l’acquisizione americana nel 1867 del territorio fino ad allora
di proprietà russa, è un dolce sulla cui origine ci sono alcuni
dubbi: leggendo le fonti francesi sarebbe indubbiamente
europea, secondo le fonti americane invece sarebbe a stelle e
strisce…
Una storia curiosa porta all’Esposizione Universale di Parigi
del 1867. Durante la manifestazione venne ricevuta una
delegazione cinese a cena: il cuoco, sapendo che gli ospiti
avrebbero parlato di elettricità, decise di creare un dolce
“scientifico” ispirandosi agli esperimenti condotti da Benjamin
Thompson, Conte di Rumford, un fisico anglo-americano
emigrato in Baviera, regione che lo chef riteneva essere
erroneamente in Norvegia… Nel 1804, Thompson aveva
infatti stabilito “l’inconduttibilità dell’albume d’uovo
sbattuto”, ovvero che la meringa è un cattivo conduttore di
calore. E così, da un errore di geografia, avrebbe avuto origine
un dessert memorabile.
Ma in America la storia porta al Delmonico’s Restaurant di
New York e al suo chef Charles Ranhofer, che, ispirandosi
agli studi di Thompson, avrebbe creato il piatto per
commemorare l’acquisizione dell’Alaska proponendo un
dessert innovativo dal primo nome Alaska-Florida, in seguito
ribattezzato Baked Alaska.
Solo una trentina d’anni più tardi, secondo questo ipotesi,
sarebbe stato lo chef Jean Giroux dell’Hotel de Paris di
Montecarlo il fautore dell’Omelette à la Norvégienne, forse
rifacendosi al Baked Alaska o all’Omelette surprise che nel
frattempo si era affacciata anch’essa sul mondo culinario.

Ingredienti:
Per il pan di Spagna
3 uova intere
80 gr di zucchero

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80 gr di farina
1 cucchiaio di scorza grattugiata di limone
1 cucchiaio di Cointreau

Per la meringa
120 gr di albume
120 gr di zucchero semolato fine
120 gr di zucchero a velo

500 ml di gelato a scelta (vaniglia o fragola)

Accendere il forno a 180 °C. Setacciare la farina all’interno di una


ciotola e in un contenitore unire lo zucchero e le uova: montare tutto
utilizzando un frullino elettrico fino a quando non si otterrà un composto
molto spumoso. Aggiungere la farina setacciata, poca alla volta, in modo
tale da non creare grumi. Terminato di incorporare la farina aggiungere
anche la scorza di limone e poi continuare a mescolare il composto molto
delicatamente per non sgonfiarlo. Versare il composto all’interno di uno
stampo imburrato e infarinato e lasciarlo cuocere in forno per circa 25
minuti. Togliere dal forno e poi rovesciarla su una griglia per farla
raffreddare: spruzzare la superficie del pan di Spagna con il liquore
aiutandosi con un pennello, poi lasciarlo riposare fino a quando non si
sarà del tutto raffreddato e mettetelo infine in frigorifero per almeno due
ore. Preparare la meringa: mescolare lo zucchero semolato e quello a velo
e dividere il composto in due parti. Mettere gli albumi all’interno di una
ciotola, poi aggiungere la prima metà degli zuccheri e montare a neve
ferma con un frullino. Adesso aggiungere lentamente l’altra metà degli
zuccheri rimasti aiutandosi con una spatola, ma facendo attenzione a
lavorare delicatamente il composto. Accendete il forno a 220 °C. Il
gelato deve essere morbido, per cui eventualmente mescolarlo con una
spatola e poi spalmarlo sul pan di Spagna. Ricoprire con la meringa,
mettendola all’interno di un sac à poche andando a creare dei ciuffi.
Infornare per circa 3-5 minuti fino a quando la meringa non si sarà
scurita, poi servire il Baked Alaska.

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Veduta dell'Esposizione Universale di Parigi del 1867

Pandoro
Le origini del Pandoro sono da ricercare ai tempi dell’antica
Roma: se ne fa già menzione, infatti, in uno scritto minore che
risale al I secolo d.C., ai tempi di Plinio il Vecchio, che cita un
cuoco di nome Vergilius Stefanus Senex che preparò un
“panis” con fiori di farina, burro e olio.
La ricetta pare derivi anche dal “pane de oro” che veniva
servito intorno al XIII secolo sulle tavole dei nobili veneziani.
La nascita della ricetta moderna risale all’800, come
evoluzione del Nadalin, dolce veronese che ha ottenuto il
riconoscimento della De.Co nel 2012. Il 14 ottobre 1894,
Domenico Melegatti, fondatore dell’omonima industria
dolciaria veronese, depositò all’ufficio brevetti un dolce
morbido e dal caratteristico corpo a forma di stella a otto
punte, opera dell’artista Angelo Dall’Oca Bianca, pittore
impressionista veronese.

Ingredienti per otto persone:


610 gr di farina
250 gr di burro

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175 gr di zucchero
50 gr di zucchero a velo
30 gr di lievito di birra
8 uova
1 limone (scorza)
1 bustina di vanillina
100 ml di panna

Impastare in una terrina 75 gr di farina con 10 gr di zucchero, il lievito


sbriciolato e 1 tuorlo, unendo un poco d'acqua tiepida se la pasta
risultasse troppo soda, quindi formare una palla e farla lievitare in un
luogo tiepido per circa 2 ore. Unire al panetto lievitato 160 gr di farina,
25 gr di burro ammorbidito, 90 gr di zucchero e 3 tuorli. Lavorare bene
il tutto fino a ottenere un composto omogeneo, poi rimetterlo a lievitare
per 2 ore. Unire quindi all’impasto 375 gr di farina, 40 gr di burro
ammorbidito, 75 gr di zucchero, 1 uovo e 3 tuorli. Amalgamare bene il
tutto e rimettere l’impasto a lievitare per 2 ore. Riprendere la pasta e
lavorarla bene incorporandovi la panna, la scorza di limone e la
vanillina, fino a ottenere un impasto che risulti più morbido di una pasta
da pane. Pesare il composto ottenuto e unire 150 gr di burro a pezzetti
per ogni chilogrammo di pasta, ponendolo a centro di un quadrato di
pasta stesa con il matterello. Ripiegare la pasta sul burro e stenderla con
il matterello. Piegarla in 3, di nuovo stenderla con il matterello e di
nuovo piegarla in 3. Farla riposare per 30 minuti, quindi stenderla di
nuovo, piegarla in 3, stenderla ancora, piegarla in 3 e lasciarla riposare
per altri 30 minuti. Nel frattempo imburrare uno stampo dalle pareti
alte e scanalate e spolverizzarlo con lo zucchero rimasto. Lavorare ancora
per qualche minuto la pasta sulla spianatoia infarinata, ricavarne una
palla e stenderla nello stampo in modo tale che la pasta arrivi a metà
altezza delle pareti. Porre lo stampo in un luogo tiepido e lasciar lievitare
la pasta fino a quando sarà arrivata al livello dello stampo. Porre lo
stampo in forno già caldo a 190 °C e far cuocere il dolce per circa 40
minuti. A metà cottura abbassare un poco il calore del forno affinché il
dolce si possa cuocere bene anche internamente senza tuttavia colorire
troppo. Appena sfornato posarlo su un tovagliolo, quindi accomodarlo su
un piatto di portata, spolverizzarlo con lo zucchero a velo e servire.

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Panettone
Secondo una leggenda, Toni, umile sguattero della cucina di
Ludovico il Moro, sarebbe l’inventore di questo dolce. Alla
vigilia di un Natale, il capocuoco degli Sforza bruciò il dolce
preparato per il banchetto ducale; Toni, allora, decise di
sacrificare il panetto di lievito madre che aveva tenuto da parte
per il suo Natale, lavorandolo a più riprese con farina, uova,
zucchero, uvetta e canditi, fino a ottenere un impasto soffice e
molto lievitato. Il risultato fu un grande successo, che
Ludovico il Moro intitolò Pan de Toni, in omaggio al creatore.
La vera origine del panettone va ricercata tuttavia nell’usanza
diffusa nel medioevo di celebrare il Natale con un pane più
ricco di quello di tutti i giorni. Un manoscritto tardo
quattrocentesco di Giorgio Valagussa, precettore di casa
Sforza, attestava la consuetudine ducale di celebrare il
cosiddetto rito del ciocco. La sera del 24 dicembre si poneva
nel camino un grosso ciocco di legno e, nel contempo,
venivano portati in tavola tre grandi pani di frumento, materia
prima per l’epoca di gran pregio. Il capofamiglia ne serviva
una fetta a tutti i commensali, serbandone una per l’anno
successivo, in segno di continuità.
Fino al 1395 tutti i forni di Milano (tranne il prestino dei
Rosti, fornitore dei più abbienti) avevano il permesso di
cuocere pane di frumento solo a Natale, per farne omaggio ai
loro clienti abituali. L’abitudine di consumare pane di
frumento a Natale, quindi, è molto antica. Molte altre città
italiane ed europee condividevano l’usanza del pane arricchito
della festa, ma solo quello di Milano è poi diventato il
panettone.

Ingredienti per otto persone:


350 gr di farina
120 gr di burro
100 gr di uva sultanina
80 gr di zucchero
60 gr di lievito di birra

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60 gr di arancia o cedro canditi
1 limone (scorza)
3 cucchiai di latte
4 uova
sale

Sciogliere il lievito in poca acqua tiepida, quindi impostarlo con 100 gr


di farina. Formare con il composto ottenuto un panetto, praticarvi un
taglio a croce sulla superficie e lasciarlo lievitare per 25 minuti avvolto in
un telo. Impastare il panetto di lievito con 125 gr di farina e il latte fino
a ottenere un composto liscio e omogeneo, formarvi un panetto e mettere a
lievitare la pasta avvolta in un telo per 2 ore. Far sciogliere lo zucchero in
poca acqua calda fino a ottenere uno sciroppo, poi unirvi, sbattendo con
una frusta, 4 tuorli, uno alla volta, e circa la metà di uno degli albumi,
quindi far intiepidire a bagnomaria il composto così ottenuto. Disporre
la restante farina a fontana sulla spianatoia e unire al centro il panetto
di pasta lievitata, 90 gr di burro, fuso a parte, la scorza di limone
grattugiata, una presa di sale e lo sciroppo tiepido. Impastare il tutto per
15 minuti, unendo, se necessario, un poco di acqua tiepida fino a ottenere
un impasto dalla consistenza liscia ed elastica. Incorporare all'impasto i
canditi e l’uva sultanina, ben strizzata, poi formare un panetto e metterlo
a lievitare in un luogo caldo e privo di correnti d’aria finché non sarà
raddoppiato il volume. Mettere l’impasto in uno stampo foderato con
carta da forno imburrata, praticare un taglio a croce sulla superficie e far
cuocere nel forno a 220 °C per 1 ora. Dopo i primi 10 minuti di
cottura, versare sull'incisione a croce il rimanente burro fuso, quindi
ridurre progressivamente la temperatura del forno a mano a mano che la
superficie del dolce si colora. Sfornare e servire tiepido.

Panforte
Il panforte è un dolce natalizio che ha origini molto antiche: le
prime testimonianze scritte risalgono infatti all’anno 1000. A
quel tempo veniva chiamato Pane Natalizio o Pane Aromatico
o Pan Pepatus. La sua preparazione era demandata agli

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speziali, farmacisti dell’epoca, ed era destinato esclusivamente
ai nobili, ai ricchi e al Clero, in considerazione del fatto che
conteneva, oltre alle conce di arancia, cedro e melone,
mandorle, droghe e spezie costosissime per quei tempi.
Con il passare delle generazioni, il panpepato non subì
sostanziali modifiche e gli ingredienti rimasero più o meno gli
stessi, fino al 1879, anno in cui la regina Margherita andò in
visita alla città di Siena. Per l’occasione uno speziale preparò
un panforte senza la concia di melone e con una copertura di
zucchero vanigliato anziché di pepe nero. I senesi lo offrirono
alla regina come “Panforte Margherita”, nome col quale
questo panforte “bianco”, più delicato, è ancor oggi noto e
commercializzato.

Ingredienti per sei persone:


160 gr di farina
150 gr di miele
150 gr di noci pelate
150 gr di mandorle pelate
150 gr di arancia candita
100 gr di cedro candito
1/2 cucchiaio di semi di coriandolo
cannella in polvere
noce moscata
15 ostie grandi
200 gr di zucchero a velo
10 gr di zucchero vanigliato

Tostare nel forno le noci e le mandorle, tritarle grossolanamente e


raccoglierle in una terrina con il cedro e l’arancia canditi tagliati a
listarelle. Aggiungere il coriandolo, un pizzico di cannella e di noce
moscata e la farina, lasciandone da parte 3 cucchiai. Mettere lo zucchero
a velo, tenendone da parte 1 cucchiaio, in un tegame e cuocerlo con 1
cucchiaio d’acqua e il miele, mescolando. Toglierlo quindi dal fuoco e
unire la frutta, poi infarinando le mani, dare al composto una forma
rotonda e piatta, dello spessore di 2 cm. Foderare una tortiera con le ostie

292
e sistemarvi il panforte, livellando la superficie con un coltello inumidito.
Cospargerlo con lo zucchero a velo e la farina rimasti e cuocerlo in forno
già caldo a 150 °C per 30 minuti. Sfornare il dolce e rifilare le ostie con
una forbice. Cospargere la superficie con lo zucchero vanigliato, lasciar
raffreddare e servire.

Paris-Brest
Questo dolce è stato creato nel 1891 da Louis Durand,
pasticciere di Maisons-Laffitte, per commemorare la corsa
ciclistica Parigi-Brest-Parigi. La sua forma circolare infatti
rappresenta una ruota. Divenne popolare fra i ciclisti della
corsa solo in parte, per via del suo largo apporto energetico,
ma in seguito si diffuse ampiamente nelle pasticcerie di tutta la
Francia.

Ingredienti per sei persone:


Per la pasta choux
25 cl di latte
80 gr di burro con un pizzico di sale
4 uova
150 gr di farina

Per la decorazione
1 tuorlo d’uovo
pralinato

Per la crema al pralinato


2 albumi
125 gr di zucchero
100 gr di pralinato
100 gr di burro

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Preparare la pasta choux: versare il latte e il burro a pezzetti in una
padella e portate a ebollizione. Poi togliere dal fuoco e aggiungere la
farina tutta in una volta mescolando velocemente con una spatola.
Lavorate l’impasto fino a quando si forma una palla liscia. Poi rimettere
l’impasto sul fuoco basso per far asciugare la pasta ed eliminare l’umidità
in eccesso. Quando si formerà una pellicola sul fondo della pentola,
togliere la pasta e metterla in una ciotola poi aggiungere l’uovo. Mescolare
bene con una spatola finché l’uovo non sarà incorporato. Fare lo stesso
con le altre uova incorporandole una ad una. Su un foglio di carta da
forno disegnare un cerchio di 20 cm di diametro. Posizionare la carta su
una teglia da forno e con una tasca da pasticcere formare un cerchio di
pasta. Spennellare la parte superiore con il tuorlo d’uovo e cospargere con
pralinato. Cuocere per 35 minuti. Nel frattempo, preparare la crema.
Montare gli albumi a neve. Fare uno sciroppo denso aggiungendo poca
acqua allo zucchero. Versare l’acqua bollente sugli albumi, mescolando
con una frusta fino al completo raffreddamento. Lavorare il burro con il
pralinato e aggiungere agli albumi, poi mescolare bene. Infine mettere la
crema in un sac à poche. Quando la pasta choux sarà cotta, toglierla dal
forno e lasciarla raffreddare. Poi tagliare la torta a metà
longitudinalmente, cospargere con la crema al pralinato poi chiudere con
la metà superiore. Spolverare con lo zucchero a velo e conservare in
frigorifero prima di servire.

Parrozzo
Il parrozzo fu ideato e preparato nel 1920 da Luigi D’Amico,
titolare di un laboratorio di pasticceria a Pescara. D’Amico
ebbe l’idea di fare un dolce dalle sembianze di un pane rustico
anche detto pane rozzo (da cui è poi derivato il nome “Pan
rozzo”), che era una pagnotta semisferica che veniva preparata
dai contadini con il granoturco e destinata a essere conservata
per molti giorni. D’Amico fu ispirato dalle forme e dai colori
di questo pane e riprodusse il giallo del granoturco con quello
delle uova, alle quali aggiunse la farina di mandorle; invece, lo

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scuro colore dato dalla bruciatura della crosta del pane cotto
nel forno a legna fu sostituito con la copertura di cioccolato.
La prima persona alla quale Luigi D’Amico fece assaggiare il
parrozzo fu Gabriele d’Annunzio, che, estasiato dal nuovo
dolce, scrisse il madrigale La Canzone del Parrozzo: “È tante
‘bbone stu parrozze nove che pare na pazzie de San Ciattè,
c’avesse messe a su gran forne tè la terre lavorata da lu bbove,
la terre grasse e lustre che se coce… e che dovente a poche a
poche chiù doce de qualunque cosa doce…”

Ingredienti per sei persone:


110 gr di farina
110 gr di fecola
160 gr di burro
120 gr di mandorle
25 mandorle amare
10 uova
300 gr di cioccolato di copertura fondente
250 gr di zucchero

Sbollentare le mandorle in acqua in ebollizione e pelarle. Metterle nel


mortaio e pestarle finemente con 20 gr di zucchero. Lavorare i tuorli con
lo zucchero rimasto, fino a ottenere un composto soffice e spumoso. Unire
i due tipi di mandorle, farvi cadere a pioggia la farina, la fecola e infine
140 gr di burro, fuso e freddo.
Montare gli albumi a neve e incorporarli delicatamente al composto, poi
versarlo in una tortiera imburrata e livellare la superficie con una
spatola. Far cuocere il parrozzo nel forno caldo a 180 °C per 40 minuti,
sformarlo e lasciarlo raffreddare. Tritare grossolanamente il cioccolato e
farlo sciogliere in una casseruola a fuoco bassissimo, versarlo sulla torta e
stenderlo uniformemente sulla superficie e sui lati. Sistemare il parrozzo
su un piatto e servire.

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Pastiera napoletana
La leggenda, che vuole la sirena Partenope creatrice di questa
delizia, deriva probabilmente dalle feste pagane e dalle offerte
votive del periodo primaverile. In particolare la leggenda è
probabilmente legata al culto di Cerere le cui sacerdotesse
portavano in processione l’uovo, simbolo di rinascita che
passò nella tradizione cristiana. La ricetta attuale fu
perfezionata proprio nei conventi e divennero celebri le
pastiere delle suore del convento di San Gregorio Armeno, a
Napoli.
Esiste anche una leggenda più realistica, che narra che dei
pescatori, a causa di un improvviso maltempo, rimasero in
balia delle onde per un giorno e una notte. Una volta riusciti a
rientrare a terra, a chi domandasse loro come avevano potuto
resistere in mare così tanto tempo, risposero che avevano
potuto mangiare la Pasta di Ieri, fatta con ricotta, uova, grano e
aromi. Per questo motivo la pastiera iniziò a essere simbolo di
rinascita, oltre che per gli ingredienti, perché aveva dato una
seconda vita a questi quattro pescatori partenopei.

Ingredienti per dieci persone:


400 gr di farina
200 gr di zucchero
100 gr di burro
100 gr di strutto
4 tuorli
1 limone (scorza)

Per il grano
600 ml di latte
230 gr di grano bagnato
1 cucchiaio di zucchero
40 gr di strutto
1 bustina e 1/2 di vanillina
1/2 arancia (scorza)

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Per il ripieno
320 gr di ricotta
230 gr di zucchero
100 gr di canditi
cannella
4 uova
2 fialette di acqua di fiori d’arancio
zucchero a velo

Raccogliere in un tegame il grano, il latte, lo zucchero, lo strutto, la


vanillina e la scorza d’arancia e cuocere a fuoco basso per alcune ore, fino
a ottenere un composto cremoso. Nel frattempo preparare la pasta frolla.
Impastare la farina con lo zucchero, lo strutto, il burro, i tuorli e la
scorza di limone. Formare una palla e lasciarla riposare per 30 minuti
in frigorifero, avvolta in un foglio di pellicola trasparente. Preparare il
ripieno. Lavorare la ricotta con lo zucchero, incorporare 1 tuorlo alla
volta, 1 fialetta d’acqua di fiori d’arancio, un pizzico di cannella, il
grano e i canditi. Ungere di burro una tortiera del diametro di 28 cm.
Dividere la pasta in due parti, di cui una grande il doppio dell’altra, e
stendere quest'ultima in un disco dello spessore di 2 mm, con cui foderare
la tortiera. Montare a neve 3 albumi, incorporali al ripieno con un
movimento dal basso verso l’alto ed eventualmente unire la seconda
fialetta di acqua di fiori d’arancio. Distribuire il ripieno sulla base di
pasta frolla e pareggiarlo. Stendere la pasta rimasta su un foglio di carta
da forno, in un rettangolo lungo quanto il diametro della tortiera. Con
un coltello segnare sulla pasta tante strisce larghe 2 cm, poi tagliare lungo
i segni anche la carta da forno, lasciandovi sopra le strisce di pasta
corrispondenti. Prendere una striscia e, rivoltandola, metterla al centro
della torta, dove il diametro è maggiore, quindi togliere delicatamente la
carta. Posare una seconda e una terza striscia parallelamente alla prima,
disponendole a circa 3 cm dai due lati di quella centrale. Disporre quindi
le restanti strisce perpendicolarmente, formando un reticolato che lasci
scoperte alcune losanghe di ripieno. Cuocere la pastiera nel forno già caldo
a 150 °C per 50 minuti circa, o finché, inserendovi uno stecchino, ne
uscirà asciutto e la pasta sarà lievemente colorita. Far raffreddare
completamente la pastiera, sformarla e cospargerla di zucchero a velo.

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Va comunque ricordato che la pastiera migliora se fatta riposare per 3
giorni o più, incartata, a temperatura ambiente.

Pavlova
La pavlova è una torta tipica della Nuova Zelanda e
dell’Australia.
Questo dolce sarebbe stato creato nel 1926 dallo chef di un
hotel di Wellington, in Nuova Zelanda, e così chiamato in
onore della ballerina russa Anna Pavlovna Pavlova (1881-
1931). L’attribuzione dell’invenzione tuttavia non è così certa:
alcune ricerche suggeriscono infatti che possa essere nata in
Australia nello stesso periodo, ferma restando la dedica al
nome della ballerina, che allora era in tour nei due Paesi.

Ingredienti:
4 albumi
220 gr di zucchero semolato extrafine
16 gr di amido di mais
10 ml di aceto bianco/aceto di mele
1 cucchiaino di estratto di vaniglia
350 ml di panna fresca
35 gr di zucchero semolato
250 g di frutta fresca

Separare i tuorli dagli albumi Preriscaldare il forno a 150 °C. Iniziare


a montare gli albumi con l’ausilio di una frusta e quando cominciano a
gonfiarsi aggiungere circa 100 gr di zucchero. Una volta assorbito,
aggiungere il resto della dose di zucchero (in tutto 220 gr), un cucchiaio
alla volta, e continuare a montare fino a ottenere una meringa stabile e
lucida. Aggiungere l’amido di mais setacciato e l’aceto di mele e lasciarlo
incorporare; basteranno pochi secondi. Recuperare uno strappo di carta
da forno, bagnargli leggermente i bordi e tracciare il contorno di un
cerchio da 18 cm di diametro. Girare il foglio e porlo su una teglia

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rettangolare. Disporre la meringa cercando di stare nei bordi e livellando
con il dorso di un cucchiaio. Abbassare la temperatura del forno a 120
°C e far cuocere la meringa per 1 ora e 20 minuti. Lasciar raffreddare in
forno socchiuso, incastrando un cucchiaio di legno nello sportello.
Una volta cotta si presenta croccante all’esterno e morbida all’interno.
Guarnirne la cima con panna montata e frutta fresca a scelta.

Pere Belle Hélène


Questo dessert è dedicato alla più celebre Elena di tutta la
mitologia: Elena di Troia. Le Poires Belle Hélène sono state
ideate da Auguste Escoffier per commemorare la prima
dell’operetta “La Belle Hélène” di Jacques Offenbach, data al
Théâtre des Variétés di Parigi il 17 dicembre 1864. L’opera
conteneva una satira della vita politica francese: intendeva
infatti mettere in ridicolo coloro che in quel tempo volevano
mettere le mani su Parigi. Non a caso il protagonista maschile
era Paride (in francese “Paris”) che riusciva a ottenere con
l’aiuto degli dei una notte d’amore con la bella Elena, moglie
di Menelao, che proprio per questo affronto scatenerà la
guerra di Troia.

Ingredienti per quattro persone:


4 pere mature
200 gr di zucchero
1 stecca di vaniglia
1 limone

Per la salsa
200 gr di cioccolato fondente
30 gr di zucchero (facoltativo)
50 ml di panna
20 gr di burro

299
In un tegame far sciogliere lo zucchero in 200 ml di acqua a fuoco basso
e cuocere fino a ottenere uno sciroppo denso. Sbucciare le pere lasciando il
picciolo intatto. Spruzzare con il succo di limone per non farle annerire.
Mettere le pere e la stecca di vaniglia nello sciroppo, cuocere per 15
minuti a fuoco basso (non devono bollire), fino a che siano morbide e
trasparenti. Lasciarle raffreddare nello sciroppo. Preparare la salsa al
cioccolato sciogliendo il cioccolato spezzettato a fuoco bassissimo con il
burro e la panna. Scolare le pere e irrorarle con la salsa al cioccolato. A
piacere servirle in coppa accompagnate da gelato alla vaniglia.

Pesca Melba
“Ripensando al maestoso cigno mitico che apparve nel primo atto del
Lohengrin, le feci servire, al momento opportuno, delle pesche disposte su
di un letto di gelato alla vaniglia, all’interno di una coppa d’argento
incastrata tra le ali di un superbo cigno scolpito in un blocco di ghiaccio e
ricoperto da un velo di zucchero filato.
L’effetto prodotto fu sorprendente e la signora Melba si mostrò
estremamente colpita dalla mia attenzione.” Scriveva Escoffier nelle
sue memorie. Nellie Melba era il nome d’arte della cantante
lirica australiana Helen Porter Mitchell (1861-1931), molto
ammirata dallo chef francese, tanto da averle dedicato questo
dessert, che servì probabilmente la prima volta al Carlton
Hotel di Londra nel 1906.

Ingredienti per sei persone:


6 mezze pesche sciroppate
200 gr di lamponi
1 stecca di vaniglia
1 cucchiaio di kirsch
250 ml di panna
600 gr di gelato alla vaniglia
60 gr di mandorle tritate
100 gr di zucchero

300
Lavare i lamponi in acqua ghiacciata e tenerne da parte qualcuno per la
guarnizione. Schiacciare i lamponi rimasti e cuocerli a fuoco moderato in
una casseruola con lo zucchero e la stecca di vaniglia per 5 minuti. Poi
toglierli dal fuoco, aggiungere il kirsch e mescolare delicatamente.
Montare la panna ben ferma; disporre un poco di gelato alla vaniglia sul
fondo di 6 coppette individuali e adagiarvi sopra mezza pesca sciroppata
sgocciolata. Aggiungere una grossa palla di gelato, ricoprire con la salsa
di lamponi preparata, dalla quale si avrà eliminato la vaniglia,
completare con la panna montata, mandorle tritate e i lamponi tenuti da
parte, quindi servire.

Helen Porter Mitchell, in arte Nellie Melba

301
Plum pudding
Questo dolce trae origine probabilmente da cibi a base di
carne e frutta quali il porridge e la zuppa medievale.
Pare che in Inghilterra fosse ampiamente diffuso già nel XVI
secolo. Fu in seguito abolito assieme al mince pie in seno alle
battaglie condotte dai Puritani contro il Natale.
Col ritorno alla piena legalità, nel XIX secolo, la pietanza fu
adottata nella propria tavola dalla regina Vittoria, divenendo
così - come testimoniato, tra l’altro, nel Canto di Natale di
Charles Dickens - il principale dessert natalizio inglese.
Nel 1858 fu citato per la prima volta con il nome di Christmas
pudding in un racconto di Anthony Trollope.

Ingredienti per quattro persone:


150 gr di farina
200 gr di grasso di rognone
200 gr di mollica rafferma
500 gr di uva passa
150 gr di buccia d’arancia, di limone, di cedro candite
200 gr di frutta secca tritata
100 gr di mandorle tritate
150 gr di zucchero di canna
5 uova
1/2 bicchiere di birra
2 dl di rum o cognac
1 cucchiaino di sale
1 cucchiaiata di melassa
1 cucchiaino di zenzero in polvere
1 pizzico di noce moscata

Passare al tritatutto il grasso di rognone e la mollica di pane. Lavare e


mondare dei semi le uvette, quindi tritarle insieme alle bucce candite.
Versare in una terracotta l’impasto incorporando la farina, le mandorle,
le spezie, il sale, lo zucchero. Amalgamare ben bene con la birra, la
melassa e il liquore, lasciando macerare il tutto per una settimana. Ogni
giorno la pasta verrà rimescolata e richiusa con un coperchio. In capo a

302
questa prima fase (di una settimana o poco meno) al composto
aromatizzato e ben macerato, si uniscono le uova. Quindi, spalmata di
burro la tortiera a bordi alti, e versandovi il pudding, lo si ricopre con un
foglio di carta (anch’esso imburrato). Tortiera e dolce, saranno avvolti e
chiusi in un telo. Procedere allora alla fase finale: la cottura dell’involto a
bagnomaria, nell’acqua appena a bollore, per 4-5 ore. Ritratto dal telo e
messo a intiepidire, il dolce va rovesciato su un piatto. Immediatamente
prima di servirlo, viene spolverizzato di zucchero di canna e innaffiato di
rum o cognac caldi, per poterlo infiammare in tavola.
Si serve solitamente con panna liquida o crema al cognac.

Profiteroles
L’origine dei profiteroles è probabilmente da attestarsi alla
corte di Caterina de’ Medici, sposa di Enrico II di Valois:
l’artefice della pasta choux, con cui sono realizzati, fu infatti il
capo pasticcere mediceo Penterelli, perfezionata dal suo
successore Popelini. Fu però solo verso l’inizio del XIX
secolo che la ricetta prese il nome di pasta choux, perfezionata
con le farciture di crema pasticciera o crema chantilly da Jean
Avice e Marie-Antoine Carême, presentata in bignè a
“montagnetta” guarniti di caramello (croquembouche) o ricoperti
di cioccolata (profiteroles).
A Firenze il dolce è chiamato “bongo”, confermando l’origine
diversa da quella francese, a cui certi lo fanno risalire.
I profiteroles sono utilizzati anche come guarnizione per la
torta Saint Honoré.
La parola (anche ortografata prophitrole, profitrolle, profiterolle)
esiste dal XVI secolo, ma il suo significato originale sia in
inglese che in francese non è chiaro, anche se in seguito ha
assunto il significato di una specie di panino “cotto sotto la
cenere”. L’attuale significato è attestato chiaramente, come
detto prima, solo dal XIX secolo. Un’altra origine del nome
potrebbe essere quella di profit, in francese “profitto”.

303
Ingredienti per otto persone:
250 ml di acqua
100 gr di burro
1 pizzico di sale
150 gr di farina
1 cucchiaino di zucchero
4 uova
300 ml di crema chantilly

Per la glassa
200 gr di cioccolato fondente
2 cucchiai di burro
200 ml di latte
100 gr di zucchero

Far bollire l’acqua, il burro e il sale; spegnere il fuoco, aggiungervi la


farina e lo zucchero; amalgamare il composto, accendere nuovamente il
fuoco e continuare a mescolare finché il composto non si stacchi dalle
pareti del tegame. Lasciare intiepidire a fuoco spento. Aggiungere un
uovo alla volta, mescolando bene prima di aggiungere il successivo.
Mescolare l’impasto finché non diventi corposo. Foderare una placca da
forno con della carta forno. Mettere il composto in un sac à poche e
formare delle palline ben distanziate. Infornare a 180 °C per mezz’ora.
Preparare la crema chantilly. Lasciare raffreddare i bignè e forarli con un
coltello. Mettere la chantilly in un sac à poche e riempirli. Preparare la
glassa sciogliendo il cioccolato e il burro in un pentolino. Aggiungere il
latte e lo zucchero e mescolare a fuoco lento per 5 minuti. Far intiepidire
la glassa e immergervi i bignè. Disporre poi i profiteroles a formare una
piramide. Infine porli in frigorifero fino a 15 minuti prima di servire.
Decorare con panna montata.

304
Red Velvet
Esistono varie teorie sulla nascita e l’origine di questa torta,
detta anche Torta Walford o Devil’s food cake proprio per il
riferimento al colore rossastro.
Le più diffuse leggende metropolitane sono due. La prima
narra che la Red Velvet Cake venisse servita intorno agli anni
‘20 del secolo scorso presso il ristorante del prestigioso
Walford Astoria Hotel di New York e che una misteriosa
donna l’abbia assaggiata e ne fosse rimasta particolarmente
colpita. Quindi rientrando, a San José, una cittadina a sud di
San Francisco, dove viveva, si mise in contatto con il
ristorante per avere dallo chef la ricetta della torta. La richiesta
della signora venne soddisfatta, ma insieme alla ricetta arrivò
anche un conto di ben 350 dollari. La signora, sbigottita per
l’accaduto, si rivolse ad un legale perché riteneva l’importo da
pagare esoso e inadeguato, ma l’avvocato, pur comprendendo
il disappunto della cliente, le comunicò che doveva comunque
farsi carico della soccombenza di tale spesa poiché unitamente
alla richiesta di avere la ricetta non aveva chiesto
anticipatamente se ci sarebbe stato o meno un costo da pagare
per il servizio richiesto. Dunque, la donna, per pareggiare il
conto salato che aveva dovuto pagare, pensò di trascrivere la
ricetta su dei fogli di carta e poi una mattina salì su un autobus
e cominciò a distribuire a tutti i presenti la ricetta della red
velvet e raccontò di come ne fosse venuta in possesso. Fu così
che la torta divenne popolare…
La seconda leggenda fa riferimento, invece, a un certo John
Adams, la cui famiglia era titolare dell’omonima società di
coloranti alimentari. Durante la Grande Depressione l’azienda
ebbe anch’essa un rovinoso crollo finanziario. John pensò, per
risollevare le sorti della società, di far ricorso a dei manifesti
che riproducevano una torta color cremisi che si poteva
realizzare utilizzando il colorante alimentare rosso Adams e
pensò di collocare gli stessi in tutti i negozi di generi alimentari
del Midwest, promettendo di regalare la ricetta della torta a chi
avesse acquistato due bottiglie del colorante.

305
Ma le più accreditate origini di questa torta sembrano risalire a
molto tempo prima. Infatti essa è molto diffusa e rinomata nei
libri di cucina della comunità nera d’America. In particolar
modo nel Sud e nel Midwest. E’ il dolce per eccellenza che
viene preparato in occasione della festa di “Juneteenth”, una
ricorrenza che celebra la fine della schiavitù. Il 1° Gennaio del
1863 il presidente Abraham Lincoln firmò il “Proclama di
Emancipazione” per rendere liberi ed emancipati tutti gli
uomini ridotti in schiavitù. Gli effetti di questo
provvedimento, però, ebbero risonanza soltanto qualche
tempo dopo e precisamente il 19 Giugno 1865, due mesi dopo
la fine della guerra civile. Da allora gli ex schiavi e i loro
discendenti continuano a festeggiare l’anniversario della loro
libertà il 19 Giugno di ogni anno con la festa di “Juneteenth”.
Durante questa ricorrenza oltre alla red velvet vengono portati
anche altri cibi di colore rosso perché quest’ultimo
simboleggerebbe il sangue versato durante la guerra civile e
dagli schiavi…
Inizialmente il colore rosso era dato da una reazione chimica
tra il cacao e il latticello (ingrediente acido) contenuto
nell’impasto; oggi viene aggiunto del semplice colorante
alimentare rosso.

Ingredienti:
350 gr di farina

250 gr di zucchero

150 gr di burro

3 uova

5 cucchiai di colorante rosso

250 gr di latticello o yogurt bianco intero

1 cucchiaino di aceto di mele

1 cucchiaino di bicarbonato

1 cucchiaio di estratto di vaniglia

15 gr di cacao amaro

1 cucchiaio di aceto bianco

1 cucchiaino di sale


306
Per la crema
500 ml di latte

400 gr di zucchero

350 gr di burro

50 gr di farina

1 cucchiaino di estratto di vaniglia

Setacciare la farina insieme al cacao e a un pizzico di sale: lavorare


quindi il burro con lo zucchero fino a quando assumerà una consistenza
spumosa e soffice. Unire al burro le uova e continuare a lavorare
l’impasto, aggiungendo quindi il colorante rosso e il latticello o lo yogurt
bianco. Lavorare gli ingredienti con una frusta: quando saranno ben
amalgamati munirsi di cucchiaio di un legno o una spatola e incorporare
al composto burroso la miscela di farina e cacao, mescolando dal basso
verso l’alto. In una ciotola mettere il bicarbonato e versarvi l’aceto bianco,
mescolarlo bene e unirlo all’impasto continuando a mescolare. Imburrare
una teglia tonda, versarvi l’impasto e infornare a 180 °C per circa 35
minuti. Mentre la torta cuoce in forno preparare la crema: versare il latte
in un pentolino e unirvi la farina setacciata. Far scaldare la crema
continuando a mescolarla con una frusta: lasciare sobbollire per circa 10
minuti senza smettere mai di mescolare. Far quindi raffreddare la crema
e nel frattempo lavorare il burro con lo zucchero e la vaniglia: bisognerà
mescolare fino a ottenere una crema soffice e morbida. Unire quindi le
due creme e si otterrà la crema al latte e burro per farcire e coprire la Red
Velvet. Lasciare raffreddare la base della torta e tagliarla
orizzontalmente in tre parti uguali: usare la crema per farcire tra uno
strato e un’altro e, usando una spatola, rivestire completamente di crema
bianca. Lasciare riposare per 10 minuti in frigorifero prima di servire.


Savoiardi
L’origine dei biscotti Savoiardi è fatta risalire al 1348 quando
furono creati dai pasticceri della corte del Duca Amedeo IV
di Savoia, per omaggiare la visita del re di Francia.

307
Sono conosciuti in tutte le regioni italiane che hanno subito
l’influenza dei Savoia.
Di seguito i nomi con cui sono conosciuti nel resto del
mondo: biscuits à la cuillère (Francia); bizcochos de soletilla
(Spagna); lady fingers, sponge-fingers, trifle sponges o boudoir cookies
(Regno Unito); biscoitos de champanhe (Portogallo e Brasile);
boudoir biscuits ( S u d A f r i c a ) ; latifeh ( I r a q ) ; löffelbiskuit
(Germania); bebi piškoti (Slovenia); piškote/i (Serbia e Croazia);
broas (Filippine); vainillas (Argentina); galletas de champaña (Cile);
biskotte (Austria).

Ingredienti:
90 gr di farina
25 gr di zucchero a velo
3 uova
20 gr di burro
100 gr di zucchero
sale

Sbattere in una terrina 3 tuorli con lo zucchero; quando il composto sarà


ben montato unire un pizzico di sale e 75 gr di farina precedentemente
setacciata. Montare a neve ben soda gli albumi poi unirne una manciata
al composto già preparato mescolando energicamente; quindi aggiungere
poco per volta il rimanente albume facendo attenzione a non smontarlo.
Versare il composto in una tasca da pasticciere con bocchetta liscia;
premendola riempire le scannellature di un’apposita placca per savoiardi
leggermente imburrate e cosparse di farina. Spolverizzare il composto con
dello zucchero mescolato allo zucchero a velo. Lasciar riposare per circa
10 minuti affinché la pasta assorba lo zucchero, quindi spolverizzarla di
nuovo. Dopo due minuti mettere la placca in forno caldo a 180 °C e
lasciarla fino a quando i biscotti avranno preso il classico colore oro
pallido. Staccarli e porli a raffreddare su una gratella da pasticceria.

308
Sbrisolona
Questo dolce mantovano nacque nelle campagne, in cui
abbondava la farina di mais. La torta risultava particolarmente
dura quando per impastarla, in carenza di burro o strutto,
veniva usato un esiguo quantitativo di grasso derivato
dall’acqua di cottura del cotechino o dalla schiumatura del
brodo.
Nonostante la sua origine popolare, intorno al ‘600 giunse
sulle tavole dei Gonzaga e assunse al rango di dolce
aristocratico, con l’aggiunta di zucchero, spezie e mandorle.
Era detta “torta delle tre tazze”, in quanto era preparata
utilizzando lo stesso quantitativo, misurato in tazze, di farina
di mais, farina bianca e zucchero.

Ingredienti per una teglia rettangolare da 35 per 25 cm:


200 gr di farina di mais fioretto
200 gr di farina tipo 00
180 gr di zucchero
200 gr di mandorle con la buccia
110 gr di strutto
90 gr di burro
2 tuorli d’uovo
1 pizzico di sale
la buccia grattugiata di 1 limone

Tritare grossolanamente 150 gr di mandole con poco zucchero e unirle al


resto dello zucchero, al sale e alle due farine, creando un composto
miscelato in modo omogeneo. Aggiungere i due tuorli, la buccia di limone,
il burro e lo strutto e lavorare l’impasto fino a ottenere una consistenza
granulosa. Imburrare una grossa teglia e distribuirvi sopra l’impasto,
mantenendone i “grumi” senza appiattire o uniformare la superficie, a
uno spessore di circa 2 centimetri. Cospargerlo con i 50 gr di mandorle
rimanenti, incastrandole nella pasta e infornare a 180 °C per 40
minuti. Dopo circa 20 minuti, coprire la superficie con un foglio di
alluminio onde evitare che le mandorle brucino.

309
Seadas
Il dolce, chiamato nelle diverse varianti linguistiche della
Sardegna: seada, sebada, seatta, sevada, sabada, casgiulata, ha un
nome che pare derivi dalla parola latina sebum, ed è così
chiamato per il suo aspetto untuoso, o anche perché in sardo
si chiama seu il grasso animale.
E’ un dolce diffuso in tutto il territorio regionale e
principalmente dove prevale l’economia pastorale. Nell’isola,
oggi, che si traduce la lingua locale in italiano, ha perso il
singolare e ogni ristorante, pur servendo un dolce individuale,
scrive sul menù al plurale: “seadas - sebadas”.
Oggi è un dolce che si trova in offerta in ogni stagione e
tempo, mentre un tempo era confezionato, in prevalenza, per
le feste pasquali. Veniva preparato principalmente con
formaggio fresco di pecora inacidito e in alcune zone anche
con formaggio vaccino. Assumeva forme rotonde grandi
come un piatto e più diffusamente in forme rotonde o
quadrate per piccole porzioni individuali. Potevano essere
preparazioni dolci, perché insaporite, dopo la frittura, con
miele e raramente anche con zucchero, oppure salate.
La seada è un dolce che ha molte similitudini in ricette del
mondo antico. Già Catone il Censore nel suo libro “De Agri
coltura” cita una ricetta che chiama Placenta, che risulta essere
un dolce fatto con una sfoglia di farina impastata con acqua e
formaggio di pecora fresco, ammollato nell’acqua e mescolato
col miele. In un’altra ricetta chiamata Globi, il formaggio
fresco veniva fritto nello strutto e condito con miele
Nel romanzo del mondo classico Satyricon di Petronio, è infine
descritta una pietanza che Trimalcione offre dopo un funerale,
fatta con farina e formaggio intriso di miele.

Ingredienti per quattro persone:


200 gr di farina
1 cucchiaio di strutto
olio per friggere

310
Per il ripieno
200 gr di formaggio fine sardo
100 ml di Filo di Ferro (Grappa sarda)
1 limone
1 arancia

Per la guarnizione
zucchero a velo
200 gr di ranzico (miele di castagno)

Mettere in una terrina il formaggio fine sardo grattugiato, unire le scorze


degli agrumi, lavate, asciugate e finemente grattugiate, il liquore e
lavorare bene il tutto con un cucchiaio di legno, ottenendo un composto
liscio e morbido. Impastare la farina con 3 cucchiai di acqua calda,
aggiungendo, poco alla volta, lo strutto. Quando la pasta sarà diventata
elastica, tirarla con il matterello in una sfoglia sottile e ricavarne dei
dischi di circa 12 cm di diametro. Su metà dei dischi distribuire 1
cucchiaio di impasto al formaggio e coprirli con gli altri dischi, pressarli
lungo i bordi con le mani e rifinirli con la rotella dentellata. Tuffare i
dischi in una pentola con abbondante olio bollente, friggerli, sgocciolarli
su carta assorbente da cucina affinché perdano l’unto in eccesso, coprirli
con il miele scaldato e cospargerli di zucchero a velo. Servirli ben caldi.

Soufflé Rothschild
James Rothschild, inviato dal padre a Parigi a soli vent’anni,
aprì in poco tempo una Banca di gran successo: le “Freres de
Rothchild”, che prestava i soldi ai Governi, investiva in
miniere e in ferrovie e faceva della Francia un Paese ad alta
vocazione industriale. Doveva forse essere destino che
Rothschild e lo chef Carême, due “Enfant Prodige” ciascuno
nel proprio settore, si incontrassero e si capissero. James fu
anche un grande e intelligente protettore delle arti e capì
subito che quella di Marie Antoine era una grande arte, in

311
continua evoluzione.
Fra i tanti piatti dedicati da Carême a James Rothchild, vi è
l’omonimo soufflé: con questa ricetta e un “esprit” tutto
parigino, il cuoco si divertì a prendere garbatamente in giro il
grande banchiere, inserendo nella preparazione anche il
Danziger Goldwasser, un liquore in suo onore, che conteneva
foglie d’oro…

Ingredienti per sei persone:


200 ml di latte
50 gr di zucchero + q.b. per lo stampo
30 gr di fecola
20 gr di burro + q.b. per lo stampo
7 uova
1 albume
3 cucchiai di canditi misti
fragoline di bosco
ciliegie candite

Togliere 1/2 bicchierino di latte e mettere a bollire il resto. Diluire la


fecola nel latte freddo e unire, a filo, quello caldo. Portare di nuovo a
ebollizione mescolando sempre con una frusta e togliere subito dal fuoco.
Aggiungere il burro, i canditi misti tagliati a dadini e, uno per volta, i
tuorli sbattendo bene dopo ogni aggiunta. Montare gli albumi a neve ben
ferma e unirli delicatamente al composto con i canditi usando una spatola
e mescolare delicatamente dall’alto verso il basso. Versare in uno stampo
da soufflé da 1500 ml, precedentemente imburrato e cosparso di zucchero.
Far cuocere in forno già caldo a 190 °C per 25 minuti. A cottura
ultimata disporre rapidamente in bordura una corona di fragoline di
bosco intercalate con ciliegie candite.

312
Stollen
La prima notizia documentata di questo dolce natalizio
tedesco risale al 1329 a Naumburg, mentre al 1474 risale la
prima citazione della ricetta nella città di Dresda: da allora la
città e il dolce sono indissolubilmente legati e il Dresdner Stollen
(Stollen di Dresda) è oggi coperto da indicazione geografica
protetta.

Ingredienti:
750 gr di farina
sale
50 gr di lievito
1/8 di l di latte
200-250 gr di burro
50-80 gr di burro (da spalmare sulla teglia)
150 gr di zucchero
1-2 tuorli d’uovo
100 gr di limone candito e arancia candita
4 mandorle amare
50 gr di mandorle dolci
buccia di limone
cannella
100 gr di uva sultanina
50 gr di acini d’uva
3 cucchiai di rum
zucchero a velo

Preparare la pasta lievitata. Quando questa si è alzata aggiungere le


uova, il latte, lo zucchero e il burro sciolto. Impastare molto bene fino a
quando la pasta sarà fine e flessibile. A questo punto tritare e
sminuzzare il limone candito e l’arancia candita, bollire le mandorle e
l’uva sultanina e impastare il tutto. La pasta deve essere solida e bisogna
aspettare che lieviti bene; poi darle una forma allungata e renderla più
sottile usando il matterello e metterla sulla teglia, sulla quale saranno
stati spalmati circa 50-80 gr di burro. Con un po’ d’acqua fredda,
accavallare una parte della pasta in modo che lo stollen assuma la sua

313
forma caratteristica. Lasciare che lo stollen si alzi all’interno della teglia,
spalmarlo con burro, cuocerlo al forno con cautela a una temperatura
media, spalmarlo un’altra volta con burro e ancora caldo cospargerlo con
zucchero a velo. Tempo di cottura: un’ora e mezza circa. E’ importante
ricordare che dopo averlo cotto dovrà essere messo in un luogo a
temperatura ambiente e lasciato “maturare” per 10-15 giorni: dopo
potrà essere finalmente gustato in tutta la sua bontà.

Strudel
Lo strudel ha una ricetta che parte addirittura dall’VIII secolo
a.C., ovvero al tempo degli Assiri; simili dolci si ritrovano
anche nell’Antica Grecia del III secolo a.C.. Probabilmente,
anche grazie alla via della seta, la ricetta si è molto diffusa
andando però a modificare quella originale in diverse varianti:
baklava, güllaç, börek e strudel.
Lo strudel deriva quindi da una serie di nomi, forme e luoghi
differenti; uno dei suoi padri più accreditato è l’antico dolce
baklava turco, che seguiva le varie conquiste territoriali
ottomane; dal 1526 il sultano Solimano il Magnifico avrebbe
diffuso questo dolce nei territori conquistati, ovvero fino
all’Ungheria.
Dall’impero austro-ungarico, lo strudel giunse poi al regno
delle Tre Venezie. In Italia, infatti, tradizionalmente, viene
preparato nei territori un tempo compresi nell’Impero,
principalmente Alto Adige, Trentino, Veneto e Friuli Venezia
Giulia.

Ingredienti per sei persone:


270 gr di farina
50 gr di burro
1 cucchiaino di zucchero
1 uovo
sale

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Per il ripieno
100 gr di burro
1 kg di mele renette
100 gr di zucchero
80 gr di uva sultanina ammollata
50 gr di pinoli
50 ml di brandy
2 cucchiai di pangrattato
1 pizzico di cannella
1 limone (scorza)

Impastare 250 gr di farina con un pizzico di sale, lo zucchero, 5/6


cucchiai d’acqua tiepida, l’uovo e il burro. Formare una palla, avvolgerla
in un telo infarinato, coprirla con una terrina e lasciarla riposare per 30
minuti. Preparare il ripieno. Sbucciare le mele, eliminate il torsolo e
tagliarle a fette, metterle a bagno nel brandy; rosolare il pangrattato con
40 gr di burro, mescolare la scorza del limone con la cannella e lo
zucchero. Stendere la pasta su un telo infarinato, ricavare un disco dello
spessore di mezzo centimetro. Spennellare la sfoglia con poco burro fuso e
distribuire sopra il pangrattato e poi le mele, l’uva sultanina, i pinoli, il
misto di zucchero, scorza di limone e cannella, lasciando liberi 2 cm ai
bordi. Arrotolare lo strudel su se stesso, chiudendolo bene, e trasferirlo
sulla placca imburrata; far fondere il burro rimasto e spennellarlo sullo
strudel. Cuocere lo strudel nel forno già caldo a 180 °C per 50 minuti,
sfornarlo e lasciarlo intiepidire per poi servirlo.

Struffoli
Nonostante la loro tipicità, sembra che gli struffoli non siano
stati inventati a Napoli, ma che siano stati portati dai greci già
ai tempi della Magna Grecia. Peraltro, nella cucina greca esiste
ancora una preparazione simile, i loukoumades (ghiottonerie).
Un’ipotesi più probabile sull’origine degli struffoli è tuttavia di
derivazione spagnola. Esiste infatti, nella cucina andalusa, un

315
dolce estremamente simile agli struffoli, il piñonate, che
differisce dal dolce napoletano solo per la forma delle palline
di pasta, che sono più allungate. La parentela tra struffoli e
piñonate potrebbe risalire al lunghissimo periodo di vicereame
spagnolo a Napoli.
L’uso come dolce tipico natalizio sembra essere relativamente
recente, in quanto il ricettario del Crisci (1634) ne fa cenno ma
non specificamente in relazione al pranzo di Natale.
Il nome dello struffolo, ossia della singola pallina che
compone il dolce, deriverebbe dal greco, precisamente dalla
parola stróngylos, “di forma tondeggiante”.

Ingredienti per quattro persone:


100 gr di farina
80 gr di zucchero
4 uova
30 ml di olio d’oliva extravergine
4 cucchiai di rum
4 cucchiai di miele
1/2 bustina di lievito per dolci
1 cucchiaino di scorza di limone grattugiata
olio per friggere

Rompere le uova, versare i tuorli in una terrina e tenere da parte gli


albumi. Unire lo zucchero ai tuorli, sbatterli, quindi aggiungere l’olio e il
rum, lavorando con un cucchiaio di legno. Mescolare il lievito a 1
cucchiaio di farina e versarlo nel composto. Unire lentamente la farina
rimasta e, sempre mescolando per evitare che si formino grumi, la scorza
di limone. Montare a neve gli albumi e incorporarli al composto; far
riposare per 1 ora e 30 minuti. Scaldare abbondante olio in una padella
e quando sarà caldo, versare la pastella a cucchiai , facendo attenzione
che ciascun cucchiaio di composto sia distanziato dagli altri, perché gli
struffoli cuocendo aumentano di volume. Quando gli struffoli saranno ben
rigonfi e dorati estrarli con il mestolo forato e porli su carta assorbente da
cucina e lasciarli raffreddare. Versare in una casseruola il miele e
scaldarlo. Farlo sciogliere e versarlo sugli struffoli. Decorare e servire.

316
Tarte Tatin
Nata alla fine del XIX secolo nell’Hotel Tatin di Lamotte-
Beuvron, l a Tarte Tatin trae origine probabilmente dalla
distrazione di una delle due proprietarie, le sorelle Tatin.
Mentre Caroline si occupava di accogliere i clienti, Stephanie
gestiva la cucina dell’albergo: il suo cavallo di battaglia era la
torta di mele.
Il ristorante dell’Hotel Tatin era spesso frequentato da
cacciatori. Secondo la leggenda, una domenica in cui si apriva
la stagione della caccia, Stephanie bruciò per errore la sua torta
di mele: per non lasciare i cacciatori senza dessert, imburrò la
tortiera, la spolverizzò con dello zucchero, ci mise dentro le
mele e la infornò, ma si dimenticò proprio l’ingrediente base:
la pasta sfoglia. Sfornate le mele, per rimediare al danno e non
perdere tempo, le coprì con uno strato di pasta e completò la
cottura in forno. Le due sorelle riuscirono infine a servire la
loro torta di mele ai cacciatori, che apprezzarono molto la
nuova ricetta.
Pubblicata nel 1925 da Maurice Edmond Sailland, in arte
Curnonsky, e Marcel Rouff sul libro La France gastronomique.
Guide des merveilles culinaires et des bonnes auberges françaises, la
ricetta arrivò a Parigi. Fu poi il ristoratore Louis Vaudable,
proprietario del ristorante parigino Maxim’s, che la introdusse
nel suo locale, contribuendo alla diffusione di quello che oggi
è tra i dolci più amati e diffusi in Francia.
Henri Delétang, nel suo libro La tarte Tatin - Histoire et légendes,
ricorda però come la torta di mele o pere era all’epoca un
dolce molto diffuso e non è quindi certo che la Tarte Tatin sia
nata da un errore, ma piuttosto da una semplice e originale
rivisitazione…

Prendere un piatto di rame stagnato di circa 6 cm di profondità e


ricoprirlo di uno spesso strato di burro e di zucchero in polvere (circa 1
cm di spessore). Adagiarci sopra degli spicchi di mele, dei fiocchetti di
burro e dell’altro zucchero in polvere. Ricoprire il tutto con uno strato di
pasta dello spessore di un soldo. Cuocere in forno a una temperatura alta

317
per 20-25 minuti. Prima di sfornarla, controllare che la cottura sia
soddisfacente alzando un lembo della pasta. La torta è pronta quando la
frutta è dorata e lo zucchero un po’ caramellato. Ricoprire la torta con il
piatto in cui verrà servita e girare subito la torta con un movimento deciso
in modo che la frutta risulti in alto. Servire calda.

Questa è la ricetta originale della torta scritta dal poeta solognota


Paul Besnard nel 1921.

L'Hotel Tatin di Lamotte-Beuvron in una cartolina d'epoca

318
Tiramisù
I l tiramesù, più conosciuto nella dizione non dialettale come
tiramisù, è il dessert italiano più conosciuto nel mondo.
La leggenda dice che questo dolce appartiene alla più autentica
gastronomia asburgica, quella dei “dolci al caffè” che sono
patrimonio storico, almeno da alcuni secoli, della cucina
mitteleuropea che ha avuto la sua consacrazione a Vienna, a
Budapest e a Lubiana e, per quanto riguarda l’Italia, a Trieste,
importante crocevia del caffè e Venezia.
La possibilità che i dolci al caffè arrivassero anche a Treviso,
fin dai tempi più remoti molto legata a Venezia per cultura,
storia e tradizioni, essendone sempre stata il suo entroterra
favorito, è da considerare molto probabile e naturale.
Venendo alla storia, è ormai accertato che, già nel 1956, al
Ristorante Al Fogher di Treviso, nella lista dei dolci, trovava
posto la “coppa imperiale alla fogher” che riporta con i suoi
ingredienti, e per il nome, alla cucina asburgica. Quel dolce era
realizzato con quasi tutti gli ingredienti del tiramisù odierno
(caffè amaro, mascarpone, zucchero e tuorli d’uovo),
impiegando al posto dei biscotti savoiardi il pan di Spagna e il
cioccolato grattugiato invece del cacao amaro. Questo dolce al
cucchiaio, nel 1963, venne in seguito presentato dal Ristorante
Al Fogher come copa mascarpon al V Festival della Cucina
trevigiana. Questo dessert in coppa, quindi, era presente a
Treviso prima del vero tiramisù come lo si intende oggi.
La parola tiramesù, come termine dialettale, comparve per la
prima volta nel menu del Ristorante Alle Beccherie, situato nel
cuore di Treviso, gestito nel secondo dopoguerra da Alba e
Aldo Campeol. Sembra che la signora Alba, giovane puerpera,
ricevesse dalla suocera tazze di uno sbattuto (sbatudin) di tuorli
d’uovo, zucchero, mascarpone, caffè e biscotti savoiardi per
vincere la debolezza del dopo parto: un energetico in piena
regola adatto anche a bambini e anziani e che si chiamò ben
presto tiramesù, nel significato di “tirarsi su”, rimettersi,
recuperare le forze.
Il cuoco pasticciere Roberto Linguanotto che lavorava nel

319
ristorante, allestì per la prima volta questo dolce a strati in un
contenitore rotondo: stavano terminando gli anni ’60.

Ingredienti per otto persone:


250 gr di savoiardi
500 gr di mascarpone
150 ml di panna
4 uova
80 gr di zucchero
200 ml di Marsala
4 cucchiai di cacao amaro
200 ml di caffè
sale

Montare i tuorli insieme allo zucchero, fino a ottenere un composto chiaro


e spumoso. Con un cucchiaio di legno lavorare il mascarpone finché avrà
assunto la consistenza di una crema liscia e priva di grumi. Unire al
mascarpone il composto di tuorli e zucchero e amalgamare bene il tutto.
Montare gli albumi a neve ben ferma con un pizzico di sale e incorporarli
delicatamente alla crema di uova e mascarpone. Mescolare il Marsala e il
caffè a temperatura ambiente, poi aggiungere 2 cucchiai d’acqua.
Immergere rapidamente i savoiardi nel composto in modo che i biscotti
risultino ben imbevuti, ma non completamente zuppi. Foderare il fondo
di un piatto di ceramica con i bordi non troppo alti con uno strato di
savoiardi. Stendervi sopra uno strato di crema al mascarpone,
livellandolo bene con una spatola. Procedere con un secondo strato di
savoiardi e ricoprirli con la crema rimasta. Spolverizzare con il cacao
amaro e riporre in frigorifero per almeno 4 ore. Servire.

Torta Bilbolbul
Questa torta prende il nome dal fumetto creato da Attilio
Mussino (1878-1954) e considerato convenzionalmente il
primo fumetto italiano. La serie venne pubblicata sul Corriere

320
dei piccoli a partire dal 27 dicembre 1908 e aveva come
protagonista Bilbolbul, un bambino africano che viveva
piccole avventure surreali e strane nel suo villaggio in Africa
settentrionale, nel territorio della Tripolitania, in quel periodo
colonia italiana. La caratteristica principale del bimbo era la
peculiare abilità di adeguarsi fisicamente alle metafore con cui
venivano narrate e commentate le sue gesta: cambiava spesso
colore, diventando rosso per la vergogna o verde di rabbia;
per aguzzare l’ingegno faceva uso di un tornio; riusciva, con
un gesto degno del miglior illusionista, a farsi realmente in
quattro e così via.
Ai tempi di Ada Boni, quando la ricetta apparve sul suo libro
del 1929 Il Talismano della Felicità, era considerata una torta da
tutti i giorni, semplice ed economica, perfetta accompagnata
ad un tè o un caffè per colazione o per uno spuntino dolce.

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Ingredienti per sei persone:
200 gr di farina
250 gr di zucchero in polvere
100 gr di cacao amaro in polvere
buccia di 1 arancia
2 gr di cannella in polvere
4 gr di bicarbonato di sodio
4 gr di cremore di tartaro
250 ml di latte
burro per ungere
pangrattato finissimo

Mettere in una terrina la farina, lo zucchero, il cacao, la raschiatura


della buccia d’arancia, la cannella, il bicarbonato di sodio e il cremore di
tartaro. Diluire con il latte e amalgamare questi ingredienti con un
cucchiaio, fino ad avere un composto liscio e vellutato come una crema.
Senza troppo lavorare l’impasto, travasarlo in una teglia a bordi alti, di
circa 20 cm di diametro, imburrata e spolverizzata di pane grattato
finissimo. Girare la teglia in tutti i versi, affinché il pane copra bene le
pareti e poi rovesciarla per far cadere il pane superfluo. Messo giù il
composto, passare la teglia in forno piuttosto caldo e lasciar cuocere la
torta per mezz’ora. Non deve riuscire molto dura.

Torta delle rose


Con l’arrivo di Isabella d’Este nel 1490, che divenne marchesa
consorte di Mantova sposando Francesco II Gonzaga, la
cucina mantovana venne influenzata da quella emiliana: la
marchesa si avvalse infatti della consulenza di Cristoforo di
Messisbugo, cuoco dei signori di Ferrara, che pare avesse
creato appositamente per lei questa torta, servita nei banchetti
destinati a renderle onore, come omaggio alla sua giovane età
e alla sua delicata bellezza.

322
Ingredienti per uno stampo da 30-32 cm di diametro:
Per la biga
100 gr di farina tipo 0
6 gr di lievito di birra fresco
60 gr d’acqua a temperatura ambiente

Per l’impasto
500 gr di farina tipo 0
125 gr di uova
125 gr di burro morbido in piccoli pezzi
150 gr di zucchero semolato
200 gr di latte intero a temperatura ambiente

Per il ripieno
125 gr di burro morbido
125 gr di zucchero
1 uovo per spennellare

In una terrina, preparare la biga impastando tutti gli ingredienti. Farla


riposare coperta con la pellicola per circa 8 ore. In una ciotola capiente
versare la farina e la biga, unire le uova e cominciare a intridere gli
ingredienti; unire lentamente il latte e lavorare per qualche minuto.
Aggiungere metà del burro ammorbidito, quindi l’altra metà soltanto
quando il primo è stato completamente assorbito. Unire lo zucchero
all’impasto e continuare a impastare fino a ottenere una consistenza
morbida ed elastica. Nel caso l’impasto risultasse troppo appiccicoso
aggiungere un po’ di farina. Mettere a lievitare in una ciotola unta con
burro e coprire con la pellicola. Quando l’impasto avrà raddoppiato il
proprio volume, stenderlo in un rettangolo di 1 centimetro di spessore.
Spalmarlo con il burro lavorato con lo zucchero e arrotolare il rettangolo
dal lato più lungo in modo non troppo serrato. Tagliare il rotolo in
tronchetti di circa 3-5 centimetri e disporli in piedi in una teglia a bordi
alti, lasciandoli un po’ distanziati per permettere ai rotolini di gonfiarsi
senza schiacciarsi. Spennellare con uovo sbattuto e far riposare per circa
2 ore. Infornare a 180 °C per circa 30-40 minuti. Una volta
raffreddata, la torta può essere spolverata con zucchero a velo.

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Torta Diplomatica
Il dolce chiamato Diplomatico (o Torta diplomatica) ha
origini antiche.
Sia i siciliani che i campani si contendono la sua paternità (i
napoletani lo chiamano zuppetta napoletana). Per alcuni si
chiama così invece perché una torta simile fu inviata in dono
da un diplomatico del ducato di Parma nel 1454 a Francesco
Sforza, duca di Milano. Altra versione invece è quella che
racconta che la torta sia stata originata in tempi più recenti a
Verona, creata nel periodo post-natalizio per riciclare gli
avanzi del Pandoro, dolce tipico del luogo.
Altri infine pensano che il suo nome si rifaccia a quello della
“crema diplomatica” usata come farcitura, ossia un mix di
crema pasticcera e crema chantilly…

Ingredienti per sei persone:


350 gr di pasta sfoglia
20 gr di burro
120 gr di farina
3 uova
100 gr di zucchero
5 gr di vanillina

Per la crema
50 ml di rum
240 gr di burro
200 gr di zucchero
1 albume
5 gr di vanillina
5 tuorli

Per la guarnizione
30 gr di zucchero a velo
3 cucchiai di gelatina di albicocche
1 cucchiaio di Maraschino

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Preparare il pan di Spagna. Lavorare le uova con lo zucchero fino a
ottenere un composto spumoso. Aggiungere 100 gr di farina e la
vanillina e amalgamare bene. Versare il composto in una tortiera
imburrata e infarinata e cuocerlo nel forno già caldo a 180 °C per 25
minuti. Farlo raffreddare e tagliarlo a fette in 4 cm di spessore. Nel
frattempo preparare la crema. Lavorare 200 gr di burro con lo zucchero,
i tuorli, l’albume montato a neve e la vanillina. Versare il rum e
mescolare delicatamente. Disporre in due tortiere imburrate, uguali a
quella usata per il pan di Spagna, la pasta sfoglia stesa in due sfoglie.
Infornare per 40 minuti in forno già caldo a 180 °C; quindi far
raffreddare. Disporre su un piatto di portata una delle sfoglie,
spennellarla con poca gelatina di albicocche e spalmarvi sopra uno stato
di crema. Sovrapporvi le fette di pan di Spagna bagnate con il
Maraschino e stendervi sopra la crema rimasta. Spennellare con la
gelatina rimasta e coprire con la seconda sfoglia. Spolverizzare con lo
zucchero a velo e tenere in frigorifero fino al momento di servire.

Torta Foresta nera


In Germania è chiamata Schwarzwälder Kirschtorte: la prima
apparizione della ricetta in un testo di cucina risale agli anni
‘30 del ‘900 e la sua popolarità al secondo dopoguerra.
L’origini di questa torta non è molto certa: la legenda vuole
che sia collegata alla Foresta Nera, la zona montuosa
localizzata nel Land tedesco del Baden-Württemberg, area
apprezzata anche per i suoi ciliegi, piantati per tradizione dalle
coppie appena sposate. Un’altra versione vuole che sia stata
inventata nel 1951 da Josef Keller, gestore del Café Agner di
Bad Godesberg.

Ingredienti per otto persone:


120 gr di farina
100 gr di fecola
250 gr di zucchero

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20 gr di burro
40 gr di cacao amaro
1 bustina di vanillina
6 uova

Per il ripieno:
400 ml di panna
300 gr di amarene sciroppate
60 gr di zucchero a velo

Per la finitura:
amarene sciroppate

Preparare il pan di Spagna. Lavorare i tuorli con lo zucchero e la


vanillina con una frusta. Aggiungere poco alla volta 100 gr di farina, la
fecola e il cacao setacciati insieme. Incorporare infine gli albumi, montati
a neve a parte. Distribuire il composto in una tortiera imburrata e
infarinata e cuocere il pan di Spagna nel forno già caldo a 190 °C per
40 minuti; farlo raffreddare per 30 minuti. Preparare il ripieno.
Montare la panna con lo zucchero a velo. Dividere la torta in 3 dischi e
spalmare sul primo 1/3 della panna montata, quindi disporre su questa
150 gr di amarene, ben sgocciolate e snocciolate. Sovrapporre il secondo
disco di pasta e farcirlo con 1/3 di panna e le amarene rimaste.
Terminare con l’ultimo disco di pasta, coprire con la panna rimasta e
livellare la superficie con una spatola. Guarnire la torta con alcune
amarene sciroppate, ben sgocciolate, disponendole a cerchio lungo il bordo
e al centro della superficie. Servire.

Torta di Linz
La torta di Linz è la ricetta di torta più antica conosciuta al
mondo.
La prima ricetta si trova sul libro di cucina Buech von allerley
Eingemachten Sachen, also Zuggerwerckh, Gewürtz, Khütten und

326
sonsten allerhandt Obst wie auch andere guett und nützlich Ding
etc. risalendo all’incirca alla seconda metà del XVII secolo.
Tuttavia nel 2005, Waltraud Faißner, direttore della biblioteca
del Landesmuseum dell'Alta Austria e autore del libro Wie
mann die Linzer Dortten macht (Come fare la Linzer Torte) trovò
una ricetta veronese ancora più antica risalente al 1653 nel
Codex 35/31 nell’archivio di Admont Abbey.
Sconosciuto forse per sempre il suo vero creatore,
l’invenzione della torta di Linz è oggetto anche di numerose
leggende, che riguardano un confettiere viennese dal nome
Linzer o un pasticcere franco dal nome Johann Konrad Vogel
(1796–1883) che nel 1823 circa a Linz, capoluogo dell’Austria
superiore, avrebbe cominciato una produzione di massa del
famoso dolce.
Il viaggiatore austriaco Franz Hölzlhuber, presumibilmente
intorno al 1850, portò la Linzer Torte a Milwaukee, da dove la
ricetta si diffuse negli Stati Uniti.

Ingredienti per sei persone:


370 gr di farina
220 gr di burro
250 gr di confettura di lamponi
150 gr di zucchero a velo
120 gr di mandorle
2 uova e 1 tuorlo
1 limone (scorza)
1 bustina di vanillina
cannella in polvere
sale

Sbollentare le mandorle, pelarle e tritarle finemente. Mescolare 350 gr di


farina con le mandorle tritate, lo zucchero a velo, la scorza di limone e un
pizzico di sale, di cannella e di vanillina.
Impastare quindi il tutto con 1 uovo, 1 tuorlo e 200 gr di burro
ammorbidito a pezzetti. Formare con l’impasto una palla, avvolgerla in
un foglio di pellicola trasparente e lasciarla riposare per un’ora al fresco.

327
Stendere 2/3 della pasta in una sfoglia dello spessore di 5 mm e
foderarvi una tortiera imburrata e infarinata. Stendere quindi anche il
resto della pasta e ricavarne un cordoncino e tante striscioline della
larghezza di 1 cm circa. Distribuire sul fondo della tortiera la confettura
di lamponi, livellarla e appoggiarvi sopra le striscioline di pasta,
formando una grata. Sistemare poi il cordoncino lungo tutto il bordo
della torta, premendolo leggermente per fissarlo alla base. Spennellare
tutta la pasta con l’uovo rimasto, sbattuto, e cuocere la crostata nel forno
già caldo a 170° per 40 minuti. Servirla tiepida o fredda.

Torta Marquise
L’origine del dolce e del suo nome riconducono alla scrittrice
francese Marie de Rabutin-Chantal, marchesa de Sévigné
(1626-1696), ossessionata dal cioccolato; in particolar modo a
una lettera che scrisse a sua figlia Françoise Marguerite, incinta
nel 1671, in cui l’avvertiva che una marchesa aveva mangiato
così tanta cioccolata durante la gravidanza che aveva dato alla
luce un neonato nero come il diavolo e che poco dopo era
morto. Una leggenda inventata ad hoc per proteggere forse la
salute della figlia…

Ingredienti per sei persone:


350 gr di cioccolato fondente
100 gr di zucchero
4 uova
175 gr di burro

Per guarnire
200 gr di panna fresca
30 gr zucchero a velo
cacao dolce q.b.

Prendere il cioccolato, spezzettarlo e farlo sciogliere a bagnomaria


aggiungendo un paio di cucchiai d’acqua. Quando sarà sciolto toglierlo
dal fuoco. Mentre il cioccolato si intiepidisce lavorare il burro

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ammorbidito lasciato a temperatura ambiente con lo zucchero. Impastarlo
fino ad avere una crema spumosa e omogenea. Meglio se per farlo si userà
uno sbattitore elettrico. Aggiungere al composto ottenuto il cioccolato fuso
e poi un tuorlo alla volta. Montare gli albumi a neve poi incorporarli al
resto degli ingredienti utilizzando una spatola o un cucchiaio di legno.
Mescolare piano fino ad amalgamarli completamente. Prendere uno
stampo quadrato e imburrarlo per bene. Versarvi il composto poi
metterlo in frigorifero per una notte. Poco prima di servire montare la
panna fino a renderla corposa, poi aggiungervi lo zucchero a velo e del
cacao dolce per colorarla.

Torta Opera
Questa torta è stata creata nel 1955 da Cyriaque Gavillon.
Secondo le fonti, venne battezzata così da Andrée Gavillon,
moglie del pasticcere, per la sua somiglianza con il
palcoscenico dell’Opera Garnier di Parigi o in omaggio ai
ballerini dell’Opera stessa.

Ingredienti:
135 gr di albumi d’uovo
20 gr di zucchero semolato
150 gr di zucchero a velo
150 gr di farina di mandorle
4 uova intere
40 gr farina 00 setacciata
30 gr di burro fuso

Per le creme
200 gr di zucchero
2 uova intere
250 gr di burro in pomata
2 cl di caffè forte
125 gr di cioccolato fondente

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L'Opera Garnier di Parigi in un'immagine d'epoca

Per la glassa al cioccolato


150 gr di panna fresca
100 gr di miele d’acacia
200 gr di cioccolato da copertura tritato al coltello
25 gr di olio di girasole

Preriscaldare il forno a 200 °C. Nel frattempo, montare le uova intere


con lo zucchero a velo fino a farle diventare ben spumose. Aggiungere
quindi la farina di mandorle, la farina setacciata e il burro fuso.
Montare a neve ben ferma gli albumi aggiungendo i 20 gr di zucchero
semolato. Amalgamare gli albumi al composto precedente, delicatamente e
sempre dal basso verso l’alto. Per avere degli strati omogenei cuocere i tre
strati separatamente nel fondo della tortiera: è sufficiente un altezza di
appena 1/2 cm. Ci vorranno una decina di minuti affinché ogni disco sia
cotto. Per le creme al burro: far cuocere lo zucchero in una casseruola fino
a portarlo a 118 °C. Nel frattempo cominciare a sbattere le uova, e dopo

330
aggiungere lo zucchero lentamente e continuare a montare fino a che il
composto sia freddo, e amalgamare il burro morbido. In una metà
aggiungere il caffè forte, nell’altra metà il cioccolato fuso. E’ importante
che tutti gli ingredienti siano alla stessa temperatura e che siano aggiunti
insieme lentamente. Per la glassa: scaldare la panna con il miele. Una
volta portata a bollore versarla sul cioccolato tagliato e mescolare bene.
Aggiungere infine l’olio di girasole. Per il montaggio della torta: bagnare
un disco della base con un po’ di caffè, versarvi sopra parte della crema al
cioccolato. Chiudere con un altro strato di base, bagnare anche quello, e
aggiungere la crema al caffè. Chiudere con l’ultimo strato di pasta e
coprire la torta con la rimanente crema al cioccolato. Lasciar raffreddare
bene. Versare infine la glassa tiepida sulla cima e sui bordi. Lasciare
riposare la torta per qualche ora prima di servirla.

Torta Sacher
Questa torta fu inventata nella prima metà del 1800, in
un’epoca che vide un grande sviluppo dell’arte della
pasticceria austriaca. In quel tempo, le più potenti e ricche
casate aristocratiche e dell’alta borghesia, austriache e più in
generale europee, si riunivano a Vienna, capitale del grande
impero austriaco che viveva allora il suo massimo splendore,
per partecipare alla vita di corte. In un’atmosfera di feste e
ricevimenti sontuosi, queste famiglie sovente facevano a gara
nel contendersi i migliori cuochi, allo scopo di soddisfare e
sorprendere i propri ospiti.
In occasione di un ricevimento, il principe Klemens di
Metternich-Winneburg ordinò ai suoi cuochi di inventare una
torta speciale. Essendo il pasticcere malato, venne incaricato
un giovane apprendista, Franz Sacher, il quale ottenne grandi
elogi con il suo nuovo dolce al cioccolato. Negli anni
successivi, Sacher, insieme al figlio Eduard, aprì una piccola
pasticceria in proprio. In una guida della città di Vienna del
1865, scritta da Braumuller, Sacher veniva ricordato tra i

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“mercanti di commestibili” di Weihburggasse, poco lontano
dall’attuale sede. La pasticceria fece poi fortuna e si trasformò
in una vera e propria azienda, sebbene artigianale, tanto che i
due titolari aprirono nel 1876 l’Hotel Sacher in
Philarmonikerstrasse.
“…Quattro persone lavorano con me in una cucina
appositamente attrezzata, giorno e notte, durante tutto l’anno
e in certi giorni si vendono, o si spediscono, da 200 a 400
torte a un prezzo che varia da uno a sei scellini. Le torte
Sacher Original si mandano a Parigi, Berlino, Londra e anche
oltre oceano…”, scrisse Eduard nel 1888.
Persino l’imperatore Francesco Giuseppe era un amante della
celebre torta e se la faceva inviare fresca tutti i giorni. In
seguito, per una misteriosa e controversa vendita dei diritti di
produzione da parte di un discendente dei Sacher, la
pasticceria Demel, una delle più rinomate della città, cominciò
a produrre il dolce, dando così inizio a una lunghissima
vertenza giudiziaria. Eduard Sacher, già nel 1888, rivendicava
la paternità del dolce: “…la torta Sacher è un’invenzione di
mio padre, tuttora vivente. La creò quand’era un giovane
cuoco al servizio dei Metternich, e fu, quindi, servita per la
prima volta alla tavola del principe Metternich 56 anni fa…
Sin da allora la torta è stata prodotta nella pasticceria di mio
padre. Oggi essa è confezionata nella mia pasticceria e non
può essere copiata o contraffatta da altri pasticceri o dolcieri,
come è provato dal fatto che la mia torta è servita
giornalmente alle loro Maestà, al Principe ereditario e alla
Principessina…”. Per dirimere la contesa ci vollero sette anni.
Il tribunale stabilì infatti che Sachertorte, quella originale, scritta
con un’unica parola, era il nome da attribuire solo al dolce
prodotto dalla pasticceria in Philarmonikerstrasse; Demel poté
continuare a fare una propria versione, ma dovette
accontentarsi di chiamarla Sacher Torte, con le due parole
staccate fra loro.

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Lo storico Hotel Sacher di Vienna

333
Ingredienti per sei persone:
170 gr di farina
170 gr di burro
150 gr di cioccolato fondente
150 gr di confettura di albicocche
150 gr di zucchero
5 uova
1 cucchiaino di lievito in polvere
1 bustina di vanillina
2 cucchiai di latte

Per la glassa
30 gr di burro
150 gr di cioccolato fondente
100 gr di zucchero a velo

Lavorare 150 gr di burro con lo zucchero e la vanillina fino a ottenere


un composto spumoso; incorporare uno alla volta i tuorli. Spezzettare il
cioccolato e farlo fondere con il latte a bagnomaria. Quindi unirlo tiepido
al composto d’uova, mescolando. Montare gli albumi a neve, unire 150
gr di farina setacciata con il lievito e incorporali al composto. Versarlo in
una tortiera imburrata e infarinata e cuocere nel forno a 180 °C per 40
minuti. Sfornare e sformare la torta. Farla intiepidire, poi tagliarla nel
senso della larghezza in 3 dischi. Farcirli con uno strato di confettura e
sovrapporli. Scaldare la marmellata rimasta con 1 cucchiaio d’acqua,
passarla al passino e spennellare la superficie della torta. Preparare la
glassa. Far fondere il cioccolato a bagnomaria e poi incorporarvi il burro.
Fuori dal fuoco unire lo zucchero a velo e 3/4 cucchiai d’acqua e
mescolare. Coprire la torta stendendo la glassa anche lungo i bordi.

Torta Saint-Honoré
La denominazione di questa torta fa riferimento a
Sant’Onorato.
Le scarse e incerte notizie sulla sua vita, peraltro molto

334
controverse, informano che nacque all’inizio del VI secolo nel
contado di Ponthieu, regione nel Nord della Francia. Fu
vescovo di Amiens, al tempo di Pelagio II, papa dal 579 al
590. Onorato fu uomo molto umile, dedito alla carità, alla
penitenza e all’aiuto dei più deboli. Divenne molto popolare in
Francia, grazie anche a una serie di eventi misteriosi. Un
giorno, mentre officiava la Messa, gli apparve sull’altare la
mano del Signore che consacrava l’ostia al di sopra del calice.
Fu forse a causa di questo miracolo eucaristico che sotto la
sua protezione cominciarono ben presto a raggrupparsi fornai,
panificatori e pasticceri (la rappresentazione iconografica del
Santo, infatti, lo vede con una pala da fornaio su cui sono
posati tre pani). Tale patrocinio fu definitivamente
ufficializzato nel XV secolo, quando i pasticceri e i panettieri
francesi si riunirono nella Confraternita di Sant’Onorato,
celebrandone la festa il 16 maggio. Onorato morì all’incirca
nell’anno 600, a Port-le-Grand, nella sua contea natale del
Ponthieu. Da una chiesa a lui intitolata, oggi scomparsa, prese
il nome un quartiere che, col tempo, divenne una strada
inglobata dentro la nuova cinta muraria di Parigi, l’attuale Rue
Saint-Honoré.
La ricetta della torta vide per la prima volta la luce nell’800.
Attorno alla metà del secolo, viveva a Parigi un certo
Chiboust, pasticcere già molto conosciuto, che aveva la
bottega proprio in Rue Saint-Honoré. Alle sue dipendenze vi
era il giovane Auguste Julien. Quest’ultimo aveva da poco
trascorso un soggiorno a Bordeaux per imparare la
preparazione di un nuovo tipo di pasta per dolci, lavorata su
fuoco lento, quella che oggi viene denominata la genoise. Con
tale ricetta Chiboust e Julien misero a punto una primissima
versione della Saint-Honoré, costituita da una base di pasta
biscotto su cui era appoggiato un bordo di pasta brioche. Il
centro era riempito con una crema pasticcera, resa più densa
dall’aggiunta a caldo di albumi montati a neve: la crema
Chiboust. Successivamente, l’introduzione di un utensile
fondamentale, la tasca, dotata di bocchette, permise a Julien di

335
creare sulla base della torta una corona di piccoli bignè
caramellati e di riempirne il centro con la crema.

Ingredienti per otto persone:


1 disco di pan di Spagna (diametro 24 cm e spessore 3 cm)
7 bignè vuoti
300 ml di crema Chantilly bianca
150 ml di crema Chantilly al cacao
200 gr di pasta sfoglia stesa (diametro 26 cm e spessore 3 mm)

Per la crema Saint-Honoré


5 tuorli
80 gr di zucchero
500 ml di latte
60 gr di farina
1/2 bustina di vanillina
1 limone (scorza)
200 ml di panna
2 cucchiai di Marsala
20 gr di cacao amaro

Per lo sciroppo
50 gr di zucchero
1 cucchiaio di rum
150 ml di caramello
1/2 arancia e 1/2 limone (scorza)

Adagiare la pasta sfoglia su una placca spennellata d’acqua e


bucherellarla. Cuocerla nel forno già caldo a 220 °C per 15 minuti.
Preparare la crema Saint-Honoré. Portare ad ebollizione il latte con la
scorza di limone lavata. Intanto lavorare i tuorli con lo zucchero, unire
poco alla volta la farina, la vanillina e versare a filo il latte bollente
filtrato. Travasare il composto in una casseruola, metterla sul fuoco
medio e, mescolando, portare a ebollizione; continuare la cottura per 6
minuti, mescolando. Togliere la crema dal fuoco e unire il Marsala;
dividerla in 2 parti, aggiungere a una il cacao, lasciar raffreddare e

336
incorporare a entrambe 100 ml di panna montata. Preparare lo sciroppo.
Far bollire lo zucchero e le scorze di limone e d’arancia lavate in 100 ml
d’acqua per 4 minuti, mescolando. Togliere lo sciroppo dal fuoco,
passarlo al colino, lasciarlo raffreddare e unire il rum. Con un coltello
ridurre il disco di pan di Spagna al diametro di 23 cm e tenere da parte i
ritagli. Mettere un poco di crema Saint-Honoré al cacao in una tasca da
pasticciere con bocchetta liscia e riempire 4 bignè. Mettere in un’altra
tasca un poco di crema Saint-Honoré gialla e riempire i bignè rimasti.
Immergere nel caramello fatto intiepidire la punta dei bignè. Stendere la
rimanente crema Saint-Honoré gialla sul disco di pasta sfoglia, adagiarvi
sopra il disco di pan di Spagna, spennellarlo con lo sciroppo e ricoprire la
superficie e il bordo della torta con la crema Saint-Honoré al cacao
rimasta. Cospargere il bordo della torta con i ritagli di pan di Spagna
sbriciolati e farli aderire usando una spatola. Mettere la crema Chantilly
bianca in una tasca da pasticciere con bocchetta liscia, quindi adagiare
attorno al bordo della torta i bignè preparati, alternandoli a ciuffetti di
crema Chantilly bianca. Sostituire poi la bocchetta liscia con una
oblunga, tracciare sulla superficie della torta tante strisce di ciuffetti di
crema Chantilly bianca alternandole a strisce di crema Chantilly al
cacao. Conservare la torta in frigorifero fino al momento di servirla.

Antica veduta della Rue Saint-Honoré di Parigi

337
Torta Simnel
Una leggenda legherebbe la creazione di questa torta a un
certo Lambert Simnel, vissuto in Inghilterra tra il 1477 e il
1525 circa. La vita di Simnel è coperta di mistero: non si è
certi che sia vissuto esattamente in quel periodo e si ignora il
suo vero nome; di certo ci sono informazioni storiche relative
al trono d’Inghilterra al quale avrebbe aspirato cercando di
usurpare e rovesciare il re Enrico VII. Si narra che Lambert, di
umili origini, figlio di un commerciante fornaio o costruttore
di organi, all’età di dieci anni divenne allievo di un sacerdote di
nome Richard Symonds, educato a Oxford, che gli impartì
l’educazione che gli avrebbe permesso di diventare monarca;
fu il sacerdote a spacciarlo per Riccardo Duca di York, figlio
del re Edoardo IV. Ma i piani non andarono a buon fine:
Simnel fu arrestato, poi graziato dal Re Enrico e messo a
lavorare nelle cucine reali come rosticciere, quindi possibile
ideatore del dolce.
Tuttavia il nome della torta deriverebbe dalla parola latina
similae, che significa “farina bianca”, menzionata dagli scrittori
inglesi fin dal medioevo.
Il dolce è tradizionalmente consumato durante la Mothering
Sundey, festa celebrata da cattolici e protestanti in alcune parti
d’Europa, che cade la quarta domenica di Quaresima,
esattamente tre settimane prima di Pasqua.

Ingredienti per 10 persone:


175 gr di farina tipo 00
175 gr di zucchero di canna
175 gr di burro ammorbidito
3 uova
1 cucchiaino di bicarbonato di sodio
3 cucchiaini di lievito per dolci
80 gr di uvetta
80 gr di frutta candita
pasta di mandorle q.b.
1 cucchiaino di cannella in polvere

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la scorza grattugiata di 1 lime
1 cucchiaino di zenzero in polvere
1 pizzico di sale
confettura di albicocche q.b.

Riunire lo zucchero di canna e il burro ammorbidito a pezzi e lavorare


con le fruste di uno sbattitore elettrico o di una planetaria. Quando si
sarà ottenuta una crema soffice e gonfia unire le uova, aggiungerne una
alla volta e lavorare dopo ogni aggiunta, fino a completo assorbimento.
Ora aggiungere la farina, il bicarbonato e il lievito, la cannella, lo
zenzero e un pizzico di sale e lavorare ancora per amalgamare gli
ingredienti. Infine unire l’uvetta tenuta in ammollo e strizzata, la frutta
candita e la scorza del lime grattugiata. Amalgamare tutto con una
spatola. Versare metà dell’impasto in uno stampo da 18 cm di diametro
imburrato e infarinato o rivestito con della carta forno, livellarlo. Con
della pasta di mandorle ricavare una sfoglia di 18 cm di diametro e
sistemarla sull’impasto, nello stampo. Poi coprire con il resto
dell’impasto, che si andrà ancora a livellare. Infornare la torta a 180 °C
per circa 2 ore. Verificare la cottura con uno stecchino e lasciarla
raffreddare completamente. Quando la torta sarà completamente fredda
sformarla e spennellarla in superficie con della confettura di albicocche.
Con altra pasta di mandorle ricavare ancora un disco un po’ più largo
del diametro della torta e modellare 11 ovetti. Quindi coprire la torta con
il disco di pasta di mandorle e decorate con gli ovetti tutti intorno.
Spennellare la superficie della pasta di mandorle con un tuorlo d’uovo
sbattuto e un cucchiaio di acqua e passare la torta in forno in modalità
grill per circa 4 minuti oppure colorarla con un lanciafiamma. Lasciare
raffreddare la Simnel cake e servirla.

Zabaione
Lo zabaione è una delle ricette più tipiche della cucina
piemontese.
L’origine di questa crema viene fatta risalire a diverse

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leggende, una delle quali vede protagonista Pasquale De
Baylon (1540-1592), un francescano che a Torino la ideò quale
ricostituente per i malati.
Un’altra fonte indica un diverso utilizzo della crema creata dal
frate: questi infatti consigliava la ricetta alle sue penitenti che si
lamentavano delle prestazioni del consorte; la preparazione
avrebbe così restituito vigore al soggetto…
Santificato nel 1680 da Papa Alessandro VIII entrò
rapidamente nella leggenda - probabilmente più per la crema
portentosa che per la sua virtù - tanto che le donne torinesi
pare si scambiassero assiduamente la ricetta per beneficiare del
miracolo del Santo.
Successivamente alla santificazione, la ricetta prese il nome di
“crema di San Baylon”, poi divenuto Sambayon e infine
Zabaione.
Tuttavia, probabilmente, lo zabaione non sarebbe altro che la
fortunata invenzione di un cuoco al servizio di Carlo
Emanuele I di Savoia (1562-1630).

Ingredienti per quattro persone:


4 tuorli
60 gr di zucchero
4 cucchiai di Marsala o di Moscato

Sbattere a lungo ed energicamente i tuorli con lo zucchero, fino ad ottenere


un composto chiaro e spumoso. Aggiungervi quindi a filo il vino,
mescolando per far amalgamare bene il tutto. Versare il composto
ottenuto in una casseruola e farlo cuocere a bagnomaria per 8 minuti,
sempre mescolando. Quando la crema comincerà a gonfiarsi, togliere il
recipiente dal fuoco. Servire subito o raffreddare in frigorifero per 2 ore.

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Zuppa inglese
Le origini della zuppa inglese sono quasi certamente italiane e
si collocano nel XVI secolo, presso la corte dei duchi d’Este
quale rielaborazione di un dolce rinascimentale anglosassone,
i l trifle, considerato un po’ la madre di tutti i dolci, fatto con
crema pasticciera e pan di Spagna, il tutto innaffiato da
bevande alcoliche. All’epoca i contatti commerciali e
diplomatici con la casa reale britannica erano frequenti, e
l’ipotesi sostiene che sia stato proprio un diplomatico di
ritorno da Londra a richiedere ai cuochi di corte di riassaggiare
i l trifle. Nei vari tentativi la ricetta sarebbe stata rielaborata
dapprima sostituendo la pasta lievitata all’inglese con una
ciambella di uso comune nella zona emiliana: la bracciatella.
Questa veniva cotta in forma di ciambella e consumata con
accompagnamento di vino dolce. Seguendo la tesi
rinascimentale, si può supporre che la preparazione sia
divenuta comune e che, nell’intento di portarla al rango di
dolce gentilizio e non popolare come il suo cugino inglese, si
sia provveduto a ingentilirlo ulteriormente sostituendo la
bracciatella con il pan di Spagna e la panna con la crema
pasticcera. Col tempo questo trifle modificato avrebbe preso
poi il nome di “zuppa inglese”.
La presenza dei due liquori quali l’Alchermes e il Rosolio
supporta la tesi rinascimentale, dato che sono entrambi di
origine medievale. Gli infusi di fiori erano già di gran moda
n e l basso medioevo; l’Alchermes, invece, è probabilmente
successivo alla riapertura delle vie commerciali con gli arabi,
da cui si importava l’ingrediente che lo rende rosso: la
cocciniglia. Il nome, infatti, deriva da al quermez che significa
cocciniglia.
La zuppa inglese sarebbe poi stata divulgata da Vincenzo
Agnoletti, pasticciere romano che lavorava alla corte ducale di
Parma all’inizio dell’800, e comparve anche nell’opera
dell’Artusi La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene.
Secondo un’altra ipotesi, che richiamerebbe un’origine inglese,
sarebbe stato lo scalco Sir Charles O’ Connor a ideare questa

341
ricetta nel XVI secolo per la Regina d’Inghilterra; egli, invitato
poi alla Corte degli Estensi, ripropose tale dolce con grande
successo: da qui il suo nome e la successiva diffusione in
Emilia, adattando la ricetta al gusto italiano e agli ingredienti
reperibili…

Ingredienti per sei persone:


200 gr di pan di Spagna
3 uova
250 gr di zucchero
50 gr di farina
alchermes
rum
1/2 l di latte
frutta candita (facoltativa)

Preparare una crema pasticciera coi rossi delle uova, 90 gr di zucchero, la


farina e il latte; travasarla in una terrina e lasciarla intiepidire. Montare
a neve gli albumi. Farvi cadere a pioggia 120 gr di zucchero, che verrà
mescolato adagio con un cucchiaio di legno. Tagliare il pan di Spagna in
fette dello spesso di mezzo centimetro. Allinearle in due piatti separati e
una metà bagnarla con alchermes e l’altra con rum. Spalmare il fondo di
un piatto adatto al forno del diametro di circa 30 centimetri con 2 o 3
cucchiaiate di crema. Far poi uno strato con il pan do Spagna
all’alchermes ricoprendone tutto il fondo, e su questo strato versare nel
mezzo la crema pasticciera disponendola a cupola. Per arricchire e
variare la preparazione si potrà a questo punto aggiungere alla crema
della frutta candita tagliuzzata. Disporre sulla crema le fette di pan di
Spagna bagnate nel rum, procurando di mantenere al dolce la forma di
leggera cupola e infine versare su tutto gli albumi montati, che dovranno
essere spalmati con la lama di un coltello, così da rivestire completamente
il dolce. Di questi albumi montati dovranno essere lasciate da parte 2
cucchiaiate, le quali serviranno per una sobria decorazione completata con
qualche tocchetto di frutta candita. Spolverizzare con zucchero in polvere,
attendere qualche minuto e mettere il dolce in forno leggero per 20 minuti,
finché la meringa assumerà un colore biondo-chiaro. Servire fredda.

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ALTRE PIETANZE

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344
Arepas
La pietanza era preparata e consumata dalle popolazioni
indigene precolombiane residenti nei territori dell’attuale
Venezuela, Colombia e Panama, che ancora oggi lo
considerano un piatto nazionale tradizionale, in particolare
Venezuela e Colombia.
Quando Galeotto Cei (1513-1579), mercante fiorentino e
avventuriero, sbarcò sulle coste venezuelane intorno alla metà
del ‘500, sperava di trovare molto oro; agli indigeni poco
importava di quel metallo, perché preferivano le arepas. Il
mercante fiorentino così scriveva nel suo diario: “Fanno una
specie di pane con il mais, grosso di un dito, rotondo, come
un piatto alla francese, e lo fanno cuocere sul fuoco unto di
grasso per non farlo attaccare, girandolo su ogni lato. Lo
chiamano arepa”. Oltre mezzo millennio dopo, l’arepa è ancora
la stessa.

Ingredienti:
200 gr di farina di mais
250 ml di acqua
sale

Porre la farina in una terrina e aggiungervi il sale. Aggiungere


gradualmente l’acqua e mescolare fino a ottenere una grossa pagnotta.
Prendere dell’impasto e formare tante piccole sfere compatte (arepitas), poi
schiacciarle per ottenere dei dischetti dallo spessore desiderato (per farcirli,
almeno 1,5 cm). Riscaldare una padella antiaderente. Cuocere le arepas
circa 10-15 minuti per lato, a fuoco vivo. Quando cominceranno a
colorirsi metterle da parte. Trasferire le arepas in forno per ulteriori 20
minuti a 160 °C.

In Venezuela, l’arepa de queso è farcita con formaggio filante. Inoltre


esistono varianti dolci che vedono l’impiego, nell’impasto, di farina di
cocco (arepa de coco). L’arepa farcita con avocado, pollo e maionese è
chiamata Reina pepiada. L’arepa con formaggio giallo e manzo è
chiamata invece Arepa Pelua.

345
Brik tunisini
L’origine del foglio di brick risale all’XI secolo. Rivendicato da
diversi Paesi, ha quindi una lunga storia. Il foglio di brick è
apparso con le culture nomadi dall’origine della civilizzazione
e si è sviluppato con questa cultura nomade, che aveva
bisogno di trasportare e di cucinare facilmente i generi
alimentari.
Nel medioevo, con la conquista dal Magreb alla Spagna da
parte dei musulmani, questi fogli si sono diffusi nell’Africa
settentrionale, molto conosciuti nei Paesi berberi (Marocco,
Algeria, Tunisia).

Ingredienti per dodici brik:


4 fogli di pasta fillo
2 patate
80 gr di tonno
2 uova
prezzemolo
semi di cumino
sale, pepe
olio

Bollire le patate in una pentola con acqua per circa 30 minuti.


Sbucciarle, schiacciarle con lo schiaccia patate e raccogliere la purea in
una ciotola. Aggiungere il prezzemolo, il tonno, le uova, il cumino, sale e
pepe. Mischiare tutti gli ingredienti amalgamandoli con la forchetta.
Tagliare la pasta fillo in rettangoli e posizionare alla base di ognuno una
cucchiaiata di composto; piegare a metà formando un triangolo, poi
nuovamente a metà chiudendo a pacchettino fino a formare dei triangoli.
Spennellare con un po’ d’acqua od olio per chiudere l’ultimo lembo. Ora
friggerli in padella con olio bollente per pochi secondi fino a renderli
dorati. Pennellare quindi i fagottini con olio extravergine d’oliva, porli su
una teglia foderata con carta forno e cuocerli in forno caldo a 180 °C per
10 minuti circa. Saranno pronti quando risulteranno ben dorati.
Servirli caldi.

346
Club Sandwich
In un imprecisato giorno del 1762, al Cocoa-tree di Londra,
un famoso pub per soli uomini, John Montague, primo Lord
dell’Ammiragliato e quarto Conte di Sandwich, si ritrovò al
tavolo da gioco per l’ennesima volta. Era un accanito
giocatore d’azzardo e quella sera non riuscendo a scacciare i
morsi della fame, e non volendosi alzare dal tavolo da gioco,
ebbe un’idea geniale destinata in futuro a renderlo famoso in
tutto il mondo. Si fece portare due fette di pane farcite con
delle fettine di manzo tagliate sottili… da quel momento tutti
gli altri clienti cominciarono a chiedere la stessa preparazione:
fu così che iniziò la gloriosa storia del sandwich.
Il sandwich non è da confondere con il tramezzino italiano,
anche se lo si può ritenere uno stretto parente. Il tramezzino si
caratterizza infatti per l’uso esclusivo di pan carré.
Il Club Sandwich o Club-House Sandwich, è uno dei panini
più famosi al mondo: la sua origine risale al 1894 con il
signor Richard Canfield proprietario a New York del The
Saratoga Club House, club privato molto esclusivo di gioco
d’azzardo.
Esiste una doppia versione riguardo a chi veramente inventò il
Club Sandwich: la prima vuole che a realizzarlo fu proprio
Canfield. Una sera in cui alcune signore erano rimaste fino a
tarda notte a giocare ai tavoli del club, poco prima di andare
via gli chiesero qualcosa da mangiare ma a quell’ora, essendo
la cucina chiusa e senza personale, Canfield dovette rimediare
scendendo in dispensa per vedere ciò che era rimasto della
cena: preparando con gli “avanzi” degli ottimi sandwich che
servì caldi. Le signore furono così entusiaste di quella
preparazione che il giorno dopo la decantarono a tutti i soci, i
quali ne ordinarono in grandi quantità. Il successo fu tale che
dal quel momento Canfield inserì quel sandwich nel menù
ufficiale del Club-House. L’altra versione invece
riconoscerebbe nel cuoco americano Danny Mears, che
lavorava sempre presso il famoso Saratoga Club House, il
creatore del più conosciuto e apprezzato sandwich negli USA.

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Ingredienti per quattro persone:
12 fette di pane in cassetta
16 fette di pomodori
12 foglie di lattuga
16 fette di bacon
16 stuzzicadenti
400 gr di pollo o tacchino
maionese q.b.
senape q.b.

Tagliare i bordi del pane e tostarlo. Prendere una fetta di pane, spalmare
un generoso strato di maionese e adagiarvi sopra una foglia di lattuga e il
pollo, e chiudere con un’altra fetta. Nel secondo strato vanno messe le
fette di pancetta, precedentemente grigliate, una fetta di pomodoro e strato
di maionese; coprire poi con la terza fetta di pane tostato. Dopodiché
prendere 4 stecchini lunghi e infilzare il sandwich ai 4 lati. Ciò servirà a
mantenere gli strati intatti quando si taglieranno i quarti con il coltello.
Servire come aperitivo o come pranzo.

Croque Monsieur
La nascita di questo noto tramezzino francese è incerta.
La più curiosa storia sulla sua comparsa, fissa una data, il
1910, e una città: Parigi, sul Boulevard des Capucines, lo
stesso viale parigino dove quindici anni prima Auguste e Louis
Lumière avevano presentato al mondo il primo cinema della
storia. E fu qui che nel menù di uno dei tanti bistrot che si
affacciavano sul viale, comparve per la prima volta la dicitura
croque monsieur.
Leggenda vuole che questo bistrot appartenesse a un certo
Michel Lunarca, del quale pare si vociferava fosse un
cannibale. E pare anche che questa voce fosse stata messa in
giro dai suoi concorrenti, decisi a rovinare la sua reputazione
per rubargli quanti più clienti possibili, specialmente quelli più

348
facoltosi che frequentavano il locale.
Ma Michel, che evidentemente aveva piuttosto chiaro il
concetto di battage pubblicitario, trovò comunque il modo di
trasformare una maldicenza sul suo conto in un grandissimo
successo. Un giorno, affettando una baguette, decise di
provare a fare qualcosa di nuovo: imburrò le fette, le imbottì
con prosciutto e formaggio, compose il panino e lo fece
rosolare nel burro fuso. Poi lo servì a uno dei suoi clienti
abituali che, colpito da quel sapore così ricco e saporito chiese
che tipo di carne avesse messo nel panino. Michel non si fece
scappare l’occasione e rispose: «Carne di monsieur,
naturalmente». Carne di signore. Nel locale tutti sarebbero
scoppiati a ridere e un attimo dopo avrebbero cominciato a
ordinarlo a loro volta.
Questo episodio, unito alla particolare croccantezza del pane,
avrebbe quindi fatto il nome di questo prelibato tramezzino:
croque monsieur. “Signore croccante”, potremmo tradurlo.
Letteralmente il termine croque sarebbe la contrazione del
verbo croquer, ovvero “morsicare”.
Il tramezzino divenne famosissimo in breve tempo tanto che,
nel 1919, venne citato anche da Marcel Proust in All’ombra
delle fanciulle in fiore, il secondo volume de Alla ricerca del tempo
perduto, dove il protagonista, ritornando in hotel dopo aver
assistito a un concerto, scopre che la sua ospite ha ordinato
per lui «dei croque monsieur e della crema d’uovo».

Ingredienti per quattro persone:


8 fette di pane
150 gr di prosciutto cotto
200 gr di Edamer
500 ml di latte
40 gr di burro
40 gr di farina
sale q.b.
pepe bianco q.b.
1 cucchiaino di noce moscata macinata

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Prendere il pane e affettarlo per ricavare le fette di pane necessarie.
Mettere le fette in una teglia ricoperta da carta forno e aggiungervi sopra
di esse le fette di formaggio. In metà delle fette di pane mettere il
prosciutto cotto e infornare a 180-200 °C fino a che il formaggio non si
sarà sciolto e il pane abbrustolito. Chiudere a panino le fette di pane. A
questo punto ricoprire la parte superiore del panino con la besciamella
precedentemente preparata, spolverare con l’edamer grattugiato e rimettere
in forno fino a che non si sia gratinato.

Servire i croque monsieur ben caldi.

Cus cus
Si tratta dell’alimento tradizionale di tutto il Nord Africa, al
punto che lo si potrebbe definire “piatto nazionale” dei
Berberi. Oltre che nel Maghreb, è molto diffuso anche
nell’Africa Occidentale, in Francia, in Belgio e anche nel
Vicino Oriente (in particolare, in Israele presso gli Ebrei di
origine magrebina). In Italia il cuscus è preparato nel
trapanese.
Uno dei primi riferimenti scritti al cuscus viene dall’anonimo
autore di un libro di cucina dell’al-Andalus, la Spagna
musulmana del XIII secolo. Il cuscus era noto anche nel
sultanato di Granada dei Nasridi. Sempre nel XIII secolo uno
storico siriano di Aleppo cita il cuscus in quattro occasioni.
Queste citazioni così antiche mostrano che il cuscus si diffuse
rapidamente, ma che in generale esso era comune soprattutto
nell’occidente islamico fino alla Tripolitania, mentre più ad est,
a partire dalla Cirenaica, la cucina era soprattutto di tipo
egiziano, in cui il cuscus costituiva solo un piatto occasionale.
Oggi il cuscus è conosciuto in Egitto e nel Vicino Oriente, ma
in Marocco, Algeria e Tunisia, il cuscus è il piatto-base.
In catalano appare nel romanzo Tirant lo Blanch (1464) con il
nome cuscusó. Uno dei primi riferimenti al cuscus in Europa
settentrionale è in Bretagna, in una lettera datata 12 gennaio

350
1699. Ma già molto tempo prima aveva fatto la sua comparsa
in Provenza, dove il viaggiatore Jean Jacques Bouchard scrive
di averlo mangiato a Tolone nel 1630.
Vi sono inoltre numerosi indizi del fatto che il processo di
cottura tipico del cuscus, in particolare la cottura a vapore dei
grani sul brodo in una pentola in terracotta, potrebbe avere
avuto origine prima del decimo secolo in un’area dell’Africa
Occidentale che abbraccia gli attuali Marocco, Niger, Mali,
Mauritania, Ghana e Burkina Faso. L’esploratore marocchino
Ibn Battuta viaggiò in Mali nel 1352, e in quella che è l’odierna
Mauritania assaggiò un cuscus di miglio. Va infine ricordato
che per secoli i Berberi nomadi ricorrevano a donne nere per
cuocere il cuscus, il che potrebbe essere un’ulteriore
indicazione dell’origine subsahariana dell’alimento…

Ingredienti per quattro persone:


una couscoussiera
una pentola a pressione
1/2 kg di cus cus non precotto a grana fine o media
2 zucchine
2 carote
2 cipolle
2 patate
1 piccolo pollo
250 gr di ceci ammollati per una notte
1 bustina di zafferano
acqua
olio q.b.

Per prima cosa lavare le zucchine e le carote, poi è la volta delle patate,
che vanno pelate e lavate. Tagliare la verdura in pezzi grandi. Nella
pentola a pressione o in una pentola dai bordi alti far soffriggere le cipolle
tagliate a dadini con olio; aggiungere le verdure, farle rosolare e poi
aggiungere i ceci scolati. Aggiungere 1 litro d’acqua e una bustina di
zafferano e farli cuocere a fuoco medio per circa 15 minuti. Passati
questo tempo, aggiungere il pollo tagliato a pezzi e chiudere la pentola. Se

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la pentola è normale, far cuocere per un’ora, altrimenti per circa mezz’ora
o comunque fino a quando il pollo sarà morbido. Intanto riempire la
parte inferiore della couscoussiera con acqua. Sigillare con un panno di
cotone inumidito l’attaccatura dei due recipienti della couscoussiera, per
non far uscire il vapore lateralmente. Ora versare la semola di cus cus nel
recipiente superiore della couscoussiera e farlo cuocere fino a quando non
uscirà il vapore da sopra il cus cus: significa che è cotto. Prendere il
recipiente e versarlo su un vassoio dai bordi alti. Aprirlo con un cucchiaio
di legno e far gonfiare i grani di cus cus muovendolo alternativamente con
le mani per circa 10 minuti, fino a quando i grani saranno ben separati
e gonfi. Ripetere il procedimento per due volte, facendo cuocere ancora il
cus cus e lavorandolo ancora con le mani per sgranarlo e farlo gonfiare.
Una volta fatta l’operazione per due volte, comporre il piatto inserendo il
cus cus alla base e decorandolo con verdure cotte o altro.

Enchiladas
Le enchiladas sono tortillas arrotolate, il cui modo di essere
servite risale ai tempi dei Maya. Erano ben note al tempo dei
Conquistadores spagnoli in quanto Bernal Dìaz de Castillo,
cronista della spedizione in Messico di Hernàn Cortés,
documentò un banchetto dove gli invitati europei mangiavano
già questo tipo di alimento.

Ingredienti per due persone:


4 tortillas
400 gr di petto di pollo
1 barattolo di pomodori pelati
60 gr di mais o una patata bollita
sale, pepe
1 peperoncino o paprika in polvere
la punta di 1 cucchiaino di cumino
100 gr di formaggio Cheddar grattugiato
1 cipolla gialla di media grandezza

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2 spicchi d’aglio

Per accompagnare
coriandolo fresco
1 tazza di sour cream
fagioli ripassati in padella

Tagliare la cipolla, sminuzzare l’aglio e far soffriggere in padella con olio,


per 10 minuti a fiamma dolce. Aggiungere i pelati, condire con sale,
pepe, cumino e il peperoncino sminuzzato e lasciar cuocere per 15 minuti.
Spegnere e lasciare raffreddare. Per la marinatura del pollo: immergerlo
nella salsa di pomodoro e lasciar marinare per almeno 2 ore in
frigorifero, quindi sgocciolarlo e cuocerlo in padella con olio condito con
pepe, 8 minuti per lato. Togliere dal fuoco e lasciare raffreddare. Tagliare
il pollo a tocchettini oppure sfilacciarlo e poi rimetterlo nella salsa per le
enchiladas assieme al mais o alla patata bollita (non troppo, lasciarla
leggermente indietro come cottura) e riscaldare la salsa. Ora scaldare le
tortillas in padella con un filo d’olio per 30 secondi, giusto quel tanto che
basta per renderle morbide. Preparare le enchiladas farcendo la tortillas
con sugo, pollo e un po’ di formaggio, formando degli involtini; metterli
poi in una pirofila e condirli con altra salsa e il formaggio grattugiato.
Passare in forno per 12 minuti a 180 °C e sfornarle quando il
formaggio si sarà sciolto alla perfezione. Servire accompagnate con una
spolverata di coriandolo fresco, sour cream e fagioli ripassati in padella.

Grissini
Tradizionalmente la loro nascita si fa risalire al 1679, quando il
fornaio di corte Antonio Brunero, su indicazioni del medico
lanzese Don Ubaldo Pecchio, ideò questi alimenti per poter
nutrire il futuro re Vittorio Amedeo II, di salute cagionevole e
incapace di digerire la mollica del pane. Re Carlo Felice li
prediligeva così tanto che, in palco, al Teatro Regio, ne
sgranocchiava per passatempo.

353
Il successo dei grissini fu particolarmente rapido, sia per la
maggiore digeribilità rispetto al pane comune, sia per la
possibilità di essere conservati anche per diverse settimane
senza alcun deterioramento. Fra i grandi estimatori dei grissini
torinesi non si può non citare Napoleone Bonaparte, il quale
creò, all’inizio del XIX secolo un servizio di corriera fra
Torino e Parigi prevalentemente dedicato al trasporto di quelli
ch’egli chiamava les petits bâtons de Turin.

Ingredienti:
500 gr di farina
250 gr di acqua
15 gr di levito di birra fresco
1 cucchiaino di sale
50 gr di olio extravergine di oliva
olio per spennellare

Disporre sulla spianatoia la farina a fontana, mettere al centro il lievito


sciolto in poca acqua a temperatura ambiente e incominciare a impastare
aggiungendo l’acqua. Unire l’olio poco a poco e impastare finché non è
amalgamato. Aggiungere il sale e continuare a impastare energicamente,
battendo, per una decina di minuti. Formare un filone, stenderlo su un
piano unto in un rettangolo di circa 30 centimetri per 10, spennellare con
olio d’oliva, coprire e lasciar lievitare per circa un’ora. Tagliare dal lato
corto dei bastoncini larghi all’incirca 1,5 centimetri; tenendoli con due
mani per il centro, spostare delicatamente le dita verso le estremità,
tirando leggermente fino ad assottigliarli allo spessore di 1 cm circa.
Disporli su una teglia da forno e infornarli a 200 °C per 20 minuti.

Pad Thai
Il Pad Thai è il piatto nazionale thailandese. Nasce intorno agli
anni ’40 del 1900, in seguito a un concorso culinario al quale
parteciparono i migliori chefs thailandesi. A indire il concorso

354
fu Plaek Phibunsongkhram, primo ministro nonché dittatore
militare, alla ricerca di qualcosa che potesse rappresentare la
Thailandia nel mondo da un punto di vista gastronomico,
sostenuto da un forte spirito nazionalista/patriottico e, non da
ultimo, propagandista. A colmare questa lacuna fu proprio il
Pad Thai, un piatto a base di ingredienti facilmente reperibili
in tutta la Thailandia e in grado di incontrare anche i gusti
occidentali.

Ingredienti per due persone:


200 gr di tagliatelle di riso thailandese
200 gr di code di gambero
2 cucchiai d’olio di semi di girasole
2 spicchi d’aglio
1 cipollotto tritato
2 cucchiai di arachidi tritati
2 uova
2 cucchiai di pasta di tamarindo
4 cucchiai di salsa di pesce (fish sauce)
2 cucchiai di zucchero
pepe nero macinato q.b.
erba cipollina q.b.
lime e peperoncino a piacere

Mettere in ammollo le tagliatelle in acqua calda per circa 5/10 minuti,


mentre si prepara il resto. Scaldare il wok (oppure una padella larga e
profonda) e tostare gli arachidi, poi toglierli e metterli da parte. Mettere
l’olio nel wok e far soffriggere l’aglio e la cipolla. Aggiungere i gamberetti,
cuocerli un paio di minuti, toglierli e metterli da parte. Scolare le
tagliatelle di riso (lasciandole belle “umide” di acqua) e versarle nel wok.
A fuoco alto, unire il tamarindo, lo zucchero e la salsa di pesce.
Mescolare. Spostare le tagliatelle da una parte (nel wok) per far posto
all’uovo, romperlo a pezzettini e farlo cuocere. Poi amalgamare tutto
insieme. Infine unire i gamberetti, l’erba cipollina e girare ancora (se le
tagliatelle risultano troppo secche, aggiungere acqua nel wok). Aggiustare
di pepe, spolverare con arachidi e accompagnare con lime e/o peperoncino.

355
N.B. La ricetta originale prevede anche l’aggiunta di germogli di soia.

Pizza Margherita
Una diffusa credenza vuole che nel giugno 1889, per onorare
l a regina d'Italia, Margherita di Savoia, il cuoco Raffaele
Esposito della pizzeria Brandi creò la pizza Margherita, dove i
c o n d i m e n t i , pomodoro, mozzarella e basilico,
rappresentavano la bandiera italiana.
Secondo recenti studi a carattere filologico, però, la storia della
pizza Margherita preparata da Brandi per la prima volta
sarebbe un falso storico. Sembra infatti che questo tipo di
pizza margherita sia nata a Napoli ben prima del 1889, ovvero
fra il 1796 e il 1810.
Già nel 1830, un certo Riccio, nel libro Napoli, contorni e
dintorni, aveva descritto una pizza a base di pomodoro,
mozzarella e basilico.
Anche il filologo Emanuele Rocco, nel 1849, parlò di
combinazioni di condimento con vari ingredienti tra i quali
basilico, “pomidoro” e “sottili fette di muzzarella”. La
mozzarella veniva tagliata a fette sottili, disposte sulla salsa di
pomodoro proprio a forma di margherita, con la successiva
aggiunta delle foglie di basilico, ed è probabilmente questa la
vera motivazione del nome prima dell’Unità d’Italia, da alcuni
definita anche “pizza tricolore”.

Ingredienti per quatto pizze del diametro di 30 cm:


700 ml di passata di pomodoro densa
600 gr di mozzarella di bufala o fior di latte
8-12 foglie di basilico
olio extravergine di oliva q.b.
sale
4 panetti di pasta per pizza

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Versare la passata di pomodoro in una ciotola e condirla con 2 cucchiai
di olio e il sale. Stendere un panetto di pasta per pizza (precedentemente
preparata) fino a formare un cerchio del diametro di circa 30 cm.
Cospargere la passata di pomodoro, e successivamente la mozzarella
tritata grossolanamente, tre foglie di basilico e infine un filo d’olio,
infornare in forno a legna a circa 485 °C per circa 90 secondi o in un
forno elettrico già caldo per circa 15 minuti a 250 °C. Se si utilizza un
forno elettrico prima di condire la pizza, porre la base in una teglia unta
con un filino d’olio per non farla attaccare. Terminata la cottura della
pizza Margherita servire immediatamente.

Sushi
Le origini del sushi sono molto incerte. L’opinione più diffusa
è che sia stato scoperto da monaci buddisti tornati dalla Cina
nel VII secolo.
Molto simile al sushi fu una preparazione che comparve in
Giappone già con l’introduzione della coltivazione del riso,
intorno al IV secolo a.C., variante di un antico metodo per
conservare il pesce molto diffuso in Asia sud-orientale e in
Cina: il pesce crudo veniva disposto a strati con il sale
alternato al riso e tenuto pressato per qualche settimana; in
seguito veniva lasciato fermentare per mesi. Questo tipo di
sushi si chiama narezushi, ancora molto apprezzato nella zona
di Tokyo. Nel XVII secolo si cominciò ad aggiungere aceto di
riso per abbreviare i tempi di fermentazione del riso e il pesce
veniva marinato o cotto.
Fu soltanto intorno al 1820 che comparve ad Edo (l’odierna
Tokyo) la ricetta più vicina al sushi come viene inteso oggi.
Hanaya Yohei (1799-1858) fu il primo a servire sul suo banco
bocconcini di riso aromatizzati all’aceto con sopra fettine di
pesce crudo. Da allora la vendita del sushi per strada diventò
un uso diffuso. Una cosa curiosa era la tenda bianca fissata
alle bancarelle sulla quale i clienti si pulivano le mani dopo

357
aver consumato il sushi. Un sistema infallibile per individuare
il miglior rivenditore era quello di guardare la tenda: più era
sporca, più il posto era frequentato e quindi, probabilmente,
migliore il sushi.
Da allora, il sushi si è diffuso in tutto il Giappone e in tutto il
mondo dando vita a tantissime varianti.

Tortilla messicana
La tortilla messicana ha origini molto antiche: probabilmente
un primo rudimentale esempio di sfarinata di mais risale
all’epoca precolombiana.
Gli Atzechi erano abituati a mangiare la tortilla di mais a ogni
pasto, accompagnandola in special modo alla carne di
tacchino, ai fagioli, alle salse piccanti a base di chili o anche in
versione dolce abbinata al miele.
Prima dell’arrivo dei colonizzatori spagnoli, però, queste
sfarinate si chiamavano in tutto il Sud America arepas; furono
poi gli spagnoli a coniare il termine tortilla, cioè “piccola
torta”, poiché l’aspetto dell’arepa, giallo e rotondo, ricordava
loro la tortilla spagnola.

Ingredienti per circa otto tortillas:


250 gr di farina di mais o masa harina mesicana
1/2 l di acqua naturale fresca
1 noce di burro
sale

Riscaldare il burro a bagnomaria fino a scioglierlo. In una ciotola


mescolare la farina di mais con l’acqua aiutandosi prima con un
cucchiaio di legno poi con le mani. Aggiungere di tanto in tanto il burro
fuso fino a che il composto non risulti omogeneo, elastico e umido, però
non tanto da rimanere appiccicato alle mani. Coprire il composto con la
pellicola trasparente e lasciar riposare per circa 15 minuti. Quindi

358
riprendere l’impasto e comporre 8 palline di circa 4 cm di diametro.
Mettere ogni pallina dentro due fogli di carta da forno e stenderle con un
mattarello fino a dar loro una forma rotonda, magari aiutandosi a
ritagliare i bordi con un coperchio. Lo spessore deve essere sottile. Cuocere
ogni tortilla su una piastra precedentemente riscaldata, tipo testo
romagnolo o padella per crêpes, per pochi secondi per lato (40 secondi, 1
minuto). Una volta cotte, le tortillas vanno riposte una sopra l’altra in
un cestino con un panno di tela e mantenute calde fino al momento di
servirle. Possono essere accompagnate da pollo, tacchino, maiale, carne di
manzo macinata, patate, fagioli o altri legumi, insalata, pomodori, e
varie salse più o meno piccanti.

Tortilla spagnola
Già nel 1500 la tortilla d’uovo era conosciuta in Europa dai
conquistadores spagnoli e in America dagli Aztechi, che le
preparavano e vendevano nei mercati di Tenochtitlan.
Una leggenda narra che fu il generale Tomás de
Zumalacárregui colui che, durante l’assedio di Bilbao nel 1835,
inventò la tortilla di patate come piatto semplice, rapido e
nutriente per ovviare alla grande penuria dell’esercito carlista.
Anche se non si sa con certezza, sembra che la tortilla abbia
quindi cominciato a diffondersi nel periodo delle prime guerre
durante il carlismo. Un’altra versione della leggenda narra che
la pietanza sia stata inventata da una casalinga della Navarra,
alla cui casa si fermò il già menzionato generale
Zumalacárregui. Questa, molto povera e in possesso solo di
un po’ di uova, cipolle e patate, finì per assemblare questi tre
ingredienti, miscuglio che fu così gradito al generale da far sì
che egli lo rendesse conosciuto.
L’origine reale della tortilla spagnola potrebbe tuttavia essere
avvenuta a Villanueva de la Serena, località dell’Estremadura.

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Conquistadores

Ingredienti per quattro persone:


4 patate di media grandezza
4 o 5 uova
1 cipolla media
1/4 di l di olio d’oliva
sale

Sbucciare, lavare e asciugare le patate. Tagliarle a fette sottili e introdurle


in una padella profonda con l’olio d’oliva a temperatura media per farle
cuocere lentamente. Aggiungere la cipolla tagliata fine. Friggerla
lentamente con le patate fino a quando non sono morbide e iniziano a
dorarsi. È meglio mescolare con la schiumarola e tagliare gli ingredienti
con la stessa. Dopo circa 10 minuti scolare l’olio. Sbattere le uova con un
pizzico di sale in una ciotola. Aggiungere le patate con la cipolla. Mettere
di nuovo il tutto nella padella con un po’ dell’olio scolato. Lasciare
cuocere a fuoco lento con il coperchio per 5-10 minuti circa, fino a quando
non si dora la parte inferiore. Girare la frittata su se stessa aiutandosi
con il coperchio e lasciarla cadere dall’altro lato nella padella. Cuocerla
fino a quando non si rapprende, lentamente. Deve essere dorata su
entrambi i lati. Servire in un piatto o un vassoio rotondo, calda o fredda.

360
Tramezzino
Il tramezzino nacque nel retrobottega del caffè Mulassano di
Torino, in Piazza Castello, nel gennaio 1926, per mano di
Angela De Michelis Nebiolo. A battezzarlo così fu il poeta
Gabriele D’Annunzio, che osservando la forma di pane a
cassetta da cui si ricavava il sandwich imbottito pensò subito
alle tramezze della sua casa di campagna.

Ingredienti per due persone (tramezzino al prosciutto e


formaggio):
4 fette di pane al latte per tramezzini o pan carré
150 gr di formaggio tipo emmental
1 cespo di lattuga
200 gr di prosciutto cotto
olive nere denocciolate
burro q.b

Mondare e lavare la lattuga: sgocciolarla per bene e tamponarla


delicatamente con carta assorbente da cucina. Spalmare il burro sulle fette
di pane, adagiare su ognuna un po’ di insalata, una fetta di prosciutto
cotto e le fettine di formaggio tagliate sottili. Tagliare le olive a metà e
distribuirle sulle fettine di formaggio. Ricoprire con un’altra fetta di pane,
quindi, tagliare a metà il tramezzino e poi di nuovo a metà per il verso
obliquo. Avvolgere i tramezzini in pellicola trasparente e porli in frigo
prima di mangiarli.

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362
PERSONAGGI STORICI
DELLA GASTRONOMIA

George Auguste Escoffier

363
364
Marco Gavio Apicio
Vissuto a cavallo fra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., ad
Apicio si deve il merito di aver raccolto e trascritto un gran
numero di ricette gastronomiche dell’epoca Romana in un
libro chiamato De arte coquinaria. Viene per questo considerato
uno dei primi, se non il primo, gastronomo della storia,
sicuramente di quella italiana ed europea.

Pellegrino Artusi
Gastronomo e scrittore (1820-1911), durante la sua lunga vita
svolse professioni diverse da quelle legate al mondo dei
fornelli. Da sempre amante della cucina, a lui va il merito di
aver codificato e riunito per primo le diverse cucine regionali
italiane nella sua opera La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene
(1891).

Audiger Ausonio
Capo della servitù della contessa di Soisson e poi di Colbert,
responsabile “di frutta, dessert, marmellate e liquori”. Nel
1660, durante un viaggio in Italia destinato a perfezionare le
sue conoscenze nel campo dei liquori, vide dei piccoli piselli,
benché si fosse nel mese di gennaio; ne portò una cassa al suo
re che, trovandoli eccellenti, lanciò la moda dei piselli primizia.
Audiger approfittò allora del suo favore per ottenere un
privilegio riguardante la vendita dei liquori: poté così aprire un
negozio di liquori e altre bevande al Palazzo Reale. Egli è
conosciuto soprattutto per il suo trattato, pubblicato nel 1692,
La casa ordinata e l’arte di dirigere l’abitazione di un gran signore e
altre, tanto in città quanto in campagna, e i doveri di tutti i servitori e
dei domestici in generale.

Antoine Beauvilliers
Cuoco francese (1754-1817), debuttò nel 1782 fondando in
rue de Richelieu, la “Grande Taverna de Londres”, forse il
primo vero ristorante di Parigi. Il successo fu tale che
Beauvilliers, alla vigilia della Rivoluzione, aprì un altro

365
ristorante che portava il suo nome nella galleria di Valois del
Palais Royal. Il suo menu proponeva piatti famosi, come il
Fricandò agli spinaci, la Choucroute e l’Anatra alle rape, ma
anche lo Sformato al latte di capra, il Pasticcio caldo di
beccaccia e le Animelle di agnello alla Dauphine. Beauvilliers
scrisse nel 1814 L’Art de Cuisiner, un’opera assai vasta che si
proponeva di rendere la cucina una scienza esatta.

Joseph Berchoux
Avvocato francese (1765-1839), il cui nome è legato ad un
lungo poema in quattro canti, intitolato Gastronomia, ovvero
L’uomo dei campi a tavola, pubblicato nel 1801.
Tutta la sua filosofia è riassunta in queste massime: “Un
poema non è mai valso quanto un pasto” e “Niente deve
disturbare l’uomo onesto a tavola”. Fu Berchoux a introdurre
il termine “gastronomia” nel vocabolario francese.

Nino Bergese
Cuoco piemontese (1904-1977) al servizio di Emanuele
Filippo duca d’Aosta; aprì nel dopoguerra il ristorante “La
Santa” a Genova, dove elaborò i suoi piatti più celebri come
gli spaghetti legati e il risotto mantecato.

Marius Bise
Suo padre, capo cameriere sulle barche del lago d’Annency,
comprò nel 1902 un piccolo ristorante a Talloires, su una delle
rive del lago. Il locale si chiamava allora “Petit Chalet”. Dopo
la prima guerra mondiale, Marius (1894-1969), che aveva già
avuto diverse esperienze come capo cameriere in molti locali
parigini, succedette al padre. La cucina venne affidata alla
moglie Margherite, cuoca notevole. Nel 1928 il “Petit Chalet”,
ingrandito, fu ribattezzato “Le Petit Auberge” e divenne un
luogo gastronomico di fama mondiale.

Paul Bocuse
Cuoco francese classe 1926. Discende da una stirpe di cuochi

366
e albergatori stabilitisi sulle rive del Saóne dal 1765. È
considerato uno dei più grandi cuochi mondiali del XX
secolo. Per lui la cucina è stata un’autentica ragione di vita: l’ha
promossa e innovata dando origine, con un gruppo di altri
cuochi francesi, al fenomeno della Nouvelle cuisine.

Ada Boni
Gastronoma italiana (1881 - 1973) e direttrice della rivista di
economia domestica “Preziosa”, autrice del famoso Talismano
della Felicità, considerato il libro di cucina italiana per
eccellenza assieme all’Artusi. Fra le sue creazioni si
annoverano ben 2.139 ricette di ogni tipo.

Jean Anthelme Brillat-Savarin


Magistrato e gastronomo francese (1755-1826). Occupava il
suo tempo libero redigendo trattati di argomenti diversi,
perlopiù economici e storici. Si interessava di archeologia,
astronomia, chimica e di gastronomia, apprezzando i buoni
ristoranti, fra cui in particolare il Grand Véfour, Very, Toroni
e Beauvilliers. Ospitando molti amici a casa sua, egli stesso
cucinava alcune specialità, tra cui l’omelette al tonno, il
fagiano ripieno all’arancia e il filetto di manzo ai tartufi.
Sopravvivendo a tutti i regimi, dall’Impero alla Restaurazione,
morì all’uscita di una messa celebrata in memoria di re Luigi
XVI, nella Basilica di Saint-Denis. L’8 dicembre 1825, due
mesi prima del suo decesso, era apparso in libreria, senza
nome dell’autore, il libro che lo ha reso celebre: Physiologie du
goùt ou méditations de gastronomie trascendente. L’ambizione di
Brillat-Savarin era di fare dell’arte culinaria una vera e propria
scienza, facendo appello alla chimica, alla fisica, alla medicina
e all’anatomia.

Baron Léon Brisse


Giornalista francese (1813-1876) che si specializzò nelle
cronache gastronomiche. Fu sua l’idea di proporre, nel
giornale La Liberto, un menu diverso per ogni giorno. Queste

367
ricette furono riunite nel 1868 in una raccolta intitolata Les
366 menus du Baron Brisse. Egli pubblicò anche altre opere fra
cui: La petite cuisine du Baron Brisse (1860), Recettes a l’usage des
ménages hourgeois et des petites ménages (1868), La Cuisine en carême
(1873). Il suo nome è stato dato ad un contorno per grossi
tagli di carne, composto secondo la ricetta tradizionale da
cipolle farcite con carne di pollo e tartellette alle olive farcite.

Jean-Jaques Cambacérès
Giurista, uomo politico e gastronomo francese (1754-1824).
La sua tavola era considerata la più fastosa e la più
abbondante di Parigi insieme a quella di Talleyrand e le cene
che egli organizzava nel suo palazzo in rue Saint-Dominique
erano molto rinomate. Il nome di Cambacérès e stato
attribuito a tré piatti molto lavorati: un potage a base di carne
di pollo, colombo e gambero; un timballo di maccheroni e
fegato d’oca; una trota salmonata con contorni di gamberi e
tartufi.

Barthélemy André Camerani


Attore comico e gastronomo di origine italiana (1735-1816),
ma la cui carriera si svolse essenzialmente in Francia, dove
debuttò nel 1767. Fu anche amministratore del teatro Favart e
Feydeau, ma si rese celebre per la sua golosità. Membro della
“Giuria di Degustazione” di Grimond de la Reynière, legò il
suo nome a un potage, completamente di sua invenzione, che
fu servito nel 1810 al Café des Anglais, quando Camerani
lavorava all’Opéra Comique. Nella cucina classica francese il
nome di Camerani è anche legato a un contorno per pollo e
animelle di vitello lessate, ottenuto con piccole tartellette
farcite con purea di fegato d’oca, sormontate da sottili lamelle
di tartufo, lingua salmistrata e tagliata a creste di gallo e
maccheroni al ragù, il tutto amalgamato con salsa suprema.

Marie-Antoine Carême
Famoso cuoco e pasticcere francese (1783-1833), diresse per

368
dodici anni la cucina di Talleyrand che grazie al talento, al
senso scenografico e al gusto per il fasto del cuoco poté
mettere efficacemente la gastronomia al servizio della
diplomazia. Carême fu anche al servizio del principe reggente
d’Inghilterra (il futuro Giorgio IV), presso lo zar Alessandro I,
la Corte di Vienna, l’ambasciata inglese, la principessa
Bagration e presso Lord Steward. Passò gli ultimi anni presso
il barone Rothschild.
Morì a 50 anni, “bruciato dalla fiamma del suo genio e dal
carbone del girarrosto” (Laurent Taihade), non senza aver
prima realizzato il suo sogno, quello di pubblicare un libro
sullo stato completo della sua professione in quell’epoca. Di
libri, ne scrisse numerosi.
Superbo pasticciere, fu insuperabile anche come cuoco
addetto alla preparazione delle salse e delle minestre.

Luigi Carnacina
Gastronomo italiano di fama internazionale (1888-1981). Per
tre stagioni consecutive fu assunto da Escoffier per dirigere il
suo ristorante di Ostenda. Fu primo maître nei più grandi
alberghi d’Europa e in seguito (1933) divenne direttore
generale di grandi hotel e ristoranti di gran classe, in Europa e
in America. La sua carriera fu coronata da grandi successi che
gli valsero numerosi riconoscimenti. Nel 1956 cominciò a
scrivere libri di cucina, in cui raccolse il meglio delle sue
esperienze, per insegnare anche alle persone meno esperte la
pratica della cucina e la tecnica di molte preparazioni.

Germain Charles Chevet


Rosticciere e commerciante di alimentari parigino (1771-
1832). Fondò una vera e propria dinastia di rosticcieri che si
perpetuò fino agli ultimi anni dell’800. Il suo negozio,
frequentato da persone come Grimond de la Reynière, Balzac,
Rossini e Brillat-Savarin, raggiunse fama internazionale;
vendeva cacciagione, fegato d’oca, pesci, paté, crostacei e
molto altro.

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Choron
Nome di un cuoco francese della fine del XIX secolo, nativo
di Caen. Divenuto chef nel noto ristorante Voisin, diede il suo
nome a una salsa emulsionata calda (adatta in particolare per
accompagnare pesci alla griglia, tournedos e uova affogate) e
una guarnitura per piccoli tagli di carne saltati (consistente in
patate nocciola e carciofi ripieni di piselli o punte di asparagi al
burro). Fu lo chef Choron che, durante l’assedio del 1870,
servì a Voisin diversi piatti a base di carne di elefante.

Henri Belin Close-Jouve


Cronista gastronomico francese (1908-1981), ha saputo
parlare con entusiasmo e poesia della cucina regionale e in
particolare di quella delle regioni di Strasburgo, Lione e della
Franca Contea, da lui descritta nei suoi ricordi gastronomici.

Maurice Cousin conte di Courchamps


Scrittore e gastronomo francese (1783-1849), “avventuriero
delle lettere”, personalità eccentrica, pubblicò anonimamente
nel 1839 una Néopbysiologie du goùt ou Dictionnaire general de la
cuisine française, testo ricco di aneddoti, di ritratti di buongustai,
di “segreti” di cucina e di perentorie osservazioni su ciò che
un vero buongustaio deve bere e mangiare.

Marchese di Cussy
Prefetto durante il periodo del secondo impero e gastronomo
di fama (1766-1837), inventò 366 modi per cucinare il pollo,
in modo da poterne cambiare uno al giorno. Inventò le fragole
con panna fresca e Champagne a cui diede loro il nome di
“Cussy” e di cui Napoleone ne andava matto. Fu anche cuoco
di quest’ultimo.

Honoré de Balzac
Scrittore francese (1799-1850). Nelle sue opere ha
rappresentato spesso dei buongustai, come il cugino Pons, che
predilige le quaglie al gratin e il ragù di manzo con cipolle; il

370
padre Rouget (La Rabouilleise), convinto che un’omelette sia
più delicata quando i tuorli sono sbattuti separatamente dai
bianchi; e il visdomino di Parmiers (Le cabinet des Antiques),
il quale dimostra che una cena, per avere successo, non deve
riunire più di sei commensali. Inoltre, Balzac si divulgava
spesso, nei suoi romanzi, a descrivere le tavole più celebri di
Parigi degli anni intorno al 1830.

Louis de Bechamel
Finanziere francese (1630-1703), ferriere, generale,
sovrintendente della casa del Duca d’Orleans, intendente di
Bretagna, Marchese di Nointel, acquisì la carica di maître
d’hotel di Luigi XIV. Era molto ricco, buongustaio e amante
dell’art.

George Auguste Escoffier


(1847-1935) Fu il cuoco simbolo e il riformatore della
ristorazione durante la Belle époque.
Nel 1883 conobbe l’uomo che lo fece diventare il maestro
assoluto di quell’epoca, l’albergatore Cesar Ritz, con cui
condividerà la stagione il lancio della stagione dell’alta
hôtellerie.
Fu Escoffier ad organizzare la brigata di cucina.

Francesco Leonardi
Originario di Roma, già cuoco dell’imperatrice Caterina II di
Russia, è autore, tra gli altri, de L’Apicio moderno, un trattato
pubblicato nel 1790, strutturato come una vera e propria
enciclopedia del sapere gastronomico. L’opera è divisa in sei
tomi ed è preceduta da un’introduzione in cui, per la prima
volta, si traccia una storia della cucina italiana.

Lucio Licicinio Lucullus


Fu un militare romano (117-56 a.C.), passato alla storia per
essere un grande gastronomo, che amava organizzare
banchetti sontuosi con ogni prelibatezza conosciuta all’epoca.

371
Il termine “luculliano”, ancora ai nostri giorni, indica, infatti,
un pranzo fastoso.

Cristoforo di Messisbugo
Non si conoscono molte notizie sulla sua vita. Dal 1524 al
1548 lavorò alla corte di Alfonso I d’Este e poi di Ercole II
d’Este. Fu nominato conte palatino da Carlo V il 10 gennaio
1533, e prese in moglie la nobile ferrarese Agnese di Giovanni
Giocoli. Fu spesso chiamato alla corte dei Gonzaga di
Mantova, quale consulente della duchessa Isabella d’Este.
Scrisse un manuale di ricette, pubblicato nel 1549, un anno
dopo la sua morte. Senza corrispondere alla notorietà del suo
contemporaneo Bartolomeo Scappi, il libro rimane una pietra
miliare nella storia della gastronomia europea del
Rinascimento.
Altra sua opera importante è il Libro novo nel qual si insegna a far
d’ogni sorte di vivanda, pubblicato nel 1557 a Venezia.

Gualtiero Marchesi
(Milano 1930). È il capofila di una vena creativa della cucina
italiana, collegata al rinnovamento europeo della Novelle
Cuisine, iniziato verso la metà degli anni ’60.

Prosper Montagné
Fu un cuoco francese (1865-1948), autore di numerosi libri e
articoli sul cibo, la cucina e la gastronomia, padre della famosa
enciclopedia Larousse Gastronomique, la cui prima edizione risale
al 1938.

Angelo Paracucci
Chef innovatore della cucina italiana (1929-2004). Il suo
merito sta soprattutto nell’aver riconsiderato i prodotti della
terra e della pesca e il loro impiego tradizionale, cercando
nuove combinazioni in sintonia col modo di vivere attuale.

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Antoine Augustin Parmentier
Farmacista, chimico e agronomo francese (1737-1813), studiò
le proprietà nutritive delle patate, riabilitandole e sforzandosi
di promuoverle come ortaggi nutrienti e salutari. Fino a quel
momento infatti, il tubero era stato erroneamente disprezzato
poiché lo si considerava pericoloso per la salute dell’uomo e
addirittura colpevole di trasmettere la lebbra, a tal punto che
veniva utilizzato solo per l’alimentazione dei maiali.
Divertente fu il trucco escogitato da Parmentier per
convincere i contadini francesi a cibarsi di patate: fece inviare
militari armati a presidiare, dall’alba al tramonto, i campi
coltivati a patate; i contadini si convinsero trattarsi di cibo
prezioso e cominciarono così a rubarle nottetempo, iniziando
a consumarle.

Henri-Paul Pellaprat
(1869-1954). Nel 1895 fondò la scuola del Cordon Bleu,
l’istituzione gastronomica francese più rinomata al mondo.
Dopo aver lavorato nelle migliori cucine e aver insegnato per
trent’anni cucina e pasticceria, si dedicò alla scrittura di
numerosi e autorevoli trattati di gastronomia, ancora oggi
riconosciuti come capisaldi per cuochi di ogni livello.

Martino de’ Rossi


Conosciuto anche come Maestro Martino (1430-fine 1500),
cuoco del camerlengo e patriarca d’Aquileia Ludovico
Trevisan a Roma. Fu il più importante cuoco europeo del XV
secolo: a lui si deve la stesura del Libro de Arte Coquinaria,
considerato un caposaldo della letteratura gastronomica
italiana che testimonia il passaggio dalla cucina medievale a
quella rinascimentale.

Edmond Sailland detto Curnonsky


Scrittore, giornalista e gastronomo francese (1872-1956).
Recatosi a Parigi nel 1891 per compiere i suoi studi letterari,
decise ben presto di fare della letteratura il suo impiego

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principale. Dal momento che cercava uno pseudonimo, ed
essendo il momento dell’alleanza franco-russa, Alphonse
Aillais gli propose “Pourquoi pas sky?” che in latino suonava
“Cur non Sky”. Curnosky mise la sua esperienza, il suo talento
di letterato e il suo appetito al servizio della gastronomia
quando intraprese con l’amico Rouff nel 1921 la redazione
della serie dei 28 opuscoli de La Franco Gastronomique,
iniziando migliaia di lettori alle ricchezze culinarie francesi.
Inoltre, quando la rivista Le bon Gite et la bonne table organizzò
nel 1927 un referendum per l’elezione del “Principe dei
Gastronomi”, la corona spettò proprio a lui.
Fu anche fondatore e primo presidente dell’Accademia dei
Gastronomi (1930).

Guillaume Tirel
Noto con lo pseudonimo Taillevent, Tagliavento (1310-1395),
è stato un cuoco francese al servizio di numerosi sovrani, tra i
quali Filippo VI, Carlo V e Carlo VI, ed è considerato l’autore
del celebre manoscritto di cucina chiamato Le Viandier.

Oscar Tschirky
Maître d’hotel (1866-1950) presso i famosi Delmonico’s
Restaurant e Waldorf-Astoria Hotel di New York. Fu il
creatore dell’insalata Waldorf e di altre numerose ricette.
Venne soprannominato “Oscar of the Waldorf”. Pubblicò nel
1896 un libro di cucina di grandi dimensioni: The Cook Book by
Oscar of the Waldorf.

François Vatel
Pseudonimo di Fritz Karl Vatel, è stato un cuoco francese
(1631 - 1671), per numerosi anni al servizio di Nicolas
Fouquet, sovrintendente alle finanze del Regno di Francia.
Fra le sue imprese memorabili ci fu quella di organizzare in
soli quindici giorni una festa per l’arrivo del Re a base di
elaboratissimi menù; purtroppo il pesce previsto per il venerdì
non bastò per tutti i commensali e Vatel, sentendosi

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colpevole, si tolse la vita con tre colpi di spada nella sua
camera.

Luigi Veronelli
E’ stato un gastronomo e un critico enologico italiano di
grande spessore (1926-2004), considerato il padre della critica
enologica in Italia. La guida I vini di Veronelli, da lui inventata, è
stata pubblicata per la prima volta nel 1961 e fu la prima guida
di vini italiana.
Fu amico, collaboratore ed editore di Luigi Carnacina.

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RINGRAZIAMENTI

Loretta, Alberti, Iorio, Luciana

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